2 Dicembre 1973 prima domenica di austerity

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Mauro Icardi

2 Dicembre 1973 prima domenica di austerity. Io avevo undici anni, e come quasi tutti i miei coetanei ero affascinato e incuriosito delle automobili. Le osservavo e molte volte per gioco mi sedevo al posto di guida della 500 di famiglia per curiosare e fingere di essere già capace di guidare.  Ma a partire da quel giorno la nostra piccola utilitaria doveva rimanere ferma la domenica.  Per andare a trovare i nonni bisognava riprendere le abitudini di un tempo, tornare a utilizzare autobus e treno. Si applicarono quel giorno i provvedimenti scaturiti dalla riunione del Consiglio dei ministri del 22 novembre precedente per fare fronte all’emergenza energetica dovuta alla riduzione della produzione di petrolio e all’embargo deciso dai governi arabi nei confronti degli stati filo-israeliani (in particolare Usa e Paesi Bassi) come ritorsione agli esiti della guerra del Kippur. Agli italiani, come a molti altri cittadini dei paesi occidentali, furono imposte misure atte a contenere i consumi energetici che incisero sulla vita quotidiana, sia pure per un periodo limitato.

Il divieto di circolazione era esteso a tutti, anche ai rappresentanti delle istituzioni e al presidente della Repubblica. Giovanni Leone infatti, qualche giorno dopo, per andare dal Quirinale a piazza di Spagna per rendere omaggio all’Immacolata Concezione utilizzò una vecchia carrozza a cavalli. Erano esentati dal divieto di circolazione gli automezzi di vigili del fuoco, corpi di polizia, medici, i furgoni postali, i mezzi per la distribuzione dei quotidiani, le auto del corpo diplomatico.  Per gli spostamenti gli italiani potevano utilizzare treni, aerei, navi, taxi e gli automezzi delle linee pubbliche o con licenza di servizio da noleggio. Le multe per chi trasgrediva andavano da 100mila lire a un milione. Il divieto di circolazione ai mezzi motorizzati su tutte le strade pubbliche, urbane ed extra­urbane, iniziava dalle ore 0 e sino alle ore 24 di tutti i giorni festivi (domeniche o infrasettimanali).

Per me quel giorno rappresenta una sorta di imprinting culturale, una giornata di cui ho ricordi vaghi ma che sicuramente ho trascorso in bicicletta pervaso da una sensazione di libertà indescrivibile. Era irreale vedere le strade deserte e senza traffico. Mi piaceva pensare già allora, di poter circolare con meno rischi per la mia incolumità, e mi faceva sorridere che le biciclette, i monopattini, le carrozze o i carri trainati da cavalli circolassero tranquillamente in strada. Poi però iniziai a fare riflessioni diverse spinto anche dai discorsi che sentivo fare dalle persone adulte. E da allora posso dire di non avere più smesso di farle.

Nel 1972 gli idrocarburi (petrolio e gas naturale) coprivano 64,4 per cento dei bisogni energetici; soltanto vent’anni prima la percentuale era del 37,6 per cento: l’improvviso calo della disponibilità di risorse colpì in maniera più diretta il settore dei trasporti, con forti conseguenze sulla produzione e sul mercato dell’auto, uno dei simboli universali della crescita economica. Mio padre era operaio alla Fiat, e pur non lavorando nel settore auto ma in quello della costruzione dei veicoli industriali, nutriva qualche preoccupazione per il proprio futuro lavorativo.

Questi provvedimenti colpirono, oltre alla dimensione politica e sociale, anche quella psicologica. La crisi era una novità imprevista dagli economisti, dal momento che era la prima volta nella storia in cui si assisteva alla concomitanza di due fenomeni: l’inflazione e la stagnazione economica.

Per quanto riguarda l’impatto psicologico colpiva in Italia la sensazione che i tempi del boom economico fossero definitivamente tramontati, o comunque pesantemente messi in discussione.

Il boom economico produsse la creazione di nuovi posti di lavoro, la diminuzione della disoccupazione e il deciso miglioramento del reddito. Ma anche una eccessiva esplosione dei consumi, dovuta anche all’incremento demografico.  Dopo la seconda guerra mondiale, nonostante la Guerra fredda e la persistenza di elevati gradi di conflittualità in alcune aree del mondo, la società occidentale viveva una nuova fase di progresso nella convinzione di poter dominare la natura per le proprie esigenze, grazie soprattutto allo sfruttamento di risorse energetiche derivanti dai combustibili fossili.

Ma a molti erano sfuggite le premesse che si stavano lentamente concretizzando già nel decennio precedente. L’incremento continuo della domanda di petrolio si accompagnò al raggiungimento del picco produttivo da parte degli USA.  Nell’aprile 1973 Il presidente Nixon dichiarò che la domanda di energia era cresciuta così rapidamente da superare le risorse disponibili; da quel momento gli Usa diventarono importatori di petrolio, mentre l’area mediorientale, in cui si concentravano le più grandi riserve, incrementava la propria capacità produttiva. I paesi produttori però, volevano anche maggiore autonomia nella gestione delle risorse, e maggiori proventi dal sistema delle concessioni a scapito delle grandi compagnie petrolifere.

Il conflitto arabo-israeliano del 1973 costrinse i governi occidentali a varare le misure di austerity, e segna l’inizio di un deciso cambiamento rispetto al decennio precedente. Da quel momento inizia a farsi strada una nuova consapevolezza.  Chi ha vissuto quel periodo come me non può non avere capito un concetto che dovrebbe essere patrimonio di tutti: cambiare le proprie convinzioni sull’irrever­sibilità dei processi di sviluppo che poggiavano sulla crescita economica durata ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale.

Cioè accettare il concetto della limitatezza delle risorse non rinnovabili e operare una profonda trasformazione culturale e personale. Il benessere di cui abbiamo potuto godere nel mondo occidentale poggiava le proprie fondamenta su un terreno fragile. Sulla disponibilità ritenuta infinita di combustibili fossili a buon mercato. E poggiava e ancora poggia sulle profonde disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri. Situazioni di cui troppo spesso ci dimentichiamo.

Gli interventi di mitigazione di quella crisi, ovvero il sostegno alla disoccupazione, l’aumento della spesa pubblica e della tassazione finiranno per mettere in crisi il sistema del welfare state e favorire il successo delle politiche neoliberiste che a partire dai primi anni 80 diventano di fatto egemoni non solo nel mondo occidentale ma direi a livello planetario. Il consumismo diventa quasi una religione, promette di supplire ai vuoti esistenziali. La pubblicità promette e indica modelli di vita quasi irreali dove la realizzazione personale si ottiene quasi unicamente con il ricorso all’acquisto di beni materiali. Negli anni 70 c’è consapevolezza dei problemi ambientali ma nel 1983 il nuovo presidente americano Ronald Reagan si rivolge agli americani sostenendo che “non ci sono limiti allo sviluppo del progresso, quando gli uomini e le donne sono liberi di seguire i propri sogni”. E conclude dicendo “avevamo ragione”. Il presidente aveva attaccato esplicitamente quanto contenuto nel libro “I limiti dello sviluppo” semplicemente perché come molti altri politici che verranno dopo di lui, non riesce ad avere visioni di prospettiva, ma è interessato solo ad obiettivi immediati.

 A distanza di mezzo secolo forse qualcuno può vedere il periodo dell’austerity come nient’altro che un curioso fenomeno di costume.

 Le misure entrarono in vigore dal 1dicembre e durarono fino al 10 marzo del 1974, quando fu introdotta la circolazione a targhe alterne. Le restrizioni si con­clu­sero a partire da domenica 2 giugno 1974 con deroghe in occasione di Pasqua e Pa­squetta (14 e 15 aprile). Tutto sommato un periodo di tempo limitato e presto rimosso e dimenticato.

Io invece iniziai qualche tempo dopo proprio con la lettura de “I limiti dello sviluppo” un mio personale percorso di approfondimento sia del tema energetico, che più in generale dei problemi ambientali che ancora oggi dobbiamo affrontare e risolvere. Ho avuto la fortuna di avere docenti che riuscirono a farmi capire l’importanza fondamentale che lo studio della chimica e della termodinamica avrebbero avuto, per la comprensione dei temi energetici ed ambientali.

Non so se nei programmi scolastici si parli dell’austerity. Sarebbe un tema interessante da sviluppare con i ragazzi di oggi, soprattutto nell’attuale periodo. Se confrontiamo le altre misure imposte nel 1973 con quanto ci viene chiesto oggi possiamo vedere che dopo cinquant’anni le cose non sono molto differenti.

Vediamo alcune altre misure del 1973, oltre a quella più ricordata del divieto di circolazione.

  • i negozi e gli uffici pubblici dovevano anticipare la chiusura: per i primi il limite massimo autorizzato era alle ore 19, per i secondi alle ore 17.30. Anche bar, ristoranti e locali pubblici erano obbligati a chiudere alle 24, mentre cinema, teatri e locali per lo spettacolo potevano rimanere aperti fino alle 22.45, con tolleranza sino alle 23. Anche i programmi televisivi dovevano chiudersi entro le 22.45/23.00.
  • l’illuminazione pubblica dei comuni doveva essere ridotta del 40 per cento, mentre le scritte o insegne luminose commerciali poste nelle vetrine e all’interno di negozi e altri locali pubblici dovevano essere spente. L’Enel fu autorizzata a ridurre del 6-7 per cento la tensione erogata tra le ore 21 e le 7.

Come si può notare ci sono corsi e ricorsi nella storia. E se si conosce il passato si possono affrontare meglio le emergenze del presente. Fino a costruire un futuro su basi totalmente diverse da quelle che sono state seguite fino ad oggi.

Polemiche di s…..picco!

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

Questo è un post un po’ speciale; a più voci; nello scorso numero de “La Chimica e l’Industria” il primo di quest’anno 2015, il vicedirettore Ferruccio Trifirò ha esordito con un lungo editoriale intitolato “Ormai è chiaro che non siamo alla fine dei combustibili fossili“; e questo ha stimolato almeno due risposte; la prima di Vincenzo Balzani una lettera aperta che vedete qui sotto; e una seconda a firma del Comitato Scientifico di Aspo Italia (la sezione italiana dell’associazione che studia il picco del petrolio); trovate questa seconda lettera dopo quella di Balzani;  l’editoriale originale di Trifirò, col permesso di CI e dell’autore è pubblicata in fondo; ma appena prima c’è una ulteriore brevissima risposta di Trifirò alla lettera di Balzani. Tutti questi testi sono in edicola sulla rivista della SCI, La Chimica e l’Industria, che però non è aperta al pubblico, ma solo agli iscritti; dato il loro interesse e col permesso della rivista  La Chimica e l’Industria (che è oggi inviata a tutti i chimici italiani,  insieme all’altra rivista dei chimici, Il Chimico Italiano, il periodico degli Ordini)  ripubblichiamo i vari testi.

Speriamo che queste diverse posizioni siano lo stimolo per un ampio dibattito; abbiamo bisogno di chiarire a noi stessi quale sia la situazione dell’energia nel nostro paese e nel resto del mondo; lo dobbiamo prima di tutto al nostro ruolo di scienziati e di cittadini di paesi democratici; discutere dei temi importanti è d’obbligo, prima di sentire le canzoni del festival di Sanremo; e, se ci pensate, anche quelle cose lì senza l’energia, che corre a fiumi perfino su quel palco, non potremmo permettercele.

Speriamo di ospitare quanto prima anche i commenti di Sergio Carrà, che come ci anticipa Trifirò non si faranno attendere, almeno su CI; e date le posizioni anti-picco e perfino anti-global-warming del prof. Carrà ci aspettiamo una ghiotta occasione di dibattito.

Oggi poi 13 febbraio è la Giornata del Risparmio energetico e quindi quale occasione migliore per discutere di energia e petrolio?

Buona lettura.

Claudio Della Volpe

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(pubblicata su CI di questo mese)

Lettera aperta al Direttore di La Chimica e l’Industria
Bologna, 25 gennaio 2014
Caro Trifirò,
Qualche giorno fa, mentre davo un’occhiata al numero settembre/dicembre della Chimica e l’Industria appena giunto sulla mia scrivania, nel quale è pubblicato il lavoro Energia: risorse, offerta, domanda, limiti materiali e confini planetari scritto con Margherita Venturi e Nicola Armaroli [1], sul computer mi è giunta la segnalazione della pubblicazione on line del numero 1/2015 della rivista. Una rapida scorsa all’indice di questo ultimo numero mi ha fatto sobbalzare: c’è un articolo intitolato Oramai è chiaro che non siamo alla fine dei combustibili fossili, scritto proprio da te, il direttore [2]. Mentre cercavo di collegarmi al sito, mi chiedevo: ma che novità è? Possibile che qualche scienziato abbia scritto che siamo alla fine dei combustibili fossili e che ora ci sia bisogno di un articolo del direttore di C&I per controbattere? Che scopo ha un articolo con un tale titolo?
Quando ho aperto il file dell’articolo, ho capito che, ovviamente, non volevi parlare di “fine dei combustibili fossili”, ma del famoso “picco del petrolio”. Già questa confusione semantica mi ha infastidito. Non voglio entrare nel dibattito sul picco del petrolio perché so che su questo punto ti hanno già risposto o ti risponderanno in modo esauriente i colleghi di ASPO. Voglio solo notare che quando si parla di argomenti importanti [3] bisogna usare le parole giuste, altrimenti c’è il rischio non solo di dire cose inesatte, ma, peggio, di ingannare il lettore. Ad esempio, come abbiamo già avuto modo di segnalare [1], è non solo sbagliato, ma ingannevole parlare di “Produzione sostenibile di idrocarburi nazionali” come fa il documento del Governo sulla Strategia Energetica Nazionale, quando tutti sanno che gli idrocarburi sono una fonte energetica non rinnovabile e, per di più, causa di seri problemi ambientali, climatici e sanitari. Ugualmente fuorviante è quanto ha scritto Romano Prodi in un articolo sul Messaggero del 18 maggio scorso: “sotto l’Italia c’è un mare di petrolio”. Il titolo del tuo articolo è sulla stessa linea perché convoglia lo stesso messaggio, così caro alle lobby petrolifere: “usate pure i combustibili fossili, perché ce n’é in abbondanza”
Confesso che anche altri punti del tuo articolo mi hanno disturbato. Parlare di “messaggi non ben documentati dei catastrofisti” in relazione al picco del petrolio suggerisce che,
come hanno notato i colleghi dell’ASPO, sei tu a non essere adeguatamente documentato e aggiornato. In effetti, l’unica dimostrazione che riporti a favore del fatto che il picco del petrolio è lontano è che il prezzo del petrolio è crollato. Ebbene, tu stesso in precedenti articoli [4-7] hai sostenuto che, come poi tutti sanno, il prezzo del petrolio dipende da una varietà di fattori incontrollabili, non di natura tecnica e scientifica.
A proposito di documentazione, voglio informarti che anche lo shale gas americano, tanto esaltato da alcuni economisti, si sta già avvicinando al suo picco (vedi figura) nonostante i più di 800.000 pozzi trivellati, tanto da far dire ad alcuni scienziati americani “We are setting ourselves up for a major fiasco” [8].

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Altra cosa strana. Nel tuo articolo [2] non nomini mai le “energie rinnovabili”, ma parli solo di non meglio precisate “fonti alternative”: forse con qualche nostalgia per il mancato ritorno dell’Italia al nucleare [6]? Non fai cenno della grande espansione in tutto il mondo di fotovoltaico ed eolico [1], ma elogi la trasformazione di due raffinerie di petrolio in raffinerie ad olio vegetale proveniente dalla Malesia (!). Tutto ciò senza far cenno a centinaia di studi che dimostrano, sulla base di ragioni etiche, sociali, ecologiche, energetiche ed economiche, “The nonsense of biofuels” [9] e il fatto che “The production of biofuels constitutes an extremely inefficient land use” [9, 10]. E’ vero che con la raffinazione dell’olio di palma della Malesia si sono salvati, per il momento, posti di lavoro, ma col tempo si capirà che si tratta di una decisione insensata per le molte ragioni sopra accennate. Tu stesso nel dicembre 2001 avevi scritto “se si utilizzassero materie prime agricole si abbandonerebbero al loro destino, per mancanza di cibo, milioni di abitanti in Africa e nel Far East” [4]. Certo, non bisogna lasciare nessuno senza lavoro e, per questo, occorre creare reti che ammortizzino lo shock e prendere altri provvedimenti in campo sociale ed economico (ad esempio, ridurre le disuguaglianze [11]); il problema non si risolve lasciando in funzione impianti inutili (molte delle odierne raffinerie e centrali termoelettriche) o convertirli in altri non solo inutili, ma anche dannosi per l’equilibrio del pianeta. Fra non molti anni ci sarà presentato il conto di questa e altre operazioni dei nostri illuminati petrolieri.
Ovviamente, non condivido il tuo entusiasmo per le “lungimiranti e preveggenti critiche rivolte da Sergio Carrà ai catastrofisti che insistono sottolineare i danni causati dall’uso dei combustibili fossili”. Ricordo solo che questi catastrofisti sono gli scienziati dell’’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel quale anche l’Italia, per fortuna, è rappresentata da persone competenti ed esperte.
Infine, vorrei concludere con un semplice ragionamento che sarei curioso sapere se condividi. Come dici tu, “non siamo alla fine dei combustibili fossili”; d’altra parte sarebbe insensato affermare il contrario. Ammetterai però che da diversi anni il costo energetico di estrazione dei combustibili fossili, espresso dal rapporto EROEI (Energy Return On Energy Investment) è in forte aumento: da un EROEI 10-20:1 per il petrolio convenzionale, si è passati a 4-7:1 per il petrolio ottenuto con ultra deepwater drilling, 3- 6:1 per le tar sands, 3-5:1 per heavy oil, 1,5-4:1 per oil shale (kerogen) [3]. Quindi è fuori di dubbio che nei prossimi decenni potremo ottenere sempre meno energia dai combustibili fossili, ed è anche fuori dubbio che il loro uso continuerà a causare danni all’ambiente, al clima e alla salute. Se è così (sei d’accordo?), più velocemente sviluppiamo le energie rinnovabili e meglio è per custodire il pianeta ed i suoi abitanti. Questo mi sembra debba essere il messaggio da diffondere in una rivista scientifica nel 2015, non quello di abbondanti riserve di combustibili fossili.
[1] V. Balzani, M. Venturi, N.Armaroli, Energia: risorse, offerta, domanda, limiti materiali e confini planetari, La Chimica e l’Industria, sett/dic 2014, 15-21. [2] F. Trifirò, Oramai è chiaro che non siamo alla fine dei combustibili fossili, La Chimica e l’Industria – ISSN – 2015, 2(1), gennaio 2283-5458.
[3] C. Rhodes, Peak oil is not a myth, Chemistry World, March 2014, 43. [4] F. Trifirò, Il petrolio: problema tecnico o politico? Chimica e Industria, 2001, 83(10), 11.
[5] F. Trifirò, Per fortuna s’innalza il prezzo del petrolio, Chimica e Industria, 2006, 88(8), 5. [6] F. Trifirò, E’ raddoppiato il prezzo del petrolio: cosa è successo nel frattempo? Chimica e Industria, 2008, 90(7), 4.
[7] F. Trifirò, Occorrre prepararsi all’alto prezzo del petrolio più che alla sua fine, Chimica e Industria, 2008, 90(9), 4.[8] M. Inman, The Fracking Fallacy, Nature, 2014, 516, 28-30. [9] H. Michel, The Nonsense of Biofuels,Angew. Chem. Int. Ed., 2012, 51, 2516. [10] V. Balzani, Qual’è il modo più efficiente per utilizzare l’energia solare? Sapere, 2014, giugno, 16-21.
[11] F. Fubini, Drastico allargamento delle distanze sociali: il patrimonio delle dieci famiglie più ricche è uguale al patrimonio dei 20 milioni di italiani più poveri, La Repubblica, 19 gennaio 2015.
Vincenzo Balzani
Università di Bologna

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Lettera del Comitato scientifico di ASPO Italia. (pubblicata su CI di questo mese)

logoaspoitalia_lowresNon capire cosa sia il picco del petrolio, ma parlarne comunque.

(ASPO-Italia, gennaio 2015.)

Nel suo recente articolo su C&I Ferruccio Trifirò da prova di non aver capito cosa sia il Picco del petrolio né quali siano i segnali che, ragionevolmente, ne indicano l’approssimarsi. Il picco del petrolio non è la fine del petrolio. Come abbiamo ripetuto fino alla noia per anni, il picco del petrolio è il massimo di produzione ed è dunque, paradossalmente, ma altrettanto ovviamente, il momento di sua maggiore disponibilità. Il problema si verifica nel momento in cui la produzione comincia a scendere. Abbiamo già avuto un picco e i suoi effetti sono stati piuttosto dirompenti. Secondo l’IEA il petrolio convenzionale ha raggiunto e superato il picco nel 2005- 2006 come previsto da Campbell e Laherrere nel 1998 nel loro articolo su Le Scienze intitolato “la fine del petrolio a buon mercato”. piccopardi3Il petrolio convenzionale è il petrolio più facile da estrarre e, dunque, meno costoso. Che l’analisi di questi due specialisti del settore possa essere definita catastrofismo è un fatto, per noi ricercatori, del tutto irrilevante ai fini del dibattito scientifico sulla questione energetica. Il tentativo di rivitalizzare la produzione del petrolio convenzionale, andando a sfruttare giacimenti fino ad allora subeconomici ha avuto, non sorprendentemente, un costo considerevole. Sappiamo che a partire dal 2005 i costi di estrazione sono aumentati ad una media dell’11% ogni anno, per un costo totale a carico delle compagnie petrolifere di 2500 miliardi di dollari e il risultato è stato un mero rallentamento del loro declino di 1 milione di barili al giorno (Mb/d). Vale la pena di dire che dal 1998 al 2005, con una spesa di 1500 miliardi di dollari, si aggiunsero alla produzione 8,6 Mb/d. L’ulteriore sforzo per la produzione di petrolio di scisto, che non è convenzionale, attraverso la tecnica del fracking ha vaporizzato altre centinaia di miliardi di dollari. Qualcosa di profondo deve essere cambiato. Secondo le stime di vari autori l’EROEI (Energy Return on Energy Investment) del petrolio-gas USA è diminuito da valori prossimi a 100:1 (significa che con l’equivalente di 1 barile se ne estraggono 100) nella prima metà del secolo XX a valori nell’intervallo 40-20 negli anni ’70, fino alla situazione attuale in cui ha raggiunto valori inferiori a 20 e spesso molto più bassi. Questa breve discussione del tema dovrebbe convincere il lettore che è tecnicamente sbagliato considerare la produzione di liquidi combustibili come una mera somma di volumi dato che i diversi volumi, o per caratteristiche intrinseche, o per diversi valori di EROEI hanno contenuti energetici differenti. Tale prassi semplificatoria veicola un messaggio ingannevole e nasconde la reale dinamica della disponibilità di energia da idrocarburi. E passiamo ad esaminare la questione del prezzo. Una prima fase inflattiva si è verificata in prossimità e subito dopo il picco del petrolio convenzionale. La crisi economica che è seguita ha ucciso la domanda facendo precipitare il prezzo in modo sostanziale nel biennio 2008- 2009. Senza mai farlo tornare al minimo pre crisi di 20 $/b (corretto per l’inflazione). In seguito il prezzo medio si è assestato e dal 2010 è rimasto abbastanza alto da indurre i consumatori occidentali all’autocontrollo, ma non abbastanza da rendere totalmente redditizi i progetti estrattivi più complessi. Questa dinamica era già pienamente dispiegata alla fine della primavera scorsa quando con il petrolio appena sotto i 100 $/b le compagnie petrolifere iniziavano già a tagliare sugli investimenti. Il crollo del prezzo iniziato a settembre ha chiaramente messo fuori mercato la maggior parte della produzione ad alto costo, ma siccome i costi sono generalmente già stati sostenuti la produzione non inizierà a calare immediatamente. Le imprese petrolifere più deboli stanno affrontando tempi difficili mentre le più solide stanno provvedendo ad annullare o mettere in standby progetti di estrazione futuri. Il che prefigura un calo futuro della produzione. Se questo possa essere definitivo o innescare un nuovo ciclo di rialzo è materia di contesa alla quale volentieri ci sottraiamo sicuri che il futuro mostrerà quello che deve. Il fatto è che con il picco del petrolio convenzionale siamo entrati in una era completamente nuova dal punto di vista energetico, una fase di instabilità dei prezzi e della fornitura. In pratica il prezzo basso mostra si un’abbondanza di materia prima, ma l’abbondanza è determinata da una domanda debole e quindi indica un generale debolezza dell’economia globale. Da scienziati riteniamo irresponsabile fare propaganda di ottimismo quando sappiamo benissimo che la dipendenza della nostra società dal petrolio e dalle risorse fossili in generale, è tale che non prepararci per il declino per tempo, cioè con anni di anticipo, è un rischio enorme. A questo si dovrebbe aggiungere un vasto capitolo sulla necessità di uscire dal paradigma fossile per motivi strettamente ambientali, ma questa non è la sede in cui introdurre questo aspetto.

Il comitato scientifico di ASPO-Italia

24 gennaio 2015

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Risposta di Ferruccio Trifirò comparsa in questo numero di CI

Nel mio articolo ci sono già le risposte alla tua lettera ed è bene rendersi conto che ci sono settori diversi che hanno bisogno di energia: industria, trasporto e riscaldamento domestico. Il petrolio è utilizzato quasi tutto per il trasporto e solo un 10% per materie prime per la chimica, per questo quando si parla di petrolio che sta per finire occorre
pensare alle alternative ai carburanti ed in minor misura a quelle per la chimica.
Per quanto riguarda il riferimento a Sergio Carrà mi limito a segnalare la correttezza della sua previsione dell’assenza di un incombente depauperamento delle risorse di idrocarburi,
mentre per quello che concerne le sue opinioni sulle conseguenze di tale fatto ti rimando all’articolo che sarà pubblicato in uno dei prossimi numeri de La Chimica e l’Industria, dove
mostra oltre alla lungimiranza e preveggenza anche un cartesiano buon senso.

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Editoriale originale di Ferruccio Trifirò comparso nello scorso numero di CI:

ORAMAI È CHIARO CHE NON SIAMO ALLA FINE DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
di Ferruccio Trifirò
In questa nota sarà ricordato che non esiste a breve tempo nessun picco del petrolio e saranno esaminati gli aspetti positivi dell’aumento del prezzo del petrolio e gli aspetti negativi della sua diminuzione

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Con il prezzo del petrolio che è sceso a 50 dollari al barile, valore cha aveva più di dieci anni fa, oramai è chiaro che non abbiamo raggiunto il picco del petrolio né tantomeno quello degli altri combustibili fossili ed abbiamo riserve per molti anni a venire. Tuttavia possiamo affermare che l’elevato prezzo del petrolio negli anni passati ed i messaggi non ben documentati dei catastrofisti sul raggiunto picco del petrolio hanno avuto come effetto positivo la ricerca di nuovi pozzi in zone diverse, di fonti alternative,    l’aumento    della    resa dell’estrazione del petrolio dai pozzi, un aumento dell’efficienza energetica nei diversi settori di utilizzo dei combustibili fossili, una diminuzione degli sprechi e delle emissioni tossiche nelle diverse combustioni che ha fatto diventare il loro effetto negativo sull’ambiente meno pressante. Infatti molte raffinerie sono state chiuse per la diminuzione del consumo di petrolio in questi ultimi anni in Europa ed in Italia; in particolare quella di Marghera che per fortuna (per la manodopera locale) è stata trasformata in raffineria ad olio vegetale e quella di Gela che sarà trasformata ad olio vegetale per salvare l’occupazione locale, sviluppando una nuova tecnologia messa a punto dall’eni, dando anche un sostegno economico alla Malesia, che ha grandi quantità di olio di palma inutilizzato, invece che ai soliti Paesi produttori di petrolio. L’utilizzo dello shale gas e la produzione di petrolio da parte degli Stati Uniti che ha raggiunto lo scorso ottobre quella dell’Arabia Saudita, senz’altro sono stati altri fattori che hanno contribuito all’abbassamento recente del prezzo del petrolio.
Ma se nel passato l’aumento del prezzo del petrolio poteva non essere considerato negativo, l’abbassamento attuale può, come ricercatori, non essere ritenuto positivo, anche se diminuiscono i soldi che escono dalle nostre tasche, perché potrebbe bloccare tutte le ricerche su fonti alternative e fare chiudere gli impianti delle tecnologie alternative sviluppate in questi ultimi anni e concentrare i nostri soldi solo nei Paesi arabi. La ricerca di fonti alternative è il più utile deterrente per evitare un ulteriore aumento del prezzo del petrolio. Per spiegare meglio questa posizione che può sembrare nichilista (che si preoccupa per un suo ribasso e si rallegra per un suo rialzo), ho ritenuto utile ricordare alcuni editoriali che ho scritto su questa rivista diversi anni fa sul petrolio, che mi pare possano essere validi tutt’ora, e che riporterò integralmente di seguito1,2,3,4,5, e i due articoli e la conferenza tenuta all’Accademia Nazionale dei lincei sul petrolio di Sergio Carrà nel 20136,7,8, che era stato lungimirante e preveggente, criticando la posizione dei catastrofisti sulle riserve di petrolio e sui suoi effetti negativi sull’ambiente.
In ogni caso, per il principio di precauzione, diminuire il consumo di combustibili fossili può avere un effetto positivo sui cambiamenti climatici e, come aveva suggerito Benedetto XVI ai partecipanti al convegno di Durban, che non avevano trovato un accordo sull’abbattimento dei gas serra, la soluzione vincente è quella di cambiare gli stili di vita.
La Chimica e l’Industria    – ISSN 2283-5458- 2015, 2(1), gennaio
Attualità
trifi2Dicembre 2001 – Il petrolio: problema tecnico o politico?
Dopo l’11 settembre scorso, il petrolio è diventato di nuovo centrale nelle analisi dei media, nei commenti degli opinionisti e nelle preoccupazioni della gente. Ma non è chiaro se il problema sia tecnologico o politico, se siamo al declino dell’era petrolio e se si può ipotizzare, adesso, una terribile guerra per il suo controllo.
I grandi consumatori di petrolio, ciascuno utilizzante circa il 27% della produzione mondiale, sono oramai tre: il Nord-America, l’Europa (Occidentale e Orientale) e il Far-East. Tra l’altro è prevedibile che essi in futuro consumeranno maggiori quantità di carburanti per trazione e meno olio combustibile. La produzione attuale di petrolio è coperta per il 27% dai paesi del Golfo Persico, per il 15% dal Nord-America e per circa 8% da ciascuna delle altre geografiche (Sud-America, Europa, ex Urss, Far-East e Africa). Non si può dire che ci sia qualcuno, in questo momento, che possa dettare leggi nel mondo del petrolio. Le industrie petrolifere, grandi accusate del cinismo più sfacciato, sono responsabili
solo del 20% della produzione di petrolio, mentre l’altra accusata, l’Opec ne copre il 40%. È solamente per le riserve di petrolio che si nota la schiacciante predominanza dei paesi del Golfo e in particolare dell’Arabia Saudita. Questi paesi possiedono il 67% delle riserve note, contro il 10% del Sud America e meno del 5% per ciascuna delle altre aree (L. Maugeri, Il petrolio, Sperling & Kupfer e http://www.OPEC.org). Bisogna inoltre aggiungere, e questo aspetto viene spesso dimenticato, che nei paesi del Golfo Persico il costo di estrazione del petrolio è inferiore ai quattro dollari al barile, mentre in altre zone può raggiungere i quindici dollari. Infine in molti paesi arabi, da più di vent’anni, non si scavano più nuovi pozzi e quindi le loro riserve di petrolio potrebbero essere molto maggiori di quelle conosciute, mentre le industrie petrolifere si stanno svenando da anni in costose ricerche in tutte le parti del mondo. È vero che è stato trovato petrolio nel Kazakhstan e soprattutto nel mare Caspio e anche in Siberia, ma non è in gran quantità, come si è creduto, e i costi d’estrazione e di trasporto sono elevati. Ci sono diverse ipotesi sui possibili oleodotti che dovrebbero veicolare questo petrolio verso i consumatori, nel giro di cinque anni: una di queste ipotesi che in questi giorni è molto attuale, è il passaggio attraverso l’Afghanistan, ma questo paese non è per nulla la porta di un nuovo Eldorado. Quindi è bene non illudersi: nei prossimi vent’anni i paesi del Golfo saranno la sola fonte di petrolio a basso prezzo per l’umanità. Solo una stabilizzazione del suo prezzo, sopra i 30 dollari al barile, potrebbe spingere la ricerca di nuovi pozzi in altre aree geografiche o a utilizzarne altri già scoperti, ma il cui sfruttamento adesso è antieconomico.
Dopo la prima grande crisi petrolifera, quella del 1974, che ci aveva spinti a ripensare al carbone, a ristudiare la Fischer-Tropsch ed a riflettere seriamente sulla nostra debolezza strategica nei riguardi del reperimento delle materie prime, molte cose sono cambiate. A fine ottobre il prezzo del Brent (estratto nel Mare del Nord), uno dei petroli di riferimento, che è anche fra i più pregiati, è di venti dollari al barile, fra i valori più bassi dal 1974. Inoltre sulla base delle riserve accertate, sappiamo che si può andare avanti tranquillamente, ai consumi attuali di petrolio, almeno per trent’anni. In aggiunta sono stati messi a punto processi di sintesi di diesel a partire da gas naturale al prezzo equivalente di ventidue dollari al barile e nuovi processi catalitici di trasformazione di frazioni pesanti, così da poter creare raffinerie destinate solo ai carburanti e quindi ottimizzare meglio l’uso del petrolio. Sono state sviluppate tecniche di estrazione di petroli viscosi, che permettono di “raschiare” il fondo dei pozzi e recuperare il petrolio residuo. Infine il gas naturale oramai è entrato nella produzione di energia e gli alcani leggeri ad esso associato possono essere utilizzati per produrre materie prime e direttamente intermedi per la chimica. Non siamo quindi alla difesa dell’ultimo pozzo di petrolio, nessuno ci sta strozzando con gli alti prezzi o ci lesina il petrolio che desideriamo e abbiamo alternative, sia per la produzione di energia sia per quella di carburanti sintetici. Ma allora perché il petrolio è considerato così centrale e strategico nelle analisi fatte dopo l’11 settembre scorso? È il timore che potremmo dipendere nel prossimo futuro, se i prezzi rimarranno bassi, da un solo paese o area geografica per il rifornimento del petrolio, situazione che non si è mai verificata nel passato.
È consigliabile, quindi, ridurre i consumi di petrolio, utilizzare fonti alternative per la produzione di energia e produrre carburanti sintetici a partire da gas naturale. Altre vie alternative saranno difficili: se si
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consumasse più carbone, si andrebbe contro il protocollo di Kyoto; se si utilizzassero materie prime agricole si abbandonerebbero al loro destino, per mancanza di cibo, milioni di abitanti in Africa e nel Far East; se si ritornasse massicciamente sul nucleare, chi li sentirebbe i cittadini vicini agli impianti! Dovremo quindi ancora rimanere sul petrolio e spostarci sul gas naturale, sperando di non dover convivere nel prossimo futuro, con una spada di Damocle sulla testa, per l’unicità dei fornitori di materie prime. Noi chimici le soluzioni le abbiamo trovate. Il problema oramai è solo politico.
Ottobre 2006 – Per fortuna s’innalza il prezzo del petrolio. Così la chimica riparte Quando il prezzo di un barile di petrolio aveva raggiunto il prezzo di 30 dollari, mi ero sentito in dovere di scrivere un articolo, commentando che quel valore avrebbe dovuto portare a trasformazioni epocali. Infatti, era noto, che con il petrolio a 35 dollari al barile sarebbe diventato economico produrre carburanti sintetici a partire da gas di sintesi provenienti da metano o carbone. In realtà non sono avvenuti molti cambiamenti, salvo due iniziative per produrre diesel sintetico da gas naturale (GTL) in Qatar e Nigeria, l’annuncio della realizzazione di un impianto pilota dimostrativo di GTL a partire da gas di sintesi realizzato dall’Eni a Sannazzaro de’ Burgondi, la possibile realizzazione di un impianto di MTO (methanol to olefins),
concorrente agli steam cracking di frazione petrolifere, in Nigeria, di un impianto di produzione di acido acetico da etano, di formaldeide da metano in Arabia Saudita e di acrilonitrile da propano in Giappone. Questi progetti sottolineavano che l’era degli alcani leggeri come materie prime per la chimica era arrivata. In questi mesi è stato raggiunto il valore di 74 dollari al barile (sceso a 61 dollari in questi ultimi giorni) e, con lo spettro dei 100 dollari alle porte, mi chiedo ancora una volta quali cambiamenti dovremmo aspettarci.
L’alto prezzo del petrolio è senz’altro un forte incentivo al risparmio energetico e all’utilizzo di materie prime rinnovabili, anche se queste ultime non potranno che sostituire una modesta frazione, tuttavia significativa in quantità assoluta (10-20%), di quelle fossili. Per prevedere quali potrebbero essere i prossimi cambiamenti è però necessario capire che l’innalzamento del prezzo del petrolio non è dovuto, secondo quanto affermato da esperti Eni, né alla mancanza di petrolio a bassa densità e con poco zolfo (quello che in Europa chiamano Brent e negli USA Wti) né a quella di petrolio denso e con zolfo (quello chiamato non convenzionale), perché per entrambi si stimano riserve per almeno cinquant’anni, bensì alla mancanza sia di ricerca di nuovi giacimenti sia di capacità di raffinare petrolio non convenzionale. Eni, per esempio, come altre industrie, è già in possesso delle tecnologie necessarie per trasformare petrolio non convenzionale, di provenienza, tra l’altro, diversa dal Medio Oriente, in combustibile e quindi proprio l’innalzamento del prezzo del petrolio potrebbe favorirne l’entrata in massa, incentivando gli investimenti in questa direzione. L’elevato prezzo del petrolio dovrebbe, inoltre, far riflettere gli utilizzatori finali delle materie prime fossili sul loro uso ottimale: sarebbe meglio preservare il petrolio per il trasporto e per la chimica, il gas naturale per il riscaldamento domestico e per la chimica ed il carbone per l’energia.
La chimica ha sempre ha avuto un rilancio con la comparsa di nuove materie prime; è stato così nel passato, prima, quando furono disponibili enormi quantità di aromatici sottoprodotti della distillazione del carbone per ottener coke per l’industria metallurgica e, poi, per le olefine ottenute dagli scarti della raffinazione del petrolio.
Quindi risparmio energetico, utilizzo di petrolio non convenzionale, valorizzazione degli alcani leggeri presenti nel gas naturale ed utilizzo di materie prime rinnovabili, avranno un rilancio da un alto prezzo del petrolio e così la chimica potrà di nuovo ripartire. La catalisi accompagnata da nuove tecnologie reattoristiche sarà il motore di questa trasformazione.
Non possiamo cha augurarci che il prezzo del petrolio superi i 100 dollari al barile!
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Settembre 2008 – È raddoppiato il prezzo del petrolio cosa è successo nel frattempo? In un editoriale di due anni fa mi ero augurato che il petrolio raggiungesse il prezzo di 100 dollari al barile, perché prevedevo che così sarebbe ripartita la chimica e sarebbero stati realizzati nuovi investimenti nel settore. Adesso che il petrolio ha raggiunto i 147 dollari al barile e punta ai 200, è giusto chiedersi che cosa sia cambiato nel mondo e nel nostro Paese.
Occorre sottolineare che il petrolio è legato direttamente ed in maniera quasi totalizzante ai carburanti liquidi, mentre influenza indirettamente e marginalmente la produzione di energia. Il petrolio è legato all’energia indirettamente perché il suo prezzo trascina quello del gas naturale e direttamente per l’utilizzo dei residui di distillazione che
possono venire bruciati o gassificati, ma queste due fonti sono importanti per la produzione di energia elettrica solo nel nostro Paese, risultano, invece, marginali per gli altri Paesi. Anche se il petrolio non è centrale per l’energia elettrica e termica, in realtà il maggiore numero di novità in questi ultimi due anni è arrivato proprio da questo settore, sotto la spinta emotiva del suo prezzo elevato e dei cambiamenti climatici e quindi dall’esigenza di abbattere la CO2 emessa. L’innalzamento del prezzo
petrolio è coinciso, infatti, con il rilancio del nucleare in Italia e nel resto del mondo e con il coinvolgimento anche di aziende petrolifere, come l’Eni e la Total, alla loro costruzione. In Italia il governo ha deciso che saranno costruite centrali nucleari di terza generazione, quelle più moderne, a più basso costo e più sicure, anche se non si sa dove saranno costruite e conservate le relative scorie. Ci sono 13 centrali nucleari tutte intorno alle Alpi, entro un raggio di 250 km dal nostro confine… fa sorridere l’aver chiuso le nostre centrali per problemi legati alla sicurezza. Il nucleare però non è per il domani, ma per il dopodomani, non risolve i problemi attuali dell’energia e neanche quelli dell’immediato futuro. Il nostro Paese attualmente dipende per l’energia in maniera preponderante dal gas naturale e ci si è accorti finalmente che non è più possibile, per motivi economici e soprattutto strategici, rimanere legati per il suo rifornimento solo a due gasdotti provenienti dall’Algeria e dalla Russia. La buona notizia è che saranno costruiti 4 o 5 terminali per metano liquefatto nei prossimi anni. Un’altra buona notizia è che è entrata in marcia la centrale a carbone pulito di Civitavecchia che utilizza una tecnologia di ultima generazione, un impianto unico in Europa, la cui apertura è stata osteggiata per molti anni e che produrrà il 4% dell’energia nazionale e sarà a regime nel 2009. Si è parlato, nel nostro Paese, anche di aquiloni e di palloni di elio o ad idrogeno che si muovono ad alta quota utilizzando le correnti e che producono energia a basso prezzo, in maniera continua, senza deturpare il paesaggio. Inoltre sono state costruite nel frattempo nuove centrali fotovoltaiche, per esempio una è stata costruita vicino a Bologna, una delle più grandi in Italia, costituita da 450 pannelli, e sono previsti nella sola Emilia Romagna altri 200 progetti di questo tipo. Un’altra buona notizia, dopo lo scempio dei rifiuti di Napoli, è che saranno costruiti dei termovalorizzatori che, oltre alla distruzione pulita dei rifiuti, produrranno calore ed energia elettrica. Infine l’ultima notizia raccolta è che l’Enel costruirà entro il 2012 al largo delle coste siciliane una centrale eolica con 150 turbine, la prima nel Mediterraneo. Ci si sta quindi muovendo, anche nel nostro Paese, nella diversificazione delle fonti di energia e di produzione di calore per il riscaldamento domestico, strategia che è l’unica vincente.
Cosa è successo di nuovo nel settore dei carburanti liquidi? Ci sono stati diversi eventi che hanno evidenziato che questo settore è quello che dipende di più dal petrolio, come hanno dimostrato i numerosi scioperi che si sono svolti in tutta Europa da parte di operatori nel settore dei trasporti ed anche i problemi economici che sono emersi nel trasporto pubblico ed in quello aereo, dove sono stati ridotti il numero di voli e si è manifestato interesse a cambiare la flotta con aerei a minore consumo di carburanti. Ma qui il problema è puramente politico, occorre detassare le attività lavorative che sono influenzate molto dal prezzo dei carburanti, ricordando che il 65% del suo prezzo è dovuto a tassazione e solo il 17% al prezzo del petrolio. Non ci sono state, invece, novità, in quello che si era augurato nel precedente editoriale e che avrebbe fortemente coinvolto la chimica, ossia nella sintesi di combustibili liquidi a partire dal gas naturale o dal carbone; anche l’impianto previsto da gas naturale in Nigeria dell’Eni non è stato realizzato. Probabilmente i costi sono ancora elevati, il prezzo del petrolio non è stabile e la richiesta di forti
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investimenti richiede più tempo per decidere. Ma è arrivata, però, la notizia che l’Eni ha costruito due impianti pilota, uno a Milazzo e uno a Mantova, per provare la tecnologia CPO (ossidazione parziale di metano) per produrre gas di sintesi in maniera alternativa e successivamente combustibili liquidi più economici, via reazioni Fischer-Tropsch o via metanolo. Inoltre l’Eni ha realizzato a Taranto un impianto dimostrativo da 1.200 barili al giorno di trattamento di frazioni pesanti e ha intenzione di realizzare un impianto da 23.000 barili al giorno della stessa tecnologia a San Nazzaro de’ Burgondi in Lombardia. A integrazione di questa scelta strategica l’Eni sarà probabilmente coinvolta nella caratterizzazione e forse anche nello sfruttamento del più grande giacimento al mondo di petrolio pesante nella valle dell’Orinoco in Venezuela.
È utile ricordare che le riserve di petrolio pesante, scisti e sabbie bituminose, quasi per nulla utilizzate adesso, ammontano a 2.000 miliardi di barili, circa come quelle di petrolio convenzionale. Si può, quindi, concludere che il nostro Paese si sta preparando anche a difendersi dagli effetti negativi sui carburanti liquidi dell’innalzamento del prezzo del petrolio ed anche al declino delle sue riserve, cercando alternative al petrolio convenzionale.
Non ci sono stati, invece, nuovi sviluppi nella produzione di biocarburanti, se non la notizia che tre autobus viaggiano alimentati da bioetanolo a La Spezia: c’è stata anzi una levata di scudi contro queste scelte ritenute responsabili dell’aumento del prezzo dei prodotti agricoli per l’alimentazione ed è stata questa la più grossa novità. C’è in aggiunta un’accusa della Banca Mondiale contro quei Paesi che danno sostegni economici alla produzione di biocarburanti ed inoltre non si è più sentito parlare della costruzione a Livorno da parte di Eni e UOP di un impianto di idrogenazione di oli vegetali per produrre “green diesel”.
Nel settore chimico l’unica novità di rilievo è arrivata dalla Cina, dove sarà costruito un impianto gigante di MTP (methanol to propylene) per produrre propilene da trasformare in polipropilene a partire dal carbone, via gassificazione a gas di sintesi e successiva produzione di metanolo. Il propilene attualmente viene ottenuto da frazioni di petrolio e gas naturale. Non ci sono, invece, molte notizie su nuove iniziative di risparmio energetico e di carburante e di aumento dell’efficienza energetica nei diversi settori, ed è, invece, proprio su questo che occorre intervenire subito. Questo, però, è più difficile perché comporta cambiamenti di stile di vita.
In conclusione con l’aumento del prezzo del petrolio trasformazioni stanno avvenendo in tutti i settori, eccetto che sul risparmio, anche se per il momento, l’effetto più marcato e macroscopico è quello sulle nostre tasche, sui mercati finanziari e sulla borsa.
Ottobre 2008 – Quale futuro per la chimica?
Su quali materie prime utilizzare in futuro, c’è un grande dibattito in tutti i Paesi e su tutte le riviste tecniche e non, ma questo dibattito coinvolge essenzialmente il problema della produzione di carburanti e di energia, toccando marginalmente la sintesi di prodotti chimici. È opinione diffusa che fra vent’anni l’utilizzo dei combustibili fossili per la produzione di energia elettrica e termica sarà fortemente ridotto e che metano, idrogeno e etanolo saranno i carburanti maggiormente utilizzati; quindi il petrolio potrebbe essere conservato per la chimica. In aggiunta la produzione chimica si differenzia da quella dei carburanti, perché è di due ordini di grandezza inferiore, possiede un maggiore valore aggiunto, e quindi c’è sempre un vantaggio economico ad entrare in chimica, e i processi di produzione sono più complessi, quindi non facilmente realizzabili da tutti i
Paesi. Inoltre la chimica di base (polimeri e fertilizzanti) ha una produzione di due ordini di grandezza superiore rispetto a quella della chimica secondaria, perciò per questo settore, a maggior ragione, non ci saranno problemi di reperibilità di materie prime nel prossimo futuro. Le materie prime che si possono prendere in considerazione in una strategia futura per l’industria chimica sono quelle già adesso utilizzate e cioé: il petrolio convenzionale (con riserve a basso costo di estrazione), il gas naturale, il carbone, le biomasse. Queste materie prime hanno attualmente un peso diverso a seconda della zona geografica e del tipo di prodotto ottenuto, però si può senza esitazioni affermare che la maggior parte del carbonio e dell’idrogeno presente nei prodotti chimici che utilizziamo tutti i giorni, proviene dal
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petrolio. Altre materie prime che potrebbero anche essere prese in considerazione nel futuro sono il petrolio non convenzionale (scisti e sabbie bituminose e petrolio pesante), gli idrati di metano, il metano presente nelle miniere di carbone: le riserve di queste materie prime sono molto superiori di quelle utilizzate attualmente (anche se sono molto elevati i costi energetici di estrazione) e si potranno anche prendere in considerazione sia la CO2 recuperata dagli impianti di combustione, sia l’idrogeno proveniente
dalla dissociazione dell’acqua, sia i rifiuti plastici. Perfino Mendeleev caldeggiava che il petrolio non fosse utilizzato per la combustione perché è un prodotto di valore troppo elevato. A conferma di questa scarsa preoccupazione nel mondo chimico circa i limiti all’approvvigionamento delle materie prime, si può constatare che grandi cambiamenti nell’industria chimica finora non sono avvenuti, nonostante diversi anni fa si dicesse che il prezzo del barile di petrolio che avrebbe innescato il cambiamento era di 35 dollari. Questo valore limite è stato spostato a 50, poi a 80, in seguito a 100: ora siamo arrivati a 147 e la chimica non ne sembra traumatizzata. Forse si aspetta che si stabilizzi il prezzo del petrolio, infatti è gia sceso in meno di un mese sotto quota 90, ma quello che frena ogni possibile cambiamento è il fatto che non siamo in realtà vicini alla sua fine o a una diminuzione della sua offerta e i costi di produzione dei primi intermedi con le nuove materie prime sono ancora molto costosi. Per potere utilizzare nuove materie prime occorre abbassarne il prezzo e l’ideale sarebbe ottenerle come sottoprodotti di altre industrie, in particolare di quella dei carburanti, come succede attualmente per il petrolio, o che vengano prodotte in grandi impianti per il loro utilizzo, per esempio come carburanti, come si verifica per l’etanolo. Per la chimica non c’è nessun limite a breve termine al reperimento delle materie prime, ci sono solo opportunità diverse che localmente possono essere sfruttate, per produrre prodotti a ridotto impatto ambientale ed anche a minor prezzo.
trifi5Novembre 2008 – Occorre prepararsi all’alto prezzo del petrolio più che alla sua fine Appena due mesi fa in un editoriale, commentando il fatto che in due anni il prezzo del petrolio era raddoppiato raggiungendo il valore di 147 dollari al barile e che secondo il parere di molti esperti stava puntando a 200, avevo scritto che non c’era assolutamente da preoccuparsi, almeno per la produzione di energia elettrica e per il riscaldamento, perché oramai diverse erano le alternative, rinnovabili e non, al petrolio sviluppate nel mondo ed anche nel nostro Paese. Un mese fa, in un numero dedicato ai limiti delle risorse e quindi al previsto raggiungimento del picco del petrolio, ancora nell’editoriale, avevo ricordato che anche per la chimica non c’era assolutamente da preoccuparsi per l’approvvigionamento futuro
delle materie prime, perché le quantità di petrolio utilizzate sono molto inferiori di quelle destinate alla produzione di carburanti ed inoltre è possibile sfruttare altre fonti fossili con tecnologie già ben collaudate o fonti rinnovabili per le quali, per le quantità in gioco, non c’è grande concorrenza con l’alimentazione. Adesso, solo dopo due mesi, ci troviamo con il prezzo del petrolio più che dimezzato a 61 dollari, invece che puntare sui 200 come molti catastrofisti avevano profetizzato, e ci si chiede se possiamo scrivere di non preoccuparsi anche per la produzione di carburanti, l’utilizzo principale di questa materia prima fossile, e se possiamo sperare che il famoso picco del petrolio, che avverrà inesorabilmente, si stia però allontanando nel tempo.
La prima cosa che risulta evidente è che l’alto prezzo del petrolio fosse dovuto solo a speculazione finanziaria, che non fosse condizionato dalla domanda e dall’offerta, e che quindi il petrolio non si sta affatto esaurendo, così come tutte le altre fonti fossili attualmente utilizzate. L’aumento del prezzo, infatti, non era coinciso con una diminuzione della sua offerta, ma solo con un aumento della sua domanda da parte di India e Cina. Anzi alcuni mesi fa l’Arabia Saudita aveva acconsentito ad aumentarne la produzione e solo ora che il prezzo si è dimezzato l’OPEC (l’associazione di produttori che copre il 40% della produzione mondiale di petrolio) ha deciso di diminuirla, così come Iran e Venezuela avevano richiesto, già quando era andato sotto i 100 dollari. L’estrazione del petrolio costa circa 5 dollari al barile nel Golfo Persico, 20 dollari nel mare Nord e 35 dollari in giacimenti di petrolio pesante, quindi per i Paesi produttori i margini di guadagno sono ancora abbondanti. Proprio questo dovrebbe spingere alla ricerca di nuovi giacimenti, al
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migliore sfruttamento di quelli esistenti, a trovare alternative per la produzione dei carburanti e a migliorare l’efficienza energetica dei motori. E quindi, in definitiva, è proprio l’elevato prezzo del petrolio che aiuta a prepararsi con saggezza ed in largo anticipo alla sua inesorabile fine. È bene ricordare che le riserve accertate di petrolio convenzionale sono 1.028 miliardi di barili, mentre quelle di altre fonti fossili in miliardi di barili di petrolio equivalente sono 1.080 per il gas naturale, 1.950 per il petrolio non convenzionale, 6.100 per gli idrati del metano, 1.000 per il metano associato al carbone e 5.000 per il carbone. Il mondo consuma circa 30 miliardi di barili all’anno, quindi è facile verificare quanti anni dobbiamo aspettare per la scomparsa del petrolio, tuttavia ci sono anche altre riserve fossili prevedibili. Infatti, quelle riportate sono le riserve accertate, ma le stime recenti dell’AIE hanno valutato riserve di almeno altri 1.600 miliardi di barili. Basti pensare che in Italia abbiamo trovato petrolio in Basilicata a 4.000 metri di profondità ed a Trecate (BG) a 6.000 metri e questi sono tra i pozzi più profondi al mondo. Esplorazioni a tappeto sono state fatte solo negli Stati Uniti ed in Canada, ma pochissime negli altri Paesi ed alcune sono iniziate solo dopo il 2006 con l’innalzamento del prezzo del petrolio, un forte incentivo a cercarne dell’altro. Le stime accertate di riserva di petrolio attualmente sono superiori a quelle di trent’anni fa ed il picco di petrolio ipotizzato da Hubbert si è spostato nel corso degli anni. Secondo Leonardo Maugeri, direttore “Strategie e sviluppo” dell’Eni, cercare la cifra definitiva delle riserve di petrolio è un mistero come il santo Gral, perché è realmente difficile valutare con sicurezza la quantità di petrolio nel sottosuolo: infatti non ci sono dei laghi sotterranei, facili da caratterizzare, ma in gran parte ci sono strati di roccia imbevuti di petrolio e non ci sono ancora tecniche affidabili per la valutazione accurata di tali quantità.
Secondo il presidente dell’Opec, l’algerino Chakib Khelil, di riserve di petrolio ce ne sono per almeno 50/100 anni e che più che il picco del petrolio ai Paesi produttori fa paura il picco della domanda, ossia la riduzione delle richieste di petrolio, perché si sarà passati ad altre fonti energetiche, e per il petrolio succederà come per il carbone, del quale sono rimaste ancora enormi riserve, da quando è stato soppiantato dal petrolio. Khelil inoltre crede che la teoria del picco del petrolio proposta da Hubbert sia vanificata dal fatto che quest’ultimo non ha tenuto conto del progresso tecnologico che ha aumentato le riserve ed ha permesso di trovare petrolio in posti prima mai pensati (per esempio al largo in fondali marini) e di sfruttare meglio i giacimenti ora attivi.
C’è attualmente un grande impegno delle industrie petrolifere, compresa l’Eni, nella ricerca per aumentare l’efficienza di estrazione ed il recupero dei giacimenti in esaurimento, nel mettere a punto nuove tecniche per individuare e sfruttare giacimenti collocati in profondità, nel trasportare gas naturale da lunghe distanze e nel trasformarlo in situ in prodotti liquidi ed infine nell’estrarre in maniera economica petrolio pesante e trasformarlo in petrolio convenzionale. Solo il 35% di petrolio può essere estratto dai giacimenti con le tecnologie attuali, ma nel futuro questa cifra aumenterà senz’altro; inoltre solo il 30% dei bacini sedimentari dove può essere trovato petrolio è stato accuratamente investigato. Quindi è chiaro che un giorno il petrolio finirà, ma questo momento sembra ancora molto lontano. Non solo le riserve di petrolio sono maggiori di quanto previsto, ma possiamo ottenere carburanti liquidi da gas naturale, da carbone, da rifiuti, da biomasse e da sabbie e scisti bituminosi con tecnologie ben collaudate e potranno essere messi sul mercato carburanti meno inquinanti alternativi al gasolio ed alla benzina, come il metano, l’etanolo, il DME, il biodiesel e l’H2. È dunque importante razionalizzare da subito i consumi di carburante e per questo
dobbiamo tenere conto anche delle ipotesi di chi vede il picco del petrolio molto vicino, perché questi messaggi possono essere una forte spinta al risparmio. È utile ricordare che nei progetti di sostenibilità di molte industrie chimiche c’è proprio l’impegno di mettere a punto nuovi materiali che rendano gli autoveicoli più leggeri per ridurre i consumi di energia e di utilizzare trasporti più leggeri per i loro prodotti. Avvicinandosi al picco del petrolio non solo occorre risparmiare sulle quantità di carburanti utilizzate, ma anche investire nella ricerca di nuovi carburanti alternativi o in nuove vie di sintesi a partire da materie prime non tradizionali, perché questa e l’unica via per calmierare il prezzo del petrolio. Il vero prezzo del petrolio è quello dei prodotti alternativi che possiamo mettere a punto. Non è alla fine del petrolio che dobbiamo prepararci, in maniera prioritaria, ma al suo elevato prezzo. Così, come teme il presidente dell’OPEC, se troveremo alternative ai carburanti attuali e alle loro vie di sintesi, potranno rimanere in futuro enormi quantità di petrolio non vendute, che, se il prezzo sarà accettabile, potremo utilizzare per la chimica.
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Adesso, però, la paura è nell’abbassamento del prezzo del petrolio perché questo frena i progetti sui carburanti alternativi.
Conclusioni
Molte delle previsioni che erano state fatte nel passato non si sono avverate. Sembrava che dovesse ripartire il nucleare in Italia ed in Europa ma non è ripartito. Sembrava che dovesse partire la sintesi di carburanti liquidi da gas naturale ed una chimica da paraffine e non sono partite. Sarebbe dovuta partire una nuova centrale a carbone a Porto Tolle, la più avanzata al mondo con sequestrazione della CO2, ma non è stata autorizzata. Si sarebbero dovuti realizzare molti rigassificatori ma sono stati realizzati solo i due di Adria e Livorno. Sarebbe dovuto arrivare altro gas naturale con nuovi gasdotti ma la loro costruzione non è ancora terminata. Sta per partire la realizzazione delle due bioraffinerie di Marghera e Gela a partire da olio vegetale, ma solo perché la Comunità Europea ha imposto di utilizzare una percentuale ben definita di biocarburanti per il 2020. In campo chimico ci sono stati diversi utilizzi di biomasse come materie prime, ed il nostro Paese ha dato un contributo significativo, ma non perché costassero di meno o fossero più disponibili, ma per la migliore qualità dei prodotti e per la semplificazione dei processi di trasformazione. Solo in Italia si è sviluppata una produzione significativa di energia elettrica mediante fotovoltaico a seguito di notevoli incentivi statali. Per il futuro, per adesso, non si possono fare previsioni.
BIBLIOGRAFIA 1 F. Trifirò, Chimica e Industria, 2001, 83(10), 11. 2F. Trifirò, Chimica e Industria, 2006, 88(8), 5. 3F. Trifirò, Chimica e Industria, 2008, 90(7), 4. 4F. Trifirò, Chimica e Industria, 2008, 90(8), 4. 5F. Trifirò, Chimica e Industria, 2008, 90(9), 4. 6S. Carrà, Chimica e Industria, 2013, 95(7), 72. 7S. Carrà, Chimica e Industria, 2013, 95(8), 87. 8S. Carrà, Convegno “La sfida del Terawatt: quale ricerca per l’energia del futuro?”, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 5-6 novembre 2013.
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Il picco del petrolio, nonostante tutto.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luca Pardi, Primo Ricercatore CNR Pisa, Presidente di Aspo-Italia

Capita spesso di trovare articoli di stampa in cui si mostra di non aver capito cosa sia il Picco del petrolio ne quali siano i segnali che, ragionevolmente, ne indicano l’approssimarsi. Il picco del petrolio non è la fine del petrolio. Come abbiamo ripetuto fino alla noia per anni, il picco del petrolio è il massimo di produzione ed è dunque, paradossalmente, ma altrettanto ovviamente, il momento di sua maggiore disponibilità. Il problema si verifica nel momento in cui la produzione comincia a scendere.

Il fenomeno dell’esaurimento esiste per ogni risorsa che venga sfruttata ad una velocità superiore a quella di rigenerazione. Da questo punto di vista si può dire che non esistano risorse che siano rinnovabili o non-rinnovabili in assoluto. Il diagramma in figura 1 mostra i tempi di rigenerazione delle principali categorie di risorse naturali e le mette in relazione ai tempi storici e alla dimensione temporale della vita umana, rappresentata dall’area di colore grigio che va dalle decine di anni ai millenni. [Bihouix (2010]

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Figura 1. Tempi di rigenerazione delle risorse terrestri.

E’ abbastanza ovvio notare che per risorse i cui tempi di rigenerazione si misurano nelle decine e centinaia di milioni di anni si possa parlare di non-rinnovabilità in senso stretto. Che queste risorse siano soggette ad un picco è un fatto ineluttabile. [C. Della Volpe. (2013), L.Pardi (2014)]

Abbiamo già avuto un picco e i suoi effetti sono stati piuttosto dirompenti. Alla metà degli anni ’10 di questo secolo abbiamo raggiunto e superato il picco del petrolio convenzionale che, fino ad allora forniva oltre il 60 % dei consumi mondiali. Il petrolio convenzionale è solo una parte del petrolio che è, a sua volta, una parte di tutti i liquidi combustibili (Figura 2). Esso corrisponde anche al petrolio facile da estrarre e, dunque, meno costoso.

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Figura 2. Tutti i liquidi combustibili secondo la classificazione IEA. [R.G. Miller (2014)]

E’ l’IEA che a partire dal 2010 ha iniziato ad ammettere l’evento dopo anni di militanza negazionista sul picco, presumibilmente indotta dai governi dell’OCSE da cui è controllata e non dai suoi valenti tecnici. (Figura 3 Proiezioni IEA 2013) Il petrolio convenzionale ha raggiunto e superato il picco nel 2005- 2006 come previsto da Colin Campbell e Jean Laherrere nel 1998 nel loro articolo su Le Scienze intitolato “la fine del petrolio a buon mercato”.

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Figura 3: Produzione di petrolio nelle proiezioni IEA del 2013 (WEO 2013).

Il tentativo, in parte riuscito, di rivitalizzare la produzione della categoria del convenzionale, andando a sfruttare giacimenti più piccoli e dispersi, più profondi e tecnicamente problematici, meno accessibili sia dal punto di vista geografico che geostrategico ha avuto un costo considerevole. Quelli che sommariamente potremmo far entrare nella categoria che in figura 2 è indicata come: “fields yet to be developed” e “yet to be found”. Sappiamo che a partire dal 2005 i costi di estrazione sono aumentati ad una media dell’11% ogni anno per un costo totale a carico delle compagnie petrolifere di 2500 miliardi di dollari solo per sostenere la produzione di questa categoria pregiata di liquidi combustibili, il risultato è stato un mero rallentamento del loro declino che dai 70 Mb/d al picco è sceso a circa 67 Mb/d. Vale la pena di confrontare questo sforzo con quello che dal 1998 al 2005, con una spesa di 1500 miliardi di dollari, aggiunse alla produzione 8,6 Mb/d. L’ulteriore sforzo per la produzione di petrolio di scisto attraverso la tecnica del fracking ha vaporizzato altre centinaia di miliardi di dollari.[S. Kopits (2013)]

Una delle caratteristiche dei liquidi classificati in Figura 2 è quella di essere sostanzialmente diversificati per proprietà, origine, costi economici ed energetici. Dal punto di vista fisico ed economico uno dei parametri dirimenti dovrebbe essere l’EROEI (Energy Return on Energy Investment) che quantifica il costo energetico della risorsa. Da questo punto di vista un barile di petrolio ottenuto dalle sabbie bituminose o dai nuovi giacimenti di olio di scisto del Texas e del Nord Dakota non vale quanto un barile di petrolio convenzionale. Perché i due differiscono sostanzialmente nel costo energetico, cioè nell’energia che deve essere spesa per estrarli che, in modo complesso e non sufficientemente indagato in campo economico, si rispecchia poi nel costo economico di estrazione. I costi di estrazione sono la rappresentazione economica del sottostante fisico definito dall’EROEI. Il rapporto fra costi di estrazione e prezzo di mercato determina la redditività dei diversi progetti petroliferi e, dunque, la situazione economica delle compagnie petrolifere e dei paesi produttori.

Secondo le stime di vari autori [C. Hall (2014)] l’EROEI del petrolio e gas USA è diminuito da valori prossimi a 100:1 (significa che con l’equivalente di 1 barile se ne estraggono 100) nella prima metà del secolo XX a valori nell’intervallo 40-20 negli anni ’70, fino alla situazione attuale in cui ha raggiunto valori inferiori a 20 e spesso molto più bassi.

Questa breve discussione del tema dovrebbe convincere il lettore che è quantomeno tecnicamente problematico presentare la produzione di liquidi combustibili affatto diversi (cfr Figura 2) come una mera somma di volumi dato che i diversi volumi, o per caratteristiche intrinseche, o per diversi valori di EROEI hanno contenuti energetici differenti. Questo feticismo volumetrico induce un falso punto di vista sulla realtà energetica globale.

E passiamo ad esaminare la questione del prezzo.

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Figura 4. Andamento dei prezzi del greggio WTI e Brent dal 1988.[E. Mearns 2015)]

Nei primi anni di questo secolo si è osservato un chiaro effetto inflattivo all’avvicinarsi del picco del convenzionale. La fine del petrolio a buon mercato si stava avvicinando. Tale effetto è stato chiarissimo in prossimità e subito dopo il picco del petrolio convenzionale. La crisi economica che è seguita ha ucciso la domanda facendo precipitare il prezzo in modo sostanziale nel biennio 2008- 2009. In realtà anche qui le cose sono più complesse. Scrive Euan Mearns: The 2008 oil price crash began in early July. It was not until 16th September, about 10 weeks later, that the markets crashed. The recent highs in the oil price were in mid-July but it was not until WTI broke through $80 at the end of October that the industry became alert to the impending price crisis. [E. Mearns (2015)]

Dunque gli eventi del 2007- 2008 potrebbero essere ricostruiti come segue: dopo oltre un lustro di crescita ininterrotta del costo dell’energia nell’economia globale si è inceppato qualcosa, la domanda ha vacillato e il prezzo del greggio ha iniziato la prima caduta, la crisi dell’economia reale doveva essere già dispiegata quando i mercati finanziari l’hanno registrata. I primi segnali di crisi dovevano essere già attivi nel 2007 quando è iniziata la crisi dell’immobiliare americano cosiddetto “dei subprime”.

Si deve notare che comunque al minimo del 2009 il prezzo non ha mai toccato il minimo pre crisi di 20 $/b (corretto per l’inflazione). In seguito il prezzo medio si è assestato e dal 2010 è rimasto abbastanza alto da indurre i consumatori occidentali all’autocontrollo, ma non abbastanza da rendere totalmente redditizi i progetti estrattivi più complessi. Questa dinamica era già pienamente dispiegata alla fine della primavera scorsa quando con il petrolio appena sotto i 100 $/b le compagnie petrolifere iniziavano già a tagliare sugli investimenti. Il crollo del prezzo iniziato a settembre ha chiaramente messo fuori mercato la maggior parte della produzione ad alto costo, ma siccome i costi sono generalmente già stati sostenuti la produzione non inizierà a calare immediatamente. Verranno annullati o messi in standby progetti di estrazione futuri. Il che prefigura un calo futuro della produzione. Se questo possa essere definitivo o innescare un nuovo ciclo di rialzo è materia di contesa.

A tutto quanto detto andrebbe aggiunto un vasto capitolo per trattare dell’impellente necessità di tagliare le emissioni di gas serra e dunque il consumo di combustibili fossili, e di quanto eventuali serie politiche di contenimento delle emissioni si riverberano in campo economico e finanziario. Non è questo lo spazio in cui sviluppare questa tematica strettamente legata a quella trattata. Sul tema della sostenibilità delle riserve note di combustibili fossili ci limitiamo ad indicare un fondamentale contributo uscito su Nature nelle scorse settimane. Con una lettera di Christopher McGlade e Paul Ekins Nature affrontava il tema del legame fra sfruttamento delle risorse di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) e l’impegno politico dei governi a non superare il limite dei 2 C del riscaldamento climatico da qui al 2100. Sulla base di una indagine sulle riserve esistenti i due estensori del lavoro concludono che un terzo delle riserve di petrolio, la metà di quelle di gas e l’80% di quelle di carbone dovrebbero essere lasciate dove sono da qui al 2040. Lo sviluppo delle risorse non convenzionali appare come non compatibile con l’impegno di non far aumentare la temperatura oltre i 2 C. [C. McGlade (2015)]

Il fatto è che con il picco del petrolio convenzionale siamo entrati in una era completamente nuova dal punto di vista energetico, e siccome senza energia non si fa nulla, la novità coinvolge tutta la società umana. A questo va aggiunto che tale situazione economica si sta verificando nel momento stesso in cui si manifestano sempre più chiaramente i segni di una crisi ecologica senza precedenti determinata dal superamento dei confini biofisici del pianeta da parte del metabolismo sociale ed economico umano. [W. Steffen (2015)]

L’ottimismo preconcetto è di scarsa utilità in questo frangente, purtroppo anche molti scienziati e tecnici tendono ad aderire a questo atteggiamento “spensierato”, magari tacciando di catastrofismo chi invece non lo fa. Il dibattito scientifico e mediatico sul tema è molto ricco [L. Pardi (2015)] in questo momento dal nostro punto di vista è essenziale distinguere il grano dalla pula, l’analisi razionale da quella ideologica.

Bibliografia.

  1. Bihouix (2010). Philippe Bihouix, Benoît de Guillebon, Quel futur pour les métaux?, EDP Sciences.
  1. Della Volpe (2013). Claudio della Volpe. Risorse e riserve- prima parte. Sul blog di Aspo-Italia Risorse Economia Ambiente. 12 febbraio 2013. https://aspoitalia.wordpress.com/2013/02/12/risorse-e-riserve-prima-parte/ (consultato il 24 gennaio 2015)

 

  1. Pardi (2014). Luca Pardi. Il paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve italiani di idrocarburi. Lu:Ce edizioni. 2014.

R.G. Miller(2014). R.G. Miller and S.R. Sorrel. The future of oil supply. Phil. Trans. R. Soc. A:2014372 20130179;DOI: 10.1098/rsta.2013.0179. 2 December 2013. http://rsta.royalsocietypublishing.org/content/future-oil-supply (consultato il 24 gennaio 2015)

WEO (2013). International Energy Agency. World Energy Outlook 2013, 12 novembre 2013. http://www.worldenergyoutlook.org/publications/weo-2013/ (consultato il 15 giugno 2014).

  1. Kopits (2014). Steven Kopits. Global Oil Market Forecasting: Main Approaches & Key Drivers, Center on Global Energy Policy, Columbia University, 11 febbraio 2014. (consultato il 24 gennaio 2014). http://energypolicy.columbia.edu/events-calendar/global-oil-market-forecasting-main-approaches-key-drivers (consultato il 24 gennaio 2015)
E. Mearns (2015). Euan Mearns. World Oil Production Statistics. Oil Price. 8 jan 2015.

http://oilprice.com/Latest-Energy-News/World-News/World-Oil-Production-Statistics.html (consultato il 24 gennaio 2015)

C. Hall (2014). Charles A.S. Hall et al. EROI of Different Fuels and the Implications for Society. Energy Policy. 64 (2014), 141. http://www.researchgate.net/publication/259175194_EROI_of_Different_Fuels_and_the_Implications_for_Society (consultato il 24 gennaio 2015)
  1. Mc Glade(2015). Christophe McGlade Paul Ekins The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2 C. Nature. Vol 517. Jan 8 2015. doi:10.1038/nature14016.

W. Steffen (2015). Will Steffen et al. Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet, Science. Jan 15, 2015. DOI: 10.1126/science.1259855.

L. Pardi (2015). Luca Pardi. Il fondo del barile n.7. Risorse Economia Ambiente. ASPO- Italia. 17 gennaio 2015. https://aspoitalia.wordpress.com/2015/01/17/il-fondo-del-barile-7/ (consultato il 24 gennaio 2015).

Il paese degli elefanti (recensione)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

Luca Pardi Il paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve italiane di idrocarburi Lu.Ce. Editore, 2014, 120p, 12 euro

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a cura di C. Della Volpe

Questo libro l’ho visto nascere e quindi capirete che mi sta particolarmente a cuore. L’autore è un nostro collega del CNR di Pisa, Luca Pardi.

Luca, ha un problema: porta un nome ingombrante; suo padre, Leo Pardi, fondatore dell’etologia italiana (ha scoperto fra l’altro l’organizzazione gerarchica della vespa), ha lasciato un marchio indelebile nella cultura nazionale ed internazionale; suo fratello, Francesco, professore di architettura, è senatore. Con queste premesse a Luca non è bastato diventare primo ricercatore CNR, avere un robusto H-index. Ci si è dovuti arrendere alla tradizione e, una volta diventato Presidente di ASPO-Italia, Luca ha dovuto anche scrivere un libro.

Scherzo a parte, scherzo che mi permetto perchè considero Luca un amico, questo libro nasce da uno scontro di interviste di qualche mese fa. In un articolo uscito il 18 maggio su Il Messaggero, il prof. Romano Prodi, parlando del mancato sfruttamento delle risorse di idrocarburi (gas e petrolio) italiani, si rammaricò per l’occasione perduta. affermando che potremmo arrivare ad una produzione di idrocarburi di 22 Mtep di produzione (annua) entro il 2020, corrispondente ad un raddoppio della produzione attuale.

L’Italia non è povera di petrolio e di metano, ma assurdamente, preferisce importarli piuttosto che aumentare la produzione interna. Nell’ultimo decennio abbiamo pagato all’estero 500 miliardi di euro per procurarci la necessaria energia. Un lusso che non possiamo più permetterci.”

e Luca, intervistato da Ambiente Italia gli rispose così

(http://aspoitalia.wordpress.com/2014/05/25/ambiente-italia-pardi-risponde-a-prodi/):

…dire che in Italia abbiamo quantità ingenti di idrocarburi, è come dire che l’Italia è il paese degli elefanti perché ci sono due elefanti allo zoo di Pistoia e altri 4 o 5 sparsi nei circhi. Non è così! E’ una frottola….”

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Dopo qualche ora gli dissi a voce, per telefono, che erano anni che non sentivo quella parola per TV, frottola, e che detta con quel suo inestinguibile accento mi era oltremodo piaciuta.

Tanto bastò, ahimè, per spingerlo sulla strada della scrittura.

Il libro di Luca Pardi è, come dichiara il suo autore, un libro militante, come altri che ho recensito di recente, (penso qui al libro di Balzani e Armaroli, Energia per l’astronave Terra); Luca fa parte di questa recente genìa di scienziati militanti. Uno scienziato militante, è uno strano, corrucciato, ma simpaticissimo individuo, che non rinuncia ad essere nè l’uno, nè l’altro e a tentare di conciliare la freddezza apparente della scienza, la neutralità e l’oggettività del dato, con la passione della politica; ma attenti, intendo qui della Politica, quella con la P maiuscola, l’attenzione alla collettività ed ai suoi problemi, problemi sviscerati con riga e compasso, con il calcolo e la misura e alle strategie per risolverli, strategie basate sulle più recenti invenzioni culturali dell’Umanità (la retroazione per esempio, ossia la causalità applicata al servizio dei sistemi complessi), con un occhio che vede lontano, non certo alle prossime elezioni, ma a decenni o secoli da oggi.

Il libro inizia con una affermazione che può sconvolgere menti impreparate:

Il Picco del petrolio, del gas, del carbone e di ogni altra risorsa non rinnovabile è semplicemente il massimo storico di produzione della risorsa. Ad esso sono soggette tutte le risorse energetiche, ma anche i metalli su cui si fonda l’industria moderna e altri materiali, ad esempio quelli che si utilizzano nelle costruzioni: le sabbie, i materiali lapidei, il marmo, il travertino, e quelli usati in agricoltura come i fosfati.

Per essere precisi non è necessario che una risorsa sia non-rinnovabile affinché incontri a causa del suo sfruttamento un Picco di produzione. In effetti anche una risorsa rinnovabile, come è l’acqua dolce che si rinnova continuamente attraverso l’evaporazione, la condensazione e le precipitazioni, sfruttata ad un tasso superiore a quello di ricostituzione naturale può andare incontro ad una dinamica di depauperamento analoga a quella di una risorsa non rinnovabile.

Questa peculiare idea, che si può far risalire all’altro toscanaccio, Ugo Bardi, chimico fisico anche lui, che ne ha dato una analisi riferita all’olio di balena (Bardi U. ,Energy Sources, Part B, 2:297–304, 2007) è una di quelle che lasciano il segno.

La rinnovabilità dipende dalla velocità con cui si usa la risorsa, non dalla sua intrinseca natura.

Il libro parte dall’energia come viene presentata nei grandi mezzi di informazione, rifacendo la storia degli approcci che i vari governi hanno avuto nei confronti del problema e delle risposte che il mondo dell’ambientalismo e di chi si occupa del problema come ASPO, ha avuto sul tema; l’apparato di note e di riferimenti assolutamente formidabile aiuta a farsi una documentazione di prima mano. Prosegue nel mostrare il ruolo conccreto che i fossili di varia origine hanno nell’economia reale e soprattutto il rapporto fra consumi, prezzi e previsioni; un tema che ha spesso appassionato i grandi organi di informazione: ossia del quanto ce n’è? Per fare ciò introduce in modo generale la definizione del picco del petrolio e soprattutto l’idea che il picco del petrolio tradizionale è già alle nostre spalle.

Un grafico dell’IEA mostra come il petrolio tradizionale, il legacy oil è arrivato al suo massimo produttivo, ossia al suo picco, nel 2005, appena prima della crisi economica attuale, una crisi che è legata a questo fenomeno, sia pure in modo complesso.

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Un ulteriore capitolo descrive il concetto di risorse e riserve, entrando nella definizione esatta dei termini tecnici che sono spesso usati anche nella letteratura professionale sul tema ed inizia a fornire i valori relativi al nostro paese, come illustrazione dei concetti usati. Un ulteriore capitolo è dedicato alla definzione di EROEI, di energia netta, un concetto che sta piano piano entrando nel lessico quotidiano e che ci può servire da guida nel comprendere perchè non sia possibile sommare le riserve dei vari tipi di idrocarburi, mescolando prodotti che se pur simili all’apparenza, idrocarburi liquidi, hanno un contenuto di energia netta del tutto diverso a causa del diversissimo modo di estrazione che hanno subito.

A questo punto, dopo una carrellata leggibilissima, ma precisa ed atttenta il libro si dedica al suo core business, ossia al suo argomento nominale: ma quanto petrolio e gas c’è in Italia e da dove viene, in quali regioni, sfatando i vari miti giornalistici, a partire dal fatto che il grosso del petrolio nazionale si può estrarre sulla terraferma e non sul mare, l’Adriatico selvaggio di poetica memoria non nasconde che una parte di gran lunga minoritaria del tesoretto (pag.99). un tesoretto, a cui, precisa Pardi le aziende estrattive sono molto interessate non tanto per la composizione ricca di S che lo rende meno appetibile ma per i bassi oneri di estrazione che devono pagare. Una parte finale del capitolo si dedica anche alla decrizione della situazione mondiale.

La conclusione è chiara:

L’Italia non è il paese degli elefanti, e non è nemmeno il paese degli idrocarburi. Non ci sono oceani di petrolio e gas sotto il mare Adriatico, e non ci sono “ingenti” riserve nel sottosuolo della penisola. I giacimenti della Val d’Agri in Basilicata, splendida regione da visitare a bassa velocità, gustandone la natura, i cibi e l’ospitalità indimenticabile dei suoi cittadini, è si il quarto per produttività in Europa, ma a buona distanza dal terzo e con un petrolio la cui qualità è gravemente compromessa dal carico di zolfo ………

…….. produce circa l’11 % dei propri consumi di gas e l’8,5% dei consumi di petrolio. Quando, da parte dei promotori dell’industria petrolifera, si dice che sfruttando le nostre risorse potremmo aumentare, addirittura raddoppiare, la produzione nazionale non si dice per quanto tempo si potrebbe ottenere questo risul- tato. Abbiamo visto che se volessimo raddoppiare la produzione 2013 di gas le riserve durerebbero 3 anni e mezzo considerando le riserve certe (1P) e 9 anni considerando quelle possibili (3P) la cui stima è probabilmente irrealistica. Per il petrolio le riserve certe potrebbero coprire una produzione raddoppiata per 7 anni e quelle possibili per 20 anni.

Questo ipotizzando consumi costanti, il che non è chiaramente quanto sta accadendo.

Insomma una botta alla pretesa prodiana. La spiegazione di questa politica quotidiana dell’annuncio pro-estrattivo che sta convincendo un governo Renzi che sta lì pronto a farsi convincere è:

Sono frottole inventate per convincerci che non si possa fare altrimenti che trasferire quello che ancora abbiamo nelle mani dei soliti affinché essi, elargendo qualche elemosina sotto forma di royalties, possano continuare a riempirsi le tasche. Le iperboli sulle riserve petrolifere nazionali sono state usate a scopo pubblicitario per influenzare l’opinione pubblica e ribilanciare la politica energetica nella direzione dei combustibili fossili che l’avanzata delle rinnovabili aveva penalizzato.

Il toscanaccio colpisce duro, e sinceramente mi trova completamente d’accordo.

La terra toscana è ricca di bellezza e di storia; la tradizione della Chimica declinata al locale non poteva che sposare l’idea che la Natura sia fusione di queste due cose: bellezza e storia; Tiezzi, Bardi ed oggi Pardi, ci convincono che la scuola toscana di Chimica non ha nulla da invidiare a quella bolognese dei Balzani, degli Armaroli e delle Margherite, pardon delle Venturi, quanto a capacità di raccontarle, con gusto, precisione e completezza, ma senza dimenticare la passione (che si sente specie nei vini di quelle terre).

Se Leo Pardi è ancora da qualche parte se la sta ridendo della grossa.

Contro-movimenti di casa nostra.

a cura di C. Della Volpe

In Usa hanno una sigla, come tutto; si chiamano climate change counter-movements (CCCM).

In Usa hanno tanti di quei soldi a disposizione che gli vengono dedicati articoli scientifici di analisi (Robert J. Brulle, Institutionalizing delay: foundation funding and the creation of U.S. climate change counter-movement organizations, Climatic Change DOI 10.1007/s10584-013-1018-7)

L’amica Oca Sapiens (al secolo Sylvie Coyaud) nel suo bel blog riporta questo grafico per mostrarne la ampiezza, una spesa totale stimata fra il 2003 e il 2010 in oltre 7 miliardi di dollari da parte di tutti i think thank conservatori USA, una parte dei quali va nell’attacco al Global Warming, come in passato andava alla difesa del fumo libero o contro l’aborto e oggi vanno contro la sanità pubblica, il global warming o il darwinismo.

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Sappiamo che nei paesi anglosassoni la lotta fra sostenitori del Global Warming e delle politiche di mitigazione ed adattamento ad esso e i loro detrattori, volgarmente detti “negazionisti climatici” è a coltello e come tutte le lotte sociali porta a situazioni paradossali; ricordate che lo scontro sulla riforma sanitaria di Obama ha portato alla fermata della macchina statale americana per vari giorni? Oppure il caso delle lettere rubate al direttore del CRU dell’East Anglia?

Impensabile da noi. Comunque anche noi abbiamo i difensori del libero mercato che sono anche contro le regole che l’IPCC cerca di proporre per affrontare il GW, per esempio l’Istituto Bruno Leoni. Qui le cose avvengono diversamente, per esempio sull’ultimo numero di C&I (dic. 2013 pag 87-89), con un articoletto di Sergio Carrà dal titolo “Chi ha paura del riscaldamento cattivo?” a cui rispondo qui.

I dati riportati nel grafico sono una prima parte della risposta. Il prof. Carrà cita anche un articolo comparso su New Scientist

“Climate science: Why the word won’t listen” di  Adam Corner, uno psicologo che si propone di approfondire perché i reiterati pronunciamenti dell’IPCC, ridondanti di messaggi inquietanti sui pericoli del riscaldamento globale, lasciano nella popolazione una diffusa apatia che sfocia spesso in un atteggiamento negativo nei riguardi di tale fenomeno.”

Beh caro prof., la risposta è manifesta: c’è chi propaganda menzogne sul clima spendendo miliardi di dollari e cercando di confondere le acque. È una politica che negli USA è stata perseguita anche per combattere la battaglia ormai persa contro il divieto del fumo; le grandi corporations americane affinarono in quell’occasione le armi che stanno spendendo anche qui contro il GW o contro l’Obamacare. Miliardi di dollari che hanno come unico scopo di ritardare il crollo dei loro profitti basati su mercati non piu’ sostenibili. Se l’approccio di Kyoto è fallito come recita un articolo di Nature, la responsabilità è proprio di chi ha fatto in modo che restasse fuori dall’accordo il paese che è il maggiore produttore di gas serra del pianeta, gli USA. E le fondazioni della destra americana superconservatrice che si sono battute contro l’IPCC, come per il fumo o contro il darwinismo ne sono pienamente responsabili.

La stessa rivista divulgativa e non-peer-reviewed, partecipa a questa battaglia di retroguardia culturale; infatti è famosa per aver fatto una copertina CONTRO il darwinismo.

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Ma d’altronde noi che abbiamo avuto perfino un vicepresidente del CNR che ha organizzato un congresso contro Darwin (http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_de_Mattei) tempo fa, di cosa ci potremmo meravigliare?

Il prof. Carrà cita anche un articolo recentemente pubblicato su una rivista prestigiosa, (Geophysical Research Letters, Vol. 40, 3031–3035, doi:10.1002/grl.50563, 2013) che secondo lui dimostra che il bilancio dell’anidride carbonica è “elusivo”. E’ un aggettivo pesante per uno degli argomenti più studiati del mondo della climatologia e della chimica del clima. L’articolo in questione, scritto da Donohue e coll. dello CSIRO, l’equivalente australiano del CNR, conclude dicendo tre cose che qui traduco e che sono (giudicate voi) incompatibili con la elusività:

1)L’aumento nell’efficienza di uso dell’acqua da parte del processo fotosintetico al crescere della concentrazione di Ca (Nota mia: un simbolo usato per la anidride carbonica atmosferica) si è da lungo tempo anticipato che abbia come conseguenza un aumento della superficie foliare in ambiente caldi ed aridi. [Berry and Roderick, 2002; Bond and Midgley, 2000; Farquhar, 1997; Higgins and Scheiter, 2012], e sia le osservazioni da satellite che da terra a livello mondiale rivelano un cambiamento verso ambienti più densamente coperti di vegetazione e boscosi.[Buitenwerf et al., 2012; Donohue et al., 2009; Knapp and Soule, 1996; Morgan et al., 2007; Scholes and Archer, 1997]. I nostri risultati suggeriscono che Ca abbia giocato un ruolo importante in questo trend di rinverdimento e che, dove l’acqua è il limite dominante per la crescita, la copertura sia cresciuta in proporzione diretta all’aumento di Wp (l’efficienza di uso dell’acqua da partei della fotosintesi). Questo effetto di fertilizzazione della CO2  è da considerare un importante effetto della biosfera.

2)I risultati qui riportati per regioni aride a calde non si trasferiscono semplicemente ad altri ambienti dove possono dominare altri limiti alle risorse  (per esempio luce, nutrienti, temperatura) sebbene le equazioni della teoria rimangano valide (eq. 1-3) (omissis)

3)Complessivamente i nostri risultati confermano che l’impatto biochimico diretto del veloce aumento della Ca negli ultimi 30 anni sulla vegetazione terrestre è un processo importante ed osservabile.

Non solo non è elusivo affatto un processo cui sono dedicati molti lavori, che è anticipato tramite equazioni e che si è già studiato; gli autori lo hanno provato a livello mondiale solo PER GLI AMBIENTI ARIDI, dove un elemento limitante è l’acqua; quindi riproporlo per gli altri ambienti sic et simpliciter è sballato e infatti gli autori scrivono che le loro conclusioni non sono valide dappertutto.

 E’ un argomento che è molto analizzato in letteratura. Al contrario di quello che sostiene Carrà (In sostanza, a detta degli autori di questi studi, il futuro potrebbe essere molto più verde e molto più benevolo di quanto prevedono i modellisti) gli autori non concludono affatto che questo processo possa essere considerato decisivo nel futuro. I modelli dell’IPCC includono già questi processi e prevedono una estensione della copertura vegetale, ma tale estensione non può verificarsi in tutti gli ambienti a causa della complessità del sistema; dove prevalgono condizioni diverse l’aumento di CO2 non ha gli stessi benefici sulla copertura del manto vegetale spontaneo. Pensate solo ad ambienti dove gli elementi limitanti della fotosintesi sono la luce o la mancanza di altri nutrienti oltre l’acqua o l’effetto degli incendi. Le conclusioni generalizzatrici del prof. Carrà rimangono un pio desiderio basato su processi non definiti e che gli autori dell’articolo non prendono nemmeno in considerazione.

Una seconda questione che il prof. Carrà ripropone ogni volta che scrive di questo argomento è che in passato la CO2 ha raggiunto livelli molto più alti del presente. Fatto verissimo ma che non c’entra nulla con le questioni del clima odierno perchè i periodi a cui si riferisce il prof. Carrà sono di centinaia di milioni di anni fa; all’epoca non solo non c’era l’umanità ma non c’erano nemmeno le piante attuali o gli animali attuali, la forma dei continenti, le correnti erano diversi. Inoltre il Sole era significativamente meno intenso dell’attuale, un paradosso quello del giovane sole debole su cui sono basati tutti i libri di climatologia. In alcuni casi i meccanismi di retroazione, non di causa-effetto che in un sistema complesso come il clima stanno stretti a qualunque modello, erano completamente diversi; da allora la tendenza media è stata verso una riduzione sistematica della concentrazione di CO2 con una temperatura media che ha interagito con essa; non c’è un rapporto causa effetto fra CO2 e temperature, ma un rapporto di retroazione che prevede anelli positvi e negativi. Al momento l’umanità si è inserita nel meccanismo che durava da centinaia di miloni di anni ed ha occupato da subito un posto di rilievo; oggi l’uomo emette il 16% del carbonio che va verso l’atmosfera e questo ha alterato complessivamente il meccanismo di retroazione in un modo che, seppur non prevedibile in dettaglio, va verso l’aumento della temperatura media del pianeta.

C’è un bellissimo lavoro di un ingegnere aerospaziale, Bernard Etkin (Climatic Change (2010) 100:403–406 DOI 10.1007/s10584-010-9821-x A state space view of the ice ages—a new look at familiar data An editorial essay Bernard Etkin) , che ha rappresentato nel linguaggio dei grafici di fase dei sistemi complessi, una tecnica che dovrebbe essere familiare al Prof. Carrà, la situazione delle ultime centinaia di migliaia di anni. Il grafico è questo, tratto dai dati delle carote glaciali:

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Il prof. Carrà ha insegnato per anni come si costruisce un grafico di fase di un sistema complesso e quindi potrà apprezzare quanto Etkin dice: il nostro sistema caotico è stato attratto nella zona evidenziata dall’ellisse per centinaia di migliaia di anni e l’azione dell’uomo negli ultimi 250 anni l’ha portato fuori dall’attrattore; dove si avvia il nostro sistema? I calcoli ci dicono che si avvia verso una temperatura media più alta di quella attuale. Non possiamo fare “previsioni” come le chiama impropriamente Carrà; possiamo fare scenari basati sul comportamento “medio” del sistema; le previsioni del tempo cercano di ricostruire a breve periodo il comportamento istantaneo del sistema climatico, mentre i modelli IPCC cercano di cogliere gli scenari, ossia i comportamenti medi del sistema sul lungo periodo, due cose del tutto diverse.

Il testo dell’IPCC citato dal prof. Carrà, scritto dall’amico Sergio Castellari, non può che far dipendere la temperatura media dal tasso di CO2 e quindi dalle scelte che noi, la parte più importante ed attiva della biosfera, faremo nel futuro; non è essa una incertezza che dipende dai metodi di calcolo o dai meccanismi (i vari programmi sono sostanzialmente in accordo) ma dalle nostre scelte politiche ed economiche.

Un esempio di quanto queste scelte pesino già adesso risponde all’ultima domanda del prof. Carrà: Ad esempio, per parlare delle faccende di casa nostra, risulta che il contribuente italiano si trova a dover pagare ogni anno 6-7 miliardi di euro (tariffa A3) per incentivi statali almeno per vent’anni devoluti alle energie rinnovabili, in particolare al fotovoltaico. Ciò nonostante la nostra energia è la più cara d’Europa.

Il prof. Carrà si riferisce al famigerato Cip6, una decisione che ci ha portato per oltre vent’anni a pagare una quota del nostro consumo elettrico per lo sviluppo di rinnovabili ed ASSIMILATE; ma lo sa il prof. Carrà quanto abbiamo speso e come sono state ripartite le spese? E soprattutto sa cosa sono le assimilate? Sono gli oli pesanti scartati dalla produzione, l’immondizia, insomma roba che sarebbe costato smaltire e che grazie a politici compiacenti è diventata combustibile prezioso che ha contribuito allo sviluppo degli inceneritori, di centrali a combustibile in molte aziende che così guadagnavano da ciò che avrebbero dovuto smaltire a caro prezzo. Queste assimilate hanno assorbito oltre il 75% dei 50 miliardi di euro che abbiamo speso su questa voce. Lo sapeva? Spero di no, altrimenti avrebbe dovuto dirlo.

Nonostante questo vulnus inferto al loro sviluppo, le rinnovabili italiane si sono sviluppate ed oggi nel borsino elettrico sfidano l’eccesso di produzione termoelettrica (decine di gigawatt in eccesso cresciuti proprio grazie al Cip6) e l’hanno messo più volte fuori mercato nelle ore di punta facendo alzare alti lai a chi perdeva in questo modo ingiustificati profitti.

Quindi altro che i miliardi all’anno investiti e giustamente in rinnovabili vere, questi sono stati soldi sprecati in rinnovabili false che si sono aggiunti alle decine di miliardi che hanno aiutato e garantito una economia basata sui fossili. Oggi i fossili battono la fiacca perchè i loro prezzi sono altissimi e tali rimaranno a causa dell’abbassamento storico del loro EROEI, cioè della crescente  difficoltà estrattiva che porta a costi di estrazione (energetici ed economici) altissimi (si veda un nostro recente post)!  Al contrario, i costi delle rinnovabili scendono seguendo una accettabile curva di apprendimento che le sta portando SOTTO i costi dell’energia tradizionale.

In una cosa le dò ragione, prof. Carrà; non sarà facile. Lei scrive: Si dovrebbe intraprendere una trasformazione epocale che viene però solo marginalmente discussa per le sue implicazioni di carattere economico e sociale.

Ma noi chimici la vogliamo e la dobbiamo discutere, prof. Carrà. Abbiamo dei precedenti illustri, come Frederick Soddy il cui Nobel ha compiuto 100 anni pochi giorni fa e che ha anticipato i cinque premi Nobel che hanno contribuito a proporre il nome di Antropocene per la nostra epoca, perché non di sola energia si tratta ma di un modo di produrre basato sull’idea dello sviluppo infinito, sviluppo impossibile in un contesto finito come la biosfera terrestre.

Nel testo di 18 Nobel (http://globalsymposium2011.org/wp-content/uploads/2011/05/The-Stockholm-Memorandum.pdf) si enuncia una ben precisa strategia che meraviglierà sapere non è tanto tecnica ma sociale, come d’altronde le resistenze ai cambiamenti guidati da think-thank ultraconservatori rendono manifesto. Ne ricordo qui i punti essenziali:

1)    raggiungere un mondo più equanime, ossia sulla base della sostenibilità globale fare un accordo fra paesi ricchi e poveri per stabilizzare il clima, combattere la povertà e gestire l’ecosistema;

2)    gestire la sfida di clima ed energia; raggiungere un picco di produzione di CO2 entro il 2015 e tassare le emissioni di carbonio eliminando i contributi alle energie fossili;

3)    creare una rivoluzione dell’efficienza; definire degli standard di efficienza per disaccoppiare lo sviluppo dal consumo delle risorse e sviluppare nuovi modelli economici basati su efficienza energetica e dei materiali;

4)    assicurare cibo accessibile a tutti; il modo attuale di produrre cibo basato su spreco di energia e fosforo è insostenibile, occorre una nuova rivoluzione verde basata sul risparmio di territorio e acqua e sullo sviluppo tecnologico dei piccoli produttori;

5)    andare al di là di una crescita “verde”; ripensare lo sviluppo economico introducendo il “sociale” in tutti gli aspetti della produzione: introdurre nuovi modi di valutare lo sviluppo, superando il PIL e incentivando solo le innovazioni che servono alla maggior quota possibile di popolazione;

6)    ridurre la pressione umana; sia riducendo la crescita della popolazione che combattendo il consumismo; rafforzare i diritti delle donne;

7)    rafforzare un sistema di governo della Terra; rafforzare le istituzioni che si occupano di clima, biodiversità e introdurne altre che curino esplicitamente gli interessi delle future generazioni;

8)    attivare un nuovo rapporto fra scienza e società, sia lanciando una iniziativa scientifica globale sulla sostenibilità che incrementando l’educazione scientifica delle giovani generazioni.

 

 Nota: ringrazio per i loro commenti Sylvie Coyaud e Franco Miglietta di Climalteranti.

 PS I lettori che non essendo soci della SCI non possano accedere al testo dell’articolo di S. Carrà possono chiedere eccezionalmente copia a Claudio.DellaVolpe@unitn.it. Si ricorda qui che i testi de la Chimica e l’Industria sono liberamente accessibli eccetto quelli degli ultimi due anni.

Il petrolio russo e il futuro della chimica catalitica

Nota del blogmaster: Ugo Bardi è un altro chimico italiano famoso nel mondo, rappresenta da anni nel nostro paese  uno dei punti di contatto più fecondi fra chimica, ambiente e risorse, fondatore di ASPO-Italia, autore di numerosi libri divulgativi sul futuro delle risorse energetiche e minerarie, conosciuto dai più per aver introdotto nel nostro paese l’idea del “picco del petrolio”, Ugo continua a pensare in modo originale e prolifico; ha accolto, con mio grandissimo piacere, l’idea di ripubblicare sul nostro blog il racconto della sua ultima avventura in Russia, un seminario già pubblicato in inglese e in italiano sul suo blog “Cassandra”(http://ugobardi.blogspot.it/2013/01/il-petrolio-russo-e-il-futuro-della.html).

a cura di Ugo Bardi

Da “Cassandra’s Legacy”. Traduzione di Massimiliano Rupalti

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Eccomi in Siberia con la Prof.ssa Irina Kurzina (a destra nella foto) e la Dott.ssa Tamara Kharlamova (al centro) del dipartimento di Chimica dell’Università di Tomsk. La Prof.ssa Kurzina ha organizzato a Tomsk una conferenza intitolata “Catalisi: dal laboratorio all’industria” ed è stata così gentile da invitarmi per fare una presentazione. Questo viaggio a Tomsk è stato interessante per varie ragioni e sono rimasto impressionato dall’entusiasmo e la dedizione dei giovani scienziati russi che ho incontrato. Ecco una versione del mio discorso all’incontro: è condensato e talvolta modificato per andare incontro ad un pubblico più vasto degli specialisti in catalisi, ma conserva la sostanza di quello che ho detto. 
 

Tomsk – 1 novembre 2012

Signore e signori, prima di tutto vorrei dirvi che è un piacere essere qui a Tomsk per discutere di catalisi eterogenea. E dico questo perché sono uno di voi, anche se non ho lavorato in questo campo per alcuni anni. Lasciate che vi mostri questa immagine:

E’ stata scattata nel 1994 ed è la foto più vecchia che sono stato in grado di trovare che mi mostri in un laboratorio chimico a studiare la catalisi eterogenea (quello che vedete dietro me è un apparato per la spettroscopia di fotoelettroni). Ho studiato quel soggetto dal 1980, quando stavo facendo il post-dottorato a Berkeley. Come potete vedere, sono un po’ più giovane in quell’immagine. Ero ancora più giovane nel 1980, ma meglio non farla troppo lunga su questo! Volevo solo mostrarvi da dove è partita la mia carriera da ricercatore che, attualmente, è cambiata molto.
Oggi, mi interessa ancora molto la catalisi e la scienza delle superfici, ma sono portato ad avere una più ampia veduta del campo. Non studio più i processi specifici, ma tutto il soggetto della catalisi nella sua rilevanza economica. Sapete meglio di me che la catalisi è fortemente legata al petrolio che, insieme al gas naturale, fornisce la materia prima di base per gran parte delle reazioni catalitiche industriali. E’ con le reazioni catalitiche che creiamo combustibile dal petrolio e non solo combustibili, creiamo tante cose, dalla plastica ai fertilizzanti e qualsiasi altra cosa possiate pensare in termini di chimica.
Ora il punto è, naturalmente, che una volta che ci si rende conto di quanto sia importante il petrolio per così tante cose allora ci si chiede quanto durerà. Sono sicuro che vi sarete posti a questa domanda, almeno in modo inconscio. Di tanto in tanto mi facevo la stessa domanda quand’ero un giovane ricercatore che studiava chimica catalitica, ma devo dire che non gli davo mai molta importanza. E’ stato solo col tempo che ho scoperto che non potevo più ignorare la questione e quindi ho cominciato a studiarla come se fosse un altro problema della chimica catalitica. E’ questo di cui mi piacerebbe parlarvi oggi.
Proverò a raccontarvi del petrolio in generale, ma anche del soggetto specifico del petrolio russo. Come premessa, lasciatemi dire che non sono uno specialista in petrolio russo. Ci sono persone che hanno passato la vita a studiare la produzione di petrolio russa e che sanno tutto riguardo a dove il petrolio viene prodotto, le risorse, le riserve, i pozzi, i giacimenti, gli oleodotti, le raffinerie e tutto il resto. Non posso sostenere di avere quel tipo di conoscenza, ma proverò ciononostante a raccontarvi alcune cose su questo tema che trovo interessanti e che potrebbero esservi sfuggite.
Quindi, il mio discorso comincerà con una breve storia del petrolio, poi vi dirò qualcosa sui problemi causati dal petrolio, sul cambiamento climatico, quindi su alcune prospettive sulla produzione russa di petrolio ed infine su come la chimica catalitica può venire in soccorso di un mondo futuro in cui avremo molto meno petrolio da bruciare di quanto non abbiamo ora. Vale a dire “l’attivazione della CO2”, ma procediamo per ordine.
1. Introduzione al petrolio
Come chimici sapete bene che il petrolio spesso esce fuori come una stostanza appiccicosa nerastra che, così com’è, è quasi completamente inutile come combustibile. Brucia, sì, ma molto lentamente e in alcuni casi non brucia nemmeno. E’ la catalisi, in particolare quello che chiamiamo “cracking catalitico” che trasforma il petrolio in combustibili. Ma anche prima del cracking industriale, la gente aveva imparato come distillare il petrolio per fare un bel fluido chiaro, chiamato “kerosene”, che poteva bruciare nelle lampade – ciò accadeva a metà del diciannovesimo secolo negli Stati Uniti. Qui vediamo una pubblicità per il kerosene in Russia. Non c’è data a questa immagine, ma dallo stile potrebbe essere del tardo diciannovesimo secolo.
Forse non sapete che per qualche tempo la Russia ha importato kerosene dagli Stati Uniti, Ci suona strano perché sappiamo che la Russia ha vaste risorse petrolifere e probabilmente saprete che i giacimenti petroliferi del Caucaso venivano già sfruttati nel diciottesimo secolo. Ma la tecnologia per trasformare il petrolio greggio in combustibile per lampade impiegò un certo tempo per essere sviluppata qui, quindi per un breve periodo la Russia ha dovuto appoggiarsi agli Stati Uniti per il kerosene. Forse non sapete neanche che Dmitry Mendeleev –  famoso per la tavola periodica – è stato in Pennsylvania per studiare i metodi americani per elaborare il petrolio greggio. Ecco la sua pubblicazione, datata 1877.
Naturalmente, i chimici russi hanno imparato rapidamente come fare kerosene e in seguito come elaborare il petrolio usando metodi moderni. Oggi, l’industria del petrolio russo probabilmente è la più grande del mondo, ma a che punto si trova la Russia in termini di prospettive? Per rispondere a questa domanda dobbiamo esaminare la produzione di petrolio in generale.
2. Modelli di produzione del petrolio
Come dicevo, la Russia ha iniziato un po’ più lentamente dell’America col petrolio ma, col tempo, la produzione russa è cresciuta rapidamente fino a superare quella Americana negli anni 70. Vediamo un confronto fra Stati Uniti e Russia (in realtà l’ex Unione Sivietica) in termini di produzione petrolifera. Questa è un’immagine fatta nel 1997 dall’esperto di petrolio francese Jean Laherrere (Link).
Questo è un gruppo di dati piuttosto vecchio, molte cose sono cambiate dal 1997. Ma volevo mostrarvi quest’immagine specifica per evidenziare come apparivano le cose durante il collasso dell’Unione Sovietica.
Vedete come la produzione sovietica ha cominciato a crescere rapidamente più tardi che negli Stati Uniti, ma questa alla fine ha superato la produzione americana negli anni 70 (il grafico non mostra la produzione dell’Alaska, ma il cambiamento non è grande). Notate come entrambe le curve mostrino lo stesso schema: prima crescono esponenzialmente, poi raggiungono il picco e declinano. C’è una differenza, comunque: il consumo degli Stati Uniti ha continuato a crescere con le importazioni dal Medio Oriente e da altre regioni. Invece, l’Unione Sovietica era relativamente isolata come sistema economico ed il consumo è declinato insieme alla produzione. Questa era una caratteristica del collasso dell’Unione Sovietica.
Vi potrebbe interessare sapere che ci sono due scuole di pensiero su cosa ha causato il declino della produzione di petrolio nell’Unione Sovietica. Una dice che la produzione di petrolio è collassata a causa del collasso del sistema politico, l’altro che il sistema politico sovietico è collassato a causa del collasso della produzione di petrolio. La mia opinione è che non si può pensare di rispondere a questa domanda con un “o questo o quello”. La risposta giusta è “entrambe”. Serve un sistema economico e politico funzionante per produrre petrolio e serve il petrolio come fonte di energia per mantenere un sistema politico ed economico in funzione. Quindi, alla fine, il declino di entrambe le cose è arrivato insieme. Ma perché esattamente?
Come abbiamo visto, sembra esserci uno schema simile nei due casi, USA e URSS. Il primo a notare questo schema è stato un geologo americano, Marion King Hubbert. Nel 1956, Hubbert ha previsto quale sarebbe stata la forma della curva di produzione del petrolio negli Stati Uniti. Questo grafico è piuttosto famoso:
Hubbert ha visto questo modello come empirico, ma ogni qualvolta si abbia uno schema, una regolarità in un fenomeno, allora devono esserci delle ragioni profonde perché questo avvenga. Vale a dire, il fatto che due sistemi economici e politico molto diversi come USA e URSS mostrassero lo stesso schema ci dice che qualcosa alla base dell’economia crea questo schema. Cioè, non erano le scelte politiche del governo americano o di quello sovietico che generavano quello schema. E’ un fenomeno generale di qualche tipo che appare ovunque ci sia una grande regione produttiva.
Lasciate che vi faccia un altro esempio di questo schema. Lasciate che vi mostri alcuni dati sul campo petrolifero di Samotlor, nella Siberia dell’ovest. Non è molto lontano da dove ci troviamo qui a Tomsk. Bene, “non molto lontano” dev’essere preso in termini relativi. Qualcosa meno di 1000 chilometri comunque che, immagino, non sia così tanto per gli standard russi.
Samotlor è un “supergigante”, uno dei più grandi giacimenti del mondo. Vedete come la reazione chimica si sia innescata, raggiungendo un livello di produzione massima di più di un miliardo di barili di petrolio all’anno. E’ un valore enorme. A quel tempo Samotlor, da solo, produceva una percentuale significativa della produzione mondiale di petrolio. Ma poi, la reazione si è placata per mancanza di reagenti.
Il caso di Samotlor è interessante anche perché illustra come un un campo maturo possa essere rivitalizzato, almeno in parte. Nei tardi anni 90, le due compagnie che gestivano il giacimento, TNK e BP, hanno deciso di investire su Samotlor per ravvivare la produzione. Ciò significava “spremere” più petrolio dal vecchio giacimento con vari metodi; può essere fatto ed ha funzionato perché il declino è stato arrestato. Ma è stato impossibile riportare il giacimento ai livelli del suo apogeo. La produzione è rimasta pressoché costante fino ad ora, ma non c’è dubbio che declinerà ancora. Così, vedete, ci sono fattori molto forti che portano la curva ad assumere la forma “a campana” ed il fatto che la gente non voglia che la produzione declini non significa che il declino si possa fermare. Non facilmente, perlomeno.
Quindi, cos’è che crea questo schema? Be’, c’è una teoria che lo spiega, ma non posso entrare nei dettagli qui. Lasciatemi solo dire che l’economia deve, alla fine, obbedire alle leggi fisiche e le leggi fisiche dicono che serve energia per estrarre petrolio. Meno petrolio rimane, più energia serve per estrarlo. Questo si traduce in costi maggiori e, alla fine, nessuno estrae petrolio in perdita. Quindi, il petrolio viene estratto rapidamente quando è facile estrarlo, ma col tempo la produzione tende a declinare. Queste considerazioni possono essere messe in forma matematica ed il risultato è la “curva a campana” che avete visto.
In un certo senso, l’estrazione di petrolio è una grande reazione chimica, dove il petrolio e l’ossigeno sono i reagenti e gli esseri umani sono il catalizzatore. E’ impressionante che questi modelli funzionino così bene in certi casi storici – non tutti i casi, naturalmente: l’economia mondiale è un sistema complicato. Ma il fatto che sia un sistema complicato non significa che non debba obbedire alle leggi della fisica. Quando non ci sono più reagenti, la reazione deve finire.
3. Petrolio: situazione attuale
Fin qui, abbiamo parlato del cosiddetto “modello di Hubbert”. E’ un modello interessante, ma dovete ricordare che i modelli sono sempre approssimazioni della realtà. Questo è valido in chimica proprio come nella produzione di petrolio. Quindi, andiamo a vedere alcuni dati sul mondo reale, qui, per esempio questo (preso da wikipedia):
Vedete che c’è una certa tendenza per l “reazione” della produzione a seguire il modello di Hubbert, cioè ad esplodere per poi placarsi. Ma la realtà è più complessa e c’è sempre la possibilità di far ripartire la crescita dopo un lungo periodo di declino. Potremmo dire che i reagenti non siano ben mescolati e quindi la reazione procede in modo irregolare. Vedete che la produzione nei paesi della ex Unione Sovietica hanno preso di nuovo velocità dopo aver raggiunto un minimo intorno al 1998 ed ora ha raggiunto livelli non lontani da quelli del picco al tempo dell’Unione Sovietica. Questo perché il sistema non è così semplice come i modelli vorrebbero che fosse e reagisce, fra le altre cose, ai prezzi, agli eventi politici, alle guerre, alle crisi e cose del genere.
Quindi, cosa possiamo aspettarci per il futuro? Be’, lasciate che vi mostri alcuni dati recenti sulla produzione di petrolio russa.
Vedete che la crescita di produzione è andata rallentando durante gli ultimi anni. Oggi non sembra essere in grado di crescere ulteriormente. In questo rispecchia le tendenze generali globali: la produzione di petrolio mondiale è piatta o cresce molto lentamente. Quindi cosa sta succedendo? Be’, non è certo per mancanza di sforzi; cioè, il rallentamento della crescita non è un effetto pianificato. Dai dati che ho, è chiaro che l’industria russa del petrolio sta facendo uno sforzo tremendo per mantenere la produzione ai livelli attuali. Stanno investendo un sacco di soldi e di risorse alla ricerca di nuove aree, nuovi giacimenti, usando nuove tecnologie per ottenere più petrolio da vecchi giacimenti. Il problema è che molti giacimenti di petrolio, specialmente nella Siberia dell’ovest, sono “maturi” e rallentano – come possiamo vedere nel caso di Samotlor. C’è ancora tanto petrolio da estrarre nella Repubblica Russa, ma ci vuole uno sforzo sempre maggiore per farlo.
Quindi, cosa accadrà? Di sicuro non vedremo un declino della produzione finché l’industria può mantenere lo sforzo di sviluppare le riserve disponibili. E questo dipende da diversi fattori, compresa la situazione finanziaria internazionale. Direi che, a breve termine, non dobbiamo preoccuparci del declino della produzione russa; forse nemmeno nel medio termine. Ma alla fine, come ho detto, la reazione deve esaurire i reagenti. Se questo avverrà sotto forma di un collasso o di lento declino non posso dirlo, ma posso dire che dobbiamo prepararci per un mondo dove, a lungo termine, ci sarà meno petrolio disponibile e questo sarà più caro. Lo stesso vale per il gas naturale, anche se le riserve di gas russe sono abbondanti, secondo i dati che abbiamo.
Notate anche che gli alti costi di estrazione non sono il solo problema. Mentre si fa uno sforzo maggiore per estrarre risorse più costose, vediamo che produciamo più CO2 relativamente alle stesse quantità di energia generata. E questo ha un impatto sul clima. Anche qui in Russia. Lasciate solo che vi mostri gli incendi nella Siberia dell’est di quest’anno – una delle conseguenze del cambiamento climatico.
Probabilmente la Russia non sarà colpita così duramente dal riscaldamento globale come gli altri paesi, ma sarà comunque un problema. Alcune persone dicono che la Russia avrà dei benefici da un clima più caldo, ma non sono sicuro di questo, specialmente se consideriamo questi incendi estivi. Il clima è un tema complicato e che causa grandi cambiamenti dovunque. In alcuni luoghi i cambiamenti potrebbero essere per il meglio, ma non ci scommetterei per quanto riguarda la Russia. Dobbiamo quindi prepararci non solo per un mondo con meno petrolio, ma per un mondo in cui non si vuole (o non si è in grado) di usare le risorse rimanenti.
4. Attivazione catalitica della CO2 come materia prima
Così, se mi avete seguito fino a questo punto, sono sicuro che vi sarete chiesti come sopravviveremo senza petrolio. Naturalmente, questo sarà per il futuro, abbiamo ancora riserve, ma dobbiamo avere cura di non sperperarle. In altre parole, ci dobbiamo preparare per un futuro nel quale ci sarà meno petrolio (ed anche meno gas naturale). Dove saremo in grado di trovare le risorse di cui abbiamo bisogno.
Naturalmente da chimici, tutti voi sapete da dove viene il petrolio – è stata una scoperta del chimico russo Mikahil Lomonosov del diciottesimo secolo. Sappiamo che il petrolio greggio, proprio come carbone e gas naturale, è un prodotto della fotosintesi. E’ una reazione dell’acqua con la CO2 che produce molecole organiche. Questa reazione è andata avanti per milioni di anni nel nostro pianeta ed alcuni dei prodotti sono sprofondati sottoterra e si sono lentamente trasformati in quello che chiamiamo idrocarburi e carbone “fossili”.
Ora il punto è, naturalmente, se possiamo replicare questa reazione in laboratorio. E la risposta è “sì”, naturalmente possiamo. Possiamo costruire lunghe catene di idrocarburi in laboratorio. E’ una cosa ben conosciuta e la chiamiamo la reazione di “Fischer-Tropsch”. Funziona in presenza di catalizzatori basati, normalmente, su ferro e cobalto.
Ma per alimentare questa reazione abbiamo bisogno di monossido di carbonio e H2, che normalmente sono il prodotto della reazione dell’acqua con il carbone; è la cosiddetta reazione di “water shift”. Ma questo non ci aiuta più di tanto visto che anche il carbone è un combustibile fossile, inquina, genera riscaldamento globale e non è infinito. Così, possiamo alimentare questa reazione senza ricorrere al carbone?
L’idrogeno è qualcosa che possiamo ottenere dall’elettrolisi dell’acqua. L’acqua è abbondante e scinderla non produce gas serra, almeno se usiamo energia elettrica generata da energia rinnovabile o nucleare. Ma dove prendiamo il monossido di carbonio senza usare gli idrocarburi fossili? Be’, è possibile, è una cosa che si chiama “attivazione della CO2”. L’anidride carbonica è un gas stabile, quindi ci serve energia per trasformarlo in una “materia prima” che possa reagire con l’idrogeno.
Il principale metodo per l’attivazione della CO2 è qualcosa di simile alla fotosintesi, vale a dire basato sula fotochimica. L’attivazione si ottiene con la promozione di un elettrone ad un alto stato energetico in un semiconduttore. Questo elettrone quindi reagisce con la CO2, trasformandola in un composto attivo che può reagire con l’idrogeno. Tipicamente, TiO2 è il semiconduttore usato. Qui vedete i potenziali elettrochimici che possono essere usati per ottenere la reazione ed i prodotti ottenibili.
La reazione di attivazione fotoelettrochimica della CO2 è ancora allo stadio di ricerca, ma è un’idea promettente. Vedete che c’è un sacco di interesse su questo concetto e quest’anno c’è stata una conferenza sull’attivazione della CO2 ad Essen, in Germania.
E’ un campo enormemente interessante e molto nuovo: fateci caso perché è la “prima” conferenza sull’attivazione della CO2 – non ci sono molti i soggetti in chimica che non siano stati oggetto di studi estesi e dove possiate avere la “prima” conferenza mondiale. Quindi un area davvero interessante. Sfortunatamente non ho potuto assistere a quella conferenza per diverse ragioni, ma cercherò di essere presente alla prossima edizione nel 2013. Penso che il concetto di usare la CO2 come materia prima per l’industria chimica sia la vera frontiera della catalisi eterogenea e vi invito a considerarla per il vostro lavoro futuro.
6. Energia ed attivazione della CO2
Abbiamo quindi visto che abbiamo bisogno di cominciare a lavorare nella direzione di ottenere le sostanze chimiche che ci servono dall’attivazione della CO2. In questo momento  è una strada più costosa e più complessa che non il modo tradizionale di ottenere sostanze chimiche dagli idrocarburi fossili, ma in futuro è probabile che diventi la strada scelta. Nel lungo periodo sarà l’unica.
Naturalmente dobbiamo avere cura di quello che facciamo. Forse avete letto in qualche saggio che alcuni stanno dichiarando di “ottenere benzina dall’aria”. Fa riferimento ad un particolare percorso della reazione che comincia con l’attivazione della CO2 e che porta ai combustibili liquidi. In un certo senso è vero, ma è anche chiaro che c’è una differenza fondamentale. Quando si fa la benzina dal petrolio si usa l’energia contenuta nel petrolio (o forse nel gas naturale) per alimentare tutto il processo. Ma quando si fa la benzina dalla CO2 bisogna fornire l’energia necessaria. La CO2 è un composto chimico molto stabile e per attivarla è necessario salire termodinamicamente, non c’è modo di evitarlo. E non possiamo usare idrocarburi fossili per ottenere quell’energia: non avrebbe senso bruciare idrocarburi per ottenere idrocarburi!
Quindi, se vogliamo sostituire il petrolio con la CO2 come materia prima, dobbiamo fare attenzione al fatto che abbiamo bisogno di energia per alimentare tutto il processo e quest’energia non può venire dai combustibili fossili, altrimenti tutta la cosa sarebbe controproducente. Impianti nucleari o energia rinnovabile, probabilmente entrambe le cose, ma è essenziale che sviluppiamo ed installiamo nuove forme di energia in futuro.
Questo è il punto cruciale della grande sfida che affrontiamo. O riusciamo a sviluppare ed usare questi nuovi metodi, o avremo problemi molto, molto grandi. E, come avete visto, la catalisi è un fattore fondamentale di queste nuove prospettive. E’ un campo affascinante su cui lavorare. Lo è sempre stato ed ora ancora di più!
7. Conclusione
Vi ho detto all’inizio che era un piacere per me essere qua, ma ora vorrei dirvi esattamente il perché. Vedete, la prima volta che sono stato in Russia è stato nel 1993, quasi 20 anni fa. Era il periodo del collasso dell’Unione Sovietica. Molti di voi erano troppo giovani per ricordare quei tempi, ma sono sicuro che capite di cosa sto parlando. Quelli erano tempi tristi, specialmente per la ricerca scientifica: non c’erano soldi, nemmeno per gli stipendi dei ricercatori. Si aveva la sensazione che così tanto lavoro andasse perduto: competenza, cultura, storia, tutto stava scomparendo. Ma oggi, visitando l’Università di Tomsk e vedendo così tanti di voi così entusiasti, così coinvolti e che lavorate così bene, posso dirvi che è un grande piacere per me. Davvero, è qualcosa che non dimenticherò presto.
Quindi, dopo aver visitato la Russia molte volte durante i 20 anni passati, ho un solo rimpianto: di non aver potuto fare questa conferenza in russo. Ma posso, perlomeno, ringraziarvi per la vostra attenzione in russo: Спасибо за внимание!
Per chi fosse interessato, alcune opere recenti e meno recenti di Ugo Bardi:
  • Ugo Bardi, “La fine del petrolio”, Ed, Riuniti 2003. ISBN 9788835954255
  • Ugo Bardi, Giovanni Pancani, “Storia petrolifera del bel paese”, Ed. Le Balze 2006. ISBN 8875391262
  • Ugo Bardi, “Il libro della Chimera”, Ed. Polistampa Firenze 2008, ISBN 885960365X ISBN 9788859603658
  • Ugo Bardi, “The Limits to Growth Revisited”, SpringerBriefs in Energy 2011, ISBN 9781441994158
  • Ugo Bardi, “La Terra svuotata”, Editori Riuniti 2011, ISBN 9788864730677
  • Bardi, U.;Lavacchi, A. A Simple Interpretation of Hubbert’s Model of Resource Exploitation. Energies 2009, 2, 646-661.