Elementi della tavola periodica. Le terre rare. Seconda parte

Rinaldo Cervellati

La prima parte di questo post è qui.

 

Fonti, usi e produzione

Le principali fonti di elementi delle terre rare sono i minerali monazite[1], bastnäsite e loparite e le argille lateritiche. Nonostante la loro elevata abbondanza relativa, i minerali delle terre rare sono più difficili da estrarre rispetto a fonti equivalenti di metalli di transizione (a causa in parte delle loro proprietà chimiche simili), ciò che rende questi elementi relativamente costosi.

Il loro uso industriale fu molto limitato fino allo sviluppo di tecniche di separazione efficienti, come lo scambio ionico, la cristallizzazione frazionata e l’estrazione liquido-liquido tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60.

Attualmente le cose sono molto cambiate.

Gli usi, le applicazioni e la domanda di elementi delle terre rare sono aumentati nel corso degli anni. A livello globale, la maggior parte dei REE è utilizzata per catalizzatori e magneti.

Altri usi importanti sono nella produzione di magneti, leghe, vetri ed elettronica ad alte prestazioni.

Magneti al neodimio

Ce e La sono importanti come catalizzatori e vengono utilizzati per la raffinazione del petrolio e come additivi diesel. Nd è importante nella produzione di magneti nelle tecnologie tradizionali e nelle basse emissioni di carbonio. Elementi delle terre rare sono utilizzati nei motori elettrici di veicoli ibridi ed elettrici, nei generatori per turbine eoliche, nelle unità a disco rigido, e nell’elettronica portatile (cellulari, microfoni, altoparlanti).

Cellulari smartphone

Ce, La e Nd sono importanti nella produzione di leghe e nella fabbricazione di pile a combustibile e batterie all’idruro di nickel. Ce, Ga e Nd sono importanti nell’elettronica e vengono utilizzati nella produzione di schermi LCD e al plasma, fibre ottiche, laser, nonché nell’imaging medica. Ulteriori usi sono come traccianti nelle applicazioni mediche, nei fertilizzanti e nel trattamento delle acque.

I REE sono stati usati in agricoltura per aumentare la crescita delle piante, la produttività e la resistenza allo stress apparentemente senza effetti negativi per il consumo umano e animale. Sono utilizzati a questo scopo fertilizzanti fosfati arricchiti con REE, una pratica ampiamente utilizzata in Cina. Vengono anche usati come additivi per mangimi per il bestiame, per produrre animali più grandi e un maggiore quantitativo di uova e latticini. Tuttavia, questa pratica ha comportato un bioaccumulo di REE nel bestiame e ha influito sulla crescita della vegetazione e delle alghe nelle aree agricole interessate. Inoltre, mentre non sono stati osservati effetti negativi alle attuali basse concentrazioni, gli effetti a lungo termine e l’accumulo nel tempo sono sconosciuti e ciò richiederebbe ricerche approfondite sui loro possibili effetti.

In sintesi, i dati del 2015 circa il consumo globale di REE sono i seguenti [7]: catalizzatori 24%, magneti 23%, lucidatura 12%, metallurgia 8%, batterie 8%, vetri 7%, ceramica 6%, pigmenti 3%, altro, compresa l’elettronica portatile 9%.

Un’inchiesta pubblicata sul settimanale L’Espresso il 21 marzo 2018 a firma Angelo Richiello, fa giustamente notare che “Poche persone sono consapevoli dell’enorme importanza che gli elementi delle terre rare hanno sulla loro vita quotidiana … oggi è quasi impossibile che un qualunque componente con un certo contenuto tecnologico non abbia tra i suoi costituenti una percentuale di terre rare, normalmente nell’ordine dello 0,1-5 per cento in peso (fatta eccezione per i magneti permanenti, che contengono circa il 25 per cento di neodimio), quantità che, sebbene minime, risultano fondamentali, poiché nessuno di questi dispositivi funzionerebbe allo stesso modo, o sarebbe significativamente più pesante, se non contenesse elementi del gruppo delle terre rare” [8].

Nonostante l’ampia diffusione dei minerali che li contengono nel Pianeta, la concentrazione dei REE è talmente bassa da rendere molto alti i costi di estrazione, economicamente giustificabili solo con manodopera a basso costo o sostenuta da interventi statali.

Lo ha capito molto bene la Cina, come si evince dal seguente grafico, che mostra la produzione globale di ossidi dei REE dal 1950 al 2000 in base al minerale da cui venivano estratti.

Il grafico mostra che fino al 1948 la maggior parte delle terre rare del mondo proveniva da giacimenti di sabbie monazitiche in India e Brasile. Negli anni ’50, il Sudafrica fu la principale fonte di terre rare, proveniente dai giacimenti monaziti di Steenkampskraal nella provincia occidentale di Città de Capo. Negli anni ’60 e ’80, la miniera di terre rare Mountain Pass in California ha reso gli Stati Uniti il principale produttore. Oggi, i depositi indiani e sudafricani producono ancora alcuni concentrati di terre rare, ma sono battuti dalle dimensioni della produzione cinese. Nel 2017, la Cina ha prodotto l’81% della fornitura mondiale di terre rare, principalmente dalla Mongolia interna, sebbene possieda solo il 36,7% delle riserve. Tutte le terre rare pesanti del mondo (come il disprosio) provengono da fonti cinesi, come il deposito polimetallico di Bayan Obo, in Mongolia.

La miniera Browns Range, situata a 160 km a sud est di Halls Creek, nell’Australia occidentale settentrionale, è attualmente in fase di sviluppo e si ritiene possa diventare il primo importante produttore di disprosio al di fuori della Cina.

L’aumento della domanda ha messo a dura prova l’offerta e vi è una crescente preoccupazione che il mondo possa presto affrontare una carenza di terre rare. Nel 2009 è stato ipotizzato che nel giro di pochi anni la domanda mondiale dovrebbe superare l’offerta di 40.000 tonnellate l’anno, a meno che non vengano sviluppate nuove importanti fonti. Nel 2013 è stato affermato che la domanda di REE sarebbe aumentata a causa della dipendenza dell’UE da questi elementi, del fatto che gli elementi delle terre rare non possono essere sostituiti da altri elementi e che i REE hanno un basso tasso di riciclaggio. Inoltre, a causa dell’aumento della domanda e della scarsa offerta, i prezzi futuri dovrebbero aumentare e vi è la possibilità che paesi diversi dalla Cina apriranno miniere REE. La domanda sta aumentando poiché i REE sono diventati essenziali a causa del rapido sviluppo delle nuove tecnologie: smartphone, fotocamere digitali, parti di computer, semiconduttori, energie rinnovabili, ecc.

Secondo la citata inchiesta de L’Espresso, nel 2017 la Cina ha prodotto 105000 tonnellate di REE, pari all’81% di quella mondiale (fonte non citata)  a cui si devono aggiungere le quantità prodotte clandestinamente, stimate intorno alle circa 10-15 mila tonnellate, avviandosi a ottenere il monopolio de facto di questi metalli, al fine di utilizzarlo “come strumento geopolitico per far leva sui cambiamenti comportamentali nei paesi con cui ha controversie politiche ed economiche, e comunque rafforzare la sua posizione negoziale a qualsiasi tavolo diplomatico”[8].

A prescindere dalle opinioni, diviene comunque importante il loro riciclo.

Riciclo

In effetti una fonte importante di metalli delle terre rare è costituita dai rifiuti dell’industria elettronica e da altri scarti che ne contengono quantità significative.

Discarica di rifiuti di PC e cellulari

Nuovi progressi nella tecnologia del riciclaggio hanno reso più fattibile l’estrazione di terre rare da questi materiali, e impianti di riciclaggio sono attualmente operativi in Giappone, dove si stima che 300.000 tonnellate di questi elementi siano immagazzinate in componenti elettronici in disuso. In Francia, il gruppo Rhodia sta aprendo due fabbriche a La Rochelle e Saint-Fons, che produrranno 200 tonnellate di terre rare all’anno da lampade fluorescenti usate, magneti e batterie. Il carbone e i sottoprodotti del carbone sono una potenziale fonte di elementi utili tra cui i REE, con quantità importanti.

Molto recentemente, partendo da ricerche di bioingegneria che sono riuscite a formare legami proteina-metallo raro su ceppi di Escherichia coli, un gruppo internazionale di ricercatori è riuscito a realizzare “perle batteriche” su un polimero acrilico. Con queste microsfere hanno riempito una colonna e vi hanno fatto percolare soluzioni di scarti REE, ottenendo la separazione selettiva dei sali delle terre rare [9]. Se questa tecnica avrà uno sviluppo industriale, il recupero sarà a basso impatto economico e ambientale.

Problemi ambientali

I REE si trovano naturalmente in concentrazione molto bassa nell’ambiente. Tuttavia, vicino ai siti minerari e industriali, le concentrazioni possono salire a molte volte i normali livelli di fondo. Una volta nell’ambiente possono penetrare nel terreno, dove il loro trasporto è determinato da numerosi fattori come l’erosione, gli agenti atmosferici, il pH, le precipitazioni, le acque sotterranee, ecc. Secondo la loro biodisponibilità, possono essere assorbiti dalle piante e successivamente consumati dall’uomo e dagli animali. I fertilizzanti arricchiti con REE contribuiscono pure alla contaminazione, a causa della loro deposizione intorno agli impianti di produzione.

Inoltre, durante il processo di estrazione sono utilizzati acidi forti, che possono penetrare in bacini idrici provocando l’acidificazione degli ambienti acquatici.

Un altro additivo REE che contribuisce alla contaminazione ambientale è l’ossido di cerio (CeO2) che è prodotto durante la combustione del gasolio e rilasciato come particolato di scarico, contribuendo fortemente alla contaminazione del suolo e dell’acqua.

L’estrazione, la raffinazione e anche il riciclaggio dei metalli delle terre rare hanno gravi conseguenze ambientali se non gestite correttamente.

Un altro potenziale pericolo potrebbe essere la formazione di rifiuti radioattivi a basso livello, risultanti dalla presenza di torio e uranio nei minerali delle terre rare. L’uso improprio di queste sostanze può provocare gravi danni ambientali. Nel maggio 2010, la Cina ha annunciato pesanti sanzioni per l’estrazione illegale al fine di proteggere l’ambiente e le sue risorse. Si prevede che questa campagna di dissuasione sarà concentrata nel sud della Cina, dove le miniere illegali – in genere piccole, rurali – sono fonti di rifiuti tossici per l’approvvigionamento.

Cicli biogeochimici

A causa dell’attività antropica è molto improbabile identificare un unico ciclo biogeochimico per tutto il globo. Gli studi sono limitati ad aree specifiche, in vicinanza dei siti di estrazione e produzione o in zone particolarmente ricche di minerali contenenti REE.

Nel 2004 un gruppo di ricercatori cinesi, coordinati dal prof. LJ Wang, ha effettuato uno studio dettagliato nei pressi del villaggio Panggezhuang, Contea Daxing (Pechino), dove i fertilizzanti REE sono ampiamente applicati [10]. I flussi di input e output di tutti i tipi di REE nel suolo e nel sistema vegetale sono stati misurati usando la spettrometria di massa a plasma accoppiato induttivamente, ICP-MS[2]. I risultati hanno mostrato che la quantità totale di REE trasportati da pioggia, neve, acqua di irrigazione, fertilizzante composito e polvere è a un livello molto basso nel campo di controllo. Per contro, le quantità di input REE nei quattro campi studiati dove sono stati utilizzati fertilizzanti alle terre rare sono molto più alte di quelle del campo controllo. Le quantità totali di REE immesse (input) nei campi erbosi e in quelli a terra nuda sono risultate rispettivamente 9,7 e 106 volte superiori a quelle del campo controllo. Tuttavia, i risultati per i REE in uscita (output) via grano e acqua infiltrata sono abbastanza simili per i quattro campi sperimentali.

L’assorbimento da parte della pianta di grano è la principale via di output e le concentrazioni di REE nei diversi organi seguono l’ordine: radici> foglie> steli> croste> semi. Sulla base del calcolo, la quantità output dei REE è leggermente superiore a quella di input nel campo di controllo, il che implica che è difficile accumulare REE nei suoli senza l’applicazione di fertilizzanti che li contengano. Ne consegue che nei campi in cui si usano fertilizzanti alle terre rare, la quantità di REE nel suolo può aumentare con l’uso crescente di questi fertilizzanti. Il confronto fra i risultati dei campi erbosi e quelli a suolo nudo consiglia fortemente la rotazione delle colture.

Più recentemente, nel 2019, un gruppo internazionale di geologi e geochimici ha studiato il ciclo biogeochimico naturale delle terre rare in una vasta area situata all’incrocio tra le sottoprovince Opatica e Abitibi del Québec (Canada), ricca di depositi magmatico-alcalino costituiti principalmente da ferro-, calcio- e silicocarbonatiti[3], contenenti terre rare [11]. I ricercatori hanno effettuato campionamenti di materiali diversi da sette siti dell’area includendo ambienti abiotici (suolo, acqua dolce) e biotici (piante terrestri e acquatiche), come mostrato in figura:

(a) Locazione geografica dell’area esplorata (fonte: Google Earth) e mappa geologica semplificata (GéoMégA Resources Inc.) con le posizioni dei sette siti di campionamento nei diversi corsi d’acqua; (b) rappresentazione grafica dei materiali campionati e una descrizione del numero di campioni e dove sono stati raccolti [11].

Su ciascun campione sono state frazionate le terre rare e ne è stata effettuata l’analisi quantitativa.

I risultati hanno mostrato che sebbene le concentrazioni di REE nei compartimenti abiotici e biotici siano basse rispetto a quelle nei campioni controllo prelevati dalle rocce, il frazionamento osservato è analogo per tutti i compartimenti. Sono state osservate anomalie nell’acqua dei pori dei sedimenti riguardo alla concentrazione del neodimio, il che potrebbe suggerire un diverso ciclo biogeochimico di questo elemento nei sistemi acquatici.

Non è stato osservato bioaccumulo di REE negli organismi di due piante studiate appartenenti a compartimenti terrestri e acquatici rispettivamente, ma solo un trasferimento limitato all’interno delle piante, con un maggiore assorbimento di europio rispetto alle altre terre rare.

In conclusione questi risultati hanno indicato una bassa mobilità e trasferimento di REE da substrati rocciosi ricchi di terre rare in un’area naturale a sistemi terrestri e acquatici, ma ha anche indicato una diluizione del contenuto di REE nei diversi comparti, mantenendo intatto il frazionamento.

Il lavoro fornisce nuove conoscenze sul ciclo biochimico dei REE in un’area naturale e rappresenta un punto di partenza per uno sfruttamento ecologico di analoghe future aree minerarie contenenti terre rare [11].

 

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-voci Rare Earts

https://en.wikipedia.org/wiki/Rare-earth_element

http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-rolla_(Dizionario-Biografico)/

  1. Fontani, M. V. Orna, Luigi Rolla: un fisico camuffato da chimico., Atti del XIV Convegno di Storia e Fondamenti della Chimica, Rendiconti Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Memorie di Scienze Fisiche e Naturali, pp. 213–224.

 

Bibliografia

[7] Zhou, Baolu; Li, Zhongxue; Chen, Congcong (25 October 2017). “Global Potential of Rare Earth Resources and Rare Earth Demand from Clean Technologies”. Minerals7 (11): 203

[8] http://espresso.repubblica.it/affari/2018/03/21/news/questi-17-metalli-rari-decideranno-chi-sara-il-padrone-del-mondo-1.319822

[9] Aaron Brewer et al., Microbe Encapsulation for Selective Rare-Earth Recovery from Electronic Waste Leachates, Environ. Sci. Technol. 2019, 53, 23, 13888-13897.

[10] LJ Wang et al., Biogeochemical cycle and residue of extraneous rare earth elements in agricultural ecosystem., Journal of Rare Earths, 2004,  22, 701-706.

[11] Ana Romero-Freire et al., Biogeochemical Cycle of Lanthanides in a Light Rare Earth Element-Enriched Geological Area (Quebec, Canada)., Minerals, 2019, 9, 573-, DOI: 10.3390/min9100573

 

 

[1] La monazite è un minerale fosfatico bruno-rossastro contenente metalli delle terre rare. Per essere più specifici, rappresenta un gruppo di minerali. Esistono infatti almeno quattro diversi specie effettivamente separate di monazite, a seconda della composizione elementare relativa del minerale. La specie più comune è la monazite (Ce) che ha il più alto contenuto in cerio, l’elemento più abbondante dei lantanidi .

[2] ICP-MS, dall’inglese inductively coupled plasma mass spectrometry, è una tecnica analitica basata sull’utilizzo della spettrometria di massa abbinata al plasma accoppiato induttivamente. È una tecnica molto sensibile e in grado di determinare diverse sostanze inorganiche metalliche e non metalliche presenti in concentrazioni anche di circa una parte per miliardo (ppb).

[3] Le carbonatiti sono rare rocce magmatiche, prevalentemente effusive, ma anche intrusive in giacitura subvulcanica, che contengono più del 50% in volume di carbonati. Le carbonatiti sono suddivise in base al minerale carbonatico dominante e in base agli elementi maggiori presenti (Mg, Ca, Fe, Terre Rare).

Elementi della tavola periodica: le terre rare. Prima parte.

Rinaldo Cervellati

Gli elementi delle terre rare (REE, Rare Earth Elements) o metalli di terre rare (REM, Rare Earth Metals), noti anche come lantanidi, sono una serie di quindici elementi chimici, generalmente posti a parte, in basso nella tavola periodica. L’Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata (IUPAC) pone fra essi anche lo scandio e l’ittrio [1] perché si trovano negli stessi depositi di minerali dei lantanidi e presentano proprietà chimiche simili, ma hanno proprietà elettroniche e magnetiche diverse.

I 15 elementi delle terre rare sono, in ordine di numero atomico da 57 a 71: lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd ), prometio (Pm), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb) e lutezio (Lu), ai quali vanno aggiunti scandio (Sc, n.a. 21), e ittrio (Y, n.a. 39).

Nonostante il loro nome, gli elementi delle terre rare sono – ad eccezione del prometio radioattivo – relativamente abbondanti nella crosta terrestre, con il cerio che è il 25° elemento più abbondante (68 ppm), più abbondante del rame (60 ppm). Tuttavia, a causa delle loro proprietà geochimiche, questi elementi sono in genere dispersi e non si trovano spesso concentrati nei minerali delle terre rare; di conseguenza i depositi minerari economicamente sfruttabili sono meno comuni.

Il primo di questi elementi fu scoperto nel 1787 da Carl Axel Arrhenius[1] in un minerale nero poi chiamato”ytterbite” perché la cava si trovava nei pressi del villaggio Ytterby, in Svezia. Il minerale fu poi ribattezzato gadolinite nel 1800 poiché un campione giunse a Johan Gadolin[2], un professore dell’Accademia Reale di Turku (Finlandia); la sua analisi produsse un ossido sconosciuto (terra) che chiamò ittria.

Gadolinite (Ytterbite)

Anders Gustav Ekeberg isolò il berillio dalla gadolinite ma non riuscì a riconoscere altri elementi contenuti nel minerale. Dopo questa scoperta, nel 1794 il minerale bastnasite (da Bastnäs, cittadina vicino a Riddarhyttan in Svezia), che si credeva fosse di ferro-tungsteno, fu riesaminato dal famoso Jöns Jacob Berzelius e da Wilhelm Hisinger[3].

Bastnasite

Nel 1803 ottennero un ossido bianco che chiamarono ceria. Martin Heinrich Klaproth[4] scoprì indipendentemente lo stesso ossido e lo chiamò ochroia. Quindi nel 1803 erano noti due elementi delle terre rare, ittrio e cerio, anche se ci vollero ancora 30 anni per stabilire che altri elementi erano contenuti nei due ossidi ittria e ceria. Va ricordato che la somiglianza delle proprietà chimiche dei metalli delle terre rare ha reso difficile la loro separazione.

J.J. Berzelius, W. Hisinger, M.H. Klaproth

Nel 1839 Carl Gustav Mosander[5], un assistente di Berzelius, separò dalla ceria l’ossido del sale solubile chiamato lanthana. Gli ci vollero altri tre anni per separare ulteriormente il lanthana in didimia e lantania pura. Didimia, sebbene non ulteriormente separabile con le tecniche di Mosander, era in realtà ancora una miscela di ossidi.

Nel 1842 Mosander separò anche l’ittria in tre ossidi: pura ittria, terbia ed erbia (tutti i nomi derivano dal nome della città Ytterby). Chiamò terbio l’elemento che dava sali rosa ed erbio quello che produceva un perossido giallo.

Carl G. Mosander

Quindi nel 1842 erano stati isolati sei elementi delle terre rare: ittrio, cerio, lantanio, didimio, erbio e terbio.

Nils Johan Berlin[6] e Marc Delafontaine[7] tentarono anche di separare l’ittria grezza e trovarono le stesse sostanze ottenute da Mosander, ma Berlin chiamò erbio l’elemento che dava sali rosa e Delafontaine chiamò terbio quello che dava il perossido giallo.

Johan Berlin e Marc Delafontaine

Questa confusione ha portato a diverse false affermazioni sulla scoperta di nuovi elementi, come il mosandrium di J. Lawrence Smith, o il filippio e il decipio di Delafontaine. A causa della difficoltà nel separare i metalli (e nello stabilire la completezza della separazione), sono state dozzine le false scoperte in questo periodo.

Non vi furono ulteriori novità per 30 anni e l’elemento didimio fu elencato nella tavola periodica degli elementi con una massa molecolare di 138. Nel 1879 Delafontaine, usando la nuova tecnica della spettroscopia ottica di fiamma, trovò diverse nuove linee spettrali nella didimia. Nello stesso anno, il nuovo elemento samario fu isolato da Paul Émile Lecoq de Boisbaudran[8] dal minerale samarskite. Il minerale, simile alla gadolinite, era divenuto una fonte di terre rare dal 1839, proveniva dal sud degli Urali, documentato dal mineralogista tedesco Gustav Rose (1798-1873).

La terra della samaria fu ulteriormente separata da Lecoq de Boisbaudran nel 1886 e un risultato simile fu ottenuto da Jean Charles Galissard de Marignac[9] mediante isolamento diretto dal samarskite. Chiamarono l’elemento gadolinio, da Johan Gadolin e il suo ossido fu chiamato “gadolinia”.

  1. É. Lecoq de Boisbaudran e J. C. Galissard de Marignac

Ulteriori analisi spettroscopiche tra il 1886 e il 1901 di samaria, ittria e samarskite di William Crookes, Lecoq de Boisbaudran e Eugène-Anatole Demarçay[10] rivelarono diverse nuove linee spettroscopiche che indicavano l’esistenza di un elemento sconosciuto. La cristallizzazione frazionata degli ossidi ha poi prodotto l’europio nel 1901.

Eugène-Anatole Demarçay

A questo punto, il numero esatto di elementi delle terre rare esistenti era ben poco chiaro: fu stimato un numero massimo di 25.

Come noto, nel 1913 l’uso degli spettri a raggi X di Henry Gwyn Jeffreys Moseley (1887-1915) permise di stabilire che gli elementi nella tavola periodica dovevano essere ordinati in base al numero atomico. Moseley stabilì anche che il numero esatto di lantanidi doveva essere 15 e che l’elemento 61 doveva ancora essere scoperto.

A questo proposito è utile menzionare gli studi di un chimico italiano, Luigi Rolla (1882-1960) [2].

Egli cercò l’elemento 61 da sabbie monazitiche brasiliane che contenevano gli altri elementi delle terre rare.

Monazite (v. nota 11)

Il metodo di separazione usato fu la cristallizzazione frazionata, basata su piccole differenze di solubilità dei sali analoghi dei vari componenti il gruppo, un processo estremamente lungo e difficile. La purificazione era controllata tramite gli spettri di assorbimento delle varie frazioni. Proprio a causa dell’andamento anomalo delle righe che si accentuavano o si indebolivano in tali spettri, Rolla ipotizzò di aver trovato almeno in tracce l’elemento cercato. Per la conferma chiese al fisico Rita Brunetti di effettuare l’analisi ai raggi X. Il risultato non fu negativo ma le quantità troppo piccole di campione analizzato non consentivano una risposta sicura. Rolla non pubblicò immediatamente i risultati ottenuti ma nel giugno del 1924 depositò all’Accademia dei Lincei un plico suggellato, per garantirsi una priorità nella scoperta in caso di analoghe rivendicazioni da parte di altri ricercatori.

Nei due anni successivi Rolla riprese l’opera utilizzando notevoli quantità di monazite che gli consentirono di avere come prodotto di partenza da separare circa una tonnellata di un miscuglio di elementi delle terre rare. Nemmeno in questo caso però si arrivò all’isolamento dell’elemento cercato. Nel giugno del 1926 comparve un lavoro di un gruppo di scienziati americani che dichiarava di aver scoperto l’elemento 61 e proponeva per esso il nome di illinium [3]. Rolla ruppe allora ogni indugio e decise di pubblicare i risultati sino allora ottenuti, rivendicando la priorità della scoperta. Fu subito dopo reso noto il contenuto del plico depositato nel 1924, in cui per l’elemento si era proposto il nome di florenzio [5].

Negli anni successivi nacque quindi una disputa accesa. In realtà nessuno dei due gruppi aveva realmente scoperto l’elemento, come Rolla più tardi ammise. L’elemento 61 infatti non sembra essere presente in natura in quantità apprezzabili e di esso solo parecchi anni dopo furono per la prima volta isolati due isotopi instabili tra i prodotti di fissione dell’uranio [6]. Successivamente l’elemento 61 fu chiamato prometio.

L’enorme quantità di materiali utilizzati e di procedure di separazione condotte da Rolla e dal suo collaboratore Lorenzo Fernandes portarono tuttavia a ottenere notevoli quantità di elementi delle terre rare di elevata purezza, consentendo un ampio studio su di essi che si tradusse, fra l’altro, in un libro che ebbe grande rilevanza (L. Rolla, L. Fernandes, Le terre rare, Bologna 1929).

Durante gli anni ’40, Frank Spedding e altri negli Stati Uniti (durante il Progetto Manhattan) svilupparono le procedure di scambio chimico ionico per separare e purificare gli elementi delle terre rare.

(continua)

 

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-voci Rare Earts

https://en.wikipedia.org/wiki/Rare-earth_element

http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-rolla_(Dizionario-Biografico)/

  1. Fontani, M. V. Orna, Luigi Rolla: un fisico camuffato da chimico., Atti del XIV Convegno di Storia e Fondamenti della Chimica, Rendiconti Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Memorie di Scienze Fisiche e Naturali, pp. 213–224.

Bibliografia

[1] N. G. Connelly and T. Damhus, ed. (2005). Nomenclature of Inorganic Chemistry: IUPAC Recommendations 2005, Cambridge: RSC Publishing, p. 51

[2] F. Calascibetta, Rolla, Luigi; in: Enciclopedia Treccani

http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-rolla_(Dizionario-Biografico)/

[3] J. Allen Harris – B. Smith Hopkins, Observations on the Rare Earths, XXIII. Element no. 61, in Journal of American Chemical Society, XLVIII (1926), pp. 1585-1594).

[4] Sopra l’elemento di numero atomico 61, in Rendiconti della R. Accademia nazionale dei Lincei, s. 6, IV (1926), 6, pp. 181-184, con L. Fernandes).

[5] Sopra un nuovo elemento: il Florenzio (numero atomico 61)ibid., pp. 498 s., con L. Fernandes).

[6] J.A. Marinsky – L.E. Glendenin – C.D. Coryell, The chemical identification of radioisotopes of Neodymium and of Element 61, in Journal of American Chemical Society, LXIX (1947), 11, pp. 2781-2785).

[1] Carl Axel Arrhenius (1757 – 1824), ufficiale dell’esercito svedese, geologo e chimico dilettante. Da non confondere con il noto chimico fisico Svante Arrhenius.

[2] Johan Gadolin (1760 – 1852), chimico, fisico e mineralogista svedese/finlandese. Gadolin scoprì una “nuova terra” contenente il primo composto di un elemento delle terre rare, che in seguito fu isolato come elemento. È anche considerato il fondatore della ricerca chimica finlandese, come secondo titolare della cattedra di chimica presso la Royal Academy di Turku, Finlandia.

[3] Wilhelm Hisinger (1766 – 1852) è stato un fisico e chimico svedese. Nel 1807, lavorando in collaborazione con Jöns Jakob Berzelius, notò che nell’elettrolisi ogni data sostanza andava sempre allo stesso polo e che le sostanze attratte dallo stesso polo avevano altre proprietà in comune. Ciò fu la dimostrazione che esisteva almeno una correlazione qualitativa tra la natura chimica e quella elettrica dei corpi.

[4] Martin Heinrich Klaproth (1743 -1817) è stato un chimico tedesco. Si formò e lavorò per gran parte della sua vita come farmacista, trasferendosi in seguito all’università. Fu un importante chimico analitico, inventore indipendente dell’analisi gravimetrica, figura di spicco nel comprendere la composizione dei minerali e a caratterizzare gli elementi. Scoprì l’uranio (1789) e lo zirconio (1789). Fu anche coinvolto nella scoperta o nella riscoperta di titanio (1792), stronzio (1793), cerio (1803) e cromo (1797) e confermò le precedenti scoperte di tellurio (1798) e berillio (1798).

[5] Carl Gustaf Mosander (1797-1858), chimico svedese, scoprì gli elementi delle terre rare lantanio, erbio e terbio.

[6] Nils Johan Berlin (1812-1891) è stato un chimico e medico svedese, che ha ricoperto varie cattedre all’Università di Lund dal 1843 al 1864. È stato il primo chimico a scrivere un libro di testo elementare, allo scopo di fornire un’istruzione scientifica di base per il grande pubblico. La sua ricerca chimica ha riguardato lo studio dei minerali, in particolare delle terre rare appena scoperte, avendo perfezionato una tecnica per separare ittrio ed erbio.

[7] Marc Delafontaine (1837/1838 –1911) è stato un chimico e spettroscopista svizzero. Nel 1878, insieme a Jacques-Louis Soret, osservarono per la prima volta l’olmio per via spettroscopica. Nel 1879, Per Teodor Cleve lo separò chimicamente da tulio ed erbio. Tutti e tre sono stati accreditati per la scoperta di questo elemento.

[8] Paul-Émile Lecoq de Boisbaudran (1838-1912), chimico francese noto per le sue scoperte sugli elementi chimici gallio, samario e disprosio. Ha perfezionato i metodi di separazione per gli elementi delle terre rare ed è stato uno dei fondatori dell’analisi spettroscopica.

[9] Jean Charles Galissard de Marignac (1817-1894), chimico svizzero il cui lavoro sui pesi atomici suggerì la possibilità dell’esistenza degli isotopi. I suoi studi sugli elementi delle terre rare hanno portato alla scoperta dell’itterbio nel 1878 e alla riscoperta del gadolinio nel 1880.

[10] Eugène-Anatole Demarçay (1852-1903), chimico francese specialista nel campo emergente della spettroscopia, rilevò la presenza dell’elemento delle terre rare Europio nel 1896 e lo isolò come ossido (europia) nel 1901. Aiutò Marie Curie a confermare l’esistenza di un altro nuovo elemento, il radio, nel 1898.

Si fa presto a dire ricicliamo….3. Elemento per elemento.

Claudio Della Volpe

 (la prima e la seconda parte di questo post sono qui e qui)

In questa terza parte del post discuteremo la situazione del riciclo guardando alla materia come divisa fra gli elementi chimici; ovviamente questo non è vero di per se perché quasi tutti gli elementi, a parte i gas nobili, sono presenti come composti e dunque manipolarne uno ne fa manipolare parecchi.

Ma questo punto di vista consente di avere un quadro partendo da un punto di vista che è familiare per i chimici, ossia quello della tavola periodica, di cui, ricordiamo oggi, il 2019 è stato dichiarato anno internazionale.

Non solo; consente di ragionare del riciclo degli elementi incrociando il riciclo in campo umano con quello che già avviene in campo naturale, ossia i grandi cicli biogeochimici, che sono familiari a parecchi di noi e fanno parte anche della cultura naturalistica della gran parte delle persone. Ragionare per elemento consente di comprendere come l’umanità abbia modificato od alterato o sconvolto alcuni dei cicli basilari della biosfera.

I cicli biogeochimici sono legati alla nascita della chimica; il primo e più famoso di essi, quello del carbonio, legato alla respirazione, e dunque intimamente connesso alla nostra vita ed alle piante, fu scoperto da Joseph Priestley ed Antoine Lavoisier e successivamente popolarizzato dalle famose conferenze sulla candela di Faraday e da Humphry Davy, l’inventore della lampada di sicurezza dei minatori.

Ma questo punto di vista è divenuto quello largamente dominante per tutti gli elementi e soprattutto è divenuto la base della concezione della biosfera come sistema chiuso ma non isolato, alimentato dal Sole e strutturato dal flusso di energia libera e di entropia determinato dai vari gradienti presenti nel sistema e dal loro accoppiamento (si vedano i tre post qui, qui e qui).

I cicli biogeochimici sono in un certo senso le principali “strutture dissipative” (per usare il bel termine coniato da Prigogine) alimentate dal flusso di energia solare e costituiscono il vero anello di congiunzione fra l’animato e l’inanimato, fra la vita e la non-vita. I cicli biogeochimici sono fatti a loro volta di cicli più piccoli e sono intrecciati fra di loro, costituendo un “iperciclo”(termine coniato da Manfred Eigen che lo usava per le molecole autoreplicantesi) ossia un ciclo di cicli, una rete di interazioni che rappresenta l’anima della biosfera terrestre, Gaia, come l’ha chiamata Lovelock. Un iperciclo non è solo una miscela di flussi di materia (e di energia), ma è una serie di interazioni di retroazione in cui ogni parte del ciclo interagisce con le altre e alla fine questo schema può essere sia la base della stabilità, dell’omeostasi del sistema, della sua capacità di adattarsi, sia della sua delicatezza, della sua sensibilità ai più diversi effetti, e dunque della sua capacità di trasformarsi ed evolvere e ovviamente di essere avvelenato e di morire. Nulla è per sempre. Panta rei .“Tutto scorre”, come già Eraclito aveva capito, ma nell’ambito di un unico sistema che Parmenide aveva ricosciuto a sua volta come l’unità della Natura. E la sintesi, secondo me è proprio la concezione dialettica della natura, quello che noi chiamiamo con la parola retroazione, con il termine iperciclo e che quantifichiamo con sistemi di equazioni differenziali (non lineari), che (lasciatemi dire) se colgono i numeri perdono l’unità dell’idea.

Questo fa comprendere come l’invasione di campo che l’uomo ha compiuto nel ciclo del carbonio incrementando lo scambio con l’atmosfera di circa un sesto, con il ciclo dell’azoto di cui oggi rappresenta un co-partner equivalente al resto della biosfera e con il ciclo del fosforo nel quale è il player di gran lunga principale, non siano fatti banali ma alterazioni profonde e probabilmente irreversibili le cui conseguenze non sono ancora ben comprese.

Ma tutto ciò è una visione unitaria del tema; meno unitaria e più dedicata agli scopi pratici ed economici è il paradigma economico dominante che teorizza la crescita infinita, un’economia non biofisica e anzi direi talmente scandalosamente finanziarizzata e lontana dalla vita di noi tutti da dover essere cambiata al più presto possibile.

La questione è che anche gli articoli scientifici non colgono spesso questa unitarietà ma analizzano solo gli aspetti “concreti”.

C’è un bel filmato segnalatomi dall’amica Annarosa Luzzatto (che è una nostra redattrice) che fa vedere come in poco più di 300 anni si siano scoperti tutti gli elementi che conosciamo.

Ebbene in un tempo anche più breve l’uso di questi elementi è divenuto normale nella nostra industria; praticamente non c’è elemento che non sia usato nel nostro ciclo produttivo, anche di quelli che non hanno un ruolo significativo nella biosfera; e, dato il nostro modo lineare di produrre, questo ha corrisposto ad un significativo incremento della “redistribuzione” di questi elementi nell’ambiente.

I dati aggiornati per circa 60 elementi sono stati raccolti dall’ONU (1) e sono mostrati nella figura sotto (tratta dalla ref. 2).>50% corrisponde a poco più del 50%, nella maggior parte dei casi. Si tratta però dei valori di riciclaggio a fine vita non del “riciclaggio” e basta, che potrebbe facilmente confondersi con le procedure di recupero INTERNE al ciclo produttivo, che non cambiano le cose e nelle quali la tradizione industriale è maestra (quasi sempre).

Il report ONU conclude che:

Because of increases in metal use over time and long metal in-use lifetimes, many RC values are low and will remain so for the foreseeable future.

A causa dell’aumento dell’uso del metallo, molti valori RC (NdA grandezza che stima il riciclo) sono bassi e rimarranno tali per il prossimo futuro.

Anche l’articolo da cui è tratto la tabella soprariportata (2) conclude fra l’altro:

The more intricate the product and the more diverse the materials set it uses, the bet- ter it is likely to perform, but the more difficult it is to recycle so as to preserve the resources that were essential to making it work in the first place.

Più il prodotto è intricato e più è vario il gruppo di materiali utilizzato, più è probabile che funzioni, ma più è difficile riciclarlo, in modo da preservare le risorse indispensabili per farlo funzionare (in primo luogo) .

Fate caso che solo meno di un quarto del cadmio viene riciclato a fine vita; il cadmio è un elemento cancerogeno acclarato; che fine fa più del 75% del cadmio che usiamo? Il mercurio, altro metallo pesante tristemente famoso, su cui ho scritto parecchio in passato, viene riciclato a fine vita per meno del 10%; che fine fa più del 90% del mercurio?

Probabilmente il piombo rappresenta una eccezione in questo quadro apocalittico e possiamo dire che quasi la totalità del piombo usato nelle batterie viene riciclato grazie ad una legislazione molto severa.

Perfino i metalli preziosi come il platino o l’oro, che hanno un elevato valore intrinseco che ne favorisce il riciclo a fine vita, sono sfavoriti dal fatto che l’uso in elettronica ne rappresenta una frazione significativa e corrisponde ad una breve vita dei prodotti e ad un elevato grado di miscelazione che rendono poco appetibile il riciclaggio a fine vita (pensateci quando comprerete il prossimo cellulare, io ho sempre comprato prodotti usati, ma non riesco sempre a convincere il resto della famiglia ed il mio notebook, da cui sto scrivendo, quest’anno compie 10 anni ed è difficile mantenerlo aggiornato, ma tengo duro) ci vogliono regole che obblighino i produttori a continuare a produrre le batterie e i pezzi di ricambio e rendere i software compatibili, due scuse che spesso impediscono di continuare ad usare prodotti perfettamente funzionanti.La figura qui sopra riporta, sebbene i dati siano di una decina di anni fa, la situazione di due metalli che sono all’estremo della capacità di recupero; da una parte il nickel che arriva al 52% di recupero a fine vita e dall’altra il neodimio che non viene affatto recuperato.

Questa è la situazione forse non aggiornatissima, ma significativa del nostro punto di partenza. Quando va bene sprechiamo almeno la metà di ciò che estraiamo, altrimenti lo sprechiamo tutto, lo usiamo una volta e lo sottraiamo all’uso delle future generazioni (figli e nipoti); ma non solo, gli sporchiamo il mondo. E prima o poi pagheremo per questo; o pagheranno loro.

Nel prossimo ed ultimo post di questa serie parleremo a fondo di qualche caso esemplare di riciclo.

Ah dimenticavo; buone feste.

(continua)

Da consultare

(1) E. Graedel et al., “Recycling Rates of Metals—A Status Report, a Report of the Working Group on the Global Metal Flows to UNEP’s International Resource Panel” (2011); www. unep.org/resourcepanel/Portals/24102/PDFs/ Metals_Recycling_Rates_110412-1.pdf

(2) Challenges in Metal Recycling Barbara K. Reck and T. E. Graedel Science 337, 690 (2012); DOI: 10.1126/science.1217501