Ricerche su micro e nanoparticelle di plastica

Rinaldo Cervellati

I ricercatori del NIST (National Institute of Standards and Technology, USA) hanno realizzato uno studio su quanto i prodotti di consumo di tutti i giorni contribuiscano al contenuto di particelle di plastica di dimensioni nanometriche nell’acqua [1].

Le microplastiche (diametro inferiore a 5 mm) e le nanoplastiche (diametro inferiore a 1 µm) sembrano essere ovunque: nell’acqua, nell’aria, nel cibo, nel sangue umano, nei tessuti polmonari e nelle feci. Ma cosa significhi la loro presenza per la salute umana e l’ambiente non è completamente chiaro.

Le autorità di regolamentazione stanno valutando i rischi delle microplastiche tenendo conto che queste particelle hanno composizioni complesse e dimensioni e forme variabili. I dati sull’esposizione sono molto limitati come pure gli studi tossicologici [2-4]. I ricercatori stanno iniziando a identificare le fonti e le composizioni delle microplastiche per condurre gli studi di tossicità necessari per comprendere gli effetti dell’esposizione sulla vita umana e sull’ambiente.

Perché è importante la caratterizzazione

La maggior parte degli studi tossicologici finora pubblicati hanno utilizzato perline di polistirene, facili da acquistare in diverse dimensioni e con vari gruppi funzionali, ma non rappresentative delle microplastiche che i ricercatori stanno trovando nell’ambiente.

Christie Sayes, professoressa di scienze ambientali alla Baylor University (Texas, USA), ha collaborato con i ricercatori dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, a Cincinnati, per analizzare le particelle di microplastica nei campioni d’acqua. Le particelle in quei campioni, così come in quelli realizzati nel suo laboratorio, tendono a essere frammenti frastagliati, dai lati taglienti, con bordi appuntiti (fig. 1).

Figura 1. Frammenti di microplastica

La composizione è un’altra sfida. I ricercatori hanno rilevato il polistirene ma anche molti altri polimeri: polietilene, polipropilene e poliammide. E le microplastiche raramente iniziano come un polimero puro. Contengono anche plastificanti, pigmenti e metalli.

Inoltre, uno dei modi in cui le microplastiche entrano nell’ambiente è l’invecchiamento atmosferico  dalla radiazione ultravioletta dei detriti di plastica in frammenti sempre più piccoli nel tempo. Questo processo può cambiare la chimica della plastica. I materiali possono diventare meno idrofobici e rivestirsi di biomolecole, minerali e metalli. Questi contaminanti possono modificare le proprietà di una particella, come la sua carica o polarità. Le proprietà fisiche e chimiche dei nanomateriali ingegnerizzati[1] influenzano il modo in cui interagiscono con le cellule. Lo stesso sembra essere vero per le micro e nanoplastiche.

Alcune delle prime prove che la forma e la lunghezza dei nanomateriali influiscono sulla loro tossicità sono state pubblicate in un innovativo studio in vivo nel 2008, che ha dimostrato che i nanotubi di carbonio possono suscitare nei topi la stessa risposta patologica dell’amianto [5]. Martin Clift, professore di tossicologia delle particelle nella Swansea University Medical School (UK), ricorda un esperimento condotto diversi anni fa con i colleghi dell’Helmholtz Zentrum München che ha anche rivelato che la forma non è l’unico fattore di tossicità delle nano particelle [6].

I ricercatori hanno osservato che le nanoparticelle d’oro di forma diversa interagivano con le cellule in modo simile. Afferma Clift: “Quando abbiamo iniziato a guardare ai percorsi meccanicistici associati all’infiammazione, allo stress ossidativo e alla morte cellulare, quelli con il maggior numero di bordi hanno mostrato la maggiore tossicità. In questo esperimento, ciò che c’era sulla superficie delle particelle e il numero di bordi erano fattori. È una combinazione di proprietà fisico-chimiche e il modo in cui questi elementi interagiscono con cellule e tessuti che guida l’effetto biologico per qualsiasi nanomateriale ingegnerizzato”.

Uno dei risultati della nanotossicologia che continua a sorprendere alcuni ricercatori è l’importanza di ciò che è attaccato alle superfici delle particelle. I ricercatori hanno appreso che attaccare gruppi di ammine alle superfici delle particelle può suscitare una risposta biologica avversa più forte rispetto ad altri gruppi chimici, come i carbossilati. Le superfici caricate negativamente sembrano anche essere meno tossiche delle superfici caricate positivamente.

Fabbricare microplastiche

La maggior parte dei ricercatori caratterizza le proprie particelle di microplastica in base alle dimensioni. Ma la caratterizzazione delle impurità, come metalli, sostanze organiche ed endotossine, non è ancora stata completata.

I ricercatori si sono affrettati ad acquistare nanoparticelle ingegnerizzate disponibili in commercio per studi di tossicità, quindi le impurezze e la variabilità da lotto a lotto hanno reso difficile confrontare i risultati tra gli studi.

Nel tentativo di controllare meglio le proprietà dei nanomateriali utilizzati negli studi di tossicologia e di comprendere più esposizioni nell’ambiente reale, Demokritou ha istituito un centro per la ricerca sulla nanosicurezza ad Harvard nel 2016.

Il centro è stato in prima linea nella ricerca sulle interazioni dei nanomateriali ingegnerizzati emergenti con i sistemi biologici e sulle loro potenziali implicazioni per la salute. I ricercatori negli Stati Uniti e nell’Unione Europea usano i nanomateriali negli studi di tossicologia. Afferma Demokritou, direttore del centro: “Li produciamo in modo controllato, ci assicuriamo che non ci siano impurezze e li conserviamo in condizioni controllate. Ciò ci consente di avere una certa riproducibilità nei nostri dati sulla bioattività”.

Demokritou sta ora sviluppando un programma simile per le microplastiche. Lui e i suoi collaboratori stanno producendo particelle di micro e nanoplastiche che sono più rilevanti per l’ambiente rispetto alle perle di polistirene.

Dice Demokritou: “Il nostro obiettivo è sviluppare una sorta di libreria di microplastiche di riferimento che possiamo utilizzare per i nostri studi. Vogliamo scoprire le regole fondamentali della bioattività, come la struttura o le proprietà dei materiali influenzano i risultati sulla salute. Per fare ciò, devi avere un modo per controllare le proprietà” (fig. 2).

Figura 2. (a)” spaghetti” di microplastica; (b) micro e nanoplastiche di diverse dimensioni; (c) particelle di microplastiche al microscopio elettronico.

Potenziali rischi per la salute

Le persone sono esposte alle microplastiche principalmente dall’ingestione delle particelle nel cibo e nell’acqua, nonché dall’inalazione di particelle nell’aria. Utilizzando sistemi in vitro che simulano la digestione o l’inalazione, gli scienziati stanno iniziando a costruire un quadro di come le particelle di micro e nanoplastiche possono danneggiare l’intestino umano e le cellule polmonari.

Tuttavia non si possono testare subito questi miliardi di combinazioni di micro e nanoplastiche in vivo. Si deve iniziare con un approccio in vitro fisiologicamente rilevante e con gli approcci di tossicologia computazionale per avere un’idea della bioattività. I materiali che hanno dimostrato di avviare eventi molecolari associati a effetti negativi sulla salute possono poi essere ulteriormente studiati in vivo.

Demokritou e colleghi stanno utilizzando un modello in vitro dell’epitelio dell’intestino tenue per verificare se le micro e nanoplastiche interferiscono con la digestione e l’assorbimento dei nutrienti. Le particelle di microplastica possono raddoppiare la biodisponibilità di alcuni grassi e influenzare l’assorbimento dei micronutrienti, come le vitamine. Non sono stati condotti studi in vivo, ma il fatto che l’effetto sia stato osservato in vitro è piuttosto allarmante.

Sayes e i suoi colleghi di Baylor esaminano le particelle di microplastica nei campioni d’acqua raccolti dall’EPA e le particelle di plastica che fabbricano nel loro laboratorio per i loro effetti sulla tossicità delle cellule intestinali umane. Il loro sistema di test gut-on-a-chip incorpora le cellule epiteliali intestinali per studiare la vitalità cellulare, i macrofagi per l’assorbimento delle particelle e le cellule immunitarie per le risposte immunitarie. I ricercatori separano le particelle in base alle dimensioni: maggiori di 100 µm, da 1a100 µm e inferiori a 1 µm. Quindi espongono ogni gruppo al sistema gut-on-a-chip, nonché a tre ceppi di batteri che sono rilevanti dal punto di vista ambientale e fanno parte dell’intestino umano. In generale, le particelle  da 1 a 100 µm hanno ridotto la vitalità delle cellule epiteliali intestinali e diminuito la crescita dei tre ceppi di batteri, ma la crescita batterica è aumentata in presenza di particelle più grandi.

Clift e Wright stanno collaborando per studiare come le microplastiche inalate influiscono sulla salute umana. “Aerosolizziamo micro e nanoplastiche attraverso una camera aerosol e le depositiamo sulle nostre colture in vitro del polmone inferiore per iniziare a comprendere il loro potenziale rischio per la salute umana.”

Il gruppo di Wright produce particelle di microplastica macinando manualmente polveri di plastica congelate di poliammidi e polietilene. I ricercatori raccolgono anche campioni d’aria da ambienti interni, come la palestra della loro università, per comprendere meglio le esposizioni dell’ambiente. Wright ha presentato alcuni risultati preliminari di questo studio alla riunione annuale della Society of Toxicology. Il lavoro deve ancora essere pubblicato, ma Wright afferma di aver trovato alti livelli di microplastiche nei campioni prelevati nella palestra.

I gruppi di ricerca, utilizzando diverse tecniche spettroscopiche, hanno identificato la maggior parte delle particelle come poliammidi (fig. 3).

Figura 3. Metodi per la fabbricazione di micro e nanoplastiche da polimeri come polietilene e poliammide da utilizzare negli studi di tossicità. L’obiettivo è quello di creare particelle che siano più rappresentative di ciò che è nell’ambiente rispetto alle perle di polistirene.

I ricercatori stanno appena iniziando a condurre studi di tossicologia meccanicistica per capire come si comportano le particelle di microplastica nei sistemi cellulari. In definitiva, sperano che il lavoro venga utilizzato per sviluppare modelli che aiutino a progettare materiali più sicuri in futuro.

Cambiare i comportamenti

Secondo il prof. Andrew Maynard, direttore del Risk Innovation Lab (Arizona State University): “Quando i ricercatori capiscono come si comportano le particelle di microplastica nei sistemi cellulari, possono creare modelli di tossicità. Quando viene prodotto un nuovo tipo di plastica che rilascia un tipo leggermente diverso di microplastica, si possono inserire le sue caratteristiche nei nostri modelli e ottenere un profilo di rischio di quel nuovo materiale”.

Tuttavia, mentre scienziati e agenzie di finanziamento potrebbero entusiasmarsi per le microplastiche nei prossimi 2-3 anni e spendere miliardi di dollari per ricercare le implicazioni sulla salute, Maynard è preoccupato che tra 10 anni, nulla sarà cambiato e nessuno parlerà di esse. Questo è quello che è successo con i nanomateriali ingegnerizzati.

Contrariamente a Maynard, Colvin (Brown University) ritiene che la ricerca sulla nanotossicologia abbia avuto un impatto sull’industria delle nanotecnologie. Una volta che gli scienziati hanno sollevato le potenziali implicazioni ambientali, sanitarie e di sicurezza dei nanomateriali, l’industria ha rallentato e cambiato marcia per evitare conseguenze negative.

Dice invece Maynard che “C’è l’opportunità per ottenere un corretto dialogo questa volta, ma non sono ottimista sul fatto che le autorità di regolamentazione affronteranno tutte le proprietà rilevanti delle microplastiche. Una decina di anni fa stavamo discutendo sul fatto che dobbiamo guardare a ciò che è fisiologicamente importante, ma molte normative si basano ancora sulla ‘massa di materiale che finisce nell’ambiente o su ciò a cui gli individui sono esposti’. Un tale approccio non è basato sulla scienza, perché non ti dice nulla sui meccanismi di come queste cose causano danni. Ma è un modo molto, molto grezzo per mantenere le concentrazioni abbastanza basse da non vedere danni significativi o “sostanziali”.

La FDA USA ad esempio, stabilisce dei limiti alla massa totale di un polimero che può migrare dagli imballaggi alimentari. Tutti i campioni misurati dai ricercatori del NIST, comprese le tazze da caffè usa e getta, hanno rilasciato masse di particelle di plastica al di sotto dei limiti normativi della FDA. Ma le particelle erano di 30-100 nm, una dimensione che potrebbe avere effetti sulla salute che non derivano da particelle di diametro maggiore.

Le micro e nanoplastiche sono ovunque, dice Demokritou. “E le esposizioni aumenteranno perché abbiamo già 6 miliardi di tonnellate di plastica nell’ambiente che si sta costantemente degradando, e l’industria sta mettendo in circolazione oltre 400 milioni di tonnellate di plastica ogni anno. I finanziamenti per progetti per colmare le lacune nei dati sono scarsi. Dobbiamo davvero lanciare un consorzio di sicurezza per micro e nanoplastiche simile a quello che abbiamo fatto con i nanomateriali e riunire molti gruppi e scienziati per affrontare queste domande fondamentali”.

Sostiene Maynard: “Le agenzie dovrebbero finanziare la ricerca su come le forme specifiche di microplastiche portano a rischi specifici. Abbiamo bisogno di una ricerca meccanicistica che leghi forma, dimensione e chimica a ciò che entra nell’ambiente, dove va e cosa fa quando ci arriva”.

Nota. Adattato e tradotto da:     .

Bibliografia

[1] C.D. Zangmeister et al., Common Single-Use Consumer Plastic Products Release Trillions of Sub-100 nm Nanoparticles per Liter into Water during Normal Use.,Environ. Sci. Technol. 2022, 56, 5448–5455. DOI: 10.1021/acs.est.1c06768

[2] A. McCormick et al.., Microplastic is an Abundant and Distinct Microbial Habitat in an Urban River.,Environ. Sci. Technol. 2014, 48, 11863−11871.

[3] A. Dick Vertaak, H.A. Leslie, Plastic Debris Is a Human Health Issue., Environ. Sci. Technol. 2016, 50, 6825−6826.

[4] M. Al-Sid-Cheikh et al., Uptake, Whole-Body Distribution, and Depuration of Nanoplastics by the Scallop Pecten maximus at Environmentally Realistic Concentrations., Environ. Sci. Technol. 2018, 52, 14480−14486.

[5] C.A. Poland et al., Carbon nanotubes introduced into the abdominal cavity of mice show asbestoslike pathogenicity in a pilot study., Nature Nanotechnology, 2008, 3, 423-427

[6] Furong Tian et al., Investigating the role of shape on the biological impact of gold nanoparticles in vitro., Nanomedicine, 2015, 10, DOI: 10.2217/nnm.15.103.


[1] Per nanomateriale ingegnerizzato si intende un materiale prodotto intenzionalmente e caratterizzato da una o più dimensioni dell’ordine di 100 nm o inferiori, o che è composto di parti funzionali distinte, interne o in superficie, molte delle quali presentano una o più dimensioni nell’ordine di 100 nm o inferiori, compresi strutture, agglomerati o aggregati che possono avere dimensioni superiori all’ordine di 100 nm ma che presentano caratteristiche della scala nanometrica. (Regolamento UE n. 2015/2283)

Rilevare le microplastiche negli impianti di depurazione.

Mauro Icardi

Il settore depurativo sta attraversando un profondo cambiamento.  Deve affrontare sfide tecnologiche per riuscire ad abbattere i diversi inquinanti emergenti, e nello stesso tempo con una gestione e una progettazione totalmente rivista, può inserirsi nel settore dell’economia circolare, recuperando dai residui di trattamento energia e materiali.

In quest’articolo vorrei illustrare un progetto per la rilevazione di uno degli inquinanti emergenti di cui molto si parla e che è probabilmente conosciuto e noto anche ai non addetti. Le  microplastiche.

Le plastiche definite “micro” (meno di cinque millimetri di dimensione) e “nano” (meno di cento nanometri di dimensione) si stanno diffondendo con sempre maggior frequenza, contaminando diversi ambienti acquatici.  Possono essere di diversa provenienza e tipologia. Per esempio particelle di fibre provenienti dal lavaggio dei vestiti, o dalle particelle provenienti dall’usura di pneumatici, e quelle che provengono dalla frammentazione di  rifiuti di plastica di dimensioni più grandi. Un esempio su tutti le onnipresenti bottigliette abbandonante praticamente ( e sciaguratamente)  quasi ovunque.

Finora non era del tutto chiaro quanto queste plastiche fossero trattenute ed eliminate dai processi di trattamento terziario standard.

Una ricerca effettuata dall’istituto federale di tecnologia di Zurigo (ETH), pubblicata sulla rivista Water Research ha chiarito quale sia il percorso compiuto  dai frammenti di microplastiche negli impianti di depurazione. (1)

Le plastiche sono spesso difficili da rintracciare a causa delle loro piccole dimensioni, delle diverse proprietà chimiche e della possibilità di contaminazione da fonti in laboratorio, come le fibre dei vestiti.

Per superare questi problemi, il team di ricerca ha sintetizzato micro e nanoplastiche drogate con tracce di metalli . Questi sono stati aggiunti a un impianto pilota di trattamento delle acque reflue per due mesi, e i ricercatori hanno campionato l’effluente (acqua trattata rilasciata nell’ambiente) e il fango (particelle solide organiche).

I campioni sono stati analizzati utilizzando la spettrometria di massa, che è ben consolidata per la rilevazione di metalli, consentendo un’analisi facile e veloce. L’analisi più facile ha anche permesso al team di determinare la migliore strategia di campionamento in termini di dimensioni e frequenza di campionamento.

 Si è cosi scoperto che il 98% della plastica aggiunta è finita nel fango, una cifra altamente correlata con i solidi totali disciolti che sono stati rimossi dall’effluente e si sono depositati nel fango. Questo suggerisce che i miglioramenti nella rimozione delle particelle potrebbero anche significare una maggiore rimozione della plastica. Questo potrebbe essere ottenuto, per esempio, attraverso una fase extra di flocculazione e sedimentazione.

Aggiungo una mia breve considerazione personale: questo risultato non mi sorprende. Il fango biologico è da sempre il punto centrale di un impianto di depurazione. In esso si concentrano gli inquinanti rimossi nel trattamento delle acque reflue. E in questo settore che si devono concentrare ricerche e sperimentazioni.  Le nuove tecniche di filtrazione che si utilizzano nella sezione di trattamento terziario, e che hanno efficacia per la rimozione di altre sostanze dall’effluente delle acque reflue, come i farmaci e gli agenti patogeni, potrebbero anche ridurre la concentrazione di microplastiche nelle acque reflue. E di conseguenza nell’ambiente. Come per ogni nuova tecnologia, occorre valutarne anche l’aspetto economico e gestionale.

Contestualmente vanno implementate tecnologie che possano pretrattare il fango. Non va dimenticato che alcuni fanghi potrebbero avere un buon valore agronomico.  Circa la metà dei paesi europei utilizza i fanghi degli impianti di trattamento delle acque reflue come fertilizzante per i campi coltivati. Questo perché spesso possiedono un  alto contenuto di sostanza organica e di nutrienti.  Ma questo utilizzo potrebbe essere decisamente compromesso se la contaminazione da microplastiche nei fanghi aumentasse in maniera significativa.

Privandoci della possibilità di recuperare materiale che sta diventando raro, e con un ciclo biogeochimico alterato, come per esempio il fosforo. Nell’approccio di ogni tipo di problema ambientale sono benvenute tutte le sperimentazioni e gli approfondimenti. Che anzi devono essere implementati.  Occorre valutare con la massima attenzione il rapporto costi/benefici, e soprattutto non essere ammaliati da un atteggiamento troppo fideistico sulle possibilità della tecnologia. Un cambiamento culturale relativo a cosa dobbiamo effettivamente produrre, e a come  necessariamente in futuro sia necessario ridurre le quantità di rifiuti e contaminanti che immettiamo nell’ambiente.

  • Long-term assessment of nanoplastic particle and microplastic fiber flux through a pilot wastewater treatment plant using metal-doped plastics Stefan Frehland a , Ralf Kaegi a , Rudolf Hufenus b , Denise M. Mitrano a, * a Eawag, Swiss Federal Institute of Aquatic Science and Technology, Process Engineering Department, Ueberlandstrasse 133, 8600, Duebendorf, Switzerland b EMPA, Swiss Federal Laboratories for Materials Science and Technology, Lerchenfeldstrasse 5, 9014, St. Gallen, Switzerland

Un pesce su sei.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Un pesce su sei, nel mar Rosso, contiene microplastiche, una notizia inattesa visto che il mare in questione vanta uno status di acqua meno inquinata al mondo. La scoperta è stata fatta attraverso uno studio dei ricercatori della King Abdullah University of Science and Technology dell’Arabia Saudita che hanno raccolto 178 pesci appartenenti a 26 specie provenienti da quattro habitat del Mar Rosso. L’approfondimento è stato capace di stabilire che i pesci di quel mare consumano tanto plastica quanto quelli di altre regioni.

I piccoli frammenti, che contaminano gli oceani quando si uniscono in pezzi di plastica più grossi, sono noti per passare attraverso la catena alimentare, potenzialmente causando danni agli organi. L’esame del contenuto intestinale dei pesci “studiati” dai ricercatori ha mostrato che un pesce su sei ha ingerito piccoli pezzi di plastica, fino ad oggi in quei mari lontana dai normali livelli di inquinamento. Una squadra di ricercatori delle università Statale e Bicocca di Milano ha rivelato di avere trovato microplastiche anche su un ghiacciaio nel Parco Nazionale dello Stelvio, in parte residui di escursioni, in parte provenienti dall’atmosfera e probabilmente dal mare.

Per evitare che nel 2050 si trovino nei mari più plastche che pesci, come pronostica il WWF, forse è il caso di introdurre qualche piccola modifica alle più semplici abitudini quotidiane, comprese quelle del tempo libero. E’ quello che propongono i giovani di mezzo mondo, compresi i ragazzi di Fridays for Future che hanno manifestato a livello planetario solo qualche mese fa.

https://edition.cnn.com/2018/04/22/health/microplastics-land-and-air-pollution-intl/index.html

L’obiettivo è quello fissato da una direttiva Ue, che dal 2021 vieta l’uso di plastica monouso non degradabile per piatti, posate, cannucce, bastoncini per palloncini e cottonfioc. L’alternativa non è solo il vetro, spesso scomodo da portare via e potenzialmente pericoloso, ma anche una serie di innovazioni come i bicchieri in amido di mais. Le bioplastiche sono ormai una realtà e possono essere ricavate da polimeri naturali, dalle alghe, dai batteri e dai funghi.

Il tutto comunque merita una riflessione. Stiamo combattendo la plastica e regolamentandone l’uso, ma forse è proprio questo il responsabile dell’atteggiamento fortemente critico verso un materiale che è invece per molti aspetti meraviglioso.

Con le loro intrinseche proprietà i materiali plastici hanno trovato applicazioni ubiquitarie nella scienza delle costruzioni, in elettronica, nell’ingegneria degli autoveicoli, in molte applicazioni sanitarie, negli imballaggi, nei colori,nei rivestimenti, negli adesivi e nella produzione di energia. Ogni settore della vita è stato impattato dalla plastica tanto che senza di essa la vita di oggi sembrerebbe inimmaginabile. Dal momento dell’inizio della produzione della plastica, anni 50, con 2 milioni circa di tonn prodotte, la produzione è arrivata agli attuali 8,3 miliardi di tonn con un incremento medio annuo del 12.6%. La produzione attuale di plastica può essere suddivisa in 2 parti: 7,3 miliardi di resine ed addittivi,1 miliardo di tonn di fibre e continua a crescere. E’ fabbricata con il fine di vivere per circa 50 anni, ma i settori più rappresentati sono quelli a vita breve, usa e getta, come i contenitori per cibi e bevande, i prodotti per il tabacco, la bigiotteria. Le 6 plastiche più utilizzate e prodotte sono il polietilene, il polipropilene, il polietilentereftalato, il polivinilcloruro, il polistirene, il poliuretano.

Il prodotto in plastica che si è più sviluppato è la bottiglia per l’acqua da 330 ml. Di essa si promuove in sedi diverse il riciclo, ma con due difficoltà: i prodotti ottenuti dal riciclo sono meno riciclabili della bottiglia originaria ed inoltre la quantità di bottiglie che dovrebbero essere riciclate è talmente elevata da rendere difficile stare al passo col processo di riciclo. Di conseguenza la plastica finisce in mare e negli oceani dove, per l’azione combinata di onde e luce solare, viene degradata e frantumata a microplastica, destinata a frammentarsi ulteriormente a nanoplastica. A questi ultimi 2 livelli di granulometria essendo poi capace di entrare nel ciclo alimentare. Ingerita poi negli organi digestivi della fauna marina-come dicevo all’inizio di questo testo – ne comporta alterazioni che compromettono il volume operativo dello stomaco, non consentendo ai pesci di estrarre dal cibo tutta l’energia disponibile e necessaria, quindi abbassando la capacità di nutrirsi. Da ciò deriva anche che nano e micro plastiche si ritrovano nello zooplancton, nei frutti di mare, nei mitili. I rifiuti plastici sono anche un carrier di malattie, potendo promuovere la colonizzazione delle micro- e nanoplastiche da parte di patogeni implicati nelle malattie delle barriere coralline. Da ciò risulta che , a prescindere dalla propria indole e convinzione – ottimistica o pessimistica –la prima cosa da fare è ridurre il consumo di plastica usa e getta. Impossibile, ovviamente, passare da 100 a zero in un colpo solo, ma successivi collegati provvedimenti possono indirizzare nella retta, giusta via. In questa direzione l’ipotesi da alcuni ripresa di tassare la plastica monouso non risolve il problema dell’inquinamento degli oceani: questa direzione spingerebbe verso la plastica biodegradabile che però sempre nei mari e negli oceani finirebbe per degradarsi o verso la plastica da fonti rinnovabili. Piuttosto che la pratica comune di incenerire senza recupero di energia, le tecnologie emergenti da pirolisi offrono la speranza di estrarre combustibili dai rifiuti plastici. Come chimici potremmo premere per ottenere un grado di standardizzazione ed armonizzazione della composizione delle plastiche; la diversità di queste all’interno del mercato complica – e quindi disincentiva –i processi di riciclo. C’è poi da pensare alla sensibilizzazione dei cittadini inducendoli a rifiutare prodotti plastici monouso. Il politico sensibile può essere di aiuto in una ridotta area geografica. In alcuni Paesi è consentita , purché regolamentata , l’esportazione dei rifiuti plastici verso Paesi con sistemi di smaltimento e/o riciclo più accreditati. L’importante è non fare cambiamenti di facciata e di immagine che lasciano sostanzialmente le cose come stanno, come pure sarebbe sbagliato affidarsi al volontarismo: il rischio è che i cittadini continuino a vedere nella chimica, che consente la produzione della plastica monouso, una scienza nemica.

  1. Martin, C., Parkes, S., Zhang, Q., Zhang, X, McCabe, M.F. & Duarte, C. M. Use of unmanned aerial vehicles for efficient beach litter monitoring. Marine Pollution Bulletin 131, 662–673 (2018).| article
  2. Baalkhuyur, F.M., Bin Dohaish, E.A., Elhalwagy, M.E.A., Alikunhi, N.M., AlSuwailem, A.M., Røstad, A., Coker, D.J., Berumen, M.L. & Duarte, C.M. Microplastic in the gastrointestinal tract of fishes along the Saudi Arabian Red Sea Coast. Marine Pollution Bulletin 131, 407–415 (2018).| article

Microparticelle nei cosmetici.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Ecobiocontrol è il portale che da quasi due decenni ha un ruolo di orientamento verso acquisti di detergenti e di cosmetici rispettosi del principio di sostenibilità, un vero proprio punto di riferimento (su base scientifica ovviamente). E’ un luogo di discussione e con il quale confrontare le formulazioni di detergenti per la casa e cosmetici, tramite l’Ecobiocontrol dizionario.
L‘Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (ECHA) non sembra impegnarsi troppo sull’argomento….; in effetti ha elaborato una proposta rivolta alle tecnologie di produzione ed impiego di microparticelle solide solubili ed insolubili per cosmetici e detergenti come anche alle regole transitorie verso soluzioni migliori delle attuali. L’associazione della piccole e media impresa europea con il sostegno di alcuni ricercatori ha commentato criticamente attraverso il portale suddetto questa proposta giudicandola asservita ad interessi economici e causa di un vistoso rallentamento dei processi innovativi in atto, giustificando attraverso il rischio accettabile atteggiamenti in contrasto con una politica amica dell’ambiente che nelle ultime decadi ha trovato anche il supporto di soluzioni tecnico-scientifiche.https://tg24.sky.it/ambiente/2018/01/22/cosmetici-microplastiche.html

La posizione che emerge non è aprioristicamente contraria all’utilizzo di micro particelle applicate a cosmetici e detergenti, ben consapevole che da questro utilizzo possono derivare funzionalità e convenienza. La convinzione espressa è che è sicuramente possibile sostituire i materiali esistenti largamente irrispettosi dell’ambiente con altri più rispondenti alle esigenze degli ecosistemi, ma per remare a favore, e non contro, delle correnti raccomandazioni e direttive con soluzioni reali è richiesto che il metabolismo dei sistemi naturali sia sempre considerato il punto di partenza.

Da questo si possono dedurre quali tipi di materiali, in quali forme e di quanto di essi possa essere fatto uso senza sfidare e compromettere i processi biotici ed abiotici del nostro pianeta.

Ciò premesso cosa ECHA intende per microplastiche? Si tratta di particelle con una dimensione minore di 5 mm di plastica macromolecolare insolubile ottenuta per polimerizzazione, modificazione chimica di macromolecole naturali o sintetiche, fermentazione microbica. C’è subito da osservare nella forma che, al di là della completezza, tale definizione adottata dall’ECHA è solo valida per prodotti volontariamente sottomessi ai suoi criteri, non per ogni prodotto introdotto sul mercato. Nel merito poi della sostanza vengono esclusi da essere considerate microplastiche i polimeri naturali non modificati, tranne che per idrolisi ed i polimeri biodegradabili. Con riferimento allo smaltimento non si può non notare che la raccomandazione alle 3R contenuta nella proposta (ridurre,riusare,riciclare) mal si adatta a sostanze come cosmetici e detergenti per la presenza in essi di numerosi eccipienti non riciclabili: solo una stretta selezione degli ingredienti e delle materie prime nelle fasi di sviluppo e produzione ed un’attenta sorveglianza e guida del consumatore possono implementare i criteri di protezione ambientale. Come conseguenza delle precedenti carenze rifiuti insufficientemente degradati raggiungono i mari e gli oceani in tempi variabili in dipendenza dalle situazioni diverse dei fiumi, ma mediamente valutabili per i fiumi europei in un paio di giorni. Passando alla composizione nel Mediterraneo le particelle di dimensione maggiore di 700 micron sono costituite per oltre la metà da polietilene e per un quinto da polipropilene; si ritrova ancora relativamente poco polivinilalcool, ma la sua presenza è crescente e questo deve preoccupare perché con le nuove tecnologie applicate ai polimeri naturali rinnovabili questo composto è fortemente lucrativo a causa del suo carattere di biodegradabilità in certe condizioni microbiche. Il punto più debole della proposta ECHA è nei test di biodegradazione che riproducono quelli ufficialmente riconosciuti ma estendendone i cicli a 90-120 giorni in luogo dei 28 previsti usualmente ed innalzandone le temperature sperimentali fino a più di 30°C. I test sono stati sviluppati per biodegradare tensioattivi solubili, non microplastiche insolubili. Con le microplastiche solubili è la stessa solubilità un segno di degradabilità. Le microplastiche, sia solubili che insolubili, dovrebbero essere testate con metodi appropriati. La microplastica media attuale non può essere degradata in condizioni aerobiche ed anaerobiche in tempi talmente brevi da mantenere l’ambiente in buone condizioni. Non ha quindi senso puntare a cicli di degradazione lunghi e per di più in condizioni di temperatura irrealistiche. In più l’attuale trattamento delle acque reflue non consente la separazione fra microplastiche solubili ed insolubili prima del rilascio dell’effluente nel sistema acquatico collettore ed i tempi di ritenzione negli impianti di trattamento delle acque reflue sono troppo brevi per consentire la degradazione.

Il documento conclude chiedendo che, secondo una scelta che pare ovvia e di buon senso comune, venga proibito il rilascio nell’ambiente di materiali aggiunti intenzionalmente, incluse le micro particelle, sia in forma solubile che insolubile, quando questi non soddisfano stretti criterihttps://tg24.sky.it/ambiente/2018/01/22/cosmetici-microplastiche.html

-provenienza da fonti rinnovabili

-trasformazione per via fisica o chimica,ma secondo i criteri della Green Chemistry

-assenza di addittivi indesiderati o dannosi

– bassa tossicità acquatica

-pronta degradabilità in condizioni aerobiche ed anaerobiche o compostabili

-assenza di rilascio di metaboliti stabili dopo la degradazione o il compostaggio

Questi criteri sono focalizzati sulla prevenzione e rispondono al primo e più importante principio della Green Chemistry: prevenire il rifiuto è meglio che trattarlo o eliminarlo dall’effluente. Esistono ormai in commercio parecchie molecole che soddisfano questo profilo. I costi sono spesso maggiori, ma nelle valutazioni economiche ci si dimentica sempre dei costi ambientali. La piccola e media impresa in questo senso viene spesso frenata nell’adozione di innovazioni dagli interessi dei grossi produttori generalmente più conservatori.

“Contaminazione da microplastiche nell’acqua corrente di tutto il mondo”: Houston, abbiamo un problema?

Claudia Campanale*

Il giorno 25 Agosto scorso mi trovavo in Germania presso l’Istituto Federale di Idrologia di Coblenza per svolgere parte del mio dottorato di ricerca sulle microplastiche nell’ambiente acquatico quando ricevo una telefonata da parte di uno dei giornalisti che stava seguendo il caso “Microplastiche nell’acqua potabile”. Il giornalista mi parla dell’inchiesta in corso preannunciandomi i risultati della ricerca condotta dall’Università statale di New York e del Minnesota e da Orb Media che sarebbero poi stati pubblicati il 05 settembre 2017 sul “the guardian” e secondo cui l’83% dei campioni di acqua potabile prelevati da tutto il mondo conterrebbero microscopiche fibre di plastica.

https://www.theguardian.com/environment/2017/sep/06/plastic-fibres-found-tap-water-around-world-study-reveals

Il giornalista inoltre, mi chiede di analizzare tre campioni di acqua prelevati dalle fontane pubbliche di Roma per avere un controllo su altri tre campioni prelevati dagli stessi punti e analizzati contemporaneamente dall’Università del Minnesota.

Al momento a livello globale non sono state mai eseguite azioni di intercalibrazione tra laboratori e non sono disponibili standards di qualità a cui far riferimento. A causa della mancanza di protocolli standardizzati per il campionamento, l’estrazione, la purificazione e la caratterizzazione delle microplastiche, la comparabilità dei dati disponibili rimane altamente limitata, soprattutto per quanto riguarda: la definizione delle diverse classi dimensionali, le procedure di campionamento, i metodi analitici e i valori di riferimento.

Generalmente l’analisi delle microplastiche in matrici ambientali consta di tre fasi: campionamento, estrazione, quantificazione e identificazione.

1° Step: CAMPIONAMENTO

Il primo aspetto da considerare riguarda proprio il significato insito nella definizione di campionamento che secondo i metodi analitici per le acque APAT-IRSA è la seguente:

“Il campionamento può definirsi come l’operazione di prelevamento della parte di una sostanza di dimensione tale che la proprietà misurata nel campione prelevato rappresenti, entro un limite accettabile noto, la stessa proprietà nella massa di origine. In altre parole, il fine ultimo del campionamento ambientale è sempre quello di consentire la raccolta di porzioni rappresentative della matrice che si vuole sottoporre ad analisi“.

La qualità dei risultati di un’analisi è quindi strettamente correlata a quella del campione prelevato; ne consegue che il campionamento risulta essere una fase estremamente complessa e delicata che incide in misura non trascurabile sull’incertezza totale del risultato dell’analisi.

Così come indicato nei Metodi analitici ufficiali per le acque destinate al consumo umano (D.Lgs. 31/2001), per individuare le caratteristiche di qualità di un’acqua e per seguire le sue variazioni temporali è innanzitutto necessario che i campioni da analizzare siano il più possibile rappresentativi delle reali condizioni qualitative e quantitative esistenti nella matrice. Al momento del campionamento è necessario dunque considerare con attenzione i volumi di acqua da prelevare. Essi vanno definiti in funzione dei parametri da determinare e comunque devono essere superiori al minimo necessario per procedere allo svolgimento degli esami richiesti.

Seguendo le metodiche di campionamento utilizzate dai ricercatori dell’Università del Minnesota i tre campioni da analizzare prelevati dalle fontane pubbliche di Roma sono stati campionati in bottiglie di HDPE per un volume totale di 500 ml a campione. In relazione a questa prima fase di campionamento ciò che desta maggiore perplessità è proprio la rappresentatività del campione relativamente all’esiguo volume di acqua campionato. Un volume di 500 ml è abbastanza rappresentativo per avere un valore che si discosti sufficientemente da quella che è la contaminazione ambientale di fondo e avere quindi un risultato superiore al valore del bianco? Basti pensare che, studi finalizzati a determinare la concentrazione di microplastiche a valle di impianti di trattamento delle acque reflue, utilizzano, per l’analisi delle microplastiche, un volume di campione che varia tra i 50 e i 100L (Mintening et al., 2016, Murphy et al., 2016, Carr et al., 2016).

Inoltre, diverse ricerche specifiche dimostrano che determinare la contaminazione ambientale derivante dalla deposizione atmosferica di microfibre sintetiche o dall’abbigliamento dei ricercatori risulta indispensabile per garantire che il contenuto di plastica nel campione analizzato non venga sovrastimato (Hanvey et al., 2017). Pertanto, valutare l’affidabilità della metodica utilizzata mediante test di validazione e bianchi ambientali risulta indispensabile per riportare i risultati di uno studio.

Un secondo aspetto da tener presente in questa prima fase riguarda il concetto di incertezza. Attualmente è accettato che, nel momento in cui tutte le componenti di errore siano state valutate e le relative correzioni apportate, rimanga tuttavia un’incertezza sulla correttezza del risultato. L’incertezza in generale può essere valutata dalla distribuzione statistica dei risultati di una serie di misurazioni e può essere caratterizzata mediante il calcolo delle deviazioni standard.

I tre campioni di controllo, prelevati dalla città di Roma, sono stati campionati in singola copia senza replicati, quindi non è stato possibile calcolare il livello di incertezza associato al risultato analitico.

Inoltre, secondo la guida EURACHEM/CITAC e la UNI CEI ENV 13005 “Guida all’espressione dell’incertezza di misura” , nel riportare il risultato di una misurazione è necessario:

– specificare il misurando;

– descrivere chiaramente i metodi usati per calcolare il risultato di una misurazione e la sua incertezza dalle osservazioni sperimentali e dai dati di ingresso;

– identificare le sorgenti di incertezza e documentare in modo esauriente come esse sono state valutate;

– quantificare le componenti dell’incertezza;

– calcolare l’incertezza combinata o composta;

– presentare l’analisi dei dati in modo tale che ogni passaggio possa essere agevolmente seguito e che il calcolo del risultato riportato possa essere ripetuto in modo autonomo, se necessario;

– fornire le correzioni e le costanti utilizzate nell’analisi e le loro fonti.

Nell’articolo pubblicato sul “the guardian” non viene descritta nessuna delle metodologie utilizzate per il campionamento, l’estrazione, la quantificazione e l’identificazione delle microplastiche trovate nei campioni analizzati. I risultati pubblicati fanno riferimento ad una concentrazione di microplastiche (espressa come numero di fibre/500mL) senza alcun valore di deviazione standard associato.

2° Step ESTRAZIONE

Al campionamento segue la fase di estrazione, che consiste in una serie di steps volti a separare le microplastiche dalla loro matrice per mezzo di una degradazione chimica e/o enzimatica della sostanza organica interferente, seguita da una separazione densimetrica e da una filtrazione finale del campione. Va detto che questa fase risulta essere la più complicata e, al momento, non esiste una metodica che permetta una rimozione del 100% della componente naturale con un recupero del 100% delle particelle sintetiche. Tuttavia, per campioni di acqua potabile, la degradazione chimica e/o enzimatica non è strettamente necessaria in quanto si presuppone un contenuto di matrice basso o pressoché inesistente, pertanto risulta fondamentale la caratterizzazione chimica.

3° Step QUANTIFICAZIONE e IDENTIFICAZIONE

Una volta che le particelle sono state separate dalla matrice, la quantificazione richiede la pesatura o il conteggio, compito assai difficile soprattutto per le particelle appena visibili ad occhio nudo. La caratterizzazione visiva del campione al microscopico (Visual Sorting) tuttavia presenta un elevato rischio di sovrastima a causa di grandi quantità di sostanze di origine naturale (parti di animali, minerali, fibre di origine naturale, ecc.) ancora presenti negli estratti (Dekiff et al., 2014). Da qui l’identificazione chimica delle particelle estratte risulta indispensabile a valle di una pre-caratterizzazione al microscopio allorquando diversi studi affermano che fino al 70% delle particelle visivamente identificate al microscopio vengono poi, in seguito ad una caratterizzazione chimica, identificate come falsi positivi (Hidalgo-Ruz et al., 2012, Hanvey et al., 2017).

Tra le tecniche consigliate per la corretta identificazione di materie plastiche vi sono spettroscopia Raman o FTIR, o pirolisi-GC / MS (Löder et al., 2015).

Come già accennato precedentemente, l’articolo pubblicato sul “the guardian”, manca dei riferimenti metodologici utilizzati dai ricercatori per eseguire l’analisi delle microplastiche seguendo un approccio scientifico rigoroso che, in questa fase ancora embrionale della ricerca, risulta indispensabile al fine di avere risultati attendibili. Inoltre ciò che desta maggiore scetticismo è che i risultati presentati dai colleghi siano stati divulgati, a livello mondiale, prima ancora della pubblicazione ufficiale di un articolo scientifico su una rivista accreditata.

 

Come ultimo aspetto da approfondire, prima di diffondere allarmismi su scala globale, particolarmente importante è ampliare la conoscenza di quelli che sono gli impatti delle microplastiche sull’ambiente e sulla salute.

Ad oggi non sono ancora state definite “concentrazioni prevedibili senza effetti (PNEC)” e “concentrazioni ambientali previste (PEC)” per le microplastiche presenti nell’ambiente e, non esistono nemmeno approcci alternativi per la valutazione del rischio delle materie plastiche.

Ciò che sappiamo al momento è che una serie di studi ha messo in luce la possibile ingestione di microplastiche da parte di pesci e molluschi in ​​condizioni naturali, sollevando diverse preoccupazioni; si pensa che le particelle possano provocare una risposta biologica attraverso meccanismi fisici e chimici. In primo luogo, sono stati riscontrati danni fisici come abrasioni interne e blocchi ed è stato dimostrato che le microplastiche possono causare lesioni che portano alla necrosi cellulare, all’infiammazione e a lacerazioni dei tessuti nei tratti gastrointestinali di alcuni organismi acquatici. In secondo luogo, l’elevata persistenza e galleggiabilità della plastica la rende un vettore ideale per il trasporto di specie aliene e per il potenziale rischio di dispersione di agenti patogeni per lunghe distanze. La colonizzazione da specie invasive è considerata come una delle più grandi minacce alla biodiversità globale. In terzo luogo, le microplastiche potrebbero essere considerate come possibili micro assorbitori di contaminanti organici (alteratori endocrini, POP) e metalli in tracce in grado di aumentarne la biodisponibilità negli organismi e di fungere da trasportatori in sistemi acquatici ed a lungo raggio in aree remote. Tuttavia, non è stato dimostrato in modo convincente che ciò avviene in condizioni naturali (Hermsen et al., 2017). In questa fase della ricerca quello di cui siamo certi è che le plastiche sono ubiquitarie, si frammentano in microplastiche e, probabilmente, la loro dispersione nell’ambiente è destinata ad aumentare; ciò di cui non siamo a conoscenza è la tossicità e le conseguenze a livello ecologico delle microplastiche in quanto non è ancora stata fatta una valutazione del rischio.

Houston, abbiamo un problema?

 

Bibliografia 

Carr S.A., Liu J., Tesoro A.G., 2016. Transport and fate of microplastic particles in wastewater treatment plants. Water Res. 91, 174 e 182.

Dekiff J.H., Remy D., Klasmeier J., Fries E., 2014. Occurrence and spatial distribution of microplastics in sediments from Norderney. Environmental Pollution 186 (2014) 248e256.

Löder, M. G. J. & Gerdts, G., 2015. Methodology used for the detection and identification of microplastics – A critical appraisal in Marine Anthropogenic Litter (eds Bergmann, M. et al.) Ch. 8, 201–227 (Springer, 2015).

Murphy, F., Ewins, C., Carbonnier, F., Quinn, B., 2016. Wastewater treatment works (WwTW) as a source of microplastics in the aquatic environment. Environ. Sci. Technol. 50, 5800e5808.

Hanvey J. S., Lewis P.J., Lavers J.L., Crosbie N.D., Pozo K., Clarke B.O. 2017. A review of analytical techniques for quantifying microplastics in sediments. Anal. Methods 9, 1369.

Hermsen E., Pompe R., Besseling E., Koelmans A.A. 2017. Detection of low numbers of microplastics in North Sea fish using strict quality assurance criteria. Marine Pollution Bullettin, http://dx.doi.org/10.1016/j.marpolbul.2017.06.051.

Hidalgo-Ruz V, Gutow L, Thompson RC, Thiel M. 2012. Microplastics in the marine environment: a review of the methods used for identification and quantification. Environ Sci Technol. 46:3060 − 3075.

Mintenig S.M., Int-Veen I., Löder M.G.J., Primpke S., Gerdts G., 2016. Identification of microplastic in effluents of waste water treatment plants using focal plane array-based micro-Fourier-transform infrared imaging. Water Research, http://dx.doi.org/10.1016/j.waters.2016.11.015

*Claudia Campanale è laureata in biologia presso UniBa con il massimo dei voti, sta svolgendo un dottorato in Chimica  con un tutor di eccezione, Angela Agostiano e proprio sul tema del campionamento, estrazione, quantificazione e caratterizzazione di microplastiche presenti in acque interne superficiali; ha  fatto esperienza in Italia e Germania sui temi dell’inquinamento ambientale, della sua caratterizzazione e della sua eliminazione.