Cattive acque.

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Claudio Della Volpe

L’avv. Robert Bilott che il NYT ha definito nel 2016 l’incubo della Dupont.

Dark waters, tradotto impropriamente in italiano “Cattive acque” è il titolo di un film del 2019, che racconta la storia di Robert Bilott, un avvocato americano che è diventato famoso per la sua lotta senza quartiere in difesa delle persone intossicate negli USA dai prodotti perfluorurati intermedi della Dupont, scaricati nella falda acquifera di Parkington. Io l’ho visto su IRIS (can. 22) e se ci state attenti potrete vederlo anche voi nelle prossime settimane.

Non è una storia inventata, è la premessa storica di ciò che sta succedendo in Italia in Veneto e in Piemonte ad opera della Miteni e della Solvay. E’ la storia fedele della vita di questo avvocato che cominciò come specialista difensore delle aziende chimiche e che poi divenne il loro grande accusatore, una volta che si rese conto della malafede e della cattiveria e della sete di guadagni e di profitto che passavano su tutto, ambiente e vita delle persone

In America la lotta si chiuse dopo parecchi anni con il pagamento di 670 milioni di dollari alle oltre 3500 persone che avevano fatto causa alla Dupont (anche per questo la Dupont è diventata oggi Chemours).

Bilott ha cominciato rappresentando in tribunale Wilbur Tennant di Parkersburg, il cui bestiame stava morendo. La fattoria si trovava a valle di una discarica nella quale la DuPont aveva scaricato centinaia di tonnellate di acido perfluoroottanoico (PFOA). Nell’estate del 1999 Bilott aveva intentato una causa federale contro la DuPont presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti per il distretto meridionale della Virginia Occidentale. In risposta la DuPont comunicò che la DuPont e l’Agenzia per la protezione dell’ambiente avrebbero commissionato uno studio sulla proprietà dell’agricoltore, condotto da tre veterinari scelti dalla DuPont e da tre scelti dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente. Quando il rapporto fu pubblicato, esso attribuiva ai Tennant la responsabilità del bestiame morto, sostenendo che la cattiva zootecnia era la sola responsabile: “cattiva alimentazione, cure veterinarie inadeguate e mancanza di controllo delle mosche“.

Nell’agosto 2001 Bilott presentò un’azione legale collettiva contro la DuPont. Ed ottenne un accordo di 671 milioni di dollari dalla DuPont per conto di più di 3.500 querelanti in Virginia Occidentale.

Dopo questa vittoria nel 2018 Bilott ha presentato una class action che “chiede un risarcimento a favore dei cittadini di tutti gli Stati Uniti” contro 3M, DuPont e Chemours. La sua causa è in corso.

https://theintercept.com/2018/10/06/dupont-pfas-chemicals-lawsuit/

PFAS Contamination in the U.S. (June 8, 2022)

Vedere il film fa bene all’anima, anche se dà un certo disturbo di stomaco, di fronte alla denuncia dei comportamenti criminali della grande azienda chimica USA.

Nel film Bilott, esprimendo la profonda ideologia individualista che permea tutto il mondo americano dice:

Noi dobbiamo proteggerci da soli, nessun’altro lo fa, né le imprese, né gli scienziati né il governo; il sistema è corrotto.

In Italia non sappiamo ancora come andrà a finire; adesso le persone interessate e che si stima abbiano nel sangue prodotti perfluorurati sono diventate oltre 350mila solo in Veneto, ma i territori inquinati dai PFAS sono almeno in Piemonte (Spinetta Marengo) e nella valle del Trissino (Veneto).

Noi in Europa abbiamo REACH, ma considerando il Veneto e Spinetta Marengo, e tutte le altre zone mostrate nella cartina dell’Europa qua sotto le cose non vanno poi tanto meglio; mi piacerebbe sentire il commento di qualcuno dei 350mila Veneti “inquinati”. Anche perché le zone apparentemente non interessate sono zone in cui non ci sono analisi; non esiste una conoscenza completa dell’inqunamento da PFAS.

Titoli di coda di Dark waters:

Si ritiene che il PFOA sia presente nel sangue di tutti gli esseri viventi del pianeta, inclusi il 99% degli esseri umani.

Cosa si può fare contro molecole che sono praticamente indistruttibili dai normali cicli naturali e che tendono ad accumularsi nei tessuti degli animali, inducendo parecchi tipi di disturbi sia sistemici che tumorali?

La risposta dell’industria chimica è stata di sintetizzare nuovi intermedi cercando accordi con le autorità di controllo, ma senza interrompere i cicli produttivi; in molti casi le nuove sostanze non erano inserite nelle liste di sostanze da controllare; al momento non risulta del tutto chiaro quali e quante sostanza perfluorurate siano impiegate nei cicli stessi e quali effetti possano avere sugli organismi.

Il 14 marzo 2023 l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha comunque stabilito dei nuovi limiti alla presenza di sei Pfas nell’acqua potabile. La concentrazione di Pfoa, Pfos e altre quattro sostanze non potrà superare le 4 parti per trilione (ppt), una quantità che gli esperti considerano comunque pericolosa per la salute, ma che è la più bassa rilevabile dai test dell’agenzia. In precedenza il limite era fissato a 70 ppt.

Nei casi in cui la soglia sarà superata, le aziende che gestiscono gli acquedotti saranno obbligate a rimuovere le sostanze dall’acqua potabile, un processo che secondo l’Epa potrebbe costare più di settecento milioni di dollari all’anno. Secondo uno studio del 2020, negli Stati Uniti l’acqua potabile usata da almeno duecento milioni di persone è contaminata da Pfas.

Se non ci saranno ricorsi, la norma entrerà in vigore a metà maggio. (New York Times, Euobserver)

Cosa succede in Europa?

Qui si cercano strade diverse e più radicali interrompendo la produzione dei perfluorurati; la questione è che si è capito che dato il numero elevato di intermedi e la difficoltà di ottenere in tempi rapidi studi di qualità sui loro effetti si preferisce una impostazione di precauzione e questa è più radicale.

C’è anche un problema di avere degli standard adeguati; ora su questa questione degli standard si è aperta una partita che abbiamo in parte raccontato in un altro post; dato che le sostanze sono coperte da brevetto e le aziende si rifiutano di rilasciare questi standard diventa impossibile fare una verifica “legale”  che non si scontri con i diritti brevettuali, in assenza di una opportuna regolamentazione, che a sua volta non esiste.

La richiesta di sospendere del tutto la produzione di perfluorurati diventa così una alternativa desiderabile con tutte le conseguenze del caso. Il 7 febbraio cinque stati europei – Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia – hanno presentato una prima proposta per una messa al bando totale dei Pfas. L’unica concessione alle obiezioni delle aziende è stata prevedere periodi di transizione pluriennali per alcuni settori.

La reazione delle aziende è ovviamente di gridare al disastro economico e produttivo tramite i loro portavoce e rappresentanti lobbistici, come Pro-K; la posizione è sostanzialmente che i prodotti finali, i polimeri perfluorurati sono sicuri e che il problema si riduce ad eliminare il rilascio di intermedi pericolosi e che questo si può fare; finora tuttavia è evidente a tutti che la cosa non è andata così e non c’è fiducia che la cosa avvenga in questo modo. La sostituzione di Gen-X a PFOA, per esempio, non ha risolto il problema, Gen-X continua ad essere tossico e presente nei rilasci e sugli effetti dei nuovi intermedi non ci sono lavori scientifici certi pubblicati da ricercatori che non abbiano conflitti di interesse; in sostanza come è avvenuto in altri casi chi pubblica su questi argomenti di solito collabora con chi produce e dunque il dubbio è legittimo.

Cosa può fare una grande società scientifica come la nostra su questo tema? Come ha proposto Francesco Neve, un collega di Unical,  nei commenti ad un precedente post dovrebbe prendere posizione sul tema, per esempio riprendere in mano la proposta di legge di iniziativa popolare che fu fatta nella passata legislatura su questi temi e che al momento non è più attiva; una discussione interna alla SCI ed un documento che prenda posizione su questi temi (un position paper come abbiamo fatto sul clima) sarebbe altamente gradito e ci consentirebbe di recuperare autorevolezza di non essere al traino di altre voci; voi che ne dite?

PS Considerate che con molta probabilità anche voi che leggete avete un qualche tipo di perfluorurato nel circolo ematico e non lo sapete esplicitamente.

PFOA, acido perfluoroottanoico

PFOS Acido perfluoroottansolfonico

FRD903

FRD902 è il sale di ammonio del FRD903

Consultati

https://it.wikipedia.org/wiki/Cattive_acque#cite_note-3

https://www.kirkusreviews.com/book-reviews/robert-bilott/exposure-bilott/#

https://thevision.com/cultura/cattive-acque-film/

https://www.ewg.org/news-insights/news-release/2023/03/study-toilet-paper-major-source-toxic-forever-chemicals

https://www.ewg.org/interactive-maps/pfas_contamination/map/

https://cen.acs.org/articles/96/i7/whats-genx-still-doing-in-the-water-downstream-of-a-chemours-plant.html

Internazionale: NUMERO 1507 DEL 14 APRILE 2023 ,

-Cosa c’è da sapere sui PFAS? R. Salvidge, L. Hosea, The Guardian, Regno Unito

-Veleni a Bruxelles , Süddeutsche Zeitung, Germania, Daniel Drepper, Andrea Hoferichter e Sarah Pilz

-Gli inquinanti eterni  Adelaide Tenaglia, Stéphane Horel, Le Monde, Francia  

Mineralizzare i PFAS.

Claudio Della Volpe

L’inquinamento da PFAS, da perfluoroalchili e derivati (si tratta di parecchie molecole alcune non ancora bene individuate) è un argomento che abbiamo affrontato in vari post che sono elencati alla fine di questo. E’ un problema di dimensione internazionale e che non si riferisce solo al nostro paese, dove appare localizzato in certe regioni, per esempio in Veneto (ma anche in Piemonte). La regione Veneto sta seguendo un piano di sorveglianza dal quale si evince che nella popolazione interessata la quota sierica di PFAS sta lentamente diminuendo, più velocemente nelle femmine che nei maschi. Parliamo, in totale, di centinaia di migliaia di persone esposte, anche se le analisi sono state accettate solo da una piccola quota.

https://www.regione.veneto.it/documents/10793/12935055/Bollettino+PFAS+Febbraio_2022_DEF.pdf/eb985d55-7096-4f84-838d-87b624f867d8

Che il problema sia globale si evince da un recente lavoro comparso su Environmental Science Technology di cui riportiamo sotto l’abstract.

Nell’abstract di questo lavoro si  scrive:

Si ipotizza che la contaminazione ambientale per sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) definisce un separato confine planetario e che questo confine è stato superato. Questa ipotesi viene testata confrontando i livelli di quattro acidi perfluoroalchilici selezionati (PFAA) (cioè perfluoroottanosolfonici) acido (PFOS), acido perfluoroottanoico (PFOA), perfluoroesano- acido solfonico (PFHxS) e acido perfluorononanoico (PFNA)) in vari media ambientali globali (ad esempio, acqua piovana, suoli e acque superficiali) con livelli orientativi recentemente proposti. Sulla base dei quattro PFAA considerati, si conclude che (1) livelli di PFOA e PFOS nell’acqua piovana spesso superano di gran lunga il livello indicato da EPA per l’uso umano per tutta la vita. I livelli di Water Health Advisory e la somma dei suddetti quattro PFAA (Σ4 PFAS) nell’acqua piovana sono spesso superiori ai valori limite danesi per l’acqua potabile basati anche su Σ4 PFAS; (2) i livelli di PFOS nelle acque piovane sono spesso superiori allo standard di qualità ambientale per le acque superficiali interne dell’Unione europea; e (3) la deposizione atmosferica porta anche a contaminare i suoli globali in modo ubiquitario e ad essere spesso al di sopra dei valori delle linee guida olandesi proposte. Si conclude, pertanto, che la diffusione globale di questi quattro PFAA nell’atmosfera ha portato al superamento del confine planetario per l’inquinamento chimico. I livelli di PFAA nella deposizione atmosferica sono particolarmente scarsamente reversibili a causa dell’elevata persistenza dei PFAA e della loro capacità di ciclo continuo nell’idrosfera, compresi gli aerosol di spruzzo marino emessi dagli oceani. A causa della scarsa reversibilità dell’esposizione ambientale ai PFAS e dei loro effetti associati, è di vitale importanza che gli usi e le emissioni di PFAS siano rapidamente limitati.

Vista la natura globale del problema, nei cui confronti non ci sono al momento azioni internazionali paragonabili a quelle che si sono avute in altri casi con l’accordo di Stoccolma per i terribili 12 o con l’accordo di Montreal-Kigali per il buco dell’ozono è importante notare cosa fa la comunità chimica a riguardo e le ricerche ci sono, di alcune abbiamo già dato conto (si veda per esempio il post del 2019 elencato sotto, un enzima che può degradare i PFAS).

L’articolo di Cousins ha avuto grande risonanza mondiale.

Sebbene alcuni PFAS siano stati gradualmente eliminati dai principali produttori già decenni fa, le misurazioni ambientali mostrano che i livelli non sono in notevole diminuzione. Gli autori spiegano che i PFAS sono molto persistenti e circoleranno continuamente attraverso diversi media ambientali e in tutto il mondo senza rompersi. Cousins et al. hanno inoltre sottolineato che con la pubblicazione di nuovi dati tossicologici, i valori delle linee guida per i PFAS nell’acqua potabile sono diminuiti drasticamente negli ultimi 22 anni man mano che vengono alla luce nuove informazioni sugli effetti dei PFAS. Negli Stati Uniti, le linee guida per il PFOA sono diminuite di 37,5 milioni di volte.

Gli autori hanno sottolineato di aver considerato solo alcune delle molte migliaia di PFAS, la maggior parte dei quali ha rischi ancora sconosciuti. Pertanto è probabile che i problemi associati ai PFAS siano molto più alti di quelli valutati nell’articolo. Martin Scheringer, uno dei co-autori del documento, ha sottolineato che “ora, a causa della diffusione globale di PFAS, i media ambientali ovunque supereranno le linee guida sulla qualità ambientale progettate per proteggere la salute umana e possiamo fare molto poco per ridurre la contaminazione da PFAS. In altre parole, ha senso definire un confine planetario specifico per i PFAS e, come concludiamo nel documento, questo limite è stato ora superato”.

Un confine planetario viene superato quando qualcosa è onnipresente, non facilmente reversibile e sconvolge i sistemi vitali della Terra. L’inquinamento chimico è uno dei nove confini planetari originariamente proposti che è stato successivamente rinominato in confine “nuove entità” (NE). Le “nuove entità” includono prodotti chimici industriali e sostanze chimiche nei prodotti di consumo (FPF riportato). Cousins e co-autori hanno descritto nel loro articolo che il confine dei NE “può essere pensato come un segnaposto per più confini planetari per i NE che possono emergere” e sostengono che i PFAS sono solo uno di questi confini.

In un altro articolo open access pubblicato su Expo Health (2022). https://doi.org/10.1007/s12403-022-00496-y da Obsekov, V., Kahn, L.G. & Trasande, L. dal titolo Leveraging Systematic Reviews to Explore Disease Burden and Costs of Per- and Polyfluoroalkyl Substance Exposures in the United States gli autori valutano i costi dell’inquinamento da PFAS.

Prove sempre crescenti confermano il contributo delle sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) al carico di malattia e alla disabilità nell’arco della vita. Dato che i responsabili delle politiche sollevano gli alti costi di bonifica e di sostituzione dei PFAS con alternative più sicure nei prodotti di consumo come barriere per affrontare gli esiti avversi sulla salute associati all’esposizione ai PFAS, è importante documentare i costi dell’inazione anche in presenza di incertezza. Abbiamo quindi quantificato i carichi di malattia e i relativi costi economici dovuti all’esposizione ai PFAS negli Stati Uniti nel 2018. Abbiamo fatto leva su revisioni sistematiche e utilizzato input meta-analitici quando possibile, identificato relazioni esposizione-risposta precedentemente pubblicate e calcolato gli aumenti attribuibili a PFOA e PFOS in 13 condizioni. Questi incrementi sono stati poi applicati ai dati del censimento per determinare i casi annuali totali di malattia attribuibili a PFOA e PFOS, da cui abbiamo calcolato i costi economici dovuti alle cure mediche e alla perdita di produttività utilizzando i dati sul costo della malattia precedentemente pubblicati. Abbiamo identificato i costi delle malattie attribuibili ai PFAS negli Stati Uniti, pari a 5,52 miliardi di dollari per cinque endpoint di malattie primarie che le meta-analisi hanno dimostrato essere associate all’esposizione ai PFAS. Questa stima rappresenta il limite inferiore, con analisi di sensibilità che rivelano costi complessivi fino a 62,6 miliardi di dollari. Sebbene sia necessario un ulteriore lavoro per valutare la probabilità di causalità e stabilire con maggiore certezza gli effetti della più ampia categoria di PFAS, i risultati confermano ulteriormente la necessità di interventi politici e di salute pubblica per ridurre l’esposizione a PFOA e PFOS e i loro effetti di interferenza endocrina. Questo studio dimostra le grandi implicazioni economiche potenziali dell’inazione normativa.

Un lavoro recentissimo che appare degno di menzione è dedicato ad un metodo poco costoso e da realizzare in condizioni non drastiche per la mineralizzazione di questi composti pubblicato su Science.

Trang et al., Science 377, 839–845 (2022)  19 August 2022

Nell’abstract gli autori scrivono:

Le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) sono inquinanti persistenti e bioaccumulabili presenti nelle risorse idriche in concentrazioni dannose per la salute umana. Mentre le attuali strategie di distruzione dei PFAS utilizzano meccanismi di distruzione non selettivi, abbiamo scoperto che gli acidi perfluoroalchilici carbossilici (PFCA) possono essere mineralizzati attraverso un percorso di defluorurazione mediato da idrossido di sodio. La decarbossilazione dei PFCA in solventi polari aprotici ha prodotto intermedi reattivi di ioni perfluoroalchilici che si sono degradati in ioni fluoruro (dal 78 al ~100%) entro 24 ore. Gli intermedi e i prodotti contenenti carbonio non sono coerenti con i meccanismi di accorciamento a catena monocarbonica spesso proposti, e abbiamo invece identificato computazionalmente percorsi coerenti con molti esperimenti. La degradazione è stata osservata anche per gli acidi carbossilici perfluoroalchilici ramificati e potrebbe essere estesa per degradare altre classi di PFAS man mano che vengono identificati i metodi per attivare i loro gruppi di testa polari.

Uno schema semplificato delle reazioni trovate è riportato nella seguente immagine; il vantaggio basico è di usare solventi poco costosi e condizioni non drastiche di reazione che corrispondono a minori costi.

Rimane tuttavia dolorosamente vero che ancora una volta la chimica è stata usata per fare enormi profitti ed introdurre beni e processi che, seppure parzialmente utili, possono avere conseguenze disastrose per l’ambiente  e dunque per noi stessi; in questo caso specifico abbiamo introdotto in grandi quantità un legame, C-F, che è pochissimo presente in natura e dunque per il quale la rete della biosfera non ha strumenti di controllo e di difesa; questo legame deve essere scartato, eliminato dalle produzioni industriali, ma deve essere ancora presente nella nostra ricerca per individuare metodi di eliminazione e di depurazione poco costosi ed efficaci.

Avevo trattato questo argomento in un articolo del luglio 2020 su C&I:

Inoltre sempre su questo argomento deve valere la regola che non ci possono essere brevetti, argomenti usabili a difesa di diritti privati e che impediscano di approfondire gli studi a riguardo (rileggetevi a questo proposito il post del 2021 sulle vongole di Chioggia)

Se la Chimica ed i chimici vogliono riguadagnare prestigio agli occhi della pubblica opinione questo è un caso utile, ma anche senza appello; se proseguiremo nella politica degli occhi bendati nei riguardi delle malefatte del profitto applicato alla chimica la nostra reputazione è destinata ad un continuo peggioramento.

Mai stato contro la ricerca o il progresso, ma sempre per una applicazione delle novità che portassero vantaggi alla collettività non a singoli e che evitassero danni inaccettabili all’ambiente. La ricerca deve essere libera ma non l’applicazione delle nuove scoperte, quella deve sottostare a regole rigide basate PRIMA DI TUTTO NON SU UNA VALUTAZIONE ECONOMICA MA sull’evitare danni alla biosfera in cui viviamo e a noi stessi. E’ anche per questo che i brevetti sono un povero e superato metodo di controllo, basato su una concezione sociale ormai insostenibile.

Lista dei post dedicati in passato all’inquinamento da perfluoroalchili.

PFAS ed effetto “lampione”(seconda parte)

Jean-Luc Wietor

la prima parte di questo post è qui

5.3 Intermezzo: altri usi

Sinora sono stati menzionati e identificati i PFAS impiegati per usi prevalentemente tecnici e alquanto oscuri. Diamo un’occhiata ad alcuni degli altri – meglio conosciuti – utilizzi (Figura 8).

I paragrafi seguenti (da 5.4 a 6) chiariranno queste applicazioni. Tenete a mente che le schiume antincendio hanno un alto potenziale di contaminazione ambientale. Anche i trattamenti superficiali (su pietra, tessili, cuoio) facilmente rilasciano frammenti di PFAS durante l’uso, a causa della grande area esposta agli elementi e della parziale degradabilità degli FT (paragrafo 6.3).Figura 8: Alcuni usi dei PFAS non spiegati in questa relazione, da sinistra a destra: schiume antincendio per incendi di petrolio, cromature, trattamenti idro- e oleo-repellenti (per superfici di cemento o pietra, tappeti, tovaglie, abbigliamento sportivo, valigie e tende), come ausilio tecnico nella produzione di fluoropolimeri come il PTFE.

Il famoso GenX Il GenX è usato da Chemours (in precedenza DuPont, in vari impianti, fra cui quello a Dordrecht in Olanda) come tensioattivo per produrre la polimerizzazione del PTFE. Il GenX ha sostituito il PFOA nel 2012 ed è stato successivamente sostituito (ma non ancora completamente) dal P1010, un tensioattivo privo di fluoro basato sul FeSO4, un tensioattivo non ionico (PPG) e uno a base di acidi grassi. Il GenX è una sorta di “C6.5” ed è registrato a nome del suo sale di ammonio (EC 700-242-3). Il termine “tecnologia GenX” indica il GenX (in forma di acido libero e di sale di ammonio), nonché il prodotto volatile della degradazione, un etere fluorurato.  

5.4. Derivati del fluoruro di sulfonile

Il rappresentante più famoso di questa classe è l’ormai bandito PFOS (C8)[1]; gli altri componenti di questa categoria si basano sui C4. Essi includono il PFBS[2] (recentemente identificato come un SVHC), come pure altri due derivati[3] registrati nella fascia di tonnellaggio 100-1000 ton/anno.

5.5. (Poli)eteri

Ben 15 sostanze sono usate come eteri a molecola piccola (di cui il GenX, vedi inserto) e monomeri per polimeri a base polietere. Queste sostanze sono spesso usate come lubrificanti e tensioattivi. Il lettore è rinviato ad una recente completa rassegna[4] di queste sostanze.

6. Sostanze fluorotelomeri (FT)

Le rimanenti 26 sostanze completamente registrate[5], che totalizzano 6000 ton/a sono probabilmente le più interessanti e recentemente hanno attratto la crescente attenzione dei regolamentatori: due valutazioni CoRAP ed una proposta per un’ampia restrizione nell’ambito del REACH per le sostanze C6. In questo caso si tratta di quelle che sono normalmente chiamate “tecnologia C6”, eppure non sono quello che logicamente ci si aspetta di trovare a metà strada tra le tecnologie C4 e C8. In particolare, la tecnologia C6 è straordinariamente versatile nel tipo di blocchi costruttivi e monomeri che può fornire. Questa versatilità, insieme ad un piccolo sotterfugio metabolico (vedi paragrafo 6.3), è la chiave del successo e della pervasività di questo tipo di composto.

Queste sostanze fluorotelomeri (FT) sono la base per la maggior parte dei prodotti idrorepellenti, oleorepellenti e antimacchia, come pure delle schiume antincendio. Cosa sono?

·    Telomerizzazione La tecnica usata, per esempio, da Chemours: pezzi di estensione (le unità blu in Figura 9 , a sinistra) vengono aggiunte ad un iniziatore (rosso) e la sostanza è completata con un componente non fluorurato (verde). Le impurità possono avere uno o tre pezzi di estensione, per es. 4:2 o 8:2. Unità di numero dispari sono possibili, ma rare. Esiste la possibilità – indesiderabile – che si verifichi una sostituzione con 5:3 o 7:2. Elettrofluorazione La precedente tecnica era usata, per esempio, nell’impianto 3M di Zwijndrecht, Belgio: una sostanza “normale” reagisce in bagno elettrolitico con acido fluoridrico (HF) e viene trasformata in sostanza fluorurata. Eventuali impurità sono dovute a reazione incompleta, a impurità presenti nel materiale di partenza o dalla rottura e diramazione della catena. Sostanze Fluorotelomeri: buono a sapersi

6.1. Un po’ di fluorochimica

I PFAS possono esser prodotti sia per elettrofluorazione o per reazione di telomerizzazione (vedi inserto), che produce le sostanze fluorotelomeri. Esse non sono perfluorurate (cioè completamente fluorurate), in quanto nella maggior parte dei casi due atomi di carbonio si legano ad atomi di idrogeno (Figura 9). Questa struttura può essere completata con un ossigeno, con un solfuro o, meno comunemente, un atomo di carbonio, il che conduce a infinite possibilità di aggiungere altre funzionalità ai fluorotelomeri.

Figura 9: struttura di fluorotelomero tipico (6:2) (a sinistra) e monomero derivato da fluorotelomero per SCFP (destra)

6.2. Esempi di FT

I FT registrati nel REACH (elenco dettagliato negli allegati 8.1 e 8.2) comprendono la maggior parte delle applicazioni più comuni elencate nel paragrafo 5.3. La situazione è sorprendentemente coerente: le varie sostanze possono essere associate ad una specifica applicazione e nessuna delle principali applicazioni rimane senza una attribuzione[6].

6.3. La storia del cuculo

L’unità fluorotelomero 6:2 è subdola quando raggiunge l’ambiente (Figura 10): la parte non fluorurata “2” dell’unità 6:2 può essere degradata per via biotica microbica o abiotica nell’ambiente, generando il PFHxA[7].

Dal momento che il PFHxA è esso stesso un PFAS (e non è assolutamente soggetto a degradazione), analisi di suoli e acque che lo rintracciano potrebbero imputare la sua presenza alle emissioni di PFHxA stesso, mentre dalle considerazioni fatte sui volumi è molto più probabile che esso sia originato da FT 6:2. Può essere utile pensare all’FT come a un cuculo che depone le uova nel nido di un altro uccello (il PFHxA).

 

Figura 10: destino ambientale di FT 6:2 e PFHxA (a sinistra) e analogia ecologica suggerita (a destra).

7.  Lezioni da imparare

7.1. Conclusioni specifiche per gli FT

  • C’è un piccolo gruppo di FT importanti (vedi anche paragrafo 8). Da loro si possono ottenere molteplici SCFP, che sono però piuttosto simili tra loro.
  • Gli FT hanno diverse applicazioni, di cui molte possono portare ad alte emissioni con l’uso.
  • Potrebbero passare inosservati a causa dei loro prodotti di degradazione.

7.2. Conclusioni generali

La dissonanza della Figura 2 (vedi paragrafo 3.1, ndt) può essere così risolta: notate come le frecce sono diventate verdi e puntano l’una verso l’altra. Anche il testo al loro interno è cambiato.

(Figura 11: conclusioni generali, come risolvere la dissonanza cognitiva, ndt).

8.    Allegati

8.1.              FT registrati con tonnellaggio 100-1000 ton/anno e usi conosciuti

8.2.              FT registrati con tonnellaggio 10-100 ton/anno e usi conosciuti

Un elenco delle sostanze registrate da 1-10 ton/anno può essere fornito – su richiesta – dall’autore. Tra gli altri, queste sostanze includono monomeri aggiuntivi (tioli e alcoli) che possono essere usati per produrre SCFP basati sul poliuretano piuttosto che sulla struttura chimica poli(meta)crilata.

Contatto

Dr Jean-Luc Wietor

Senior Policy Officer

Chemicals and Sustainable Production

European Environmental Bureau

Tel: +32 2 274 1017

Email: jean-luc.wietor@eeb.org

           Jean-Luc WIETOR

Senior Policy Officer for Industrial Production

Jean-Luc works on emissions from industrial activities to the environment, focussing on up-dating and implementing the Industrial Emissions Directive, and promoting ambition, best practices and techniques. Before he joined EEB, Jean-Luc worked in chemical R&D and marketing, in public affairs and consulting. He holds a PhD in chemistry from Cambridge University and an MBA from FOM Düsseldorf. Jean-Luc is from Luxembourg and speaks Luxembourgish, German, French, Dutch, and English as well as some Italian and Spanish.

+32 2 274 10 17

jean-luc.wietor@eeb.org


[1] Una volta ampiamente usato come tale nelle cromature o come derivato in molti diversi usi.

[2] Registrato come il suo sale di potassio (EC 249-616-3), come pure come bassi tonnellaggi di due sali di alchilamonio (alkylammonium salts) EC 700-536-1 e EC 444-440-5. C’è anche un acido sulfonico FTS, contato con gli FTSs (EC 248-850-6), vedi appendice 8.2

[3] Queste sostanze dimostrano le limitazioni di questo modello di classificazione. I composti EC 252-043-1 e EC 252-044-7 sono alcoholfunctional C4-sulphonamides che possono essere usati come monomeri, per esempio per produrre SCFP attraverso la polimerizzazione a condensazione, es. Poliuretani o polyoxetanes. C’è anche un monomero metacrilato (methacrylate monomer) basato su un C4-sulphonamide (EC 266-737-7), che è stato contato (registrato) con i monomeri per gli SCFP, perché assolve a simili funzioni.

[4] Z. Wang et al. (2020): Per- and polyfluoroalkyl ether substances: identity, production and use, Nordic Council of Ministers.

[5] Strettamente parlando, due di queste sostanze (EC 807-113-1 and 246-791-8) non sono FTS, ma sono tuttavia probabili componenti per i SCFP o i PFAE (polieteri).

[6] Una ricerca specifica su queste attribuzioni le ha confermate. Queste e ulteriori informazioni possono essere fornite – su richiesta – dall’autore.

[7] A prima vista questo meccanismo sembra implausibile, dal momento che presuppone la rottura di due legami C-F, di per sé molto forti. Tuttavia, accade proprio così, come viene descritto in modo convincente da M.J.A. Dinglasan et al., Environ. Sci. Technol. 2004, 38(10), 2857.

Smontare i mattoncini.

Mauro Icardi

L’idea del titolo mi è venuta facendo una riflessione sulla vicenda della diffusione ambientale dei PFAS.

Il problema della diffusione nell’ambiente e della concentrazione nell’organismo umano, e particolarmente nel sangue dei composti perfluoroalchilici è attualmente uno dei problemi ambientali più gravi. Grave perché ,sia in Italia e particolarmente in Veneto, ma anche in vaste zone degli Stati Uniti questo tipo di composti , massicciamente e capillarmente diffusi nell’ambiente hanno contaminato le falde acquifere da cui si prelevano acque destinate all’uso idropotabile.

Nella zona di Vicenza si è ipotizzato che la responsabilità sia da attribuire ad una azienda che utilizza questo tipo di composti organici, e che non ha gestito correttamente il ciclo di depurazione dei propri reflui.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, ed in particolare nella zona di Portsmouth nel New Hampshire la concentrazione di questi composti nell’acqua potabile sembra sia invece dovuta alle esercitazioni antincendio che venivano effettuate in una base dell’aeronautica militare degli Stati Uniti. Nell’area di questa base venivano dati alle fiamme vecchi aerei per esercitazione. Gli addetti della base provvedevano a spegnere gli incendi così provocati con estintori nei quali questo tipo di composti erano presenti. Le schiume percolavano nel terreno, e da qui hanno raggiunto le falde acquifere. Nessuno si è mai preoccupato delle conseguenze di questo tipo di attività, francamente piuttosto discutibile e gestita con una incredibile superficialità.

Se si può pensare che non fossero ancora note le caratteristiche di tossicità di questi composti, e anche vero che negli Stati Uniti venne pubblicato fin dal 1962 un bestseller dell’ambientalismo : “Primavera silenziosa” di Rachel Carson. In questo libro si parlava dell’uso indiscriminato di DDT e pesticidi.Ma in ogni caso si metteva già in luce il meccanismo di accumulo di composti tossici principalmente nelle zone adipose del corpo umano, e anche nel latte materno. Questo avrebbe dovuto essere uno spunto per l’adozione di un principio di precauzione. La capacità dell’essere umano di ragionare in prospettiva e di andare oltre ai presunti benefici immediati, e di pensare a limitare il proprio impatto sull’ambiente, sembra essere un insormontabile limite ancestrale. Quasi che molte nostre azioni siano legate al cervello arcaico, quello che ci impedisce ogni attività pensata, pianificata e guidata dalla razionalità.

Tornando ai PFAS si stanno cominciando a prendere le contromisure del caso, si stanno cercando di identificare dei limiti adeguati. Gli studi sono condotti dall’EPA (Enviromental Protection Agency) e dall’OMS. Si sa che nel caso di questi composti l’accumulo avviene principalmente a livello del sangue. Così come si è riusciti a capire che i composti a lunga catena di carbonio (in generale da otto atomi di carbonio e oltre) sono quelli che tramite il meccanismo di riassorbimento nei tubuli renali transitano nei reni e sono eliminati solo parzialmente attraverso l’eliminazione urinaria.

I composti a catena di carbonio più corta invece riescono ad essere espulsi dal corpo umano nel giro di pochi giorni. Per questa ragione i principali produttori di PFAS negli Staiti Uniti, Europa e Giappone hanno aderito ad un accordo volontario per eliminare i composti a lunga catena di carbonio quali l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e il perfluoroottanosulfonato (PFOS). Ma le aziende che non hanno aderito a questo accordo volontario continuano a produrre, importare o usare questo tipo di composti a lunga catena di carbonio. Circa 500 tonnellate/anno sono ancora prodotte dalle industrie cinesi.

I dati sulla tossicità di questi composti sono ancora oggetto di studio, ma l’accordo ha permesso di conseguire qualche risultato che da qualche speranza. Se all’inizio dei controlli sistematici la concentrazione di PFAS nel sangue dei cittadini americani era pari a circa 5 ng/lt, nel 2012 questa concentrazione è risultata all’incirca dimezzata. Composti di questo tipo, usati per realizzare tessuti impermeabili all’acqua, in particolare per uso sportivo, nella schiuma per estintori, e nei rivestimenti d i cartoni per alimenti sono come si può intuire inquinanti persistenti ed ubiqui. Oltre all’ingestione di acqua contaminata vengono molto spesso assorbiti attraverso il consumo di pesce contaminato.

La produzione di composti a catena corta che non subiscono accumulo persistente nell’organismo è una vittoria solo parziale. Perché sposta il problema a livello ambientale. Nel corso degli anni sono stati prodotti ed immessi sul mercato almeno 3000 tipologie di molecole di questo tipo. Molecole costruite sulla base del legame carbonio-fluoro, dalla grande stabilità strutturale ma praticamente impossibili a degradarsi per via naturale dalle comunità di microrganismi. L’unica possibilità attuale è la diluizione e la dispersione, che come si può ben intuire è la peggiore delle soluzioni.

A questo punto la sfida che l’industria chimica dovrebbe affrontare è quella di un nuovo modo di costruire le molecole. Pensando a renderle meno stabili, meno indistruttibili alla fine del ciclo di vita. Questa è a mio parere forse la sfida più grande che la chimica industriale deve affrontare. Ma che non può più essere rimandata per molto tempo ancora. Affrontare questo impegno avrebbe il duplice effetto di diminuire una tendenza alla cronicizzazione di effetti tossici ancora non provati, ma che potrebbero essere responsabili di gravi patologie, quali tumori, problemi ormonali e diabete. La seconda quella di cambiare l’immagine della chimica, che sconta comunque sempre in maniera non corretta una specie di peccato originale. La chimica industriale negli anni ha raccolto ed esaudito le istanze che venivano anche dai consumatori. Le belle catene di molecole che sembravano i mattoncini delle costruzioni devono essere smontate e ricomposte in altro modo. Qualcosa di simile a quanto avvenuto con la linearizzazione delle molecole dei tensioattivi. Ora che ci siamo resi conto che i rischi sono superiori, o non proporzionali ai benefici, anche i semplici cittadini possono e devono orientare le scelte delle aziende. Con le loro scelte personali. In fin dei conti nel passato ci si riparava dalle piogge con la tela cerata.

Gli ultimi attori di questo cambiamento devono essere gli esponenti della classe politica. Ritrovando l’essenza del concetto di polis, di arte del governo devono destinare fondi alla ricerca. Perché non ci sono solo i PFAS che si concentrano nell’ambiente. Anzi potrebbero essere solo la punta dell’iceberg.

 

Inquinamento da PFAS in Veneto. Riflessioni.

Mauro Icardi

La vicenda è venuta alla ribalta nel 2013. Durante l’effettuazione di ricerche sperimentali da parte del Ministero dell’Ambiente sui nuovi inquinanti “emergenti” è stata verificata la presenza di PFAS (Perfluoroalchili) in acque superficiali, sotterranee e potabili in Veneto. La zona interessata dall’inquinamento da PFAS comprendeva il territorio della bassa Valle dell’Agno (VI), e alcuni ambiti delle province di Padova e Verona .

E’ stata attivata una commissione tecnica regionale che ha provveduto ad emanare dei limiti di concentrazione ammissibili. Tali limiti non sono previsti nel D.lgs. 31/2001, che attua la direttiva 98/83/CE.

Non tutti i parametri sono presenti nelle tabelle del decreto, e questo per ovvi motivi. Il numero di sostanze che sono presenti e normate deriva dalle conoscenze scientifiche disponibili. Per queste sostanze viene fissato un valore di parametro che generalmente raccoglie gli orientamenti indicati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).

Per altri tipi di composti non normati si può applicare il principio generale presente nel Decreto 31 cioè che: “Le acque destinate al consumo umano non devono contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana

La regione Veneto dopo aver riscontrato la presenza di questi inquinanti ha richiesto il supporto tecnico -scientifico del Ministero dell’ambiente e fissato dei limiti provvisori per il PFOA (Acido perfluorottanoico) pari a 0,5 microgrammi/litro, e di 0,03 microgrammi/litro per il PFOS (Acido perfluoroottansolfonico).

Oltre a questo si sono definite misure di emergenza per i gestori del ciclo idrico che hanno installato filtri specifici a carbone attivo per la rimozione di questi inquinanti.

E’ stato attivato un sistema di sorveglianza analitica, formazione per il personale sanitario e tecnico, un regolamento per l’utilizzo dei pozzi privati ad uso potabile. I cittadini che utilizzano pozzi, sia per uso potabile che per preparazione di alimenti devono ricercare la presenza di PFAS nelle acque prelevate allo scopo.

E’ stato attuato anche il biomonitoraggio della popolazione residente che si è concluso a fine 2016 mostrando livelli significativi di PFAS nel sangue di circa 60.000 persone.

L’ARPA del Veneto ha effettuato misurazioni che hanno riguardato falde ed acque superficiali per definire l’area interessata dal problema di inquinamento e definirne la provenienza.

Individuando come la contaminazione prevalente fosse dovuta agli scarichi di uno stabilimento chimico situato a Trissino in provincia di Vicenza.

Questo il preambolo generale. Ma ci sono alcune riflessioni da fare. A distanza di decenni lascia quantomeno sgomenti verificare che ancora oggi un problema di inquinamento ambientale sia dovuto ad una gestione scorretta dei reflui di lavorazione di un’industria.

Non è accettabile questo, perché negli anni abbiamo già dovuto assistere ad altri casi emblematici, casi che ormai sono parte della letteratura. Seveso, Priolo, Marghera, Casale Monferrato, Brescia. E ne dimentico certamente altri. Questo del Veneto sarà l’ennesimo caso. Occorre trovare l’equilibrio. La riconversione dei processi produttivi nell’industria chimica è ormai un’esigenza non rimandabile ulteriormente. Allo stesso tempo non è alla chimica come scienza che si deve imputare tout court il verificarsi di questi episodi, bensì ad una visione alterata di quelli che sono i nostri bisogni reali. L’azienda ritenuta responsabile dell’inquinamento sta affrontando il processo di riconversione. E questo come è probabile comporterà un percorso probabilmente lungo e tormentato. Non sempre le esigenze di occupazione e tutela ambientale seguono gli stessi percorsi.

Questo episodio deve fare riflettere anche per quanto riguarda la gestione del ciclo idrico. L’Italia deve investire e formare tecnici. Occorre dare una forma ad una gestione che al momento è ancora decisamente troppo frammentata e dispersa. Questo non significa, come spesso molti temono, innescare un processo contrario alla volontà espressa nel referendum del 2011. Ma mettere in grado le varie realtà territoriali di gestire emergenze che (purtroppo) potrebbero anche ripetersi.

Sono necessarie sinergie tra tutti i soggetti coinvolti (ISS, ARPA, Gestori del ciclo idrico).

L’ultima riflessione è molto personale, ma la ritengo ugualmente importante. Niente di tutto questo potrà prescindere da una più capillare educazione scientifica ed ambientale. Che riguardi non solo chi sta seguendo un corso di studi, ma in generale la pubblica opinione. Un cittadino compiutamente e doverosamente informato è un cittadino che può operare scelte più consapevoli. La spinta al cambiamento, alla riconversione dei processi produttivi parte anche da questo.

Approfondimenti.http://areeweb.polito.it/strutture/cemed/sistemaperiodico/s14/e14_1_01.html

https://sian.ulss20.verona.it/iweb/521/categorie.html

http://www.arpa.veneto.it/arpav/pagine-generiche/allegati-pagine-generiche/pfas-relazioni-attivita-arpav/Contaminazione_da_PFAS_Azioni_ARPAV_Riassunto_attivita_giu2013_gen2017.pdf

Nota del post master. Si stima che nel periodo 1970-2002 siano state utilizzate nel mondo 96.000 tonnellate di POSF (perfluorooctanesulphonyl fluoride) con emissioni globali di POSF tra 650 e 2.600 ton e di 6.5-130 ton di PFOS. La maggior parte del rilascio avviene in acqua (98%) e il rimanente in aria. Non sono biodegradabili in impianti a fanghi attivi.

Chimicamente alla moda. 2.

(la prima parte di questo post è pubblicata qui).

Marino Melissano

(seconda parte)

Coloranti azoici

Detti anche azocoloranti, derivano formalmente dall’azobenzene. Presentano colori brillanti e buoni requisiti tintoriali anche se, rispetto ad altri coloranti, sono meno stabili alla luce, al lavaggio e al candeggio.

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Il Metilarancio un esempio di colorante azoico.

I coloranti Azoici sono composti caratterizzati dalla presenza di uno o più gruppi azoici (-N=N-), in genere in numero da 1 a 4 , legati a radicali fenilici o naftilici , che sono generalmente sostituiti con alcune combinazioni di gruppi funzionali che includono: ammine (-NH2), cloruri (-Cl), idrossili (-OH), metili (-CH3), nitro (-NO2), acido solfonico sali di sodio (-SO3Na+. I coloranti azoici , sintetizzati a partire da composti aromatici non sono basici in soluzione acquosa (a causa della presenza dei legami N=N, che riducono la possibilità di avere elettroni spaiati sugli atomi di azoto) , sono facilmente ridotti a idrazine e ammine primarie, funzionando come buoni ossidanti.

Di conseguenza i coloranti azoici possono rilasciare una o più ammine aromatiche che sono cancerogene in concentrazioni superiori a 30 mg/kg (0,003 % in peso). Per questo, non possono essere utilizzati come coloranti di articoli tessili e di cuoio che potrebbero entrare in contatto diretto e prolungato con la pelle.

A questo proposito esiste una delle restrizioni cogenti più conosciute. E’ stata introdotta negli anni ’90 e recepita dalla Direttiva CE 2002/61, che, oggi, è stata sostituita dal Regolamento REACH ed è stata recepita anche dalla legislazione di molti Paesi extra UE (Cina ad esempio).

Le ammine cancerogene previste sono 22.

I metodi da seguire per l’esecuzione delle prove sono ben definiti, (EN 14362-1 e EN 14362-3), eppure queste sostanze sono ancora usate, soprattutto per il loro basso costo. Siveda per esempio:

http://cirs-reach.com/Testing/AZO_Dyes.html

E’ interessante notare che in un studio analogo a quello di GP (European survey on the presence of banned azodyes in textiles) condotto nel laboratorio ISPRA per l’UE sullo specifico problema dei colorati azoici e dei loro derivati cancerogeni nei tessuti nel 2008 il numero di campioni esaminati non fu diverso come ordine di grandezza da quelli esaminati dallo studio GP e anche i risultati non si distaccarono troppo. Vale la pena di dire che in quel caso ci fu forse più attenzione ai dettagli statistici del problema, come si può evincere dall’abstract del lavoro che accludiamo in nota (Nota ISPRA 2008[i], lavoro intero scaricabile qui).

Anche nel caso dei coloranti azoici oltre il contatto diretto esiste la possibilità dell’assorbimento tramite la catena alimentare, la qual cosa indica anche un potenziale danno ambientale oltre che il ritorno “sistemico” verso la specie umana, che come super-super-predatore diventa così il collettore di tutto ciò che essa medesima scarica nell’ambiente. Questo fenomeno per i coloranti azoici è documentato in un recente testo.

The discharge of azo dyes into water bodies presents human and ecological risks, since both the original dyes and their biotransformation products can show toxic effects, mainly causing DNA damage. Azo dyes are widely used by different industries, and part of the dyes used for coloring purposes is discharged into the environment. The azo dyes constitute an important class of environmental mutagens, and hence the development of non- genotoxic dyes and investment in research to find effective treatments for effluents and drinking water is required, in order to avoid environmental and human exposure to these compounds and prevent the deleterious effects they can have on humans and aquatic organisms.

Nella ricerca GP gli azoici sono stati trovati in un numero molto limitato di casi; le immmagini e il marchio implicato in questo caso si possono trovare nel report originale.

Formaldeide

Gas incolore, dall’odore penetrante, ha la proprietà di uccidere batteri, funghi e virus, perciò viene largamente impiegato come disinfettante e conservante in moltissime produzioni industriali: mobili, vernici, truciolati, colle, detersivi, materiali isolanti. E’, inoltre, utilizzata come agente reticolante per le paste da stampa e come ausiliario nella concia delle pelli.

Essendo un gas, viene rilasciato nell’aria, provocando irritazioni e bruciori a occhi, naso e gola, ma anche cefalee, stanchezza e malessere generale. È solubile nell’acqua, perciò i lavaggi ne riducono la concentrazione fino alla totale scomparsa.

In campo tessile, la formaldeide può essere rilasciata dalle resine utilizzate per conferire agli abiti le caratteristiche antipiega. Negli anni più recenti, a livello europeo, tale rischio è estremamente contenuto, grazie ai progressi dell’industria chimica, che hanno consentito un’ottimizzazione consistente delle resine che, se correttamente applicate, sono definibili a “zero contenuto di formaldeide”.

Il primo paese a livello mondiale che ha posto restrizioni sul valore di formaldeide rilasciata da un tessuto è stato il Giappone (1973 – legge 112) che, per oggetti destinati ai bambini, ne impone di fatto l’assenza.

Gradualmente anche i paesi europei si sono adeguati e, pur con limiti diversi, esistono leggi che ne regolamentano l’utilizzo nella maggior parte di essi (Germania, Austria, Olanda, Francia, Norvegia, Finlandia, Slovenia, Repubblica Ceca).

Il metodo più noto per la determinazione della formaldeide nei tessuti trattati è il metodo giapponese JIS L 1041. Esiste tuttavia una norma europea sostanzialmente equivalente: la EN ISO 14184-1, mentre per il cuoio si applicano i metodi della serie EN ISO 17226.

A livello di Unione Europea non esiste tuttavia un divieto o una restrizione specifica applicata al settore tessile, neppure in ambito REACH. Le restrizioni sono invece previste da alcuni marchi volontari, che, di fatto, si rifanno alla legge giapponese prevedendo in genere come limiti massimi:

da 16 a 20 mg/kg (bambini); 75 mg/kg (per prodotti a contatto con la pelle); 150- 300 mg/kg

(per prodotti non a contatto con la pelle).

Comunque la formaldeide, che si usa fin dal 1923, è considerata a basso livello di concentrazione se presente nel prodotto finale a meno di 100ppm, ossia meno di 100mg/kg di tessuto.

Anche questa sostanza e’ stata trovata in alcuni jeans (https://pubs.acs.org/cen/government/88/8836gov2.html) ma non nei test effettuati da Green Peace.

Metalli pesanti

Cadmio, Piombo, Mercurio, Cromo(VI), Nichel. I metalli pesanti come cadmio, piombo e mercurio vengono utilizzati in alcuni coloranti e pigmenti. Questi metalli possono accumularsi nel corpo per molto tempo e sono altamente tossici, con effetti irreversibili, inclusi i danni al sistema nervoso (Piombo e Mercurio) o al fegato (Cadmio).

Il Cadmio è anche un noto cancerogeno.

Il Cromo(VI) che è utilizzato in alcuni processi tessili e conciari dell’industria calzaturiera è fortemente tossico, anche a basse concentrazioni, per molti organismi acquatici. Qualsiasi articolo in cuoio, o parte in cuoio di un articolo, che entri a contatto diretto o indiretto con la pelle non dovrà contenere Cromo(VI) in concentrazione superiore o uguale a 3 mg/kg di materiale “secco” (0,0003%)perché provoca, tra l’altro, dermatiti, allergie e irritazioni. La concentrazione massima indicata nel Regolamento REACH coincide con il limite di rilevabilità del metodo di prova ufficiale, EN ISO 17075.

I composti del Cromo(VI) sono stati valutati dall’IARC come cancerogeni per l’uomo.

Il Nichel rilasciato dai coloranti usati per tingere, è fortemente allergizzante.

Dal primo maggio 2015 l’Ue ha vietato la vendita di scarpe e pelletteria in cui la concentrazione del metallo superi i 3 mg/kg.

Anche Cadmio, Mercurio e Piombo sono stati classificati come ‘sostanze pericolose prioritarie’ ai sensi della normativa dell’Unione europea sulle acque e sottoposti a rigorose restrizioni.

Trovati in biancheria intima, jeans, maglie da calcio. E’ interessante notare che negli allarmi RAPEX una quota significativa è relativa all’uso di qualcuno di questi metalli, specie nei pellami per uso umano. (Infine il Nichel non dimentichiamolo è un componente delle monete che usiamo tutti i giorni e la sua presenza in concentrazione superiore a quella che può scatenare dermatiti è stata denunciata in tempi e luoghi non sospetti (http://www.nature.com/news/2002/020912/full/news020909-9.html))

Perfluorocarburi (PFC)

Composti contenenti in modo preponderante legami carbonio-fluoro. La loro particolare struttura li rende idrofobici e lipofobici, ovvero in grado di repellere l’acqua e le sostanze oleose/grasse

Sono utilizzati per rendere i tessuti e oggetti impermeabili, resistenti all’acqua e resistenti alle macchie.

E’ dimostrato che i PFC sono tossici e bioresistenti. e che un’esposizione a PFC è correlata a minore peso alla nascita nei neonati, colesterolo elevato, infiammazione al fegato, indebolimento del sistema immunitario, tumore del testicolo, obesità
Trovati in tessuti outdoor e per sportivi anche di grandi marche. D’altronde sappiamo che la produzione di questi materiali per i più disparati usi ha avuto un effetto di inquinamento notevole nelle zone di produzione, fra cui alcuni dei nostri distretti industriali (http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2016/20-aprile-2016/inquinamento-miteni-valori-pfas-superiori-limiti-240327880018.shtml).

Abbiamo velocemente tratteggiato la situazione, ma ovviamente questa descrizione non è completa non solo perché il mercato evolve ma anche perchè evolve la chimica e cambiano i metodi di produzione ed analisi e le conoscenze mediche.

Esistono e da molti anni leggi e numerosi protocolli di sicurezza (come Oeko-Tex) a cui le aziende si attengono, ma dato che nonostante tutto i problemi ci sono, come abbiamo visto, Altroconsumo, insieme a Greenpeace, ha chiesto ai marchi d’abbigliamento di andare oltre il Reg. REACH e la certificazione Oeko-Tex ed eliminare dalla produzione, gradualmente entro il 2020, tutte le sostanze tossiche.

Nasce così la Campagna DETOX.melissano22

La campagna Detox di Greenpeace chiede ai marchi della moda di impegnarsi su base del tutto volontaria nell’eliminare l’utilizzo di tutte le sostanze pericolose entro il 2020 e chiede a tutti i loro fornitori, nell’ottica della massima trasparenza, di rendere pubblici su una piattaforma online indipendente, i dati relativi allo scarico di inquinanti dalle loro strutture.

Diventa sempre più ampia la lista di aziende che hanno scelto di sottoscrivere l’impegno Detox, tra cui 35 gruppi della moda e dell’abbigliamento che rappresentano più di 100 marchi, che da soli costituiscono il 15% ,in termini di fatturato, della produzione tessile mondiale. Ciononostante anche nel nostro paese la copertura è a macchia di leopardo.

Tra gli aderenti alla campagna ci sono vari grandi gruppi e marchi internazionali, interi distrettti produttivi del tessile italiano e il numero cresce di continuo; negli ultimi giorni per esempio avrete letto sui giornali che il gruppo Gore Fabrics si è impegnato ad eliminare i derivati perfluorurati la cui produzione si è dimostrata ecologicamente nociva.

Trovate la lista delle aziende che hanno sottoscritto l’impegno Detox e il testo dello stesso su https://www.confindustriatoscananord.it/chi-siamo/attivita-e-progetti-speciali/detox

L’iniziativa Detox è del 2011 ed ha catalizzato a sua volta altre iniziative come per esempio ZHDC (Zero Discharge of Hazardous (ZDHC) Programme); è da dire che questa iniziativa va a rilento.

Infatti sebbene esista una lista di prodotti che sono bannati non dall’uso generale nel procedimento produttivo ma dall’uso intenzionale, sul sito troviamo scritto ancora oggi:

In 2014, the Programme began developing a universal set of XML-standards to organise the way key chemical data should be collected and shared for the benefit of all stakeholders.

In 2016, the Programme will release the ZDHC Chemical Registry, an online data sharing portal for chemical companies to asses a product’s compliance against ZDHC’s MRSL. Read more on the Chemical Registry here.

Ma sfortunatamente quel link “here” è vuoto.

Per comprendere uno dei limiti di questa impostazione si può fare riferimento all’uso di NPE che è il più comune degli alchilfenoletossilati; NPE non è consentito come uso diretto e questo va benissimo, ma può essere usato in prodotti che lo contengono come “impurezza” fino ad una concentrazione di 500ppm, ossia 500mg/kg di prodotto; la concentrazione permessa nel prodotto finale non deve superare 100ppm (0.01%); è chiaro che esiste una “driving force” per far diffondere l’impurezza in quantità anche superiori a quelle consentite.

Inoltre se si va a vedere in dettaglio si trova che la concentrazione massima tollerata per NPE è superiore alla concentrazione critica micellare (CMC) della sostanza; in pratica il protocollo (e la legge europea) consente di usarla ancora come tensioattivo (infatti la CMC di NPE15 è 0.1mM, ossia 22mg/kg (22ppm) contro un limite legale di 100 ppm (0.01% nella legge europea nel prodotto finale e un limite concesso nel protocollo ZHDC di 500ppm, quasi 25 volte superiore); per le varie lunghezze di catena degli etossilati la CMC varia ma è comunque inferiore a 100ppm!

Non è comunque banale fare un confronto fra i due approcci, mentre per meglio approfondire i risultati già ottenuti del progetto Detox si può guardare ai risultati degli scarichi in alcune zone industriali italiane.

Che cosa possiamo fare, prima di acquistare un capo di moda?

In realtà è necessaria un’attività di informazione, dalla filiera e al consumatore, sia sulle sostanze utilizzate e sui relativi rischi potenziali sia sull’attività di prevenzione che fanno le aziende.

Le fibre artificiali (quelle naturali modificate) e quelle sintetiche (dette anche “man-made“, sintetizzate dall’uomo), che coprono oggi il 70% dei consumi mondiali di fibre tessili, arrivano in buona parte dall’Estremo Oriente. Anche in questo blog si è detto altre volte che il primo produttore chimico mondiale con una quota del 66%, è la Cina, che esporta in Europa prodotti meno costosi e a volte già trattati con dei coloranti. Per questo motivo la semplice richiesta della etichetta “made in Italy”, di per se, non esclude prodotti confezionati in Italia, ma con tessuti importati da altri paesi i cui controlli potrebbero essere meno efficienti.

I vestiti non parlano, non ci raccontano la loro storia e le sole etichette non ci aiutano nella scelta. Cerchiamo certificazioni sulla sostenibilità (Oeko-Tex) e smart labels di “Made in colours”, con codice a barre o QR code, che permette di conoscere tutte le sostanze usate nel ciclo produttivo.

Altroconsumo consiglia i marchi che hanno firmato l’accordo Detox e che si sono classificati Detox leader mentre altri non lo hanno fatto.

Più in generale:

Evitiamo l’acquisto di indumenti con stampe plastificate ed etichettati come: antiaderente, resistente alle macchie e all’acqua.

  • Laviamo i capi prima di indossarli per la prima volta
  • Evitiamo di far indossare a bambini e adolescenti capi di dubbia qualità. Se si notano sulla pelle reazioni allergiche imputabili a un capo di abbigliamento, segnaliamolo anche all’associazione Tessile e Salute, che indicherà un laboratorio per far analizzare il capo sospetto.
  • Per lo sport ricordiamo che il sudore e il calore favoriscono l’assorbimento delle sostanze rilasciate dai tessuti e potenzialmente dannose per cui massima attenzione.
  • Evitiamo indumenti con un’etichetta mancante o contraffatta
  • In ultimo ricordiamo che il suggerimento di preferire il cotone bianco per la biancheria potrebbe essere insufficiente (infatti non possiamo escludere che un capo di colore bianco non contenga di per se sostanze potenzialmente dannose e perfino non possiamo escludere trattamenti con sostanze coloranti che esaltino il bianco, in fondo l’occhio non è uno spettrofotometro, pensiamo agli effetti di certi derivati degli stilbeni con proprietà fluorescenti e comunemente usati a questo scopo)

PIU’ ETICA E MENO ESTETICA

L’inversione di tendenza in campo ambientale non è data solo dall’avvento di prodotti che non siano dannosi per l’uomo, (così detti verdi), ma forse ancor più dai nostri comportamenti. E qui sorge ancora la domanda: siamo veramente pronti a cambiare il nostro stile di vita? Siamo convinti che occorre rinunciare a qualcosa e, che l’era del consumismo sfrenato è finita?

  • Come al solito, siamo degli autodidatti e come tali il percorso è lungo.

In Italia manca un’educazione ambientale, intesa non solo come rispetto della Natura, ma anche come educazione ad un futuro migliore, ecologicamente, economicamente e socialmente sostenibile, in cui ben si inserirebbe il vestire sostenibile.

Questa è la vera sfida su cui ognuno di noi è chiamato a dare il suo contributo e il ruolo del Chimico sia nei processi di analisi e di controllo, sia nei processi di sintesi di sostanze che sostituiscano quelle dannose, è essenziale.

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[i] Nota ISPRA 2008: A European survey on the presence of banned azodyes in textiles, in particular textile clothing, produced all over the world was performed. The selection of fabrics was planned among coloured textile products, in order to cover as many different types of fibres and type of garments as possible. The whole population was considered as target. Samples were bought in 24 Member States of the European Union, from different sources, with different compositions and various production countries or areas. Part of them was printed and some were “easy care” or Oeko-Tex labelled. A total of 116 samples were analysed with standard method EN 14362-1 (without extraction) and 72 also with standard method EN 14362-2 (with extraction). Measurements were performed in duplicate and standard deviations were calculated.

In the case of the method without extraction, 2.6 % of samples (3 out of 116) intended to be in direct contact with skin contained over 30 mg/kg of some banned aromatic amines, which is the limit established by Directive 2002/61/EC. The highest concentration (434.2 mg/kg) was measured for benzidine. Other ten samples (8.6 %) contained some prohibited aromatic amines in levels lower than the limit. Comparison between method EN 14362-1 and a slightly modified version of it showed that generally the standard method gave lower results than the ones obtained with the modified one.

Considering the method with extraction from fibres, only one sample T188 contained some banned aromatic amines, one of which, benzidine, in concentration of 39.0 mg/kg. Several not carcinogenic aromatic amines, different from the ones listed in Directive 2002/61/EC, were detected in 21 samples. They were quantified based on calibration curves of some banned aromatic amines of similar structure. Their concentration was often higher than 30 mg/kg and in certain cases even higher than 100 mg/kg. Colour fastness to washing, perspiration and saliva was evaluated for the samples which contained some forbidden aromatic amines, in order to estimate the tendency of dyes to migrate. Results showed a very high colour fastness in terms of colour degradation, except for some samples including the two positive ones T188 and T292. On the contrary, colour fastness in terms of staining was not high, in particular on polyamide. Staining was generally higher to washing at 60°C than to saliva at 37°C; the lowest staining was obtained to perspiration at 37°C. Almost no differences were observed among results obtained with acid and basic saliva or with acid and basic perspiration simulants. The three positive samples T148, T188 and T292 were among the worst specimens concerning both colour degradation and staining.

Following the recommendations of the European Chemical Bureau’s Technical Guidance Document, data were used to estimate adult and child dermal exposure to carcinogenic aromatic amines. From data obtained with the EN-14362-1 standard method and the modified one, the maximum dermal uptakes evaluated in the case of a child were 8.2 and 11.8 mg/kg bw and, in the case of an adult, 3.1 and 4.4 mg/kg bw respectively.