Ma le cellule sono cariche o no?(parte 1)

Claudio Della Volpe

Dopo vent’anni di insegnamento di elettrochimica in varie salse (da elettrochimica per chimici a elettrochimica per ingegneri dei materiali ad accumulo e conversione elettrochimica dell’energia per ingegneri energetici) credo di poter trarre il succo dicendo che ci sono due concetti veramente duri da assimilare per gli studenti: il potenziale chimico/elettrochimico e l’elettroneutralità.

Del primo ho scritto già in questo blog (una lista di post in fondo) e mi avvio a fare un commento sul secondo, ponendomi e ponendovi una domanda: ma le cellule viventi sono cariche elettricamente o no?

Una domanda del genere rischia di risvegliare i fantasmi delle teorie galvaniane!

Ma non è questo il mio scopo; al contrario è comune leggere anche parlando di celle elettrochimiche che dato che c’è una differenza di potenziale allora c’è una separazione di cariche.

Ora questa secondo me è sostanzialmente una sciocchezza; occorre sempre verificare se la separazione si verifichi o meno. E’ vero che se c’è una separazione di cariche allora c’è una differenza di potenziale, ma non è vero il contrario, ossia che se c’è una differenza di potenziale (elettrico) allora c’è per forza una separazione di cariche.

Gli elettroni che si muovono lungo un filo metallico si muovono lungo un campo elettrico verso potenziali più positivi, ma non sono respinti o attratti da un accumulo di cariche. Il filo è privo di accumuli di cariche nette lungo il suo percorso.

Il potenziale elettrico è l’energia per unità di carica e dunque ciò che ci dice una differenza di potenziale elettrico è che l’energia potenziale di due cariche o di due punti di un campo sono diversi, una maggiore dell’altra, ma non che ci siano più o meno cariche separate.  Tuttavia questo non esclude che ci possano essere cariche in eccesso, ma saranno in genere un numero molto molto basso a causa del secondo fenomeno, l’elettroneutralità

La cosiddetta ipotesi di elettroneutralità è stata introdotta nel 1889 da Nernst (Nernst W (1889) Die elektromotorische Wirksamkeit der Jonen. Z Phys Chem 4:129–181 ).

Nel par. 2 p. 133 dice: Poiché all'interno delle soluzioni non può esistere elettricità libera (almeno non in misura tale da essere solo lontanamente comparabile con la quantità totale di elettricità + e - legata agli ioni), deve valere la condizione
 
(riscritta da me con simboli moderni, dove le C sono le concentrazioni degli ioni iesimi e le z le cariche dei medesimi). Nernst si esprime in termini di "pressioni parziali" degli ioni che modernamente equivarrebbero alle attività e che ho approssimato con le concentrazioni.

L’idea base è che in soluzione (o comunque in fase condensata, aggiungeremmo oggi) non possano esercitarsi spontaneamente forze che porterebbero su distanze macroscopiche alla separazione di cariche elettriche.

Se applicate la legge di Coulomb a due cariche opposte di una femtomole, poste a distanza di  1 micron, ve ne rendete subito conto: fra di loro si eserciterebbe una forza di 100 N (10kg)!!

Una conferma della tipologia di forze che si esercitano in queste condizioni è data dalle variazioni geometriche e meccaniche che si ottengono cambiando il campo elettrico in una giunzione p-n, ossia in una condizione che riproduce l’esperimento originale di Volta ma in una coppia di semiconduttori dopati in modo opposto; le giunzioni p-n sono oggi la base della tecnologia elettronica, costituendo l’essenziale dei transistor, delle celle fotovoltaiche, ma anche dei LED. All’interfaccia fra la fase p e la fase n si forma una cosiddetta regione di deplezione, dell’ordine del micron ai cui estremi è presente un piccolo eccesso di cariche opposte, che determina una barriera di potenziale. Questo fenomeno si spiega per l’azione del diverso potenziale chimico dell’elettrone, ossia della tendenza a sfuggire o se volete, più banalmente, della concentrazione di elettroni “liberi”, di conduzione. Essi si sposteranno dal lato n, più ricco di elettroni di conduzione, al lato p, lasciando il lato n carico positivamente e caricando il lato p negativamente. Le forze di attrazione elettriche si oppongono a tale flusso e lo bloccano ad una distanza appunto di circa un micrometro. Questa barriera di potenziale permette sia il funzionamento delle celle FV, sia dei transistors che dei LED.

Di cosa parliamo quantitativamente?

Queste cariche generano un campo elettrico inferiore al volt (0.3-0.6V) ed esercitano anche uno sforzo meccanico sui materiali a contatto e reciprocamente, tramite un campo elettrico applicato, si possono far variare le distanze fra i due materiali p ed n costruendo così un nanoattuatore (Kanygin, M., Joy, A.P. & Bahreyni, B. Localized Mechanical Actuation using pn Junctions. Sci Rep 9, 14885 (2019). https://doi.org/10.1038/s41598-019-49988-z), senza la necessità di usare materiali piezoelettrici.

Comodo no? Il lavoro che vi cito dimostra che il fenomeno si comporta in modo elastico; usando un campo variabile potete far oscillare la giunzione a frequenze dell’ordine dei kHz espandendola e contraendola di qualche centinaio di picometri, diciamo l’1/1000 della zona di deplezione che è stimata a 0.3 micrometri.

La struttura e l’andamento del campo elettrico nella giunzione p-n.

Come si sa il lato p è dopato con circa un atomo per milione di boro e il lato n con circa un atomo per milione di fosforo, creando in tal modo un gradiente artificiale di elettroni di conduzione, “liberi”.

Il modulo di Young del silicio usato in questo esperimento è di 169 GPa e le misure portano ad un effetto di variazione dimensionale di qualche picometro per ogni volt di differenza di potenziale aggiuntiva.

Quale è la carica elettrica netta che si accumula agli estremi di questa sorta di condensatore? E’ un condensatore particolare poiché le armature sono solo zone di materiale ai bordi della deplezione.

Possiamo stimarla usando la formula della capacità per un condensatore a facce piane, ricordando che la permittività elettrica relativa del silicio è 12; avremo dunque

C = ε A / D

dove la costante ε è il prodotto della permittività del vuoto per quella relativa del siilicio ; su un metro quadro di superficie avremmo

C=12*8,854187817 × 10−12 [C]2[m]−2[N]−1*1m2/10-6m

Stiamo dunque parlando di una capacità di 10-4 farad, che si può anche esprimere come dQ/dV, una carica per unità di potenziale, per volt, che tenendo conto delle proprietà misurate nell’esperimento di Kanygin o di quelle medie di una giunzione (<1V) corrispondono a circa un decimillesimo di coulomb o un miliardesimo di Faraday per metro quadro.

In sostanza tenendo conto del volume della zona di deplezione e della densità del silicio parliamo di una carica elementare ogni 100 milioni di atomi presenti. (E comunque il numero di cariche di segno opposto è uguale.)

Vedete voi stessi che si tratta di quantità molto piccole, a conferma che l’ipotesi di Nernst vale non solo in soluzione ma anche nei solidi, e in genere nelle fasi condensate.

(continua)

Post sul potenziale chimico:

Quanto è chimico il potenziale chimico? (V)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Siamo quasi alla fine di questa lunga corsa attraverso il potenziale chimico e la meta, una descrizione per quanto possibile dettagliata del potenziale elettrochimico, ma senza la necessità di ricorrere alla matematica sofisticata a cui si ricorre di solito, è vicina.

Tiriamo le fila.

Quando si parla di elettrochimica occorre rispolverare almeno alcuni dei concetti della fisica, dell’elettromagnetismo, il voltaggio, la carica, la corrente; ma quali significati prendono adesso nel nuovo contesto che stiamo esplorando?

Le cariche sono per noi ioni ed elettroni, le loro cariche sono tutte multiple di quella del protone e/o dell’elettrone che sono uguali fra loro ma di segno opposto; la carica viene espressa in coulomb in Fisica, ma in Chimica, dove l’unità base è la mole, si usa una mole di cariche elementari che prende il nome di Faraday .

Il voltaggio, innanzitutto; si tratta di energia per unità di carica, ossia 1 Volt = 1Joule/1 Coulomb; dato che 1 Coulomb è una unità di misura della carica molto piccola rispetto alle grandezze della Chimica, basta ricordare che 1 mole di cariche elementari, ossia 1 Faraday, corrisponde a poco meno di 100.000 coulomb (per la precisione 96.450). Quindi per ogni mole di cariche processate in una reazione la cui differenza di voltaggio è 1 Volt, si spendono o si ottengono circa 100.000 J. Ma questo valore è proprio quello tipico della variazione di energia di una reazione in cui si rompa o si formi un legame forte, quindi 1V è un voltaggio sufficiente ad una tipica reazione chimica, anzi non ci aspetteremo mai valori di voltaggio tipici molto più grandi di questi, qualche Volt è il massimo che possiamo aspettarci. Valori molto maggiori devono farci sospettare processi diversi.

E la corrente? Quale è il senso “chimico” della corrente?

Gli Ampere sono coulomb al secondo; quindi cariche che passano al secondo; dato che in elettrochimica le cariche sono elementi reattivi stiamo parlando di una vera e propria velocità di reazione; la corrente è una velocità di reazione.

Ma per quello che abbiamo detto prima 1 coul/sec equivale a 10-5moli di cariche al secondo; quindi una velocità piccola; c’è una cosa importante da ricordare; questa velocità di reazione è riferita comunque alla sezione attraverso cui le cariche passano: il filo del circuito, ma anche l’elettrodo del nostro sistema di reazione, una batteria, un elettrolizzatore. Di solito quindi in elettrochimica si parla non tanto di corrente ma di “densità” di corrente, ossia di una corrente riferita ad una sezione unitaria, per esempio un cm2 di elettrodo. I cavi che portano la corrente in una fabbrica elettrochimica o la superficie degli elettrodi delle celle, sono enormi; e le correnti in gioco sono enormi, centinaia di migliaia di amperè in ogni sito produttivo, solo così si hanno le produzioni che si hanno; 50Mton anno di alluminio primario corrispondono a circa 1800 miliardi di moli e dato che ciascuna mole richiede 3 moli di elettroni secondo la reazione:

Al+3 + 3e == Al

occorrono quindi 5400 miliardi di Faraday; ossia 5.4*1017 coulomb; dato che la produzione di alluminio è continua e in un anno ci sono 3.15 *107 secondi dividiamo i due numeri uno per l’altro. Stiamo parlando di poco meno di 18 miliardi di Ampere usati costantemente in ogni istante per produrre solo il nuovo l’alluminio di cui abbiamo bisogno. Le correnti usate sono così alte in questo tipo di fabbriche che inducono potenti campi magnetici in tutta la zona di produzione, impedendovi di usare orologi meccanici, schede magnetiche, e ogni altro oggetto sensibile ai campi magnetici intensi.

     potchim5aLe celle elettrochimiche corrispondenti sono lunghe molti metri e disposte in serie di centinaia. E’ in pratica l’effetto del rapporto fra il coulomb e il faraday!

In pratica tenendo presente che il voltaggio di lavoro di una cella è superiore ai 4V, che la potenza in (W) watt = corrente (A) x tensione (V), nel mondo si impiega una potenza continua di circa 100GW per produrre solo l’alluminio nuovo, il che corrisponde a poco più dello 0.7-1% della potenza media mondiale primaria e grosso modo al 2-4% di tutta la potenza elettrica costantemente impiegata nel mondo. L’alluminio è certamente un metallo molto energivoro e questa che viviamo potrebbe anche metallurgicamente definirsi l’età dell’alluminio.

potchim5b

Avrete notato che il voltaggio di lavoro della cella è di quasi 4-5volts, mentre l’analisi teorica basata sui potenziali di ossidoriduzione della reazione usata che è

potchim5c

dà 340 kJ/mole a 1000°C, ossia in regola con il calcolo che abbiamo fatto prima:

1 Volt corrisponde a circa 100 kJ (96.45) per mole di cariche elementari, qui abbiamo 3 moli di cariche elementari per ogni mole di alluminio quindi il potenziale sarà

340/96.45/3=1.18V da spendere, almeno in linea teorica; la differenza fra la teoria 1.18V e la pratica che viaggia sui 4-5 Volts ci introduce nel cuore dell’elettrochimica.

Questa è la stima della spesa energetica nella cella nelle sue varie parti:

pothim5d

(da Industrial Electrochemistry di C. Pletscher e F. Walsh, 2 ed Kluwer ed)

Da questo riquadro vediamo che il grosso dell’incremento del voltaggio, ossia della spesa di energia per unità di carica viene dalla resistenza fornita al flusso della corrente dagli elettrodi, fatti in questo caso di grafite, e dall’elettrolita stesso ed infine che c’è una quota significativa di “sovratensione” all’anodo, ossia per la semireazione   2O2-+C –>CO2 + 4e- (la semireazione è da moltiplicare per tre per trovarsi con la stechiometria precedente ma questo non altera il conto per mole di cariche o di alluminio).

La resistenza offerta da elettrodi ed elettrolita produce per effetto joule l’energia necessaria a mantenere la temperatura di cella a 1000°C e quindi può essere considerato un effetto voluto ed utile.

Mentre la resistenza degli elettrodi o della soluzione sono un concetto che anche uno studente liceale può comprendere ed accettare, (la definizione comune di resistenza che viene data è R=V/I e si badi che non è del tutto esatta), quello di sovratensione è un concetto nuovo sul quale converrà fermarsi un momento.

Dobbiamo ripartire dall’equazione fondamentale del potenziale elettrochimico che abbiamo scritto fin dalla prima parte del post:

μ + V zF = 0       μ =- V zF

Questa espressione vale all’equilibrio, ossia quando l’energia libera disponibile è nulla, quando il massimo lavoro di non-espansione da svolgere (che nel nostro caso è elettrochimico) è zero e abbiamo solo fluttuazioni fra i due stati di equilibrio che si fronteggiano: reagenti e prodotti o se si vuole stati ossidati e ridotti o anche semplicemente come nell’esperimento di Volta due diversi metalli a contatto: il gap di potenziale chimico equivale e bilancia la differenza di potenziale elettrico che si crea e il sistema è stabilmente all’equilibrio, non ci sono flussi di corrente NETTI o in pratica non accade nulla (a parte semplici fluttuazioni, ossia la corrente di scambio).

Nel caso dell’alluminio se applichiamo alla cella industriale un potenziale del genere anche in assenza delle resistenze di elettrodi ed elettrolita NON ACCADE NULLA, non passa corrente, l’alluminio non si forma.

Ma se vogliamo che un processo avvenga cosa dobbiamo fare allora?

In linea di principio e guardando l’equazione precedente dobbiamo creare uno sbilancio fra i due termini, incrementandone uno mentre l’altro rimane fermo o riducendone uno mentre l’altro rimane fermo. Creeremo quindi un gap, una differenza o come si dice un gradiente o di potenziale chimico o di voltaggio rispetto a quello di equilibrio, (V-Vequ) o (μ-μequ) una differenza, un gradiente che funzionerà da forza spingente del processo lontano dall’equilibrio.

Nel caso della produzione di alluminio per allontanarci dall’equilibrio, e dato che questo è un processo in cui energia elettrica si trasforma in energia chimica, dobbiamo semplicemente spendere più energia elettrica, aumentare l’energia per unità di carica ossia in definitiva il voltaggio applicato.

Per comprendere il motivo di questa necessità riflettiamo sul fatto che mentre al catodo il processo può essere immaginato in termini di pura e semplice attrazione fra lo ione positivo Al+3 e gli elettroni, un processo interpretabile in termini di pura attrazione elettrostatica e senza problemi particolari, nel caso invece del processo anodico, abbiamo del C che deve rompere i suoi legami forti ed accettarne di nuovi con lo ione O2- presente in soluzione; si tratta quindi di una vera e propria reazione chimica, dotata di un suo meccanismo e di una sua “energia di attivazione”, ossia della necessità di modificare sia pur minimamente i reagenti perchè siano pronti ad entrare nel loro nuovo stato; questa forma più attiva di reagenti, definita non a caso “stato attivato” implica una trasformazione che non è a costo energetico nullo; e per realizzarla occorre quindi dell’energia in eccesso rispetto a quella necessaria al processo come tale; tale “energia di attivazione” in eccesso, (necessaria anche in processi che alla fine produrranno energia) può essere fornita proprio dal campo elettrico e quindi un’aumento di voltaggio, ossia di energia per unità di carica può fare la differenza; ecco perchè quell’input aggiuntivo di 0.5V nel processo anodico per fabbricare l’alluminio.

potchim5e

In questa immagine del Bianchi e Mussini – da “Elettrochimica” 1976 editore Masson non più in commercio, uno dei classici libri dell’elettrochimica, scritto da due grandi della scienza italiana – si rappresenta proprio questo fenomeno nel caso della ossidazione di un metallo, ma il concetto è sempre il medesimo, la reazione si svolge da sinistra a destra per l’ossidazione e da destra a sinistra per la riduzione; la curva tratteggiata descrive la situazione all’equilibrio e quella continua dopo aver cambiato il potenziale anodico; nel primo caso la quota descritta come Watt,A è la quota di energia di attivazione necessaria, mentre nella nuova curva continua tale dislivello si riduce; il contrario avviene per la quota

Watt,C ossia per l’energia di attivazione necessaria per il processo inverso; quindi l’ossidazione viene favorita e la riduzione sfavorita, come se si fosse introdotto un catalizzatore solo nella prima direzione.

Ecco a cosa servono quegli 0.5V di “sovratensione”: a vincere le barriere di energia potenziale nella distruzione dei legami fra atomi di carbonio nell’anodo della cella per l’alluminio.

In pratica per lasciare l’equilibrio, lo stato prediletto della termodinamica classica ed entrare nel mondo vero e reale dei fatti dobbiamo “dissipare” energia! Un concetto assolutamente formidabile che ha introdotto la termodinamica del ‘900. Questo avviene anche in un processo isotermo; il criterio di Carnot così utile nella comprensione delle macchine termiche qui non servirebbe più a nulla e si dimostra impotente a comprendere i fatti; invece la sovratensione reintroduce il secondo principio, reintroduce la dissipazione, reintroduce la irreversibilità; anche i processi elettrochimici hanno il loro tallone di Achille, pagano cioè il prezzo al secondo principio della termodinamica, attraverso i numerosi meccanismi che creano “sovratensione”. Infatti non esiste solo la barriera di energia di attivazione, ma processi diffusivi, altre reazioni che precedono o seguono l’atto elettrochimico vero e proprio e così via: e tutti questi sono processi che danno “sovratensione” o dissipazione.

Nel caso della trasformazione da energia elettrica ad energia chimica, la sovratensione si manifesta in questa necessità di aumentare il voltaggio oltre il valore di equilibrio se vogliamo avere una velocità significativa di reazione, ossia un amperaggio decente; ma cosa succede nel caso inverso? Quando trasformiamo energia chimica in energia elettrica, per esempio in una batteria?

Una cosa perfettamente analoga e per certi versi speculare.

Quando usiamo una batteria avremo un utilizzatore che avrà un certa resistenza ESTERNA alla batteria e di cui saremo ben consci; ma qui dobbiamo riferirci alle dissipazioni INTERNE alla batteria, dissipazioni dovute al fatto che quando chiudiamo il circuito di uso e la reazione si allontana dall’equilibrio inviando corrente nel circuito esterno entrano in funzione meccanismi analoghi a quelli che abbiamo invocato nel caso precedente; per esempio avremo una energia di attivazione nel processo INTERNO alla batteria, energia da spendere in più e che ridurrà la spinta di energia libera iniziale della batteria stessa ad un valore di voltaggio inferiore all’atteso; qui allora avremo come risultato che la differenza di potenziale che la batteria ci fornirà ai suoi estremi sarà INFERIORE a quanto programmato, di solito tanto più bassa quanto maggiore è la corrente richiesta, ossia la velocità della reazione interna alla batteria medesima.

In questo caso quindi l’equazione sarà giocata alla rovescia; avremo una specie di sovratensione “negativa”, meno voltaggio di quanto ci aspettavamo di avere, quanto maggiore sarà la velocità di reazione, ossia la corrente richiesta alla batteria; una buona batteria ha una bassa resistenza interna e quindi una bassa sovratensione negativa, ma comunque arrivata al massimo delle sue capacità di corrente di solito crollerà nelle sue prestazioni, un comportamento che potrebbe essere espresso dal grafico seguente:

potchim5f

http://tesi.cab.unipd.it/22946/1/tesina.pdf

Di solito la variazione iniziale del voltaggio è attribuibile alla sovratensione di “barriera”, quella centrale (dove la riduzione è più lenta e costante) è l’effetto della resistenza dell’utilizzatore che ha un valore pari alla tangente alla curva in ogni punto, mentre il crollo finale è attribuibile alla sovratensione cosiddetta di “diffusione”.

Che relazione passa fra il gradiente di voltaggio o di potenziale che avremo imposto nella equazione e il risultato che otterremo in termini di flusso di cariche, di corrente? Quanto potremo andare lontano dall’equilibrio? Purtroppo non c’è una regola generale, o se c’è non l’abbiamo ancora scoperta; tuttavia se siamo abbastanza vicini all’equilibrio vige una proporzionalità fra causa ed effetto, fra gradiente del potenziale (chimico od elettrico) ed i suoi effetti, che poi è il flusso della corrente; questa regola della proporzionalità lineare fra causa e effetto caratterizza la cosiddetta zona lineare dei fenomeni irreversibili.

Il risultato sono una serie di leggi empiriche che vanno ben al di là del caso in questione, anzi nel caso in questione, come in tutta la Chimica, il valore è tutto sommato limitato; la relazione di Fourier per il trasporto del calore, la relazione di Fick della diffusione, la legge di Darcy per i mezzi porosi, e la legge di Ohm dei resistori metallici ed elettrolitici sono leggi lineari valide nel regime lineare, poco lontano dall’equilibrio; in Chimica invece non esiste una legge analoga che dica che per avere una certa velocità di reazione ci vuole un certo gradiente di potenziale chimico; anche il termine di sovratensione di barriera che abbiamo visto è esponenziale quasi sempre; perchè?

Legge di Fourier:  flusso di calore = k * Δ T

Legge di Fick:  flusso di materia = k * Δ C

Legge di Ohm:   flusso di cariche = k * Δ V

Legge di Darcy:   flusso di liquido = k * Δ P

ma in genere

velocità di reazione   ≠ k * Δ G

Il motivo non è banalissimo da spiegare, ma è più semplice dire quando una tale approssimazione, che sarebbe molto utile, può essere usata anche in Chimica: può essere usata ed è valida solo a condizione che il gradiente di energia libera della reazione considerata (Δ G) sia di molto inferiore al termine RT (non è l’unica condizione, ma questa è la parte più semplice); diciamo che vicino all’equilibrio nel caso di un processo chimico significa che il gradiente di energia libera deve essere parecchio inferiore a 2.5kJ/mole a t ambiente (RT=8.31*298 J/mol); si tratta di un numero veramente molto piccolo; in pratica tutte le reazioni chimiche che implicano rotture di legami forti sono fuori da questa condizione, ecco perchè il normale studente di Chimica ed i libri di Chimica non ne parlano; ma si può dimostrare teoricamente che la relazione è vera all’equilibrio e “molto vicino” ad esso. In effetti molti libri di Chimica generale sottolineano che all’equilibrio la velocità della reazione diretta è uguale a quella della reazione inversa; se abbiamo a che fare con una reazione semplice di cui possiamo usare la stechiometria come meccanismo di reazione, allora questo ci permette di collegare la costante di equilibrio e il rapporto delle velocità di reazione diretta ed inversa:

reazione: A–> B

all’equilibrio: v(diretta)=kA* [A]  e v(inversa)=kB * [B]

kA *[A] = kB * [B]

e la costante di equilibrio diventa così un rapporto di costanti di velocità

kA/kB = [B]/[A] =Keq.

Si tratta di un fatto da non sottovalutare: questa eguaglianza gioca un ruolo importante in altri fenomeni (con il nome di principio del bilancio dettagliato o della reversibilità microcopica) e in Chimica è addirittura una cosa “elementare” per così dire; però, di converso, in Chimica, la sua validità è ristretta all’equilibrio e al vicinissimo equilibrio e quindi in pratica non riusciamo ad usarlo per collegare gradiente di energia libera e velocità di reazione IN GENERALE.

Finisce così la storia del potenziale elettrochimico; ho tentato di darne una descrizione non formale, usando esempi non standard e pochissime equazioni, solo algebriche. Spero di essere riuscito nell’intento di renderlo meno ingestibile e misterioso di quanto non sia in media. Ci siamo fermati al limitare dell’oscuro reame dei processi irreversibili, cioè della realtà, ma ci siamo arrivati senza equazioni differenziali. Fatemi sapere la vostra opinione.

Gli altri post di questa serie sono:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/10/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-1-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/17/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-2-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/25/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-3-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/04/28/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-iv/

Quanto è chimico il potenziale chimico? (IV)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.


(la 1 parte di questo post la trovate su https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/10/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-1-parte/

(la 2 su https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/17/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-2-parte/)

(la 3 su http://wp.me/p2TDDv-Et)


a cura di Claudio Della Volpe

Il problema da affrontare, in questa breve serie di post, è quello di presentare il concetto di potenziale chimico, che è uno dei più complessi e sfuggenti di tutta la termodinamica, e per questo sgradito agli studenti e, diciamolo, anche ai docenti.

Ma anche introdurre il concetto usando meno matematica possibile e consentendo l’uso di esso a partire dalla scuola superiore o dai primi anni di università, anche quando lo studente non ha familiarità con le derivate e gli integrali. A questo scopo ho cercato di introdurre le idee di base con esempi semplici ma anche da un punto di vista diverso dal solito. (si vedano a tale scopo i primi tre post di questa serie citati all’inizio). Proseguo in questo tentativo usando ancora una volta una strada “diversa” dal solito.

La valvola termoionica è una applicazione ormai desueta e usata solo negli apparati audio Hi-Fi di grande qualità, grazie al contributo “ammorbidente” che il comportamento conferisce al suono digitale, a volte più aspro, più “duro” della realtà orchestrale.

fig1pot4

Fig 1 Diodo.Il tubo termoionico è costruttivamente simile alla lampadina del tipo a incandescenza, un involucro di vetro nel quale è praticato il vuoto contenente un filamento metallico portato all’incandescenza

fig2pot4

Fig. 2 Triodo. Il flusso della corrente elettrica sempre dal catodo all’ l’anodo è controllato dai dettagli del campo elettrico nella valvola.

Ma in realtà questa invezione, per la cui teoria fu conferito il premio Nobel per la Fisica a Owen William Richardson nel 1928, si presta bene a illustrare il potenziale chimico dell’elettrone, che è ancora più sfuggente come concetto del potenziale chimico in se, pur essendo alla base dell’elettrochimica. La valvola termoionica, che è poi un amplificatore, nelle sue varie forme è stata alla base della tecnologia elettronica della prima metà del 900, della radio, della televisione, del radar e anche del primo computer moderno ENIAC, costituito di decine di migliaia di valvole termoioniche.

Come funziona una valvola termoionica o termionica (in inglese il termine più comune è proprio il secondo thermionic)?

fig3pot4

Diodo (a sin) e triodo (a destra).

L’effetto di emissione di cariche elettriche in gas o nel vuoto a causa di un riscaldamento è un fenomeno complesso che fu studiato prima che fosse scoperto l’elettrone (che fu scoperto da Thomson solo nel 1897) ad iniziare da Guthrie, il quale mostrò che una palla di ferro al calor rosso in aria poteva conservare una carica negativa ma non positiva; ma il fenomeno termoionico vero e proprio fu isolato e analizzato più precisamente da Elster e Geitel i quali analizzarono il comportamento dell’emissione di un metallo ad alta temperatura. In particolare essi scoprirono che l’emissione di ioni positivi si verifica a varie temperature nel vuoto chiarendo dunque che si tratta di una proprietà del metallo alla temperatura assegnata. Rilevarono inoltre che tale emissione non è costante, ma tende a diminuire rapidamente, e soprattutto individuarono che ad alta temperatura si verifica l’emissione di ioni negativi, che a differenza dell’altra, mantiene un livello costante, fino alla scarica del metallo. Emerse insomma una generale tendenza ad acquisire una carica positiva a bassa temperatura ed alta pressione ed una negativa ad alta temperatura e bassa pressione .

L’effetto fu studiato anche da Edison il quale stava analizzando il comportamento dei filamenti delle lampade a vuoto.

Thomson mostrò (1899) che la scarica da parte di un filamento di carbone incandescente nel vuoto era trasportata da particelle negative, gli elettroni appunto. Nel 1900 McClelland mostrò che le correnti in uscita da un filo di platino caricato negativamente erano influenzate pochissimo dal contesto a patto che la pressione del gas fosse molto piccola.

Questo fu il punto di partenza del lavoro di Richardson che publicò poi la teoria del fenomeno nel 1901 e possiamo leggerne la storia nella sua presentazione in occasione del Nobel (http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/physics/laureates/1928/richardson-lecture.pdf)

E’ interessante seguire le riflessioni di Richardson:

“L’idea di questi fenomeni che in generale avevano a quel tempo le persone che ci avevano lavorato era che le scariche elettriche erano trasportate da ioni ed elettroni che erano generati dall’interazione delle molecole del gas vicine al corpo caldo. Era una questione aperta se questa azione fosse puramente termica, una questione di energia cinetica o se fosse chimica, o se coinvolgesse l’intervento della radiazione…

Io pensavo comunque che fosse molto probabile che I gas interagenti avessero poco a che fare con il fenomeno principale, ma che le particelle negative, gli elettroni e , probabilmente, anche quelle positive venissero dal solido riscaldato….

Decisi che il modo migliore di fare un passo avanti fosse di eliminare le complicazioni dovute alla presenza dei gas e di trovare cosa mai avvenisse quando gli effetti dovuti ai gas fossero esclusi. Questo noon era semplicissimo al principio del secolo come lo è adesso. Principalmente a causa dell’importanza tecnica dei fenomeni che stiamo considerando l’arte di evacuare I gas ha fatto enormi passi avanti a allora. All’epoca I gasdovevano essere evacuati con pompe manuali……Nel 1901 potei mostrare che ciascuna area unitaria della superficie di Platino emetteva un numero limitato di elettroni. Questo numero aumentava molto rapidamente con la temperatura, cosiccchè la corrente massima ad ogni temperatura assoluta T era governata dall’equazione                      fig4pot4  

In questa equazione k è la costante di Boltzmann e A e w** sono costanti specifiche del materiale.

Questa equazione è completamente giustificata dalla semplice ipotesi che gli elettroni che si muovono liberamente nell’interno del conduttore caldo possano sfuggire ad esso quando raggiungono la superficie a patto che la parte della loro energia che dipende dalla componente della velocità perpendicolare alla superficie stessa fosse più grande della funzione di lavoro (work function) w. Nel 1903 ho dimostrato che le medesime conclusioni potevano essere tratte per il sodio e più qualitativamente per il carbonio.”

Notiamo subito che questa equazione è approssimata e vedremo poi perchè, ma la cosa interessante dal punto di vista didattico è che questa equazione è sostanzialmente una equazione di Arrhenius(1889) per questo fenomeno.

Se vi ricordate Arrhenius aveva sviluppato una equazione per la costante di velocità di un reazone chimica del seguente tenore:

                                                        k = A e(-Ea/RT)

dove k è la costante di velocità, A un fattore preesponenziale che può ritenersi il prodotto della frequenza delle collisioni Z e della probabilità che esse avvengano con l’orientamento giusto ρ, mentre l’esponenziale è il solito esponenziale di Boltzmann che dà la probabilità che una molecola o un atomo abbia una energia uguale a quella Ea alla temperatura T. A sua volta questa equazione, che è in gran parte empirica, mostra una enorme similarità con una delle equazioni basilari della termodinamica, ossia l’equazione di Gibbs-Helmholtz che correla la variazione della energia libera rispetto alla temperatura con l’entalpia e la temperatura stessa. Non vorrei qui entrare nel merito ma solo ricordare che tali espressioni, molto simili e solo in parte giustificate teoricamente, condividono una comune concezione che ha le sue basi nella cosiddetta teoria cinetica dei gas, una delle più formidabili teorie della fisica classica.

Se si applica tale teoria con maggiore dettaglio si arriva ad una forma esplicita del fattore preesponenziale del tipo fig5pot4

E quindi ecco che compare la radice quadrata della temperatura assoluta presente nell’espressione proposta da Richardson. Noterete anche subito, se no ve lo faccio notare io, che mentre la equazione di Richardson è scritta in termini di un flusso di materia, della corrente della valvola, la equazione di Arrhenius è scritta in termini leggermente diversi; per avere un flusso vero e proprio occorre moltiplicarla per una concentrazione, quella della specie che andrà incontro al processo reattivo vero e proprio, ma tale termine sarà identico a sinistra e a destra dell’equazione stessa; in questa forma l’analogia sarebbe completa.

E’ comunque chiaro che la corrente e la velocità di reazione, come abbiamo già detto nel primo post appartengono alla stessa classe di grandezze, quella dei flussi termodinamici generalizzati, seguendo la terminologia introdotta da Prigogine.

Nella sua presentazione Nobel, Richardson scrive ancora:

“L’idea centrale, che sta dietro alla teoria riassunta nella equazione (1) è che un gas di elettroni sta evaporando dalla sorgente calda. Se questa idea è corretta, la corrente termoionica dovrebbe essere in grado di fluire anche vincendo una piccola forza elettromotrice in opposizione perchè possiede l’energia cinetica necessaria a causa del moto vorticoso del gas di elettroni causato dal calore, il calore, il moto casuale e termico degli elettroni li spinge anche contro una piccola forza elettromotrice. A questo punto possiamo trovare molte più cose che un gas di elettroni può fare rispetto ad un gas ordinario. Dato che gli elettroni sono elettricamente carichi il loro moto può essere influenzato da un campo esterno.

Misurando la corrente elettronica che fluisce contro vari campi in diretta opposizione è possibile accertare la proporzione di elettroni emessi che hanno una componente di velocità perpendicolare allla superficie emittente in un qualunque intervallo assegnato. Facendo osservazioni sugli elettroni emessi lateralmente usando piccoli campi elettrici è possibile dedurre informazioni simili sulle componenti parallele alla superficie. Da esperimenti di questo tipo fatti nel 1908-1909, in parte con l’aiuto di F.C. Brown potei dimostrare che la distribuzione di velocità degli elettroni emessi era identica a quella di un gas con lo stesso peso molecolare degli elettroni alla temperatura del metallo. Questa eguaglianza era valida per ciascuna delle componenti di velocità. Oltre al suo interesse riguardo agli elettroni medesimi questa fu la prima dimostrazione sperimentale della legge di Maxwell per un qualunque gas, sebbene tale legge fosse stata enunciata da Maxwell nel 1859.”

fig6pot4Distribuzioni della velocità per un gas di ossigeno alle temperature di -100, 20 e 600 °C.

In definitiva un metallo a qualunque temperatura sotto vuoto è circondato da un tenue gas di elettroni che aumenta con l’aumentare della temperatura; gli elettroni sfuggono alla lora base di solido cristallino tanto più quanto più è alta la temperatura e la loro tendenza a sfuggire, in altri termini il loro potenziale chimico, è capace di vincere perfino un sia pur debole campo elettrico. Possiamo immaginare questo gas di elettroni come una sorta di vapore in equilibrio col suo liquido. Questo risultato e questa rappresentazione degli elettroni come particelle dotate anch’esse di potenziale chimico, di tendenza a sfuggire in analogia all’equilibrio liquido–vapore è un concetto che domina tutta l’elettrochimica classica e ci aiuta a spiegare anche il fenomeno di Volta e il funzionamento delle tradizionali celle fotovoltaiche.

Ogni metallo avrà un reticolo cristallino ed una porzione di elettroni che vi si muovono liberamente (gli elettroni di conduzione); il loro numero ed il campo elettrico che si stabilisce fra essi e i nuclei ad ogni temperatura decide della loro tendenza sfuggire fissando il parametro w, il lavoro elettrico necessario a superare la barriera di attrazione; queste condizioni saranno diverse per ogni metallo; se nel vuoto metto a contatto due di essi (come fece Volta, fissando l’esperimento che alla base di tutta l’elettrochimica moderna) gli elettroni del metallo con il maggiore potenziale chimico si sposterano verso l’altro metallo in un eccesso che determinerà l’esistenza di una piccola dfferenza di potenziale; una volta stabilita questa differenza di potenziale e quando essa bilancerà la differenza di potenziale chimico, il fenomeno giungerà ad un equilibrio: si otterrà una stabile differenza di potenziale a spese della differenza di potenziale chimico. Come abbiamo scritto nel primo post:

                                     μ + V zF = 0       μ =- V zF

Una situazione del genere si verificherà anche al contatto fra conduttori non metallici; per esempio nel caso del silicio gli elettroni disponibili a muoversi possono essere modificati in numero introducendo un certo numero di “difetti” nel reticolo, atomi di specie diversa con un diverso numero di elettroni disponibili; tale azione, definita di drogaggio, modifica il potenziale chimico dell’elettrone nel materiale (con grande approssimazione potremmo dire il numero e la concentrazione degli elettroni liberi di muoversi, non direttamente impegnati nel legame “forte”); mettendo a contatto due strati di silicio con elettroni a diverso potenziale chimico si stabilirà fra di essi la medesima situazione notata da Volta e questa differenza di potenziale, questa barriera di potenziale sarà molto utile nel funzionamento delle celle FV perchè impedirà agli elettroni successivamente liberati dai legami per effetto della luce (effetto fotovoltaico) di raggiungere zone a minore potenziale elettrico SENZA passare per il nostro circuito esterno che li aspetta al varco per usarne l’energia libera in eccesso.

fig7pot4

Tutte le celle FV moderne (a parte quelle di Graetzel) sfruttano questo fenomeno per obbligare le cariche liberate dalla luce a seguire la strada esterna e non quella interna per minimizzare la loro energia libera e quindi a lavorare per noi, producendo un lavoro elettrico.

Una ultima osservazione: la equazione (1) in realtà è inesatta; ce lo racconta sempre Richardson:

Nel 1911 come risultato del superamento di alcune difficoltà in connessione con la teoria termodinamica dell’emissione elettronica arrivai alla conclusione che

   fig8pot4      fosse una forma teoricamente preferibile dell’equazione per la temperatura di emissione rispetto ad (1) usando ovviamente diversi valori delle costanti.

E’ imposssibile distinguere fra queste due equazioni con l’esperimento. L’effetto dei termini T2 e T(1/2)è così piccolo in paragone al fattore esponenziale che un piccolo cambiamento in A e w lo maschera competamente. In fatti, su mio suggerimento K.K. Smith nel 1915 misurò l’emissione dal tungsteno su un così grande intervallo di temperatura che la corrente cambiava di un fattore di quasi 1012, e ancora il risultato sembrava essere ben rappresentato da entrambe le equazioni (1) e (2). E’ certamente molto soddisfacente sapere che entrambe le formule vanno bene. Non ci sono molte leggi fisiche che siano state testate su un intervallo così ampio di variazione. Il grande vantaggio dell’eq.(2) è che essa rende A una costante universale obbligando così ad usare una sola costante specifica, ossia w.

**w è la cosiddetta ” work function” per differenti elementi dovrebbe essere del medesimo ordine di grandezza di 1⁄2 (e2/d) dove e è la carica elettronica e d il raggio dell’atomo

http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/physics/laureates/1928/richardson-lecture.pdf

per una descrizione più moderna si veda: Thermionic Emission. By WAYNE B.NOTTINGHAM . dspace-test.mit.edu/handle/1721.1/4762‎

Quanto è chimico il potenziale chimico? (3 parte)

(la 1 parte di questo post la trovate su https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/10/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-1-parte/

e la 2 su https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/17/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-2-parte/)

a cura di C. Della Volpe

Cosa succede all’equilibrio?

Il concetto di equilibrio meccanico, e quindi di bilancio delle forze in campo è quello di una situazione di parità fra forze diverse; idea partorita in un contesto di teoria del continuo, non di teoria atomistica della materia. L’equilibrio meccanico vero e proprio, dovuto a forze macroscopiche contrastanti può essere comunque stabile o instabile; l’esempio classico è quello dell’equilibrio in campo gravitazionale di oggetti di forma appropriata. equilibrio

A è in equilibrio stabile perchè anche significativi disturbi non riescono a rovesciare l’oggetto conico, mentre B è instabile, ogni sia pur minimo disturbo può far cadere il cono e quindi allontanare il sistema dall’equilibrio ed infine C è indifferente, perchè ogni disturbo non cambia in modo visibile la situazione che possiede un elevato grado di simmetria. L’equilibrio stabile o indifferente che sono i casi comuni di equilibrio sono situazioni in cui non succede nulla e se qualcosa succede non modifica la situazione.

In chimica l’idea dell’equilibrio è totalmente diversa e quindi la situazione definita da Gibbs come l’assenza di lavoro disponibile, come un valore nullo dell’energia libera di Gibbs, ossia appunto del lavoro non di espansione estraibile dal sistema, non è comunque MAI una situazione in cui non succede nulla.

Al contrario all’equilibrio fra due fasi, fra due processi o fra due reazioni diretta e inversa succede di tutto, ma in modo tale che la situazione macroscopica sia invariata, anche se in certi casi la quantità del disturbo può essere importante, se supera un certo valore critico allora le cose possono anche cambiare in modo significativo; pero’ questo tipo di invarianza è proprio ciò che serve a introdurre il concetto della dinamica del sistema chimico.

L’elettrochimica possiede un concetto ed una quantità che mostrano in modo evidente la situazione; si tratta della cosiddetta corrente di scambio; per comprendere la corrente di scambio, possiamo partire da casi più semplici di equilibrio chimico-fisico, come per esempio l’equilibrio fra due fasi diverse, come un liquido ed un vapore a temperatura costante.

Si tratta di una situazione facilmente ottenibile anche in laboratorio e che in apparenza non sembra diversa da quella del cono di tipo A; ma in realtà ci si puo’ accorgere che le cose sono diverse per esempio usando dei materiali isotopici e verificando che se introduciamo un certo isotopo in una della fasi ad un certo momento lo ritroveremo presto o tardi equipartito (o quasi)  fra le due fasi.

Questo fenomeno ha consentito di studiare per esempio i fenomeni di scambio fra fasi diverse nell’ecosistema (atmosfera ed oceano per esempio) e scoprire che la ripartizione degli isotopi non è esattamente omogenea a causa del cosidetto “effetto isotopico” ossia della diversa velocità con la quale atomi di massa diversa possono partecipare alle reazioni chimiche ed ai processi chimicofisici. Sulla base di questa diversa ripartizione e sulle sue variazioni si possono studiare processi di tipo geologico o climatico e ricostruire il clima della Terra per milioni di anni.

Ma comunque anche volendo tener conto dell’effetto isotopico è possibile arrivare alla conclusione che un numero enorme di molecole passa continuamente di fase all’equilibrio.

Nel fare una stima ci viene in soccorso la teoria cinetica della materia che pure se con molte approssimazioni, perchè considera le molecole e gli atomi come punti materiali o come sfere rigide al massimo in grado di esercitare forze elettromagnetiche, riesce a stimare il numero di urti che si esercitano fra molecole oppure ad una interfaccia o ad una separazione di fase.

Questo punto (la sfera rigida come modello dell’atomo o della molecola) può essere utile per sviluppare la discussione in altre direzioni; per esempio far vedere (e lo si puo’ fare anche al liceo o al primo anno di università) che la densità di un liquido e il covolume del gas non si corrispondono affatto; per esempio il volume molare dell’acqua è circa 18 cm3 allo stato liquido, ma il suo covolume di van der Waals è 30.5 cm3; perchè?

Un buon punto su cui far riflettere e che ci tornerà utile fra un momento.

Torniamo alla teoria cinetica. Nel caso di un gas a temperatura e pressione ambiente il numero di urti raggiunge almeno 1024 al secondo per cm2. Un numero veramente mostruoso, anche se è da dire che non tutti gli urti sono “efficaci” ossia raggiungono lo scopo di far passare la barriera tra le fasi, perchè per esempio in una frazione consistente si dà luogo ad un urto elastico e la molecola rimbalza via; ma qui stiamo ragionando sugli ordini di grandezza.

Come si puo’ ottenere questa stima senza ricorrere a calcoli complicati?

Possiamo partire dalla pressione, che è una forza per unità di superficie; P=F/S, dove la F è il prodotto della massa di ciascuna molecola per l’accelerazione a cui è sottoposta nell’urto contro le altre o la parete nel tempo interessato; nel caso più semplice di urto elastico, la molecola arriva perpendicolare alla parete e ne rimbalza via nella medesima direzione ma con verso opposto e la stessa velocità, quindi la sua accelerazione è pari a due volte la velocità di arrivo diviso il tempo; già ma quale è la velocità?

Anche qui possiamo ottenere una stima semplice considerando che la energia delle molecole sia tutta cinetica e sia proporzionale alla temperatura assoluta, la temperatura assoluta come una sorta di energia media per molecola.

Si tratta di un’idea proposta da Maxwell e Boltzmann: E≈kT; la costante è pari alla costante dei gas; se si parte dalla equazione di stato dei gas il prodotto PV che esprime gli elementi base del lavoro di volume è proprio pari a RT per mole; se tutto il lavoro che il gas può fare è lavoro di volume ci siamo, anche se sappiamo che il valore esatto dipende dai gradi di libertà del sistema, ma ancora una volta non entriamo nei dettagli dell’argomento. In questo caso possiamo scrivere RT=1/2 mv2 cioè consideriamo tutta l’energia come cinetica (l’equazione esatta per il gas ideale sarebbe ovviamente 3/2 RT=1/2 mv2).

A t ambiente per vapor d’acqua avremo: 2500Joule=0.5*0.018*v2 e v=524m/s, un valore che da il corretto ordine di grandezza.

Un conto estremamente grossolano si può continuare così: per una mole di molecole di acqua che impatti a questa velocità e rimbalzi via da una parete, avremo in un secondo (1048 x0.018) N=19N; per avere una pressione di tipo atmosferico (che è pari a 105 N/m2) questa forza dovrà esercitarsi su circa 19/105 ≈1/5000 di m2, 2 cm2 e quindi il numero di urti per cm2 sarà dell’ordine di 3*1023; il risultato è ancora una volta qualitativamente accettabile.

Il numero di urti dipende comunque dalla densità molecolare, dal numero di molecole per unità di volume; ma allora come fanno ad essere in equilibrio due fasi come liquido e gas, se la densità di un liquido è circa 1000 volte superiore a quella del gas? Non dovrebbero  essere molto più numerose le molecole in uscita che quelle in entrata? La risposta può essere trovata in modo semplice.

La differenza fra covolume del gas e volume molare del liquido ci fa fare l’ipotesi che esistano delle forze di attrazione fra le particelle che nel caso del liquido, riescono a “comprimere” le molecole fra di loro e spiegano così sia la differenza dei due parametri che la maggiore difficoltà delle molecole di liquido a sfuggire dalla loro fase.

In un testo famoso, Introduction to thermodynamics and kinetic theory of matter 2° Edition di A. Burshstein si dice, riferendosi alla formula che rapporta le molecole in uscita dalle due fasi,:

“Its physical meaning is quite clear. Two phases located on different sides of the step barrier are in equilibrium only because of the higher density of the phase from which it is more difficult to escape.”

Una rappresentazione più formale della situazione potrebbe essere quella seguente:

pressione della fase vapore  =  pressione della fase liquida  =

pressione cinetica della fase liquida  x  fattore di correzione

Stiamo qui considerando che la pressione della fase liquida (o anche di un gas reale) sia la risultante della somma di due parti: la pressione mozionale o cinetica, legata al moto casuale delle particelle, sempre positiva, che produce l’espansione del sistema, ed una pressione “negativa”, in assoluto negativa [nota], causata dalle forze attrattive fra le particelle, in pratica una pressione che viene fuori naturalmente dalla equazione di van der Waals: la pressione mozionale o cinetica è la parte ideale della pressione, mentre quelle interna è diversa da zero solo se esistono forze di tipo attrattivo.

                   Pressione reale = pressione cinetica + pressione interna

pressione

figura dal Burshtein

Quella mozionale è uguale a quella che avrebbe un vapore con la medesima densità, per avere la pressione effettiva dobbiamo sottrarre quella interna o moltiplicare per un fattore correttivo (che tenga conto delle forze di attrazione) altrimenti la densità del liquido che è almeno tre ordini di grandezza maggiore di quella del vapore produrrebbe una pressione solo mozionale che non ci consentirebbe l’equilibrio liquido-vapore. La forma del fattore correttivo puo’ essere interessante; di solito si usa un termine esponenziale, usando l’idea di Boltzmann che la probabilità che una particella abbia una certa energia sia proporzionale ad un fattore esponenziale negativo il cui valore corrisponde al rapporto fra l’energia necessaria ad un certo processo e quella media che si ha alla temperatura di lavoro; questa a sua volta è il prodotto della costante dei gas per la temperatura assoluta.

Quindi avremmo una cosa del tipo:

P vapore = P cinetica del vapore= P cinetica del liquido exp(-E/RT) = Pcinetica del liquido– Pinterna del liquido

Il fattore esponenziale deve recuperare la differenza di densità fra vapore e liquido e quindi deve valere almeno un millesimo o meno; 1000=ln(6.9) e quindi questo vuol dire che il rapporto E/RT vale quasi 7; dato che RT a t ambiente vale attorno a 2.5-3kJoule/mole, abbiamo una E che vale attorno a 17-21 kJoule/mole, quindi questa barriera di energia è l’ordine di grandezza della barriera di forze attrattive da superare per passare da liquido a vapore; è anche l’energia da spendere per far vaporizzare un liquido; il valore non è esattissimo ma molto vicino alla realtà; nel caso dell’acqua si hanno 41kJ/mole all’ebollizione.

In questo agitatissimo equilibrio dove i fantastiliardi di urti per centimetro quadrato corrispondono a flussi dell’ordine di una mole per cm2 al secondo succede di tutto: alcune molecole rimbalzano elasticamente verso la fase gassosa, la maggior parte aderirà alla fase liquida verso la quale non ci sono barriere da superare, mentre al contrario le molecole di liquido che vanno verso la fase vapore sono circa 1000 volte di più per unità di volume, ma solo un millesimo di esse possiede l’energia per passare alla fase vapore superando le robuste forze attrattive che si esercitano nel liquido.

E’ un panorama complesso, altro che non succede nulla all’equilibrio!

Questa descrizione dell’interfaccia liquido-vapore, come di un luogo dove esista una sorta di barriera all’allontanamento delle molecole dal liquido verso il vapore, può essere utile per capire uno degli effetti che di solito viene considerato “avanzato” in termodinamica, ossia la tensione superficiale. L’idea di Young, espressa nella famosa equazione che esista una “pelle” dei liquidi risulta quindi una fortunata intuizione, sia pur basata su una visione ”continua” della materia. Questa pelle è quella che si comporta come una membrana elastica sulla quale si possono mantenere in superficie oggetti di forma e proprietà opportune come uno spillo o un insetto.

tenssup1tenssup2

Uno dei più comuni travisamenti nella presentazione della tensione superficiale è di considerare che esista uno stabile sbilancio di forze fra le molecole della superficie e le altre, come detto qui:

tenssup3

  http://www.darapri.it/immagini/nuove_mie/spumante/fisicaspum/tensionesuperficiale.htm

Si tratta di una descrizione che viene dai tentativi fatti in origine già da van der Waals e poi dai suoi successori (che sono poi confluiti nella quasi termodinamica) nel creare un paradigma coerente dei fenomeni di superficie; un discorso complesso che è stato spesso malcompreso: consideriamo che se tale sbilancio di forze continuasse ad esistere non saremmo più all’equilibrio!! Una forza di tal fatta comporterebbe una accelerazione che non c’è!

In realtà si puo’ concepire che tale sbilancio esista “inizialmente”, virtualmente, al momento della formazione della superficie e dia luogo velocemente ad un “ispessimento” della parte superficiale del liquido, insomma alla formazione di uno strato liquido a diversa composizione; tale aumento locale di concentrazione di alcune almeno delle specie presenti cambia le proprietà del liquido riportando all’equilibrio il sistema, perchè un aumento della densità delle molecole causa una variazione sia della componente mozionale che di quella interna della pressione.

E’ un po’ l’equivalente dell’effetto Volta quando due metalli diversi si avvicinano nel vuoto e il potenziale chimico e quello elettrico vanno all’equilibrio. Al momento della “creazione” della superficie il potenziale chimico si adatta alle nuove condizioni di asimmetria del sistema e la ristrutturazione della pressione mozionale e di quella interna generano una “tensione superficiale”, che ricordiamo si esercita SOLO lungo la tangente alla superficie del liquido. La descrizione calcolata per l’acqua è riportata nella seguente figura:

tenssup4

Notate che la figura non rappresenta il comportamento in condizioni ambiente; come si vede la densità bulk verso destra è inferiore al valore a sinistra (vapore) del primo complesso strato in cui si trovano addirittura due layers di diversa composizione ed orientamento.

Ma come si trasferisce questa descrizione dell’equilibrio come fenomeno dinamico a livello di processo elettrochimico?

Lo vedremo nei prossimi post.

[nota ] la pressione è la derivata dell’energia contro il volume cambiata di segno

P= (-∂E/∂V)altre variabili costanti; tuttavia non è detto che tale derivata abbia valore positivo, questo avviene tipicamente quando si fa lavoro per ridurre il volume di qualcosa come un gas, ma, se si fa lavoro per espandere il volume di una fase condensata, avviene il contrario; il famoso esperimento di M. Berthelot (http://www.lanl.gov/THROHPUT/Berthelot/Berthelot.ps‎ oppure http://iopscience.iop.org/0508-3443/15/3/119) dimostra che possono esistere pressioni assolute negative; c’è anche un interessante libro edito da A. Imre (http://link.springer.com/book/10.1007%2F978-94-010-0498-5) sul tema dove si racconta come sia possibile sottoporre l’acqua a pressioni negative di decine di atmosfere, l’acqua come una corda tesa, come avviene d’altronde nei vasi cribrosi delle piante.

Quanto è chimico il potenziale chimico? (2 parte)

a cura di C. Della Volpe

(la 1 parte di questo post la trovate su https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/10/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-1-parte/ )

La equazione che abbiamo ottenuto nella prima parte μ =- V zF è molto utile perchè ci dice che possiamo determinare il potenziale chimico attraverso una misura di potenziale elettrico quando siamo all’equilibrio; in un sistema elettrochimico all’equilibrio non succede nulla (a proposito, ma è proprio vero che non succede nulla? Gibbs non dice questo, ma solo che il lavoro disponibile è nullo, pensateci un po’ che ne parleremo prossimamente) e la eguaglianza fra le due forze in campo quella elettrica e quella chimica ci consente di determinare l’una dall’altra, quindi se misuriamo in una cella a circuito aperto, senza flusso di elettroni la differenza di potenziale V otteniamo la forza chimica spingente per mole, la differenza di potenziale chimico fra i due stati del materiale che circondano l’elettrodo (e/o che lo costituiscono) a seconda del tipo di reazione. Si tratta di uno dei modi più precisi per misurare le variazioni di energia libera dei processi.

Abbiamo reso quindi “visibile” il potenziale chimico tramite la stima dei suoi effetti elettrici.

Uno dei punti importanti nel caso del potenziale chimico è proprio di renderlo in qualche modo visibile, ossia di farci rendere conto dei suoi effetti su base concreta seppure qualitativa come è possibile fare quando manchi per più motivi la base matematica necessaria; come vedremo nel seguito tuttavia si può fare parecchio scegliendo vie alternative al calcolo differenziale quando tale requisito manchi.

Anche il caso del potenziale gravito-chimico può essere di aiuto; abbiamo detto che ci troviamo di fronte a tale potenziale quando le forze di non espansione in gioco sono di natura chimica e gravitazionale; quindi per esempio una sostanza semplice come l’acqua, poniamo un lago o un gas, l’aria nell’atmosfera terrestre, dovrebbe offrirci sufficiente materiale di riflessione. Potremo poi cercare casi più complessi.

Il potenziale chimico dipende dalle condizioni generali del sistema, per esempio pressione e temperatura e guida il comportamento del sistema fisico che tenderà sempre spontaneamente a raggiungere stati in cui tale potenziale si riduca; ad una prima superficiale osservazione potrebbe sembrare che introdurre qui pressione e temperatura possa essere contraddittorio con la definizione di Gibbs che escludeva variazioni di volume e flussi di calore, ma non è così.

Tuttavia iniziamo con il caso di un liquido in cui possiamo supporre una sostanziale incompressibilità del materiale e quindi che il suo volume non vari con la pressione. In un lago profondo, costituito essenzialmente di acqua “dolce” e potendo quindi trascurare l’effetto della concentrazione salina sul potenziale chimico, la struttura del lago all’equilibrio risponde essenzialmente al bilancio fra la forza di gravità, l’energia gravitazionale, che cresce al diminuire della profondità e il potenziale chimico che aumenta al crescere della profondità.

incompfluid

Fuchs H 1996 The Dynamics of Heat (New York: Springer) pag 287

L’acqua posta in superficie ha una altezza maggiore rispetto al fondo del lago, che usiamo qui come livello di riferimento e quindi possiede una maggiore energia potenziale gravitazionale per unità di massa, ossia un maggiore potenziale gravitazionale; mentre quella posta in profondità ne possiede uno minore. Ma se sono all’equilibrio deve esistere una contro forza, un fenomeno che si oppone a questo; e tale fenomeno è proprio la crescita del potenziale chimico con la pressione; se aumentiamo la pressione  su un liquido è come se lo strizzassimo, le sue molecole, tendendo a sfuggire alla pressione che le inchioda aumenteranno la loro tendenza a sfuggire tout court, ossia per esempio la loro tensione di vapore, che ci da una misura sia pure indiretta del potenziale chimico del liquido.

Un esempio dell’effetto della pressione sul potenziale chimico ci è offerto dal fatto che piccole gocce di liquido (micrometriche o ancora più piccole), sulle quali la curvatura molto forte esercita, attraverso la tensione superficiale, una pressione che può superare di parecchie volte quella atmosferica, hanno una tensione di vapore maggiore di quella presente su gocce di dimensione maggiore o sul liquido con una interfaccia piana; il fenomeno si verifica in molte circostanze ed unifica la tendenza dei cristalli di precipitato o dei grani di un solido metallico, delle gocce di liquido sospese in un gas a crescere spontaneamente di dimensioni a partire da una distribuzione, aggregandosi fino a trasformarsi in entità di dimensioni maggiori al limite in una unica entità:

ostwaldrip

 si tratta del cosiddetto teorema di Kelvin o del fenomeno dell’Ostwald ripening, che tra l’altro migliora la qualità dei gelati incrementando la dimensione media dei cristalli di ghiaccio. Quindi ringraziate il potenziale chimico se il vostro gelato è buono. Senza Ostwald ripening i gelati fanno schifo! E’ la differenza fra un “ghiacciolo” è un gelato.

E’ chiaro che nel lago ci deve essere una controspinta, che bilancia la differenza di potenziale gravitazionale; e tale controspinta è data dal diverso potenziale chimico del liquido con la profondità indotto dall’aumentata pressione; nel liquido a profondità maggiore avremo una maggiore pressione, che corriponde ad un maggiore potenziale chimico e un minore potenziale gravitazionale mentre in quello a profondità minore avremo un maggiore potenziale gravitazionale ed un minore potenziale chimico, ossia una minore pressione. La grandezza che con la sua costanza, la sua mancanza di gradiente, ci assicura dell’equilibrio è qui il potenziale gravito-chimico, ossia la somma del potenziale chimico e di quello gravitazionale.

In generale nelle acque del lago, considerando come h0 e P0 i valori ad una qualunque altezza o profondità di riferimento e M0 il peso molecolare del liquido e ρ la densità (intesa costante); sarà:

P- P0 =-ρg(h-h0)

possiamo scrivere che in un lago calmo non mescolato od agitato e considerando trascurabile la componente di temperatura sarà costante ad ogni altezza la somma:

Potenziale gravito-chimico= potenziale chimico + potenziale gravitazionale= costante (non dipende da h)

μ+M0gh=μ0+M0gh0

dove il pedice 0 indica il valore delle grandezze m e h all’altezza di riferimento.

A questo punto sostituendo la prima equazione nella seconda riscritta avremo μ=μ0-M0g(h- h0) e di conseguenza

μ=μ0+M0 (P- P0)/ ρ=  μ0+Vmol(P- P0) =μ0-Vmol ρg(h-h0)

dove Vmol è il volume molare del liquido. Questa equazione ci da’ la relazione molto semplice fra potenziale chimico del liquido e la sua pressione, che crescono di conserva; viceversa per l’altezza, come testimoniato dal segno negativo.

Facciamo un passo avanti e analizziamo il caso atmosferico.

Potrebbe in un primo momento sembrare contraddittorio che consideriamo il caso di un gas a diverse pressioni dato che nella definizione di Gibbs abbiamo escluso cambiamenti di volume. Ma le cose non stanno così, poichè stiamo qui parlando di un gas a diverse pressioni ma non del suo lavoro di volume conseguente al cambiare pressione; abbiamo cioè  due gas nella medesima quantità ed a due pressioni diverse (ma alla medesima temperatura) e ci chiediamo quale sia il massimo lavoro di non espansione che da esso possiamo ottenere.

Una buona obiezione potrebbe essere: ma come si fa per ottenere lavoro di non espansione da un gas a diverse pressioni e T costante?

E’ presto fatto.

Possiamo per esempio immaginare di metterlo in equilibrio con un liquido, in cui la solubilità dipenderebbe dalla pressione (legge di Henry, quindi più pressione, maggiore concentrazione nel liquido, basta qui fare l’esempio dei gas nell’acqua gasata) e di stimare il lavoro di pressione osmotica ottenibile mettendo poi tale soluzione a contatto con il liquido puro attraverso una membrana opportuna che faccia passare solo il liquido stesso e non il gas disciolto. In tal modo se le quantità relative sono scelte in modo opportuno le variazioni di volume complessivo sono trascurabili, ma si ottiene lavoro dallo spostamento del liquido attraverso la membrana.

osmotic

Come si comporta il potenziale chimico dei gas con la pressione? In generale il potenziale chimico aumenta con la pressione del gas o in altri termini un gas, il cui comportamento va in direzione da minimizzare il lavoro disponibile per mole (ossia il suo potenziale chimico), tende ad espandersi; lo stato finale del gas sarà quello in cui il gas occupa tutto il volume e quindi la pressione è la minima possibile.

Attenzione questo è vero anche in assenza di lavoro di volume!!

Se prendiamo infatti un gas a comportamento ideale, in cui le forze interne di attrazione siano trascurabili e una valvola che ne blocca il cammino, il gas tenderà ad espandersi una volta sbloccata la vavola fino al massimo volume possibile, ma non ci sarà alcun lavoro di volume in quanto non ci sono forze resistenti, nè interne, nè, SOPRATTUTTO, esterne. Avremo la cosiddetta espansione libera del gas: il potenziale chimico ci dirà correttamente che il gas si sposterà da uno stato a più elevata energia libera di Gibbs e quindi a più elevato potenziale chimico ad uno inferiore (attenzione le temperatura rimane qui costante).

Poniamoci allora il problema: nell’atmosfera terrestre in cui la pressione diminuisce con l’altezza (consideriamo al momento trascurabile il gradiente termico) come mai il gas che si trova più in alto e quindi possiede un maggior potenziale gravitazionale è in equilibrio (in atmosfera calma, assenza di vento) con il gas ad altezza minore che ne possiede uno minore? Si tratta di un problema analogo al precedente nel lago (e ricordate comunque che ad ogni buon conto spostando i due volumi di gas il volume complessivo non cambia).

Consideriamo sempre le equazioni che abbiamo usato prima:

Ancora una volta il potenziale gravito-chimico μGC sarà:

μGC=μ(p)+ M0gh

dove h è qui la variazione di altezza rispetto al livello del mare e p la pressione dell’atmosfera. Se siamo all’equilibrio, se l’atmosfera in assenza di vento e a temperatura costante presenta una situazione di stabilità, ciò significa che il lavoro disponibile per mole ossia μGC=0, quindi che                                          μ(p)=- M0gh

in cui il segno negativo ci dice una cosa importante, ossia che il potenziale chimico diminuisce con l’altezza, maggiore è l’altezza minore è il potenziale chimico ossia (in questo caso di temperatura costante) minore è la pressione, mentre sappiamo bene che il contrario avviene col potenziale gravitazionale, che aumenta con l’altezza.

Se conoscessimo la relazione μ(p) la relazione che lega nel caso del gas potenziale chimico e pressione, potremmo estrarre una relazione fra altezza e pressione in atmosfera, il che ci darebbe una utile legge; tale relazione in effetti esiste ed è la famosa equazione barometrica o ipsometrica su cui torneremo in un post successivo e che vedete qui espress graficamente.

Un ultimo caso potrebbe essere rappresentato dall’oceano, in cui abbiamo un fluido il cui potenziale chimico varia ANCHE con la concentrazione del sale, e non solo con la pressione (ancora una volta supponiamo costante la temperatura); in questo ultimo caso la costanza del potenziale gravito-chimico ci condurrebbe a concludere che la concentrazione del sale in genere cresce con la profondità, contribuendo ad aumentare il potenziale chimico, ma conservando la eguaglianza di quello gravito-chimico, poichè quello gravitazionale diminuisce. Tale fenomeno nell’oceano non è banale da rivelare a causa dei concomitanti fenomeni di aumento della pressione, variazione della temperatura e di mescolamento anche profondo dell’oceano dovuti alle correnti come il grande nastro trasportatore; tuttavia un’aumento generale della densità dell’oceano con la profondità è un dato acclarato e una relazione di questo tipo la trovate nel rif. [4] .

– continua

per approfondire:

[1] J.W. Gibbs, “A Method of Geometrical Representation of the Thermodynamic Properties of Substances by Means of Surfaces,” Transactions of the Connecticut Academy of Arts and Sciences 2, Dec. 1873, pp. 382-404 (quotation on p. 400).

[2] G Job,  F Herrmann Eur. J. Phys. 27 (2006) 353–371            Chemical potential—a quantity in search of recognition

[3] Fuchs H 1996 The Dynamics of Heat (New York: Springer)

[4] Kirkwood,    J, G., AND I. Oppenheim.    1961. Chemical    thermodynamics.    McGraw-Hill    Book Co., New York. pp. 246.

Quanto è chimico il potenziale chimico? (1 parte)

a cura di C. Della Volpe

Da parecchi anni faccio un corso di elettrochimica per gli ingegneri; e quindi oltre a parlare di elettrochimica tout court devo affrontare il tema delle applicazioni pratiche: batterie, condensatori, celle a combustibile. In questo contesto non ci si puo’ limitare alle condizioni di equilibrio e all’equazione di Nernst.

La elettrochimica è una brutta bestia dal punto di vista didattico perchè ti costringe a parlare di termodinamica di non-equilibrio e dei sistemi complessi, ad una platea di studenti cresciuti in un mondo universitario che tende a considerare la termodinamica, come disse una volta una collega fisica qui di Trento, “una materia ottocentesca”, “una roba che ti impedisce di studiare la fisica del 900”.

Niente di più falso.

La termodinamica ha fatto enormi passi avanti nel 900, grazie soprattutto alla scuola di Bruxelles e a Prigogine. E questa termodinamica è una illustre sconosciuta per molti di noi.

Diventa un bel problema affrontare il problema della dissipazione in un contesto isotermo per esempio; gli studenti di ingegneria fanno un bel corso di Fisica Tecnica e quindi sanno tutto di teorema di Carnot, ma molto meno di secondo principio in senso lato, anche se puo’ sembrare strano.

L’approccio di Callen, poi, che considero molto utile in un contesto avanzato puo’ provocare grosse stragi concettuali se introdotto a livello medio basso, un po’ come gli orbitali dati in pasto agli studenti di primo anno delle superiori o comunque a quelli che non sanno cosa sia una funzione.

Per molti studenti universitari i processi di non equilibrio, anche se in stato stazionario poniamo o nel vicino equilibrio, come spesso si possono considerare i processi di conduzione elettrica nei solidi o anche in soluzione offrono qualche problema; la legge di Ohm diventa una legge empirica, non un’esempio, insieme alla legge di Fick, alla legge di Fourier, alla legge di Darcy, alle stesse reazioni chimiche, di processi termodinamici di non equilibrio in regime lineare (le reazioni chimiche lo sono solo a certe condizioni, ovviamente).

Tutte queste leggi che personalmente tendo a considerare insieme e a presentare insieme, specie se ne parlo con studenti di dottorato, sono considerate leggi empiriche e nemmeno i colleghi che le insegnano in contesti diversi (dalla geotecnica alla meccanica dei fluidi o alla fisica tecnica) spesso sanno che si tratta di fenomeni regolati in modo analogo e sussumibili sotto un’unico approccio teorico.

Ma fra gli altri c’è un concetto che offre difficoltà, ed è quello di potenziale elettrochimico; è ovvio che dietro questa difficoltà rimane la misconoscenza del potenziale chimico e perfino dell’energia libera di Gibbs.

Ricordo ancora la teorizzazione a riguardo di colleghi valenti, come il prof. Corradini, una delle nostre glorie nazionali, di cui seguii i corsi a suo tempo a Napoli, che era convinto (e lo diceva a lezione) che la chimica-fisica non fosse in fondo necessaria e che bastassero le conoscenze a riguardo date dai corsi di chimica generale; l’energia libera diventava quindi una formuletta:

                                                      ΔG=ΔH-TΔS.

Non so se abbia poi cambiato idea, ma la cosa ovviamente era ed è molto discutibile.

Ma si può fare qualcosa di più? Si può introdurre il concetto di potenziale chimico anche senza quell’apparato matematico che di solito lo contraddistingue? Si può presentare in modo elementare ma rigoroso? Ci sono vari tentativi in questo senso[2-3] a cui cerchero’ di rifarmi, sia pure in modo parzialmente originale, e ai quali vi rimando per maggiore completezza. Partiamo da qua: ma cosa è l’energia libera di Gibbs? Chi era Gibbs?

Josiah Willard Gibbs, è stato il primo grande teorico americano; ricevette a Yale il primo dottorato in Ingegneria dato in America; visse quasi tutta la sua vita in Connecticut, eccetto alcuni anni trascorsi in Germania (allora l’Europa era il centro del mondo culturale e scientifico e si veniva in Europa per “fare il dottorato” in certo senso). Pubblicò molte delle sue opere scientifiche in riviste del Connecticut (Transactions of Connecticut Academy) e fu talmente profondo nelle sue scoperte che alcuni dei suoi concetti e dei suoi approcci sono ancora oggi attuali. Le sue scoperte nel campo dell’analisi vettoriale e della meccanica statistica, che contribuì a fondare, gli valsero nel 1901 la Copley medal, una sorta di premio Nobel. Einstein stesso “riscoprì” alcune delle sue scoperte nel campo della meccanica statistica, delle quali riscoperte si rese conto solo dopo la pubblicazione dei testi di Gibbs in tedesco, dichiarando poi apertamente che il metodo di Gibbs era superiore al suo.

gibbsNel 1873 Gibbs descrisse la cosiddetta “energia disponibile”

the greatest amount of mechanical work which can be obtained from a given quantity of a certain substance in a given initial state, without increasing its total volume or allowing heat to pass to or from external bodies, except such as at the close of the processes are left in their initial condition[1].

ossia:

la massima quantità di lavoro meccanico che può essere ottenuta da una certa quantità di una certa sostanza in un dato stato iniziale, senza aumentare il suo volume totale o scambiare calore con corpi esterni (a meno che non siano lasciati nella loro condizione iniziale alla chiusura del processo)

 

E’ quello che comunemente definiamo come la massima quantità di lavoro di non-espansione; in cui la dizione lavoro di non-espansione corrisponde a quei lavori “meccanici”, ossia dovuti ad una forza che agisce per una certa distanza ma che non comporti espansione del sistema; come il lavoro di tipo superficiale, elettrico, gravitazionale o chimico. Atteniamoci al caso più semplice.

La variazione di energia di un sistema termodinamico semplice, ossia che escluda effetti di superficie, elettrici, gravitazionali, può essere scritta così:

Variaz. Totale = calore + lavoro di espansione+ lavoro di non-espansione

Seguendo la definizione di Gibbs quando i primi due termini a destra, che corrispondono a calore e lavoro di espansione, sono nulli rimane disponibile il lavoro di non espansione o energia libera di Gibbs.

Il nome della sola componente chimica è stato a lungo affinità ma dal 1923 si è trasformata in energia libera di Gibbs[nella prima edizione del libro di Lewis e Randall su cui si sono formate generazioni di chimici]; una riproposta di riusare il vecchio termine di affinità è stata poi fatta più recentemente da Prigogine con alcune modifiche.

Possiamo cercare di scrivere queste cose in un modo più formale che può essere il seguente:

Variaz. Totale = calore + lavoro di espansione+ lavoro di non-espansione

ΔU       =          q                      – P ΔV                           +μ ΔN

Se dividiamo il lavoro di non-espansione per il numero di moli N della sostanza abbiamo una nuova quantità specifica “per mole” che prende il nome di potenziale chimico; μ è quindi il potenziale chimico, una grandezza che ci dice per ogni mole di materiale quanto lavoro di non -espansione sia al massimo ottenibile.

Si tratta di un lavoro che può comportare lo “spostamento” del materiale medesimo lungo coordinate che sono geometriche o virtuali; geometriche se stiamo parlando di fenomeni come la diffusione di una sostanza da una soluzione più concentrata ad una più diluita oppure coordinate virtuali se gli atomi e le molecole si ristrutturano cambiando le loro distanze e i loro legami e trasformando così una sostanza in un’altra: una reazione chimica. Un termine che esprime per bene questa situazione è che il potenziale chimico ci da una misura della “tendenza a sfuggire” del nostro materiale, sfuggire dalla situazione di partenza per raggiungerne spontaneamente una seconda cui corrisponda un contenuto energetico minore, avendo compiuto un lavoro contro forze esterne; tale lavoro non-di-espansione potrà poi manifestarsi anche sotto forma di calore o di lavoro di espansione nel momento in cui la tendenza a sfuggire possa successivamente al suo manifestarsi avere effetto su parametri adeguati.

Ma anche altri termini possono contribuire, come il lavoro elettrico o il lavoro di superficie o altri che si possono introdurre a seconda del bisogno

In questo secondo caso possiamo avere parecchie combinazioni di notevole interesse; per esempio se ci riferiamo al moto di un materiale in un campo gravitazionale avremo una componente di lavoro gravitazionale, mentre se abbiamo del lavoro elettrico, avremo una componente elettrica; la somma della componente chimica e di quella gravitazionale prenderebbe il nome di energia libera gravito-chimica, mentre quella della componente elettrica e di quella chimica di energia libera elettrochimica.

In generale scriveremo (per evitare duplicati del simbolo q), sostituendo ancora al calore il termine T ΔS  in cui il termine  ΔS rappresenta semplicemente il rapporto fra il calore scambiato e la temperatura alla quale è stato scambiato:

Variaz. Totale = calore + lavoro di espansione+ lavoro di non-espansione

            ΔU       = T ΔS                         – P ΔV                          +μ ΔN+ V Δq + γ ΔA+etc

il significato dei nuovi simboli sarà introdotto più avanti.

Nel caso del potenziale elettrochimico avremo in particolare:

            ΔU       = T ΔS                         – P ΔV                          +μ ΔN+ V Δq

Se ci mettiamo nelle condizioni di Gibbs ci rimangono il terzo e il quarto termine a destra, dove V è il potenziale elettrico e q la carica elettrica adesso:  (μΔN+ VΔq)

e se  dividiamo la energia totale per il numero di moli della sostanza abbiamo una nuova quantità specifica “per mole” che prende il nome di potenziale elettro-chimico; esistono altri nomi non molto comuni per le altre combinazioni possibili; alcune non sono dotate nemmeno di un nome ad hoc.

Il potenziale elettrochimico = μ + V Δq/ ΔN; teniamo presente che il rapporto  Δq/ ΔN in un sistema elettrochimico può essere espresso in modo leggermente diverso perchè la carica elettrica è multipla della carica elementare dell’elettrone e sarà q= zNF, dove z è il numero di cariche per ione F, il Faraday, una mole di cariche elementari, per cui rimarremo con μ + V zF; questa quantità è il potenziale elettrochimico, una quantità molare che possiamo usare per comprendere una serie di fenomeni che vanno dal fenomeno di Volta, alla base di tutta l’elettrochimica fino al funzionamento di una cella elettrochimica e di una cella combustibile.

Un potenziale elettrochimico nullo corrisponde a scrivere

μ =- V zF

stiamo qui considerando una situazione in cui il sistema non ha energia disponibile, e quindi è all’equilibrio, questo è il senso dell’equilibrio: non c’è più energia disponibile per fare qualcosa; e in questa situazione si bilanciano due spinte contraddittorie: da una parte il potenziale chimico vero e proprio e dall’altra un potenziale elettrico.

Nel fenomeno di Volta, due metalli messi a contatto nel vuoto, il potenziale chimico delle cariche elementari dei due metalli non sarà il medesimo; gli elettroni dell’uno (le cariche che più facilmente possono spostarsi) tenderanno quindi a spostarsi da un metallo all’altro creando una piccola differenza di potenziale elettrico fino a bilanciare completamente la differenza di potenziale chimico delle cariche medesime. Questo fenomeno è molto veloce e una volta stabilitosi l’equilibrio non succede più nulla.

batteria

In una cella elettrochimica o in una cella a combustibile la diversa tendenza a sfuggire delle specie e la sua organizzazione accorta nelle due parti del dispositivo, la zona anodica e quella catodica provoca un flusso di materiale (ioni ed elettroni) in modo analogo; tuttavia qui abbiamo tempi molto più lunghi ed energie maggiori, consentendo un flusso di cariche che puo’ essere sfruttato per produrre energia in modo significativo; l’ordine esistente nella struttura della cella che contiene un separatore, che impedisce un mescolamento diretto, consente di forzare il flusso elettronico fuori dai materiali coinvolti ed ottenere in modo controllato energia elettrica.

La differenza di potenziale chimico agirà come una sorta di “pompa” che consente di stabilire e mantenere una differenza di potenziale eletttrico; la differenza di potenziale chimico tenderà a diminuire costantemente e manterrà fino a un determinato consumo dei reagenti una differenza di potenziale elettrico che consentirà il flusso degli elettroni; anche dopo la fine del flusso, in condizione di equilibrio quindi si potrà misurare una differenza di potenziale elettrico, seppur minore, ma essa non sarà ora più in grado di muovere le cariche in modo utile. Ci troveremo in una situazione non dissimile da quella finale dell’esperimento di Volta le due spinte sono all’equilibrio fra loro ed il lavoro disponibile è diventato nullo.

– continua

[1] J.W. Gibbs, “A Method of Geometrical Representation of the Thermodynamic Properties of Substances by Means of Surfaces,” Transactions of the Connecticut Academy of Arts and Sciences 2, Dec. 1873, pp. 382-404 (quotation on p. 400).

[2] G Job,  F Herrmann Eur. J. Phys. 27 (2006) 353–371            Chemical potential—a quantity in search of recognition

[3] Fuchs H 1996 The Dynamics of Heat (New York: Springer)