Strafalcioni.

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Mauro Icardi

Forse “’L’altrui mestiere” che Levi amava di più era quello di le lingue, le loro origini e l’etimologia delle parole. Levi lo praticava per puro piacere personale, e girava spesso per casa con in mano un vocabolario o un dizionario. Spinto principalmente dal divertimento ma con una competenza che si salda con la passione. Molti articoli usciti sulla terza pagina del quotidiano “La stampa” hanno un taglio limpido e rapido. Non solo i due capitoli dedicati alla lingua dei chimici, ma anche quelli dedicati alle etimologie popolari, che producono modifiche particolari in parole che dovrebbero essere di uso comune.

Esiste un piccolo elenco di queste false equivalenze che lo scrittore ha raccolto: dai raggi ultraviolenti alle iniezioni indovinose, fino al verme sanitario e il mai dimenticato cloruro demonio.

Questi sono procedimenti nei quali le parole vengono deformate quasi per comprenderle meglio, renderle meno misteriose. Chi le pronuncia cerca di renderle più familiari, utilizzando questo espediente.

Ma la modifica non riguarda soltanto i termini tecnici o scientifici. Anche le parole originarie da altre lingue, che possono risultare difficili da pronunciare, vengono modificate con una certa fantasia.

Levi ne cita una che veniva pronunciata anche da mio padre e da mia nonna, ma che in generale si può sentire in buona parte del Piemonte. La parola è sanguis che altro non è che un tentativo di addomesticare la parola sandwich. Significa panino imbottito, in omaggio a John Montagu, quarto Conte di Sandwich, accanito giocatore di carte, che nelle lunghe sessioni di gare con gli amici, per non perder tempo, si sarebbe concesso solo veloci spuntini di fette di manzo tra due fette di pane tostato.

A mio padre risultava ostico anche il ketchup, sia come salsa, sia come parola da pronunciare che modificò in kachuf. Mio padre non amava avventurarsi in avventure gastronomiche, non amava hamburger e hot dog, si manteneva sui sentieri conosciuti e molto apprezzati della cucina piemontese.

Difficilmente riesco a trattenermi quando sento strafalcioni estremamente particolari, e che tendono a provocarmi un riso irrefrenabile. Mi è capitato di sentire elogiare Mike Tyson che con un pugno bene assestato aveva mandato gnoc out il suo avversario. Per il signore milanese purosangue il termine knock out era evidentemente ostico. Ma essendo un parente acquisito non era opportuno che dessi sfogo all’ilarità, ma risultò piuttosto difficile trattenere le risa. In un altro caso sentendo una signora lamentarsi, perché abitando vicino all’ospedale sentiva spesso le ambulanze che con le loro sirene spietate le disturbavano il sonno del giusto, confesso di non esserci riuscito. Il denominatore comune di tutto questo era quasi sempre la non più giovanissima età di chi le pronunciava. E questo dava alla situazione un qualcosa di quasi gioioso, umoristico.

Ma per molti anni invece uno strafalcione tecnico mi ha lasciato incapace di ogni reazione. Ha imbarazzato forse più me, piuttosto che il collega che lo pronunciava in maniera molto convinta.

La questione riguardava la cavitazione idrodinamica, ovvero ii fenomeno consistente nella formazione di zone di vapore all’interno di un fluido che poi implodono producendo un rumore caratteristico.

Ciò avviene a causa dell’abbassamento locale di pressione, la quale raggiunge la tensione di vapore del liquido, il quale subisce così un passaggio di fase a gas, formando bolle (cavità) contenenti vapore.

Per molti anni quando discutevamo di questo fenomeno lui insisteva a chiamare il problema con il termine di gravitazione delle pompe centrifughe. Ricordo di averlo corretto solo la prima volta che lo disse, poi vi rinunciai. In seguito conobbi un ingegnere che realizzava impianti industriali che si sentì dire da un committente che visionava il progetto: “Mi hanno detto che la pompa deve avere la centrifuga!” Io forse avrei risposto, “Certo, e anche il prelavaggio e l’asciugatura…”. Ma le regole di qualunque bon ton aziendale poco si prestano ad apprezzare l’umorismo. Sono cose che avvengono molto raramente, soprattutto in presenza di partner d’affari.

Vorrei concludere questo post invitando alla rilettura de “L’altrui mestiere” di Primo Levi.

Ma anche di un gradevolissimo libro dal titolo “Bolle, gocce e schiume- Fisica della vita quotidiana” di

F Ronald Young. Dove I fenomeni che avvengono nei liquidi come la turbolenza, la tensione superficiale, la formazione di bolle (e anche la cavitazione), sono spiegati in maniera divertente e con aneddoti molto interessanti.

Museo interattivo della chimica dedicato a Primo Levi.

Mauro Icardi

Uno dei nostri lettori, il signor Oliviero del Toso, mi ha segnalato questa notizia, che confesso mi era completamente sfuggita.  Quindi è d’obbligo un caloroso ringraziamento.

Il prossimo 1 Luglio verrà inaugurato il primo museo interattivo della chimica, e la sede di questo museo è stata realizzata proprio nell’area dell’ex fabbrica di vernici Siva, a Settimo Torinese, dove Primo Levi lavorò dal 1947 al 1975.

Da ex cittadino di Settimo Torinese non posso che essere davvero contento per diverse ragioni.

La città di Settimo è riuscita negli anni a intraprendere molte iniziative culturali di notevole importanza, e a riqualificare aree dismesse creando poli culturali importanti. E con la chimica conserva uno speciale legame.

Proprio nell’area di un’altra ex fabbrica chimica dove si producevano vernici, la Paramatti, è stata realizzata la nuova biblioteca interattiva “Archimede”. La biblioteca ha una forte vocazione scientifica. Nel 2017 nell’ambito del festival dell’innovazione e della scienza quella edizione fu dedicata proprio alla chimica.

Ora alla chimica viene dedicato un museo interattivo, il MU-CH. Il museo si propone di avvicinare alla cultura della chimica. Pensato per potere essere interessante per le persone di qualunque formazione, per gli studenti di ogni età, ma con una particolare attenzione per quelli più giovani, cioè ragazzi delle scuole elementari e medie.

Leggo che saranno allestiti diversi spazi, sale di lettura, uno spazio dedicato chiamato “C LAB” dove potere effettuare esperimenti di chimica in sicurezza.

Grazie alla collaborazione del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, sarà possibile visitare l’ufficio dove lavorava lo scrittore. Anzi per meglio dire, il “chimico scrittore.”

Il percorso di visita inizierà con una sala dedicata alla nucleosintesi stellare, ovvero la fabbrica degli elementi chimici, per poi proseguire spiegando quello che la chimica comprende. Stati della materia, elettrochimica, forze di coesione, molecole di interesse biologico come acqua e DNA. Una disciplina affascinante, ma troppo spesso vittima di quella chemiofobia di cui su questo blog spesso si è scritto.

Personalmente penso che la visita a questo museo sarà utile anche per un altro motivo. Cioè la possibilità di creare un ponte, un legame, giusto per utilizzare un termine molto usato in chimica, tra discipline scientifiche e discipline umanistiche. Mi sono convinto che questo legame sia assolutamente necessario per meglio comprendere e affrontare le sfide che ci troviamo a dover affrontare. Mi riferisco alle varie crisi, economiche, ecologiche, all’esaurimento delle risorse. Occorre trovare le modalità comunicative adatte per superare le banalizzazioni, per non essere sopraffatti da un pensiero che si ancora a tempi ormai passati.

Il nostro tempo attuale non è più quello della crescita infinita, del boom economico di cui molte persone sentono una struggente nostalgia. Oggi dobbiamo essere coscienti del fatto che non possiamo più vivere senza fare i conti con queste realtà. Anche in questo Primo Levi può esserci d’aiuto. Molte delle sue pagine sono una sintesi affascinante tra cultura strettamente chimica, e brani che sono dei gioielli letterari.

Oggi che stiamo vivendo un periodo in cui la crisi delle materie prime si sta manifestando con molta evidenza, rileggere il capitolo Potassio del Sistema Periodico può essere un aiuto. Levi non può spendere un solo quattrino per la sua tesi sperimentale: “l’Assistente mi precisò che avevo mano del tutto libera, potevo rovistare dappertutto dalle cantine al solaio, impossessarmi di qualsiasi strumento o prodotto, ma non acquistare nulla: neppure lui lo poteva, era un regime di autarchia assoluta”.

Il museo è nato dalla collaborazione tra il comune di Settimo Torinese, la fondazione ECM (Esperienze di cultura metropolitana) e progettato dal Gruppo Pleiadi.  I finanziamenti

provengono dal Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane. È il primo museo d’Europa a proporre un percorso interattivo dedicato alla chimica. 

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/arte/2022/05/03/a-settimo-torinese-il-museo-della-chimica-dove-lavoro-primo-levi_01467e14-b01d-43cb-8acb-ca9904a1ac4d.html

Pipetta da guerra

Mauro Icardi

Nel volume di Primo Levi “ L’ultimo Natale di guerra” spicca, tra i racconti dedicati all’esperienza del lager, quello intitolato “Pipetta da guerra”.

E’ ormai noto che il chimico e scrittore torinese attribuisse la sua sopravvivenza alla deportazione in primo luogo al caso, e alla fortuna di avere superato l’esame di chimica, cosa che gli permise negli ultimi mesi di prigionia di lavorare nel laboratorio chimico di Buna, in un ambiente sicuramente  più confortevole, e senza dover essere sottoposto ai lavori più pesanti.

Nel tempo che trascorre in laboratorio, Levi cerca di trovare qualcosa di piccolo e d’insolito, quindi con un alto valore commerciale nell’economia parallela del lager.

Trova in un cassetto delle pipette; e ne ruba alcune. La sera stessa si reca in infermeria in cerca di un infermiere polacco al quale propone l’insolita refurtiva. Ma il baratto pipette in cambio di pane; non riesce. Ormai è tardi, l’unica cosa che l’infermiere può offrire è un po’ di zuppa.

Levi accetta ma non può fare a meno di pensare:

«Chi poteva aver avanzato mezza scodella di zuppa in quel regno della fame? Quasi certamente un ammalato grave, e, dato il luogo, anche contagioso».

 Nonostante queste considerazioni, nell’ambiente del  Lager era ritenuto inaccettabile avanzare qualcosa di commestibile; e, viste le terribili condizioni, anche fisicamente impossibile.

Levi la sera stessa divide la zuppa con il suo inseparabile amico Alberto. E qui il caso già interviene in maniera evidente nel destino dei due. Si saprà poi che la zuppa era quella che un ammalto di scarlattina aveva avanzato. Alberto aveva già contratto la malattia, Levi no. Il primo era immune, Levi no.

Pochi giorni dopo i sintomi della scarlattina si manifestano. Febbre alta e mal di gola, ma era permesso andare in infermeria solo la sera, al termine del lavoro.

Proprio quel giorno Levi viene incaricato di insegnare un metodo analitico a Frau Drechscel, un’adolescente tedesca , che Levi descrive così.

“La Drechschel era una tedescotta adolescente sgraziate e torva. Per lo più evitava di rivolgere lo sguardo su noi tre chimici-schiavi: quando lo faceva, i suoi occhi smorti esprimevano un’ostilità  vaga, fatta di diffidenza, imbarazzo, repulsione e paura.

Lo scrittore diffida di lei perché sa che è amica del giovanissimo SS incaricato di sorvegliare quel reparto; e prova istintiva antipatia.  L’unica delle persone che lavorano in quel laboratorio che porta appuntato sul camice il distintivo con la croce uncinata.

Per la prima volta nella sua vita, come lui stesso ammette e scrive, commette deliberatamente un’ingiustizia. Mostra alla ragazza come utilizzare la pipetta in una fase dell’analisi; e poi la passa a lei, perché aspiri il liquido, cercando di contagiarla. Quasi una guerra batteriologica personale. Non è fuori luogo essere grati oggi ai nuovi sistemi per l’uso delle pipette, decisamente più igienici.

Primo Levi, per aver contratto la scarlattina, fu ricoverato in Ka-Be; e come tutti gli altri ammalati che non potevano camminare o muoversi fu risparmiato dalla marcia della morte. Così iniziò una convivenza con altri uomini, come lui infermi e con un destino comune. Riuscirono a migliorare le loro condizioni di vita, per quanto possibile, mettendo in uso una stufa, riparando una finestra rotta e mangiando patate bollite. Nonostante vivesse a stretto contatto con dei malati, Levi non avrebbe mai pensato di cambiare camera per ridurre il pericolo di ammalarsi. Forse perché il pensiero di morire a causa di malattie non gli faceva più paura, o forse perché la morte per malattia nel lager non era la peggiore che si potesse immaginare.

Alberto Salmoni che non si era ammalto di scarlattina, non sopravvisse alla medesima marcia. Il caso fortuito scelse: Alberto sommerso, Primo salvato.

27 gennaio 2020.

Claudio Della Volpe

75 anni fa la guerra stava per finire nel nostro paese (finirà il 25 aprile), mentre le truppe russe entravano ad Auschwitz, liberando migliaia di prigionieri fra cui Primo Levi.

Mi piace immaginare che Levi fosse come ce lo racconta John Turturro nel film “La tregua” tratto dall’omonimo libro e diretto da Francesco Rosi.

Lo sto vedendo in questo momento mentre scrivo queste righe e appare somigliante al Levi delle rare foto dell’epoca.

Il treno con la stella rossa che riporta verso ovest migliaia di ex prigionieri di guerra e di deportati, verso un’Europa che appare finamente pacificata, fischia adesso.Primo Levi nel suo studio.

Ma la cosa più impressionante è di cambiare canale e trovare scene di guerra e di disperazione, “bambini come uccelli di passo” in paesi non troppo lontani, ancora adesso, dopo 75 anni.

I protagonisti di quei giorni sono quasi tutti morti; ci hanno lasciato le loro testimonianze; ma bastano, basterano a tenere lontani da noi i fantasmi e i demoni che forse portarono Levi alla sua morte anticipata?

La guerra che finiva in quei giorni viene chiamata mondiale, vi parteciparono alcune decine di paesi e si svolse in Europa, e nel Pacifico, in Africa, con la morte di quasi 60 milioni di persone.

Guerre forse di dimensioni inferiori, ma non certo per crudeltà ed inumanità hanno continuato a svolgersi quasi senza interruzione fino ai giorni nostri, alcune ci hanno sfiorato e ci sfiorano anche oggi a pochi chilometri da noi e dunque vien da chiedersi se la testimonianza di Levi sia stata utile, sia servita a qualcosa.

Oggi, ancora più di allora, il mondo è una struttura unica, inseparabile; come è possibile che questa elementare verità non sia manifesta a tutti?

L’inquinamento, il cambiamento climatico ed i virus non vedono frontiere; siamo in grado di capirlo? La scienza ce lo conferma. Il mondo è uno nella sua bellezza e nella sua naturalità. Le nostre frontiere sono ridicole. E contribuiscono solo a rendere unica la tragedia della guerra e della crudeltà.

Oggi è in corso una “guerra” di altro genere, una trasformazione climatica legata al nostro uso dell’energia che probabilmente diventerà, se non agiremo subito, negli anni futuri la principale sorgente di morti e di migrazioni; alcune delle guerre in corso probabilmente sono associate a queste trasformazioni anche se fame e carestie possono avere altre origini, meno “naturali”.Primo Levi in vista alla Scuola Rosselli.

Come chimico e come scienziato posso dire una cosa che riguarda la scienza; uno dei messaggi del chimico/scrittore Levi è che occorre riunire scienza ed umanità per evitare che queste cose si ripetano; nel “Sistema periodico” scrive:

in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e con la fantasia

Gli atomi dei “bambini di passo” che uscivano dai camini di Birkenau si sono reincarnati, forse più volte, in altri bambini e questo ce lo assicura la scienza, il ciclo del carbonio; ma, da sola, non ci può assicurare che quegli specifici eventi non si ripetano.

Per quello serve la nostra umanità. Grazie Levi.

Primo Levi: “Figure”. Riflessioni su una mostra torinese.

Mauro Icardi

Sono passati cento anni dalla sua nascita, e trentadue dalla sua morte inaspettata e tragica. Levi si è guadagnato la qualifica di scrittore a tutto campo, dopo essere stato per molto tempo considerato dalla critica letteraria soltanto come il testimone della deportazione del popolo ebraico. E col passare degli anni Levi non finisce mai di stupirci. Per la sua ecletticità, per la capacità di essere allo stesso tempo scrittore, chimico militante (come amava definirsi), divulgatore scientifico, studioso di etimologia e linguistica. E ne scopriamo anche un altro aspetto creativo, meno noto.

A Torino presso la Galleria d’Arte Moderna (GAM) è stata allestita una mostra a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio. Intitolata semplicemente “Figure” è stata inaugurata il 25 Ottobre, e resterà aperta fino al 26 Gennaio 2020.

La mostra è sorprendente perché ci restituisce un nuovo tassello della già poliedrica immagine di Levi.

E’ importante ricordare che l’allestimento è stato effettuato in una piccola stanza della GAM chiamata la Wunderkammer. Ovvero la camera delle meraviglie. E chi apprezza lo scrittore visitando la mostra può davvero meravigliarsi. Una parte dell’esposizione è biografica, ed è focalizzata sia sulla vita di Levi, che del padre Cesare. Cesare Levi è per molti aspetti diametralmente opposto al figlio primogenito. Bon vivant Cesare, timido e impacciato Primo. Cesare un cittadino, insofferente dell’ambiente naturale e della campagna. Primo invece rapito dalla natura e dalla passione per la montagna. Un filo rosso però unisce padre e figlio. La curiosità, l’amore per lo studio e la conoscenza. Il padre si faceva addirittura cucire tasche supplementari nei vestiti, in modo che potessero contenere comodamente libri che poi leggeva ovunque, specialmente quando era costretto a partecipare alle scampagnate familiari. Levi lo racconta : “Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente; leggeva “stando in casa, andando per via, coricandosi e alzandosi” (Deut. 6.7); si faceva cucire dal sarto giacche con tasche larghe e profonde, che potessero contenere un libro ciascuna. Aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate» (Levi, 1981). “

Primo invece in queste gite non smetteva di esplorare e incuriosirsi. Osservava i girini nelle pozze d’acqua fino a sentire il fortissimo desiderio di possedere un microscopio, che poi riuscirà ad ottenere. In questa sezione della mostra si possono vedere documenti appartenuti al padre di Primo. Fogli di appunti colmi di formule algebriche e trigonometriche scritte per pura passione e divertimento. Ma anche appunti di lavoro e di laboratorio di Primo Levi degli anni della SIVA, la fabbrica per antonomasia della sua carriera lavorativa. Primo Levi ne diventerà anche il Direttore Tecnico.

Ma il clou dell’esposizione sono le figure costruite in filo di rame (e in un caso in latta) da Primo Levi in un arco di tempo che va dal 1955 al 1975. Sculture costruite con intento ludico, da regalare agli amici, o usate per abbellire ed arredare vari angoli della sua casa, come si vede in qualche foto e come ha notato Philip Roth nella sua bellissima intervista-incontro con Levi del 1986.

Levi trascorreva gli anni non solo scrivendo i suoi romanzi nei ritagli di tempo, almeno fino al 1975 anno in cui decide di pensionarsi e di intraprendere il lavoro di scrittore a tempo pieno. Ma anche creando queste figure immaginarie, plasmando queste figure di rame con un lavoro metodico e paziente di manipolazione del metallo. Combinando con maestria la linea del filo di rame, le sue congiunzioni, che finivano per creare la forma e la struttura della scultura.

Levi ha descritto molte volte l’inadeguatezza che sentiva nei confronti del lavoro manuale.

“E poi il laboratorio, ogni anno aveva il suo laboratorio: ci stavamo cinque ore al giorno, era un bell’impegno. Un’esperienza straordinaria. In primo luogo perché toccavi con mano: alla lettera, ed era la prima volta che mi capitava, anche se magari ti scottavi le mani o te le tagliavi. Era un ritorno alle origini. La mano è un organo nobile, ma la scuola, tutta presa ad occuparsi del cervello, l’aveva trascurata.” (Levi e Regge, 1984).

Levi con queste opere continua il suo percorso di riabilitazione delle capacità manuali, che sono anche qualità indispensabili di chi opera in un laboratorio chimico.

Sono molte le figure di animali: il gufo, la farfalla, il canguro, la balena, il coccodrillo, e il rinoceronte. Ma troviamo anche il centauro, la figura angelica, il mostro-guerriero e così via.

Secondo il parere dei curatori della mostra le figure non sarebbero propriamente considerabili opere d’arte. Certamente rispecchiano la curiosità e sono fortemente rappresentative dello spirito del loro creatore. Non dimentichiamoci che sono costruite riutilizzando scarti di lavorazione e quindi assumono un certo valore etico. E rispecchiano tradizioni che un tempo erano diffuse negli ambienti di lavoro. Io stesso ricordo che mio padre un giorno rientrò a casa con un anello ricavato da un nocciolo di pesca. Era stato un suo collega che faceva il tornitore nella fabbrica dove entrambi lavoravano, dove si fabbricavano telai per gli autocarri, che l’aveva ricavato da questa materia prima inusuale e volle regalarmelo.

La passione di Primo Levi per le sculture in filo di rame viene svelata durante il percorso di visita. In questa mostra è riprodotto su un pannello un manoscritto inedito di dello scrittore. E’ il capitolo incompiuto de “Il sistema periodico” intitolato “Cu” e dedicato proprio all’elemento Rame. Risale al 1974, un anno prima della pubblicazione del libro. Questo inedito racconta dell’ufficio deposito del padre in Via San Martino a Torino. Pieno di motori elettrici, di rocchetti di rame (il padre lavorò per molti anni Budapest per la ditta Ganz che era attiva nel settore dell’ elettrotecnica e delle produzioni ferrotranviarie). Cesare Levi dopo il suo periodo passato a Budapest e il ritorno a Torino, rimase agente per l’Italia fino al 1942 anno della sua morte. In questo magazzino, caotico e disordinato, Cesare e Primo si divertivano a piegare i fili di rame e a dar loro forma.

C’è quindi un forte legame tra padre e figlio, un legame che passa attraverso un semplice filo di rame. Ed anche un legame mai vissuto nella realtà, tra Cesare Levi ed il nipote Renzo Levi.

Renzo Levi è professore di biofisica e fisiologia animale, ed ha concesso per la mostra non solo le figure stesse, ma anche i giochi matematici del padre, e le simulazioni fatte con il suo primo computer.

La mostra è raccolta come ho detto, in una piccola stanza detta delle meraviglie. A prima vista può sembrare che la si possa visitare in un attimo. Invece si rimane catturati, non solo dalle figure, ma da tutta l’atmosfera che si viene a creare. La voce perduta di Levi avrebbe potuto ancora dirci molte cose. Non solo dal punto di vista del chimico, ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’etica. E aiutarci a comprendere e fronteggiare troppi oscuri rigurgiti che oggi ci riportano alla mente un passato orribilmente tragico.

Questa mostra è un ulteriore eco della sua voce. Che non è una voce perduta a mio parere. E’ una voce e una figura che ha raccontato ed istruito molto. E che potrà farlo ancora in futuro. La sua opera, le sue creazioni, i suoi scritti, rappresentano un viatico di resistenza e di civiltà in questo odierno presente. Che assume a volte tratti davvero confusi e preoccupanti.

L’ultimo Natale di guerra.

Mauro Icardi

Nell’approssimarsi delle festività di fine anno mi capita di rileggere, con un filo di nostalgia, le pagine dedicate al Natale da scrittori che non sono quelli ritenuti unanimemente i classici narratori di questa ricorrenza. Ovviamente conosco ed apprezzo i racconti di Charles Dickens, o le struggenti poesie di Guido Gozzano. Ma c’è chi ha raccontato il Natale in maniera molto diversa. Lo ha fatto Mario Rigoni Stern. E lo ha fatto Primo Levi.

Nel 2000 la casa editrice Einaudi pubblica un volume intitolato “L’ultimo Natale di guerra” che raccoglie i racconti «dispersi» di Primo Levi, scritti tra il 1977 e il 1987 e pubblicati in tempi diversi. Il racconto che dà il titolo alla raccolta era comunque già presente nella prima edizione delle “Opere complete”, quella pubblicata nel 1997.

Nell’ambito della fabbrica di Buna e in particolare nel laboratorio chimico al quale Levi è stato assegnato, si instaura tra lo scrittore torinese, deportato e prigioniero, e Frau Mayer una ragazza tedesca un rapporto particolare. La Mayer è l’unica tra le ragazze che lavorano nel laboratorio della Buna a non mostrare disprezzo verso il giovane chimico ebreo. Anzi dovendo riparare la gomma forata della sua bicicletta chiederà proprio a Levi di fare questo lavoro. Lo chiederà rivolgendosi a lui non con superbia ed altezzosità. Ma dicendo semplicemente “per favore”. L’educazione e la cortesia sono usuali tra gli uomini liberi. Ma all’interno del Lager l’educazione e la cortesia, possono essere comportamenti rischiosi, sia per Frau Mayer, che per il prigioniero haftlinge 174517.

Un sovvertimento totale delle assurde regole dell’universo concentrazionario. Superando timori e reticenze, aggirando le assurde e burocratiche regole del Lager, Levi ripara la gomma forata, ricevendo come ricompensa per il lavoro fatto (rischioso perché è lavoro sottratto alla mai realizzata produzione di gomma sintetica destinata allo sforzo bellico tedesco), quattro zollette di zucchero e un uovo sodo.

E oltre a questo la Mayer, consegnando questa ricompensa particolare sussurra a Levi che “Presto viene Natale”. Frase che lo stesso autore ritiene ovvia ed allo stesso tempo assurda, se rivolta ad un prigioniero ebreo. Levi conclude dicendo che queste parole intendevano significare altro. Quello che nessun tedesco avrebbe osato formulare in chiaro. Per Levi questo gesto e queste parole non possono riabilitare gli innumerevoli tedeschi indifferenti o inumani. Ma tutta la vicenda narrata ha avuto il merito di rompere uno stereotipo. Dal mio personale punto di vista mi piace pensare che, invece si sia trattato di breve momento nel quale si stabilisce un effimero, debolissimo legame di empatia ed umanità. Fugace ma prezioso.

Questa prima parte del racconto è quella che ricordo con maggior emozione. Vi è poi una seconda parte quasi picaresca, dove si narra che in quello stesso Natale del 1944 Levi riesce a ricevere un pacco di viveri, inviato dalla famiglia, che gli sarà poi rocambolescamente rubato in Lager. I viveri che sono stati nascosti in tasche segrete cucite nella giacca da prigioniero, prendono letteralmente il volo. Levi appende la giacca ad un chiodo nel lavatoio comune, e la vede scomparire verso l’alto, pescata da un amo legato ad una funicella, calata dall’abbaino sul tetto mentre è intento a lavarsi. La conclusione filosofica è che comunque qualche altro prigioniero potrà festeggiare il Natale a spese di Primo e dell’amico Alberto, che fortunatamente erano riusciti a consumare più della metà dei viveri contenuti nel pacco, che si erano fraternamente divisi. Magari l’astuto ladro potrà anche mandare loro le sue benedizioni. Comunque di una cosa i due amici si sentono sicuri. Quello sarà l’ultimo Natale di guerra e di prigionia.

Auguro a tutti di trascorrere delle serene festività. Magari rileggendo questo racconto. Forse fuori dai canoni delle narrazioni tradizionali del Natale. Ma per quanto mi riguarda autenticamente natalizio.

Il poliedrico Primo Levi

Mauro Icardi

Renato Portesi, collaboratore di Primo Levi nella fabbrica di vernici Siva di Settimo Torinese, nel saggio di chiusura del volume “Cucire parole, cucire molecole”, edito dall’Accademia delle Scienze di Torino, ricorda Levi con queste parole. “Era un chimico che amava dello stesso amore la scienza pura, la ricerca sofisticata e le operazioni manuali, che non faceva differenza di rango tra l’attività del ricercatore e quella del tecnico.   Il suo contributo alla crescita dell’azienda è stato decisivo: per le conoscenze scientifiche e tecniche che ha messo a disposizione, per il rigore logico con il quale insegnava ad affrontare i problemi e per aver contribuito a formare collaboratori eclettici, capaci di passare da una disciplina all’altra con notevole facilità”.

Questo ritratto di Primo Levi nella veste di chimico, e in seguito di direttore tecnico di un’azienda di produzione di vernici, mi ha molto colpito. Perché in primo luogo conferma il valore dell’uomo e del tecnico. E anche il suo eclettismo entusiastico e contagioso. Levi non amava essere definito scienziato, preferendo la definizione di tecnico. A mio parere, leggendo non solo le sue opere, ma anche le biografie e i saggi scritti da moltissimi altri autori (Belpoliti e Jesurum tra i tanti), ne viene fuori invece la figura di uno scienziato umanista. Dedito alla gestione della quotidianità aziendale, ma capace di idee innovative e originali. E non ultima dote quella di essere un uomo capace di trasmettere il suo entusiasmo ai collaboratori. Strano che Levi non amasse essere definito scienziato. Il suo saggio intitolato “L’asimmetria e la vita” usato poi per dare il titolo ad un volume uscito postumo nel 2002, è un esempio perfetto della sua indubbia capacità di divulgazione scientifica. E non si può dimenticare che la prestigiosa Royal Institution inglese ha sanzionato nel 2006 la vittoria de “Il sistema periodico” come miglior libro di divulgazione scientifica di tutti i tempi. Giova ricordare tra i libri concorrenti vi erano tra gli altri “L’anello di Re Salomone” di Konrad Lorenz, e “Il gene egoista” di Richard Dawkins.

Ma l’autore torinese rimane un esempio di poliedricità. Perché in lui si possono riscontrare diverse anime, che vanno anche oltre a quella duplice del centauro, come amava definirsi. Non solo la dualità chimico-scrittore. C’è un Levi razionalista. Il Levi che definisce il suo stile di scrittore redigendo i rapporti tecnici di fabbrica, oppure descrivendo con lucida memoria, e rigore scientifico e documentale, la precaria situazione igienico –sanitaria del Lager, nel rapporto medico su Auschwitz scritto insieme a Leonardo De Benedetti.

C’è un Levi naturalista che osserva fenomeni naturali o curiosi, e li descrive con il suo consueto stile letterario, essenziale, chiaro e mai ridondante. Questo paradossalmente nel suo libro meno venduto e meno conosciuto, ma che rappresenta a mio parere l’appendice o una sorta di continuazione ideale del “Sistema periodico”, cioè “L’altrui mestiere”.

Libro che meriterebbe decisamente una riscoperta ed una rilettura.

C’è poi il Levi tecnico, il Levi che passa il tempo a risolvere problemi pratici, piccoli intoppi quotidiani del proprio lavoro. E lo ricorda spesso con una vena di malinconia. Il Levi che si districa tra il Nichel da estrarre nella miniera poco distante da Torino, dove è costretto a vivere da apolide, fino al Levi che imparerà sul campo il mestiere di far vernici subito dopo l’esperienza del Lager, e quella del picaresco ed avventuroso ritorno in Italia narrato ne “La tregua”.

Queste pagine di Levi, sono quelle che personalmente riescono sempre a farmi gioire e sorridere. Perché quello che lo scrittore narra e descrive, è patrimonio comune di molti. Piccole vittorie, grane da risolvere in ambito lavorativo. E soprattutto un’atmosfera che si comprende pienamente quando si è stati in un laboratorio chimico, o nei reparti di un’azienda. Levi ammetteva di essere legato ad una pratica di laboratorio di analisi che è riduttivo e ingiusto definire anacronistica, cioè quella dell’analisi sistematica, confessando di preferirla a quella strumentale, di esservi certamente molto legato. Quel metodo di analisi e di lavoro in laboratorio viene narrato nel “Sistema periodico”, e ne è una componente importante. Costituisce la struttura del libro, e dello stile narrativo. Intrecciata ai ricordi legati alla sua esperienza di ebreo italiano, prima discriminato, e successivamente precipitato nell’”anus mundi” del Lager.

Quest’anno ricorrono due anniversari. Che in qualche modo si intrecciano. Il primo è certamente quello del centenario della nascita di Levi. Il secondo è quello dello sbarco sulla Luna, di cui ricorre il cinquantesimo anniversario, e su cui Levi scrisse un articolo intitolato “ La luna e noi”.

Levi con un’intuizione quasi profetica percepiva il crescente disincanto che già permeava di la società italiana. Quasi una profezia di questi nostri tempi. Desiderava il ritorno della capacità di meravigliarsi

E questo brano dove lo scrittore mostra il suo entusiasmo per l’impresa degli astronauti che per primi hanno toccato il suolo lunare, diventa un pezzo di rara bellezza.

Noi molti, noi pubblico, siamo ormai assuefatti, come bambini viziati: il rapido susseguirsi dei portenti spaziali sta spegnendo in noi la facoltà di meravigliarci, che pure è propria dell’uomo, indispensabile per sentirci vivi.

La poliedricità, la grandezza di Primo Levi si possono cogliere nella loro interezza anche in queste poche righe. E ulteriori studi sulla vita e l’opera dello scrittore potranno darci altre opportunità per riscoprire questa facoltà dimenticata. Oltre al piacere di leggere e rileggere le pagine delle sue opere.

L’etica del lavoro nell’opera di Primo Levi e la sua attualità.

Mauro Icardi

Il grande riconoscimento, o per meglio dire la collocazione di Primo Levi tra gli scrittori, e non solamente tra i memorialisti è certamente meritata. Levi si considerò scrittore a tutti gli effetti solo dopo il pensionamento dalla fabbrica di vernici Siva di Settimo Torinese, dove lavorò per la maggior parte della sua attività. Prima come chimico, e poi Direttore Tecnico, fino al suo ritiro dall’attività lavorativa.

E proprio il lavoro è uno dei temi che Levi sviluppa lungo tutto il dipanarsi della sua opera. Lavoro che avrebbe dovuto renderlo libero, secondo la crudele e beffarda scritta posta all’ingresso del campo di Buna Monowitz, parte dell’immenso sistema concentrazionario di Auschwitz. Lavoro che poi lo scrittore cerca con costanza subito dopo la liberazione dalla prigionia. Le pagine che narrano delle sue esperienze di lavoro sono la struttura del “Sistema periodico”, ma soprattutto de “La chiave a stella”. Ma per i lettori più attenti, si possono trovare molti racconti nei quali il tema e sviluppato. Anche in “Vizio di forma” dove nel racconto “Le nostre belle specificazioni” il lavoro è inserito in una trama narrativa di tipo fantascientifico. Dove lo scrittore torinese immagina una scheda di collaudo di una materia prima molto particolare, cioè dell’essere umano.

Non possiamo dimenticare, che il lavoro è uno dei fattori che contribuisce alla sopravvivenza di Levi durante la prigionia. Dal lavoro di schiavo, al lavoro sempre come essere inferiore, ma nel laboratorio della fabbrica di Buna. Al riparo dalle condizioni più disagevoli, al riparo dal freddo. Condizione questa che anche Liliana Segre ha evidenziato, nel raccontare la propria vicenda di deportata.

Levi si occupa di approfondire il tema del lavoro nel suo primo romanzo d’invenzione cioè “La chiave a stella”. In realtà, ad un’osservazione più approfondita, questo romanzo rappresenta un ibrido, una dualità (altro tema ricorrente nell’opera di Levi, chimico-scrittore, centauro quindi, cioè ibrido tra uomo e cavallo, come amava definirsi, e come si rappresenta in una delle sue sculture di fili di rame).

Infatti il protagonista Tino Faussone, il montatore di tralicci e derrick per l’industria petrolifera, altro non è che una delle due anime di Levi. L’alter ego con cui lo scrittore dialoga nello scorrere dei capitoli del romanzo. Faussone metalmeccanico, e Levi narratore che spiega in cosa consista il lavoro del chimico nei due bellissimi capitoli “Acciughe” uno e due. Dal chimico che assembla le molecole, al chimico che le deve determinare, utilizzando gli strumenti della tecnologia. In entrambi i casi sapendo della loro esistenza, ma senza vederle ad occhio nudo. Credo che queste siano tra le pagine più efficaci per spiegare i fondamenti della sintesi chimica, e della chimica analitica. E anche del percorso che da Democrito, passando per Avogadro e Lavoisier pone le basi della chimica.

Levi non solo ci tiene a raccontare la vita e le esperienze del chimico ma osserva con attenzione l’universo già allora, ma oggi più che mai variegato del mondo del lavoro. Lo descrive in molti racconti “Da zolfo” nel “Sistema periodico” fino a “La sfida della molecola” pubblicato nel volume “Lilit ed altri racconti”.

E questo suo scrivere di lavoro lo aiuta non solo a cancellare il ricordo del lavoro come strumento di annientamento dei deportati in Lager, ma anche darne una visione del tutto diversa rispetto a come viene descritto nella letteratura industriale degli anni 60. Penso a romanzi come “Memoriale” di Paolo Volponi, o l’ormai quasi dimenticato “Tre operai” di Carlo Bernari che ne è forse in qualche modo capostipite e che viene pubblicato nel 1934. Romanzi dove il lavoro non è realizzazione, ma spesso alienazione. Il secondo libro, proprio perché descriveva una classe operaia impossibilitata ad avere una vita dignitosa, venne censurato dal regime fascista.

Levi invece fa pronunciare a Faussone questa frase: “«Io l’anima ce la metto in tutti i lavori. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore»

E va oltre, arrivando anche a sconfessare la maledizione lanciata da Dio ad Adamo, che disubbidendo è condannato a perdere l’eden e lavorare con sforzo e sudore. Con questo paragone, credo abbastanza conosciuto tratto sempre da “La chiave a stella”: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amore per il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».

E traccia anche un parallelo con l’idea di libertà: «Il termine libertà ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro e quindi nel provare piacere a svolgerlo»

“La chiave a stella esce nel 1978, e Levi è conscio che potrebbe (come in effetti sarà) provocare discussioni e polemiche. E quindi precisa: «So che il mio libro è destinato a provocare qualche polemica anche se non è nato con intento polemico. Certo, al giorno d’oggi il rifiuto del lavoro è addirittura teorizzato da componenti giovanili ma anche senza giungere a queste posizioni estreme esiste in stati piuttosto diffusi una tendenza a sottovalutare la competenza professionale intesa come valore positivo in sé».

Ci si può chiedere se, al giorno d’oggi dove una delle parole più pronunciate e lette è crisi, e la seconda è crescita che viene invocata come fosse una litania, oggi che la sensazione più diffusa sembra essere l’insicurezza. Oggi che il lavoro è profondamente cambiato, si è parcellizzato arrivando a creare la singolare sigla NIL (cioè nuove identità di lavoro). Un termine che vorrebbe ricomprendere i lavori precari, sottopagati, i lavori che sottraggono tempo all’esperienza di vita. Oggi che molte persone con un percorso di istruzione si devono adattare a friggere patatine nei fast food, oppure a fare i fattorini. Oggi che addirittura la ricerca scientifica, ovvero una delle forme più necessarie di lavoro ormai viene snobbata. Oggi che parallelamente al lavoro si tende a denigrare e svilire la preparazione professionale, e lo studio che ne è la base. Oggi che anche il lavoro di insegnanti e docenti è difficile, è legittimo chiedersi se le parole di Levi hanno ancora un senso, riescono ancora a rappresentare la realtà.

Io credo di si. Le pagine di Levi dedicate al lavoro possono essere uno stimolo per la difesa della dignità. Di chi lavora, e di chi un lavoro lo sta cercando. Può sembrare utopico. agli studenti che ho seguito negli stages, che spesso mi confidavano le loro aspettative e le loro incertezze sul futuro, parlavo spesso di come Primo Levi concepiva il lavoro. E qualche volta stampavo per loro questo brano tratto dall’intervista del 1986 con Philiph Roth.

Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”.

Per Primo Levi il “privilegio di pochi” è riferito a provare la gioia del lavoro ben fatto. E’ auspicabile e doveroso che invece questo privilegio possa essere offerto a più persone. E che le persone vedano tutelata la loro dignità umana, e non solo la loro professionalità. Con gli auspici e i suggerimenti che lo scrittore torinese ci ha indicato.

“Ho sempre fatto vernici.”

Oscar Chiantore*

Non ho avuto la fortuna di conoscere Primo Levi di persona. Mi capitò tuttavia di avere con lui un contatto epistolare qualche tempo dopo che il Sistema Periodico fu pubblicato negli Stati Uniti, cosa che avvenne nel 1984. Ricevevo ogni mese la rivista Chemical & Engineering News, e nel numero di maggio 1985 trovai pubblicata la recensione al libro, The Periodic Table, che qui riporto.

Era una recensione molto bella, che in modo succinto secondo me metteva bene in evidenza gli aspetti essenziali del libro di Levi. Fin dal titolo: ‘Un chimico medita sulla sua vita e sul suo mestiere’, dove vita e mestiere traggono sostentamento ed ispirazione l’uno dall’altra. Il recensore, entusiasta, scriveva: ‘E’ un libro bellissimo, scritto in una prosa sobria e meravigliosa, che spesso rasenta la poesia……”.

Immaginando che recensioni come questa, provenienti da pubblicazioni non letterarie non pervenissero a Levi tramite la casa editrice, gliela mandai con una breve lettera di accompagnamento. Levi rispose esprimendo riconoscenza perché la recensione gli era parsa “molto bella e intelligente”, e non ne avrebbe avuto notizia dal servizio stampa dell’editore. Dichiarava inoltre che leggerla gli aveva “dato una gradevole nostalgia”.

Il Sistema Periodico è riconosciuto essere un libro di interesse universale per le tematiche trattate, e per il modo con cui sono illustrate dato che – parafrasando Levi – ogni elemento è in grado di dire qualcosa a qualcuno e a ciascuno una cosa diversa. Certamente noi chimici vi troviamo una ricchezza superiore, potendo riconoscerci più o meno parzialmente nel mestiere così come viene descritto ‘….un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere’ [Argento], dove si susseguono le “due esperienze della vita adulta…il successo e l’insuccesso.” [Nichel]

Oltre a questo episodio vorrei ricordare un paio di altre situazioni in cui mi è capitato di occuparmi del Levi chimico.

Venti anni fa, con l’amico e collega Edoardo Garrone, organizzammo la mostra Primo Levi e il Sistema Periodico, nella zona antistante quella Biblioteca Chimica così vividamente descritta nel capitolo Azoto, e rimasta simile a quella frequentata da Levi solo più nei tavoli e nelle scaffalature di buon legno di noce. L’evento era programmato nell’ambito delle manifestazioni per il decennale della scomparsa di Levi e, proprio perché fatto ‘a Chimica’, era imperniato sul Sistema Periodico con testimonianze di alcuni suoi compagni di studi, e con documenti e testi relativi al suo percorso universitario.

Esponemmo anche una quindicina di copie di edizioni straniere del Sistema Periodico, tutte quelle che potemmo ottenere semplicemente chiedendo ad amici e colleghi stranieri di procurarci una copia del libro nella lingua del loro Paese.In quell’ occasione la SIVA, dove come è noto Levi svolse la maggior parte della sua attività di chimico, offrì una nuova Tavola Periodica per l’Aula Magna di Chimica, per sostituire quella allora esistente, risalente agli anni ’50 ed offerta a quel tempo dalla Cinzano. Nelle due immagini qui sotto si possono vedere le due Tavole, quella vecchia e quella nuova.

La nuova Tavola Periodica fu inaugurata il 15 Maggio 1997, nella giornata iniziale della manifestazione. La Tavola si trova ancora lì, nell’Aula Magna del Dipartimento di Chimica che qualche anno dopo è stata poi intitolata a Primo Levi. La visibilità della Tavola è oggi diventata più difficile, da quando l’uso diffuso delle proiezioni con power point ha imposto la collocazione di un ampio schermo che, quando srotolato, copre tutta la Tavola Periodica.

La giornata del 15 Maggio 1997 e tutto l’evento sono stati poi documentati da un numero monografico del notiziario dell’Università di cui mostro la pagina iniziale con l’indice del fascicolo contenente testi e immagini sia della giornata che della mostra.

Avigliana – Dinamite Nobel S.A. – Veduta – 1930 – 1940 (foto: Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, Milano)

E’ noto che Levi ha svolto praticamente tutta la sua vita di chimico nell’industria delle vernici. In una intervista così si espresse: “Ho fatto sempre vernici, sono abituato ad una vita concreta, in cui un problema si risolve o si butta.” Il mestiere comincia dopo il ritorno dal lager, nello stabilimento di Avigliana, paese vicino a Torino, di proprietà della Montecatini, che si può vedere nella fotografia dell’epoca.

Questa parte della vita di chimico di Levi emerge magistralmente nel capitolo Cromo del Sistema Periodico con un racconto dove in pagine di prosa squisita, tra molte altre cose Levi cattura l’essenza di come un chimico affronta un problema, e come la scoperta intellettuale procuri una inimitabile felicità. Ma ci racconta anche molto efficacemente come nell’industria chimica possano esserci a volte operazioni o processi che si perpetuano per tradizione, senza reali motivazioni tecniche, e che permangono per anni se non sono causa di inconvenienti. Levi ci parla infatti di come nella fabbrica di Avigliana ha dovuto affrontare e risolvere il problema riguardante una grossa partita di vernice antiruggine ‘impolmonita’ cioè diventata viscosa / gelatinosa e quindi non utilizzabile. Levi affronta il caso esaminando la documentazione di produzione, studia le relazioni tecniche finchè trova l’anomalia ( ‘un chimico deve interessarsi dei particolari. Se non sta attento ai dettagli, rischia di sciupare il lavoro’), correggendo la formulazione che creava problemi. Propone il rimedio per le partite andate a male, consistendo questo nell’aggiunta di un composto in grado di restituire fluidità alla vernice e quindi renderla utilizzabile. Ma quando poi il chimico Levi lascia lo stabilimento per andare a lavorare in un’altra azienda, l’additivo anti-impolmonimento era entrato stabilmente a far parte delle formulazioni per quel tipo di vernici, che nel frattempo avevano subito altre evoluzioni e non avevano più bisogno del “correttivo”!

Quando tempo dopo qualcuno aveva sollevato dei dubbi, in produzione avevano risposto, ‘sorpresi e un po’ scandalizzati’ che quella formulazione ‘esisteva da almeno dieci anni’, l’additivo ‘c’era sempre stato…..a cosa servisse, nessuno sapeva più ma che si guardasse bene dal toglierlo, perché “non si sa mai”.’

Allo stesso modo, leggiamo da Levi, in un’altra fabbrica dove si produceva olio di lino cotto modificato con resine coppali, quando queste ultime dovettero essere sostituite con resine sintetiche meno costose e più disponibili, si continuò ad usare lo stesso trattamento a caldo usato per le coppali, dove era necessario eliminare le frazioni più leggere arrivando fino ad una perdita di peso del 14%. Con le nuove resine sintetiche questo trattamento non sarebbe più stato necessario, e invece continuò ad essere fatto, con perdita di materiale utile e con inutile produzione di “esalazioni pestifere”.

Casi come questo non sono per nulla rari, e nell’industria delle vernici e degli adesivi ancora oggi riscontrabili, come può testimoniare chi si sia occupato dello studio e caratterizzazione di resine e prodotti vernicianti. Molte formulazioni contengono, oltre ai componenti base cioè un legante e i pigmenti, un numero imprecisato di additivi diversi, immessi in quantità opinabili e con giustificazioni nebulose, che derivano nella maggior parte dei casi da storie di chimica empirica dove un’aggiunta dopo l’altra non induce a fare le verifiche su cosa veramente serve, salvo poi il verificarsi di disastri.

La lezione che Levi trae è esemplare anche nella ironia della sua espressione:

Le formulazioni sono come le preghiere, i decreti-legge e le lingue morte e non un iota in esse può essere mutato.’ [Cromo]

Le vernici ad Avigliana erano prodotte nello stabilimento Duco, contiguo al dinamitificio Nobel, e anch’esso di proprietà della Montecatini. In questa immagine di archivio si osserva una fase della fabbricazione delle vernici denominate Dulox. Possiamo cercare di capire se questo marchio ha qualche attinenza con quanto Levi descrive nel Sistema Periodico.

Avigliana – Stabilimento Duco – Produzione resine – Vernice Dulox – Operaio al lavoro (1925 – 1940) (Ufficio fotografico Montecatini / Montecatini Edison / Montedison (1957/ 1985))

DUCO è un marchio che deriva dalla crasi di Dupont Coatings. La DuPont de Nemours è stata una delle principali industrie chimiche degli Stati Uniti, che iniziò la sua attività nel 1802 con la produzione di polvere da sparo e si sviluppò in seguito su altri settori della chimica diventando rapidamente la nota industria di rilevanza mondiale. Esiste tuttora, e in questo anno (2017) ha concluso una fusione con Dow Chemical, oggi la seconda più grande produttrice chimica al mondo.

Nella prima metà del secolo scorso la DuPont è stata fortemente impegnata nello sviluppo delle nuove pitture e vernici, sintetiche o semi-sintetiche, che venivano man mano rese possibili dallo sviluppo delle conoscenza nel campo della chimica delle macromolecole.

L’evoluzione di smalti e pitture da parte di DuPont in quel periodo è delineato nello schema seguente, da cui si capisce anche come le fortune dell’azienda siano dipese anche dallo stretto intreccio di interessi e alla collaborazione con General Motors, allora il principale produttore di automobili.

Ad Avigliana la Montecatini produceva le vernici Duco su licenza della DuPont de Nemours.

In particolare Levi parla di vernici alchidiche, come quelle prodotte negli anni della guerra e come quelle abbandonate perché impolmonite; son per l’appunto alchidiche le vernici di cui tratta la foto d’epoca dove leggiamo il nome Dulox. Nell’appendice alle pagine sparse delle Opere Complete di Primo Levi (a cura di M. Belpoliti, Einaudi Ed.) è riportata una relazione tecnica di Levi risalente agli anni di Avigliana, che reca il titolo “La puntinatura degli smalti Dulox”, dove si citano anche manuali di uso della Du Pont de Nemours.

Le pitture alchidiche continueranno ad essere prodotte per molti anni ancora dalla Montecatini, e per le più svariate applicazioni mentre il marchio Dulox esiste ancora oggi per una ampia gamma di prodotti vernicianti che hanno comunque formulazioni diverse da quelle con cui Levi ebbe a che fare.

E’ il mondo della chimica organica quello in cui comincia a muoversi Levi quando inizia la sua attività di chimico dopo la guerra; egli si trova a doversi occupare di resine e di composti polimerici, con la presenza di prodotti naturali e la fabbricazione di prodotti di sintesi. Un mondo dove, Levi confessa, ci vuole una certa cautela e non ci sono molte certezze quando non ci si può ancorare ‘….alla buona chimica inorganica……paradiso perduto per noi pasticcioni organisti e macromolecolisti.’ [Cromo]

Tanto che, quando è possibile, è ‘meglio ritornare fra gli schemi scoloriti ma sicuri della chimica inorganica’. [Azoto]

Dovendo lavorare con la materia organica Levi capisce presto quanto sia complessa, versatile, e importante. Ne La Chiave a Stella scrive: «…..una vernice è una roba più complicata di quanto uno si immagini». E inoltre:

«Mi sono accorto abbastanza presto che fare vernici è un mestiere strano: in sostanza vuol dire fabbricare pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale…….(che è) un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite,………..devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere allo stesso tempo permeabili all’acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contradditorio che……»

Si tratta, pertanto, di competere con la natura, che ‘….ha risolto brillantemente (il problema)…con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia multipla degli aranci, e la nostra pelle.’ [Cerio]

Noi potremmo oggi aggiungere all’elenco gli altri sistemi oggi diventati di estremo interesse per chimici e scienziati dei materiali: le ali delle farfalle, le zampe del geco, il filo del ragno, l’adesivo della cozza……

Pensando a quanto sono utili i prodotti di questa chimica, Levi scrive in un capitolo del Sistema Periodico quanto gli avrebbe fatto comodo nella sua difficile situazione del Lager il polietilene: ‘………perché è flessibile, leggero e splendidamente impermeabile…..’   [Cerio]. Tuttavia: ‘….a quel tempo non esisteva…

Levi qui intende il polietilene come materiale assoluto per l’imballaggio, quale effettivamente è poi diventato. Può essere interessante ricordare che nel tempo della prigionia di Levi il polietilene, inventato pochi anni prima, era un materiale strategico – protetto da segreto militare – perché si era rivelato fondamentale per lo sviluppo delle apparecchiature radar, contribuendo nella seconda guerra mondiale in modo decisivo alla supremazia anglo-americana in campo aeronautico e navale.

Conclusa l’esperienza di Avigliana, è possibile che nel resto della sua attività di chimico delle vernici Levi non abbia mai più avuto a che fare con la DuPont e i suoi prodotti. Un contatto tuttavia con l’opera e la vita di Levi in area DuPont c’è stato, in anni più recenti, grazie ad una fortuita combinazione di eventi e di miei rapporti personali, che qui riporto.

Nella organizzazione di convegni sulla caratterizzazione dei polimeri per molti anni ho interagito con un ‘chimico macromolecolista’, responsabile di questo settore presso i laboratori centrali della DuPont, a Wilmington, nel Delaware. Quando nel 1997 mi stavo occupando della mostra sul Sistema Periodico a Chimica, mi capitò di parlargliene e questo collega fu subito talmente interessato da prospettare la ipotesi di portare la mostra negli Stati Uniti, coinvolgendo la ACS, Società Chimica Americana, o la Fondazione sulla Storia della Chimica di Filadelfia, o il Museo Nazionale dell’Olocausto a Washington. Questo progetto, ambizioso, non potè andare avanti allora, ma un paio di anni dopo Howard Barth (questo il nome del collega ricercatore) riprese l’iniziativa chiedendomi tutta la documentazione che potevo fornirgli sulla mostra e i documenti riguardanti Levi (tesi di laurea, diploma, immagini della Biblioteca, ecc.) per una presentazione che intendeva portare al convegno nazionale della Società Chimica Americana. Per alcuni mesi Howard si immerse nella vita e nelle opere, di Levi e il 27 Marzo 2000, a San Francisco, alla Divisione Storia della Chimica dell’ACS fece una relazione di cui riporto qui l’Abstract, con la copertina del convegno.

Per qualche tempo, dopo questa occasione, Howard Barth continuò ad essere coinvolto sull’argomento Levi e soprattutto sul ruolo di IG Farben nel campo di Auschwitz Monowitz, leggendo, raccogliendo documentazione e facendo diffusione. Per cercare di cogliere meglio ogni significato si mise anche a studiare l’italiano. Tenne ancora una conferenza su Primo Levi in una riunione della sezione del Delaware della ACS, citando espressamente la mostra sul Sistema Periodico della Università di Torino, e facendo poi proiettare l’importante documentario- intervista della BBC di cui gli avevo fatto avere una copia.

In uno dei resoconti che mi inviava scriveva anche di avere scoperto che Otto Ambrose, il chimico della IG Farben che aveva scelto Auschwitz come luogo dove impiantare la fabbrica della gomma Buna in modo da sfruttare il lavoro dei prigionieri, dopo aver scontato alcuni anni di reclusione a seguito della condanna da parte del tribunale di Norimberga, negli anni ’50 era stato nominato nel consiglio direttivo della W.R. Grace, un importante gruppo chimico americano.

Concludo sottolineando come nella vita e in tutta l’opera di Primo Levi, chimico e scrittore, il rapporto tra uomo e materia emerge come elemento fondamentale di crescita e di scoperte:

Vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere sé stessi e l’universo’ scrive Levi [SP, Ferro]. Si tratta di un rapporto ambiguo, che Levi stesso ha così descritto all’epoca della pubblicazione del Sistema Periodico :

Anche il rapporto tra uomo e materia in questo libro è ambivalente. La materia è madre anche etimologicamente, ma insieme è nemica. Lo stesso si può dire della natura. D’altronde l’uomo stesso è materia ed è in conflitto con se stesso…… La materia è anche una scuola, la vera scuola. Combattendo contro di lei si matura e si cresce. In questo combattimento si vince o si perde……

(Intervista a Giorgio De Rienzo e Ernesto Gagliano, Stampa Sera 1975)

*Oscar Chiantore è  professore ordinario di Chimica e Tecnologia dei Polimeri presso la Facoltà di Scienze MFN della Università degli Studi di Torino. Svolge attività didattica sui materiali polimerici e sulla conservazione dei beni culturali , la sua ricerca riguarda la caratterizzazione e le applicazioni dei materiali polimerici.

Vite parallele.

Claudio Della Volpe

Non preoccupatevi, non voglio parlarvi di Plutarco e della sua opera che casomai avete studiato al liceo; anche se tutto sommato l’idea di Plutarco che le vite degli uomini potessero a volte fortemente assomigliarsi è una cosa sensata. Le Vite Parallele di Plutarco consiste di ventidue coppie di biografie, ognuna narrante la vita di un uomo greco e di uno romano.

Oggi farò una cosa simile; vi parlerò di due vite parallele di due chimici-scrittori, uno italiano, uno americano di cultura tedesca, che vissero la parte cruciale della loro vita durante la 2° guerra mondiale; entrambi si schierarono contro il fascismo e il nazismo spontaneamente, avrebbero potuto farne a meno ma lo fecero, entrambi caddero prigionieri dei tedeschi e corsero il rischio di morire vivendo drammatici avvenimenti.

Tornati dalla guerra entrambi divennero scrittori e scrissero libri divenuti famosi sulla loro esperienza, ma non solo; ed entrambi ad un certo punto si occuparono di un tema, quello dell’acqua, immaginando un’acqua “polimerica” terribilmente pericolosa che di fatto nei loro racconti distrugge la vita e il pianeta Terra.

Le loro opere sono parte della letteratura che si studia a scuola; ma in Italia l’autore è conosciuto più per le sue opere “serie”, come Se questo è un uomo o La tregua, mentre nella scuola americana l’autore che vi dico è studiato più per le sue opere (apparentemente) di fantascienza come Ghiaccio 9 (Cat’s cradle in inglese, trad. letterale “Il ripiglino” gioco dell’elastico o culla del gatto, che è un gioco che avete sicuramente fatto) o Mattatoio n. 5 (o La crociata dei Bambini (Slaughterhouse-Five; or, The Children’s Crusade: A Duty-Dance With Death, 1969)

E’ da notare che entrambi erano dichiaratamente atei ed entrambi morirono a seguito di una caduta dalle scale.

Nei medesimi anni in cui scrissero quei racconti vi fu poi un enorme interesse nella ipotizzata scoperta di un’acqua “strana” diversa, da quella normale, definita poliacqua o acqua anomala, che si rivelò una falsa scoperta, un artefatto frutto della solubilizzazione di alcuni componenti dei contenitori usati, ma la cui storia rivela molto dei modi in cui la scienza moderna si sviluppa.

E infine accenneremo a cose strane sull’acqua immaginate o supposte, vere e false.

I due chimici scrittori sono Primo Levi (Torino 1919- Torino 1987) e Kurt Vonnegut Jr.(Indianapolis 1922-New York 2007).

Probabilmente non conoscerete il secondo a meno che non vi piaccia la fantascienza, una tematica di cui si occupò anche Levi, sia pure solo in alcuni racconti (la serie di Vizio di Forma pubblicata nel 1971) , ma che fu il tema principale delle opere di Vonnegut, che è stato uno dei maggiori scrittori americani moderni ed un indiscusso leader del settore SF (Science Fiction).

Primo Levi

Kurt Vonnegut Jr.

Quella di Primo Levi è una storia che conosciamo meglio; laureato in chimica, di famiglia ebraica, ma ateo, Levi inizia a lavorare prima dell’inizio della guerra, ma poi “sale in montagna” e viene catturato da partigiano; si dichiara ebreo, viene mandato nel campo di concentramento di Auschwitz III, dove viene reclutato per la produzione della gomma sintetica; questo coinvolgimento e altri aspetti apparentemente casuali e secondari gli consentono di salvarsi la vita quando i russi nella loro avanzata liberano il campo; proprio alcune di queste circostanze fortuite ragione di vita per lui e morte per altri a lui vicini (come Alberto Dalla Volta) si imprimeranno nella sua mente e fino alla fine gli rimaranno nell’anima come un enorme fardello.

Tornato fortunosamente in Italia, scrive subito il suo primo libro (anche se le sue prime esperienze di scrittore risalgono a prima della guerra) che viene prima rifiutato e poi accettato con una condivisione sempre più larga che diventerà corale solo alla fine degli anni 50, consacrandolo scrittore a tutto tondo, con una produzione complessiva di tutto rispetto.

Farà comunque il chimico per molti anni e trarrà da questa sua attività fonte di ispirazione. Morirà in circostanze mai chiarite del tutto per una caduta dalle scale nel 1987.

Meno conosciuta la storia di Kurt Vonnegut jr., nipote di un immmigrato tedesco in USA, nato a Minneapolis, studente di biochimica a Cornell, nel 1943 decide spontaneamente di arruolarsi e diviene fante esploratore; catturato sul fronte delle Ardenne e detenuto a Dresda assistette al bombardamento della città da parte degli alleati, nel febbraio 1945, un bombardamento in cui vennero usate migliaia di bombe incendiarie e che fece decine di migliaia di vittime, ma si salvò per mero caso nascondendosi sotto il mattatoio dellla città, una grotta che gli salvò la vita e che serviva di solito per conservare la carne. Questo episodio scioccante fu poi da lui ripreso nel suo primo grande romanzo, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini, un duro atto di accusa contro la guerra, ma anche un esempio di scrittura diversa dal solito e con fortissime venature fantascientifiche e satiriche.

Kurt non arrivò alla scrittura facilmente; sposato con la sua compagna di infanzia Jane Cox, di cui era profondamente innamorato, fu da lei spinto a scrivere.

In un articolo del New Yorker si narra la storia di questo rapporto così importante per lo scrittore.

in November, 1945, he wrote Jane in a fever of excitement. He had been reading the foreign affairs section of Newsweek when he realized something: “Everything that was reported by ace newsmen from the heart of Europe I found to be old stuff to me. . . . By Jesus, I was there.” That was me; I was there. That astonishing moment in “Slaughterhouse-Five” was the impetus for the entire book, first felt in 1945. His war experience was crying out to be written. He told her he was trying to remember every little thing that had happened to him. He would write about that. But one thing was clear: “I’LL NOT BE ABLE TO DO IT WITHOUT YOUR HELP.”

The next week, in a calmer mood, he articulated his new conviction. “Rich man, poor man, beggar man, thief? Doctor, Lawyer, Merchant, Chief?” he wrote, reprising his old theme. “From your loving me I’ve drawn a measure of courage that never would have come to me otherwise. You’ve given me the courage to decide to be a writer. That much of my life has been decided. Regardless of my epitaph, to be a writer will have been my personal ultimate goal.”

In realtà il suo romanzo a metà fra il fantascientifico e l’autobiografico il più famoso ed importante Mattatoio n. 5 nel 1969, fu anche l’inizio della fine del loro rapporto matrimoniale, ma rimasero sempre una coppia legata da forti sentimenti.

Il rapporto fra Vonnegut e la fantascienza è oggetto di una celebre citazione tratta da un suo romanzo, con cui Vonnegut si rivolge agli scrittori di questo genere:

« Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi, quello che cí fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi. Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l’Inferno. »
(Da Dio la benedica, signor Rosewater o Le perle ai porci (1965))

(da wikipedia)

Vonnegut vinse parecchi premi letterari, si laureò in antropologia con una tesi che di fatto fu il romanzo

di cui parleremo più avanti. Fu inoltre nominato “artista dello stato di New York” per l’anno 2001-2002. In quegli anni manifestò il suo ateismo, confermando le voci che erano circolate in tal senso. Insegnò letteratura ad Harvard fu a lungo pompiere volontario e presidente della American Humanist Association (Associazione degli Umanisti Americani).

Morì il 10 aprile 2007 a seguito dei traumi cerebrali conseguenti ad una caduta in ambito domestico.

 

Entrambi questi scrittori così simili ma così diversi si sono occupati dell’acqua anomala, una scoperta avvenuta nel 1962 ad opera del ricercatore russo N. N. Fedyakin, pubblicata su una rivista russa, che era tradotta in inglese, ma di cui non sono stato capace di trovare copia in letteratura. Il lavoro fu poi continuato insieme a Derjaguin, un chimico fisico russo molto più noto, che la pubblicizzò in occidente decisamente solo dopo il 1966 con un congresso in Gran Bretagna ed un lavoro su Discussions Faraday Soc. 42, 109 (1966) e su JCIS nel 1967 ; la cosa divenne di dominio pubblico solo dal 1969 con articoli sui giornali e con articoli su molte altre riviste anche divulgative, scatenando una corsa alla ricerca ed alla emulazione fra le due grandi potenze.

Si trattava di un’acqua che condensava in una situazione particolare, in tubi capillari di quarzo e che mostrava delle proprietà molto particolari; si temeva potesse alterare stabilmente le proprietà del resto dell’acqua con cui veniva in contatto, argomento questo che arriverà in letteratura. La cosa scatenò una incredibile corsa fra i vari paesi a causa dei potenziali effetti benefici o tragici del materiale, ma fu comunque chiaro entro pochi anni che i dati erano frutto di un errore sperimentale, dovuto alla dissoluzione dei componenti del contenitore.

Fu pure pubblicato un libro (Poliacqua, ed, Il Saggiatore) da parte di uno dei più famosi studiosi dell’acqua di quel periodo F. Franks, autore del monumentale tomo sull’acqua in 7 volumi su cui ho studiato durante la mia tesi. La critica feroce di Franks scatenò una risposta altrettanto dura di Derjaguin su Nature.

La cosa interessante è che mentre la breve novella di Levi è stata scritta o almeno pubblicata nel 1971, dunque parecchio dopo che il tema era divenuto di dominio pubblico, e dunque quasi certamente è stata influenzata dagli eventi già svoltisi, (anche se l’autore scrive nella lettera a Einaudi che l’articolo di Scientific American da cui lo ha appreso è successivo al suo testo, in realtà lo precede, è del 1969 Polywater, Sci. Amer. 221, 90 (Sept., 1969); col beneficio di inventario il testo di Levi fu scritto fra il 1968 e il 1970, ma comunque già allora la notizia era circolata sui giornali), il romanzo di Vonnegut , un romanzo ampio e di argomento molto più complesso è stato pubblicato solo nel 1963, dunque quando in occidente pochissimi conoscevano la cosa e non è verosimile che Vonnegut ne fosse a conoscenza. Secondo me è una idea originale di Vonnegut, anche se la pubblicazione del romanzo è avvenuta dopo la scoperta, almeno formalmente.

Nel romanzo in realtà si parla di varie cose:

La voce narrante è John o Jonah (in inglese, sinonimo di portasfiga) è uno scrittore che ha deciso di scrivere un libro dal titolo Il giorno in cui il mondo finì, che vuole essere un resoconto su come alcuni scienziati responsabili dell’invenzione della bomba atomica trascorsero la giornata del 6 agosto 1945, appunto «il giorno in cui il mondo finì».

Le sue ricerche si concentrano su Felix Hoenikker, uno dei “padri” della bomba atomica, nonché Premio Nobel. Inizia così a rintracciare e contattare coloro che hanno conosciuto direttamente lo scienziato a partire dai figli. Il quadro che ne viene fuori è quello di un uomo interamente votato alla scienza, completamente estraneo alla vita sociale, incapace di amare la moglie Emily e di piangere la sua morte, incapace di fare da padre ai suoi tre. Da questa ricerca lo scrittore scopre anche qualcosa sull’ultima invenzione nata in risposta alle pressanti richieste di un generale della Marina americana, che gli aveva chiesto di inventare qualcosa capace di solidificare il fango. L’idea, come si viene a sapere in seguito, gli era venuta proprio il giorno dello sgancio della bomba, “giocherellando” a ripiglino con uno spago (e più precisamente quando forma la figura chiamata “cesta del gatto”, da cui il significato del titolo originale “Cat’s Cradle”). Da lì l’invenzione del “ghiaccio-nove”: un «seme», ovvero una microparticella in grado di cristallizzare e congelare istantaneamente l’acqua (portandone il punto di fusione a 114 °F, ossia 45,556°C) e potenzialmente in grado, con una reazione a catena, di propagare questa proprietà a tutta l’acqua del pianeta, con conseguenze catastrofiche. Alla morte dello scienziato i tre figli si spartiscono l’invenzione, conservando ognuno una scheggia di “ghiaccio-nove”.

(da wikipedia)

Non vi dico come continua sperando siate stimolati a leggerlo.

I titoli delle due opere hanno origini del tutto diverse; infatti quello di Levi Ottima è l’acqua, prende il titolo in prestito dal famoso incipit della Prima Olimpica di Pindaro: Ἄριστον μὲν ὕδωρ”.

Mentre il titolo del romanzo di Vonnegut, Cat’s cradle, la culla del gatto si rifà ad un giochino da ragazzi, in italiano chiamato ripiglino, a cui avete certamente giocato anche voi da ragazzi e mostrato nelle figure accluse al testo.Concluderei come conclude Franks il suo libro; scoperte sull’acqua e sulle sue presunte caratteristiche rivoluzionarie sono continue. Acque magiche se ne sono scoperte varie volte, ma l’acqua in effetti si presta, ha proprietà incredibili; per chi volesse esplorarle tutte compiutamente e con dettaglio c’è la pagina ben nota di Martin Chaplin http://www1.lsbu.ac.uk/water/

La proprietà che mi intriga di più è il fatto che l’acqua (come molte altre molecole) è una miscela di isomeri di spin nucleare, NSIM, in sigla; il caso più famoso è l’idrogeno, ma l’acqua è l’altra molecola famosa e semplice di cui si è ottenuta la separazione dei due isomeri di spin; orto-acqua e para-acqua, l’acqua è insospettabilmente una miscela non solo di due quasi-fasi, strutturata/non strutturata come insegnava Franks decenni fa ma proprio di due diverse molecole, con reattività diversa, ma interconvertibili fra loro. L’argomento si presterebbe a scrivere un altro post e dato che sono stato già abbastanza lungo mi fermo qua e ne riparlerò appena possibile.

da Angew. Chem. Int. Ed. 2014, 53, 1 – 5

Riferimenti.

-An Annotated Bibliography for Anomalous Water

LELAND C. ALLEN Journal of Colloid and Interface Science, VoL 36, No. 4, August 197 p. 554

– F. Franks Poliacqua Il saggiatore 1983 tradotto da Polywater MIT press 1981

– B. Derjaguin Nature 1983 Polywater rewieved, v. 301 p.9-10

https://www.reuters.com/article/us-vonnegut/kurt-vonnegut-dead-at-84-idUSN1126991620070412

https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0ahUKEwipndGsurnXAhXjHJoKHXeUAccQFggpMAA&url=http%3A%2F%2Fwww.physi.uni-heidelberg.de%2FForschung%2FANP%2FCascade%2FTeaching%2FFiles%2FPolywater.pptx&usg=AOvVaw0YPjui-hslUjnGrMZTkq7P

Ghiaccio 9 – Urania 1383 – K. Vonnegut trad da Cat’s cradle, 1963 in inglese, prima edizione italiana 1994   https://en.wikipedia.org/wiki/Cat’s_cradle

Mattatoio n. 5 – Kurt Vonnegut, Slaughterhouse-Five; – or, The Children’s Crusade: – A Duty-Dance With Death, Delacorte Press, 1969, pp. 186.

Oppure Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5, o la crociata dei bambini : danza obbligata con la morte, Scrittori italiani e stranieri, Mondadori, 1970, pp. 205,

Ottima è l’acqua – P. Levi in Opere complete vol. 2 pag. 733 – ed. Repubblica l’Espresso

  1. N. Fedyakin, Change in the Struc- ture of Water During Condensation in Capillaries, Kollo~d. Zh. 9.4, 497 (1962). Translation: Colloid J. USSR (English Transl.) 24, 425.
  2. B. V. Derjaguin and N. N. Fedyakin, Special Properties and Viscosity of Liquids Condensed in Capillaries, Dold. Akad. Nauk SSSR 47, 403 (1962). Translation: Dokl. Phys. Chem., Proe. Aead. Sd. USSR 147, 808.
  3. V. Derjaguin, Effect of Lyophile Surfaces on the Properties of Boundary Liquid Films, Discussions Faraday Soc. 42, 109 (1966).
  4. V. Derjaguin, N. N. Fedyakin, and M. V. Talayev, Concerning the Modified State and Structural PoIymorphism of Liquids Condensed from Their Under- saturated Vapors in Quartz Capillaries, J. Colloid. Interface Sei. 24, 132 (1967).