Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.
a cura di Claudio Della Volpe
Siamo quasi alla fine di questa lunga corsa attraverso il potenziale chimico e la meta, una descrizione per quanto possibile dettagliata del potenziale elettrochimico, ma senza la necessità di ricorrere alla matematica sofisticata a cui si ricorre di solito, è vicina.
Tiriamo le fila.
Quando si parla di elettrochimica occorre rispolverare almeno alcuni dei concetti della fisica, dell’elettromagnetismo, il voltaggio, la carica, la corrente; ma quali significati prendono adesso nel nuovo contesto che stiamo esplorando?
Le cariche sono per noi ioni ed elettroni, le loro cariche sono tutte multiple di quella del protone e/o dell’elettrone che sono uguali fra loro ma di segno opposto; la carica viene espressa in coulomb in Fisica, ma in Chimica, dove l’unità base è la mole, si usa una mole di cariche elementari che prende il nome di Faraday .
Il voltaggio, innanzitutto; si tratta di energia per unità di carica, ossia 1 Volt = 1Joule/1 Coulomb; dato che 1 Coulomb è una unità di misura della carica molto piccola rispetto alle grandezze della Chimica, basta ricordare che 1 mole di cariche elementari, ossia 1 Faraday, corrisponde a poco meno di 100.000 coulomb (per la precisione 96.450). Quindi per ogni mole di cariche processate in una reazione la cui differenza di voltaggio è 1 Volt, si spendono o si ottengono circa 100.000 J. Ma questo valore è proprio quello tipico della variazione di energia di una reazione in cui si rompa o si formi un legame forte, quindi 1V è un voltaggio sufficiente ad una tipica reazione chimica, anzi non ci aspetteremo mai valori di voltaggio tipici molto più grandi di questi, qualche Volt è il massimo che possiamo aspettarci. Valori molto maggiori devono farci sospettare processi diversi.
E la corrente? Quale è il senso “chimico” della corrente?
Gli Ampere sono coulomb al secondo; quindi cariche che passano al secondo; dato che in elettrochimica le cariche sono elementi reattivi stiamo parlando di una vera e propria velocità di reazione; la corrente è una velocità di reazione.
Ma per quello che abbiamo detto prima 1 coul/sec equivale a 10-5moli di cariche al secondo; quindi una velocità piccola; c’è una cosa importante da ricordare; questa velocità di reazione è riferita comunque alla sezione attraverso cui le cariche passano: il filo del circuito, ma anche l’elettrodo del nostro sistema di reazione, una batteria, un elettrolizzatore. Di solito quindi in elettrochimica si parla non tanto di corrente ma di “densità” di corrente, ossia di una corrente riferita ad una sezione unitaria, per esempio un cm2 di elettrodo. I cavi che portano la corrente in una fabbrica elettrochimica o la superficie degli elettrodi delle celle, sono enormi; e le correnti in gioco sono enormi, centinaia di migliaia di amperè in ogni sito produttivo, solo così si hanno le produzioni che si hanno; 50Mton anno di alluminio primario corrispondono a circa 1800 miliardi di moli e dato che ciascuna mole richiede 3 moli di elettroni secondo la reazione:
Al+3 + 3e == Al
occorrono quindi 5400 miliardi di Faraday; ossia 5.4*1017 coulomb; dato che la produzione di alluminio è continua e in un anno ci sono 3.15 *107 secondi dividiamo i due numeri uno per l’altro. Stiamo parlando di poco meno di 18 miliardi di Ampere usati costantemente in ogni istante per produrre solo il nuovo l’alluminio di cui abbiamo bisogno. Le correnti usate sono così alte in questo tipo di fabbriche che inducono potenti campi magnetici in tutta la zona di produzione, impedendovi di usare orologi meccanici, schede magnetiche, e ogni altro oggetto sensibile ai campi magnetici intensi.
Le celle elettrochimiche corrispondenti sono lunghe molti metri e disposte in serie di centinaia. E’ in pratica l’effetto del rapporto fra il coulomb e il faraday!
In pratica tenendo presente che il voltaggio di lavoro di una cella è superiore ai 4V, che la potenza in
watt = corrente (A) x tensione (V), nel mondo si impiega una potenza continua di circa 100GW per produrre solo l’alluminio nuovo, il che corrisponde a poco più dello 0.7-1% della potenza media mondiale primaria e grosso modo al 2-4% di tutta la potenza elettrica costantemente impiegata nel mondo. L’alluminio è certamente un metallo molto energivoro e questa che viviamo potrebbe anche metallurgicamente definirsi l’età dell’alluminio.

Avrete notato che il voltaggio di lavoro della cella è di quasi 4-5volts, mentre l’analisi teorica basata sui potenziali di ossidoriduzione della reazione usata che è

dà 340 kJ/mole a 1000°C, ossia in regola con il calcolo che abbiamo fatto prima:
1 Volt corrisponde a circa 100 kJ (96.45) per mole di cariche elementari, qui abbiamo 3 moli di cariche elementari per ogni mole di alluminio quindi il potenziale sarà
340/96.45/3=1.18V da spendere, almeno in linea teorica; la differenza fra la teoria 1.18V e la pratica che viaggia sui 4-5 Volts ci introduce nel cuore dell’elettrochimica.
Questa è la stima della spesa energetica nella cella nelle sue varie parti:

(da Industrial Electrochemistry di C. Pletscher e F. Walsh, 2 ed Kluwer ed)
Da questo riquadro vediamo che il grosso dell’incremento del voltaggio, ossia della spesa di energia per unità di carica viene dalla resistenza fornita al flusso della corrente dagli elettrodi, fatti in questo caso di grafite, e dall’elettrolita stesso ed infine che c’è una quota significativa di “sovratensione” all’anodo, ossia per la semireazione 2O2-+C –>CO2 + 4e- (la semireazione è da moltiplicare per tre per trovarsi con la stechiometria precedente ma questo non altera il conto per mole di cariche o di alluminio).
La resistenza offerta da elettrodi ed elettrolita produce per effetto joule l’energia necessaria a mantenere la temperatura di cella a 1000°C e quindi può essere considerato un effetto voluto ed utile.
Mentre la resistenza degli elettrodi o della soluzione sono un concetto che anche uno studente liceale può comprendere ed accettare, (la definizione comune di resistenza che viene data è R=V/I e si badi che non è del tutto esatta), quello di sovratensione è un concetto nuovo sul quale converrà fermarsi un momento.
Dobbiamo ripartire dall’equazione fondamentale del potenziale elettrochimico che abbiamo scritto fin dalla prima parte del post:
μ + V zF = 0 μ =- V zF
Questa espressione vale all’equilibrio, ossia quando l’energia libera disponibile è nulla, quando il massimo lavoro di non-espansione da svolgere (che nel nostro caso è elettrochimico) è zero e abbiamo solo fluttuazioni fra i due stati di equilibrio che si fronteggiano: reagenti e prodotti o se si vuole stati ossidati e ridotti o anche semplicemente come nell’esperimento di Volta due diversi metalli a contatto: il gap di potenziale chimico equivale e bilancia la differenza di potenziale elettrico che si crea e il sistema è stabilmente all’equilibrio, non ci sono flussi di corrente NETTI o in pratica non accade nulla (a parte semplici fluttuazioni, ossia la corrente di scambio).
Nel caso dell’alluminio se applichiamo alla cella industriale un potenziale del genere anche in assenza delle resistenze di elettrodi ed elettrolita NON ACCADE NULLA, non passa corrente, l’alluminio non si forma.
Ma se vogliamo che un processo avvenga cosa dobbiamo fare allora?
In linea di principio e guardando l’equazione precedente dobbiamo creare uno sbilancio fra i due termini, incrementandone uno mentre l’altro rimane fermo o riducendone uno mentre l’altro rimane fermo. Creeremo quindi un gap, una differenza o come si dice un gradiente o di potenziale chimico o di voltaggio rispetto a quello di equilibrio, (V-Vequ) o (μ-μequ) una differenza, un gradiente che funzionerà da forza spingente del processo lontano dall’equilibrio.
Nel caso della produzione di alluminio per allontanarci dall’equilibrio, e dato che questo è un processo in cui energia elettrica si trasforma in energia chimica, dobbiamo semplicemente spendere più energia elettrica, aumentare l’energia per unità di carica ossia in definitiva il voltaggio applicato.
Per comprendere il motivo di questa necessità riflettiamo sul fatto che mentre al catodo il processo può essere immaginato in termini di pura e semplice attrazione fra lo ione positivo Al+3 e gli elettroni, un processo interpretabile in termini di pura attrazione elettrostatica e senza problemi particolari, nel caso invece del processo anodico, abbiamo del C che deve rompere i suoi legami forti ed accettarne di nuovi con lo ione O2- presente in soluzione; si tratta quindi di una vera e propria reazione chimica, dotata di un suo meccanismo e di una sua “energia di attivazione”, ossia della necessità di modificare sia pur minimamente i reagenti perchè siano pronti ad entrare nel loro nuovo stato; questa forma più attiva di reagenti, definita non a caso “stato attivato” implica una trasformazione che non è a costo energetico nullo; e per realizzarla occorre quindi dell’energia in eccesso rispetto a quella necessaria al processo come tale; tale “energia di attivazione” in eccesso, (necessaria anche in processi che alla fine produrranno energia) può essere fornita proprio dal campo elettrico e quindi un’aumento di voltaggio, ossia di energia per unità di carica può fare la differenza; ecco perchè quell’input aggiuntivo di 0.5V nel processo anodico per fabbricare l’alluminio.

In questa immagine del Bianchi e Mussini – da “Elettrochimica” 1976 editore Masson non più in commercio, uno dei classici libri dell’elettrochimica, scritto da due grandi della scienza italiana – si rappresenta proprio questo fenomeno nel caso della ossidazione di un metallo, ma il concetto è sempre il medesimo, la reazione si svolge da sinistra a destra per l’ossidazione e da destra a sinistra per la riduzione; la curva tratteggiata descrive la situazione all’equilibrio e quella continua dopo aver cambiato il potenziale anodico; nel primo caso la quota descritta come Watt,A è la quota di energia di attivazione necessaria, mentre nella nuova curva continua tale dislivello si riduce; il contrario avviene per la quota
Watt,C ossia per l’energia di attivazione necessaria per il processo inverso; quindi l’ossidazione viene favorita e la riduzione sfavorita, come se si fosse introdotto un catalizzatore solo nella prima direzione.
Ecco a cosa servono quegli 0.5V di “sovratensione”: a vincere le barriere di energia potenziale nella distruzione dei legami fra atomi di carbonio nell’anodo della cella per l’alluminio.
In pratica per lasciare l’equilibrio, lo stato prediletto della termodinamica classica ed entrare nel mondo vero e reale dei fatti dobbiamo “dissipare” energia! Un concetto assolutamente formidabile che ha introdotto la termodinamica del ‘900. Questo avviene anche in un processo isotermo; il criterio di Carnot così utile nella comprensione delle macchine termiche qui non servirebbe più a nulla e si dimostra impotente a comprendere i fatti; invece la sovratensione reintroduce il secondo principio, reintroduce la dissipazione, reintroduce la irreversibilità; anche i processi elettrochimici hanno il loro tallone di Achille, pagano cioè il prezzo al secondo principio della termodinamica, attraverso i numerosi meccanismi che creano “sovratensione”. Infatti non esiste solo la barriera di energia di attivazione, ma processi diffusivi, altre reazioni che precedono o seguono l’atto elettrochimico vero e proprio e così via: e tutti questi sono processi che danno “sovratensione” o dissipazione.
Nel caso della trasformazione da energia elettrica ad energia chimica, la sovratensione si manifesta in questa necessità di aumentare il voltaggio oltre il valore di equilibrio se vogliamo avere una velocità significativa di reazione, ossia un amperaggio decente; ma cosa succede nel caso inverso? Quando trasformiamo energia chimica in energia elettrica, per esempio in una batteria?
Una cosa perfettamente analoga e per certi versi speculare.
Quando usiamo una batteria avremo un utilizzatore che avrà un certa resistenza ESTERNA alla batteria e di cui saremo ben consci; ma qui dobbiamo riferirci alle dissipazioni INTERNE alla batteria, dissipazioni dovute al fatto che quando chiudiamo il circuito di uso e la reazione si allontana dall’equilibrio inviando corrente nel circuito esterno entrano in funzione meccanismi analoghi a quelli che abbiamo invocato nel caso precedente; per esempio avremo una energia di attivazione nel processo INTERNO alla batteria, energia da spendere in più e che ridurrà la spinta di energia libera iniziale della batteria stessa ad un valore di voltaggio inferiore all’atteso; qui allora avremo come risultato che la differenza di potenziale che la batteria ci fornirà ai suoi estremi sarà INFERIORE a quanto programmato, di solito tanto più bassa quanto maggiore è la corrente richiesta, ossia la velocità della reazione interna alla batteria medesima.
In questo caso quindi l’equazione sarà giocata alla rovescia; avremo una specie di sovratensione “negativa”, meno voltaggio di quanto ci aspettavamo di avere, quanto maggiore sarà la velocità di reazione, ossia la corrente richiesta alla batteria; una buona batteria ha una bassa resistenza interna e quindi una bassa sovratensione negativa, ma comunque arrivata al massimo delle sue capacità di corrente di solito crollerà nelle sue prestazioni, un comportamento che potrebbe essere espresso dal grafico seguente:

http://tesi.cab.unipd.it/22946/1/tesina.pdf
Di solito la variazione iniziale del voltaggio è attribuibile alla sovratensione di “barriera”, quella centrale (dove la riduzione è più lenta e costante) è l’effetto della resistenza dell’utilizzatore che ha un valore pari alla tangente alla curva in ogni punto, mentre il crollo finale è attribuibile alla sovratensione cosiddetta di “diffusione”.
Che relazione passa fra il gradiente di voltaggio o di potenziale che avremo imposto nella equazione e il risultato che otterremo in termini di flusso di cariche, di corrente? Quanto potremo andare lontano dall’equilibrio? Purtroppo non c’è una regola generale, o se c’è non l’abbiamo ancora scoperta; tuttavia se siamo abbastanza vicini all’equilibrio vige una proporzionalità fra causa ed effetto, fra gradiente del potenziale (chimico od elettrico) ed i suoi effetti, che poi è il flusso della corrente; questa regola della proporzionalità lineare fra causa e effetto caratterizza la cosiddetta zona lineare dei fenomeni irreversibili.
Il risultato sono una serie di leggi empiriche che vanno ben al di là del caso in questione, anzi nel caso in questione, come in tutta la Chimica, il valore è tutto sommato limitato; la relazione di Fourier per il trasporto del calore, la relazione di Fick della diffusione, la legge di Darcy per i mezzi porosi, e la legge di Ohm dei resistori metallici ed elettrolitici sono leggi lineari valide nel regime lineare, poco lontano dall’equilibrio; in Chimica invece non esiste una legge analoga che dica che per avere una certa velocità di reazione ci vuole un certo gradiente di potenziale chimico; anche il termine di sovratensione di barriera che abbiamo visto è esponenziale quasi sempre; perchè?
Legge di Fourier: flusso di calore = k * Δ T
Legge di Fick: flusso di materia = k * Δ C
Legge di Ohm: flusso di cariche = k * Δ V
Legge di Darcy: flusso di liquido = k * Δ P
ma in genere
velocità di reazione ≠ k * Δ G
Il motivo non è banalissimo da spiegare, ma è più semplice dire quando una tale approssimazione, che sarebbe molto utile, può essere usata anche in Chimica: può essere usata ed è valida solo a condizione che il gradiente di energia libera della reazione considerata (Δ G) sia di molto inferiore al termine RT (non è l’unica condizione, ma questa è la parte più semplice); diciamo che vicino all’equilibrio nel caso di un processo chimico significa che il gradiente di energia libera deve essere parecchio inferiore a 2.5kJ/mole a t ambiente (RT=8.31*298 J/mol); si tratta di un numero veramente molto piccolo; in pratica tutte le reazioni chimiche che implicano rotture di legami forti sono fuori da questa condizione, ecco perchè il normale studente di Chimica ed i libri di Chimica non ne parlano; ma si può dimostrare teoricamente che la relazione è vera all’equilibrio e “molto vicino” ad esso. In effetti molti libri di Chimica generale sottolineano che all’equilibrio la velocità della reazione diretta è uguale a quella della reazione inversa; se abbiamo a che fare con una reazione semplice di cui possiamo usare la stechiometria come meccanismo di reazione, allora questo ci permette di collegare la costante di equilibrio e il rapporto delle velocità di reazione diretta ed inversa:
reazione: A–> B
all’equilibrio: v(diretta)=kA* [A] e v(inversa)=kB * [B]
kA *[A] = kB * [B]
e la costante di equilibrio diventa così un rapporto di costanti di velocità
kA/kB = [B]/[A] =Keq.
Si tratta di un fatto da non sottovalutare: questa eguaglianza gioca un ruolo importante in altri fenomeni (con il nome di principio del bilancio dettagliato o della reversibilità microcopica) e in Chimica è addirittura una cosa “elementare” per così dire; però, di converso, in Chimica, la sua validità è ristretta all’equilibrio e al vicinissimo equilibrio e quindi in pratica non riusciamo ad usarlo per collegare gradiente di energia libera e velocità di reazione IN GENERALE.
Finisce così la storia del potenziale elettrochimico; ho tentato di darne una descrizione non formale, usando esempi non standard e pochissime equazioni, solo algebriche. Spero di essere riuscito nell’intento di renderlo meno ingestibile e misterioso di quanto non sia in media. Ci siamo fermati al limitare dell’oscuro reame dei processi irreversibili, cioè della realtà, ma ci siamo arrivati senza equazioni differenziali. Fatemi sapere la vostra opinione.
Gli altri post di questa serie sono:
https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/10/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-1-parte/
https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/17/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-2-parte/
https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/25/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-3-parte/
https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/04/28/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-iv/