E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!
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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo
a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI
Premesso che gli autoveicoli circolanti in italia sono circa 37 milioni (il totale dei veicoli sfiora i 50 milioni) con un rapporto di circa 1:1 fra benzina e gasolio, che il consumo di gasolio e’ circa 2-3 volte superiore a quello della benzina (22-23 milioni di tonnellate contro 7-8), che l’inquinamento da motori diesel si caratterizza per valori elevati di ossido di carbonio, idrocarbuti incombusti, particolato atmosferico, al pari di quello da benzina e soprattutto di NOx (si veda anche il nostro post a riguardo), superiori quest’ultimi all’inquinamento da motori a benzina per le piu’ alte temperature e pressioni che li caratterizzano, dovute alle esigenze dell’autoaccensione, quello che segue è un post che affronta soltanto i problemi posti dall’inquinamento da benzina.
Gli inquinanti principali da traffico e da impianti di riscaldamento sono sostanzialmente divisi in quattro categorie:
Ossidi di azoto
Particelle sospese
Ossido di carbonio
Composti organici volatili
Si noti che ben il 60% dell’inquinamento da queste quattro classi di inquinanti è dovuto al traffico.
In Italia circolano circa 37 milioni di auto. Il consumo di benzina verde e rossa, a parte la Germania, (bisogna però tenere conto che con l’unificazione della Germania Est e della Germania Ovest la popolazione è di molto aumentata), è uno dei più alti di Europa ,7-8 milioni di tonnellate. Si può quindi affermare che l’Italia contribuisce effettivamente in modo massiccio all’inquinamento da traffico.
In un giorno feriale nella capitale Roma avvengono 6 milioni di spostamenti: di questi, 1,4 milioni a piedi o in bicicletta, ben 4,4 milioni con mezzi motorizzati: 1,3 milioni con mezzi pubblici; 3,1 milioni con mezzi privati. Di fatto, quindi, l’80% delle persone si sposta con mezzi motorizzati, e per la maggior parte mezzi privati con una sola persona a bordo, una situazione a cui è francamente difficile porre rimedio senza l’impegno ed il sacrificio di ognuno.
In effetti con la benzina verde si pensava di avere in parte risolto o perlomeno ridotto i problemi del traffico. Se però percorriamo gli ultimi 25 anni notiamo che si sono succeduti tre tipi di combustibile per le macchine:
La benzina rossa (degli anni ’80)
La benzina verde (degli anni ’90)
La benzina verde nuova (degli anni 2000)
A questi tre tipi di benzina hanno sempre corrisposto dei problemi ambientali, vere e proprie emergenze: alla benzina rossa hanno corrisposto i metalli, alla benzina verde i BTX, e alla benzina verde di nuova generazione il PM (particolato).
Il problema della benzina rossa era collegato al fatto che essa conteneva i composti a base di piombo con funzione antidetonante. Questo piombo veniva smaltito nell’ambiente, da cui numerosi casi di piombemia ed avvelenamento.
La benzina verde che ha progressivamente sostituito la rossa, ha una composizione diversa e non contiene piombo: contiene tuttavia BTX (benzene,toluene,xilene), idrocarburi cancerogeni.
I dati rilevati nelle stazioni sperimentali del comune di Roma alcuni anni fa (immediatamente dopo la sostituzione della benzina rossa con quella verde) denunciavano per questi composti un valore anche 10 volte superiore a quello che oggi è considerato il livello di guardia, cioè 5-10 microgrammi/m3.
Negli ultimi anni, il livello di BTX è sceso: nel 2001 esso è arrivato a valori di 10, cioè al livello di qualità. Ciò è stato possibile con le campagne contro il benzene e con le leggi che hanno stabilito nello 0,5% la quantità massima di aromatici nella benzina (benzina verde corretta).
In questa nuova benzina non c’è piombo e il benzene è ridotto sotto lo 0,5%. Dopo un paio di anni di relativa tranquillità, è poi sorto un nuovo problema: la combustione della benzina produce delle particelle piccole (quasi invisibili) e carboniose. Si tratta del particolato atmosferico, pericoloso in quanto, assumendolo attraverso la respirazione o la pelle produce dei danni agli organi respiratori. La normativa di riferimento (fra cui le direttive europee sull’inquinamento urbano 1999/30/EC e 96/62/EC) ha cercato di porre un freno al problema, fissando i limiti annuali di PM10 per la protezione della salute a 50 (microgrammi/ m3) μg/m3 da non superare più di 35 volte l’anno (una soglia che dal 2010 scenderà a 20 μg/m3 per un massimo di 7 volte l’anno) e i limiti giornalieri a 40 μg/m3. Il problema però è tutt’altro che sotto controllo: 104 superamenti del limite giornaliero a Torino, 91 a Bari, 87 a Venezia, 80 a Milano, 67 a Roma, 59 a Bologna. Anche secondo le ultimissime valutazioni le responsabilità sono da attribuire per il 50% al trasporto su strada che in città come Roma raggiunge quote del 70%, ma è anche decisamente sensibile soprattutto al Centro-Nord, il contributo fornito dal riscaldamento e dal settore industriale, che raggiunge i suoi picchi nelle metropoli e nelle grandi aree produttive.
Il particolato può essere immaginato come un contenitore di molti composti chimici e di altre sostanze, in forma variabile. Ciò rende ovviamente difficili le previsioni anche sulla tossicità dello stesso: è dunque un nemico particolarmente pericoloso, in quanto muta.
La normativa tecnica e giuridica non è stata ancora in grado di fornire le linee guida per tracciare un quadro completo e rappresentativo delle emissioni in atmosfera delle polveri sottili. Nel 2006 l’Oms, riconoscendo la correlazione fra esposizione alle polveri sottili e insorgenza di malattie cardiovascolari e l’aumentare del danno arrecato all’aumentare della finezza delle polveri, ha indicato il limite del PM2.5 come misura aggiuntiva di riferimento delle polveri sottili nell’aria e ha abbassato i livelli di concentrazione massimi “consigliati” a 20 e 10 microgrammi/m3 rispettivamente per PM10 e PM2.5. Un caso più sintomatico è quello che riguarda la componente cosiddetta “condensabile” generata dai processi di combustione, una frazione non facilmente definibile con le norme tecniche attualmente in vigore, ma che pure fornisce un contributo sensibile alla formazione del particolato secondario, massimo responsabile dei livelli delle polveri fini (PM10, PM2.5, PM1) nell’aria. Dando uno sguardo oltre confine si scopre che l’Epa (l’Agenzia federale americana per la protezione dell’ambiente) è l’unica ad aver sviluppato un protocollo di campionamento ed una metodologia vera e propria “a condensazione” sul particolato emesso dai fiumi di una centrale di riscaldamento.
Il sistema comporta una gestione abbastanza complessa, per cui, al momento, appare come una strumentazione adatta per studi di ricerca, ma difficilmente utilizzabile per misure di controllo”. E per il futuro? Un’evoluzione auspicabile sarebbe sicuramente quella di poter riprodurre anche gli effetti fotochimici a cui sono soggetti i fumi una volta introdotti in atmosfera e valutare così il contributo alla formazione di particolato secondario in modo specifico per ogni combustibile.
Come agisce il particolato atmosferico? Di preciso non si sa ancora. Secondo alcuni la causa dei problemi alla salute è da ricercarsi nella alta capacità di queste particelle di penetrare nei polmoni (il che porta ad una carenza di ossigenazione). Secondo altri, questo particolato, carico di acidi, corroderebbe organi e tessuti. Secondo altri ancora, infine, i metalli in esso contenuti sarebbero catalizzatori di reazioni di degradazione e comporterebbero la formazione di sostanze tossiche: in altre parole, il particolato agirebbe come un qualsiasi altro tossico. Sono ipotesi diverse, ma il risultato unico è che il particolato è un pericolo reale da cui dobbiamo difenderci. Ma come? I provvedimenti recenti circa il traffico sono appunto un tentativo di difesa in questo senso.
Tuttavia, si è già visto che se si corregge la benzina ed il sistema di utilizzo in modo tale che il PM10 venga ridotto, aumenta il PM2.5: queste particelle più piccole sono ancora più pericolose in quanto sono in grado di penetrare lì dove quelle da 10 micron non erano in grado di fare. Si tratta in definitiva di continue battaglie e non è sempre detto che quelli che pensavamo essere stati dei passi avanti in ultima analisi effettivamente lo siano.
L’atmosfera urbana è caratterizzata dalla presenza di un insieme vasto ed eterogeneo, da un punto di vista chimico-fisico, di particelle aerodisperse di dimensioni comprese tra 0,005 e 100 μm, costituite essenzialmente da minerali della superficie terrestre, prodotti di combustione e di attività industriali, artigiane, domestiche, sali provenienti da aerosol marini, prodotti di reazione in atmosfera. Le quantità di materiale particellare riscontrabili nelle atmosfere urbane sono in genere dell’ordine di 50-250 μg/m3.
Fra queste particelle viene considerata con sempre maggiore interesse per i suoi effetti sulla salute della popolazione esposta la frazione inalabile, ovvero la frazione granulometrica di diametro aerodinamico minore di 10 μm (PM 10). La frazione granulometrica del PM10 formata da particelle di diametro aerodinamico maggiore di 2,5μm costituisce la frazione coarse, che una volta inalata può raggiungere l’apparato respiratorio superando il livello naso-faringeo, quella costituita da particelle con diametro aerodinamico minore di 2,5μm (PM 2,5) costituisce la frazione fine, che una volta inalata, è in grado di arrivare fino al livello degli alveoli polmonari.
Le polveri fini, o particolato, hanno soprattutto tre origini:
- Mezzi di trasporto che bruciano combustibili
- Impianti industriali
- Impianti di riscaldamento
Le attuali conoscenze sul potenziale rischio cancerogeno per l’uomo dovuto all’esposizione del particolato, derivano da studi di epidemiologia ambientale e di cancerogenesi sperimentale su animali e da saggi biologici a breve termine, quali test di genotossicità, mutagenesi e trasformazione cellulare.
Si è riscontrata un’elevata attività mutagena nell’aria urbana di tutte le città del mondo e risulta crescente la preoccupazione per un possibile effetto cancerogeno sulla popolazione in seguito all’esposizione da particolato urbano. E’ infatti noto da molto tempo che estratti della componente organica da particolato urbano possono indurre cancro alla pelle in animali da esperimento e risultano mutageni in alcuni dei test adottati per tale valutazione.
Inoltre in alcuni studi è stato mostrato come l’esposizione ad aria urbana abbia provocato la formazione di addotti multipli al DNA, sia nel DNA batterico che nel DNA della pelle e del polmone del topo. Infine estratti della componente organica da particolato sono risultati positivi anche in saggi di trasformazione cellulare in cellule di mammifero.
Uno studio dell’US Environmental Protection Agency (USEPA) sui tumori “ambientali” negli Stati Uniti stima che il 35% dei casi di tumore polmonare “urbano” attribuibili all’inquinamento atmosferico sia imputabile all’inquinamento da particolato.
L’organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto che in Italia, nelle città più inquinate la percentuale de decessi che si possono addebitare alle polveri può arrivare fino al 5%.
La variabilità della composizione chimica del particolato atmosferico fa si che, ai fini della protezione dei cittadini e degli esposti, la misura solo quantitativa di questo indice non sia del tutto significativa.
E’ per questo che negli ultimi anni vanno moltiplicandosi gli studi su questo inquinante, riguardanti il campionamento, l’analisi, la valutazione di tossicità.
La presenza nel particolato di elementi e composti diversi a differenti concentrazioni comporta quindi che, a parità di quantità, la qualità di esso possa essere differente da caso a caso e determinante ai fini della individuazione di situazioni di rischio e pericolo. È ovvio che, per gli aspetti più strettamente fisici del rischio ambientale, tale considerazione è relativamente meno influente in quanto tale azione si esercita attraverso un’ostruzione delle vie respiratorie da parte del particolato; ma quando da questi si passa a quelli chimici e quindi alle interazioni chimiche e biochimiche fra l’ecosistema, l’organismo umano, che ne fa parte, ed il particolato, si rende necessaria una valutazione integrale di tipo anche tossicologico finalizzata a valutare le potenzialità nocive del particolato in studio.
I test di tossicità integrale nascono con il fine di fornire in tempo reale risposte finalizzate a possibili interventi tempestivi in caso di situazione di allarme, superando i tempi morti dell’attesa dei risultati delle complesse e complete analisi chimiche e microbiologiche di laboratorio.
Le metodiche di campionamento da adottarsi devono essere compatibili con le procedure e le tecniche di preparazione dei campioni dell’analisi successiva. I metodi adatti a tale fine sono essenzialmente due: il metodo del filtro a membrana che permette di raccogliere direttamente il particolato su un supporto adatto alla successiva analisi mediante microscopio elettronico (MEA) ed il campionamento mediante impattori inerziali.
Certamente, tra traffico e salute c’è una correlazione: lo dimostrano la netta differenza tra città e campagna del numero di malattie broncopolmonari , lo dicono le percentuali di gas tossici di cui il traffico può essere considerato responsabile per circa il 60% del totale.