Qualche considerazione sui cosidetti “termovalorizzatori”.1.

Claudio Della Volpe

Premetto che questo non è un trattato sul tema ma un breve post e dunque non potrà essere esaustivo ma solo indicare alcuni punti. Eventualmente continuerò ad occuparmi del tema in altri post.

Le parole sono pietre e spesso la scelta di un termine implica tutta una serie di contenuti che però non appaiono subito chiari.

A me questo appare il caso del termovalorizzatore, ossia un impianto di incenerimento dei rifiuti a carattere “organico” in senso chimico, ossia basati su scheletri di carbonio. Ci sono due categorie di rifiuti di questo tipo, quelli propriamente organici, biologici insomma e quelli di plastica che ne rappresentano la assoluta maggioranza.

I tipici termovalorizzatori sono alimentati non tanto con combustibile “secco” generico quanto con il cosiddetto CDR, combustibile-derivato-da-rifiuto, ossia un tipo di rifiuto solido ottimizzato per la combustione in termovalorizzatore e in cui la componente di eteroatomi come cloro o fluoro è ridotta ed anche quella puramente biologica. La riduzione degli eteroatomi serve a ridurre la formazione di acidi inorganici aggressivi che renderebbero molto più impegnativa e costosa la combustione e le operazioni di filtraggio di fumi e polvere.

Il Combustibile derivato dai rifiuti (CDR) è un combustibile ottenuto dal trattamento chimico-fisico dei rifiuti solidi urbani che consente di ottenere energia dai rifiuti. Il combustibile derivato dai rifiuti è conosciuto anche con la sigla inglese RDF (Refuse Derived Fuel). Il CDR è composto essenzialmente da materie derivate dal petrolio (plastica, gomma, ecc.). Si ottiene eliminando le frazioni organiche e gli elementi non combustibili dai rifiuti. Al termine del trattamento il CDR viene sistemato in blocchi cilindrici, denominati ecoballe, e consegnato per l’incenerimento finale ai termovalorizzatori.

Questo tipo di cernita (che ha a sua volta un costo energetico) va considerata nel quadro del bilancio complessivo di energia.

La produzione della plastica dal petrolio è una operazione energeticamente intensiva; da un “compito in classe” di uno studente di Stanford (ma si possono trovare altre fonti di letteratura) ricaviamo che una tipica plastica come il PET costa in termini produttivi (petrolio ed operazioni conseguenti incluso il trasporto) qualcosa come 100MJ per chilogrammo; a fronte di questo costo sta il contenuto entalpico, ossia ottenibile dalla mera combustione del materiale, che è espressa nella tabella seguente:

La differenza fra i due dati mostra che la pretesa termovalorizzazione è un imbroglio dal punto di vista termodinamico, in quanto la plastica che bruciamo ci è costata per la sua produzione più del doppio dell’energia che ne ricaveremo, (come vedete nessuna produce più di 46.5 MJ/kg); in questo senso la sua combustione è un ben misero risultato anche perché, come sappiamo bene dalla termodinamica la trasformazione del calore in energia elettrica anche nelle migliori condizioni ottenibili è dell’ordine della metà; se ne conclude che con la “termovalorizzazione” recuperiamo la metà della metà, circa ¼ (un quarto) dell’energia che abbiamo speso per produrre la plastica dal petrolio.

Aggiungiamo un altro dato, sia pure approssimato: per quanto tempo l’abbiamo usata questa benedetta plastica? In genere se si escludono appunto prodotti come il PVC che sono a lunga vita (una finestra in PVC dura molti decenni) ma non sono bruciabili almeno non in un comune inceneritore a causa della estesa formazione di HCl, la vita media di un oggetto in plastica è breve; non sono stato in grado di trovare stime affidabili e complete, ma la stima corrente è inferiore all’anno.

Ne segue che di fatto la combustione della plastica è una sorta di combustione di petrolio “differita”  ed a bassissima efficienza che non è esente dai problemi generali della combustione di petrolio, ossia da quelli climatici su cui torneremo fra un momento.

Analizziamo il momento della combustione vera e propria. E’ un processo che noi uomini usiamo da oltre un milione di anni (lo usavano già i nostri progenitori della specie Homo, noi lo facciamo da quando esistiamo, circa 200mila anni) e che è stato profondamente ottimizzato.

Su questa fase dobbiamo dare torto al senso comune: è possibile con opportuni accorgimenti, a partire dalla cernita delle ecoballe (e quindi escludendo una parte dei rifiuti pur bruciabili) e dalla costanza della loro composizione come da tutti i metodi di filtraggio e di abbattimento, ottenere dagli impianti migliori, come quello di Acerra per esempio, emissioni ben al di sotto dei limiti di legge e dunque esenti da problemi ambientali.

Esistono numerosi lavori nel merito, per Acerra c’è un corposo libretto del CNR che ha studiato l’impianto già nel 2016, per esempio.

Ma su questo ho una prova inoppugnabile che è nel mio caso “di famiglia”, per così dire. Ho un cugino che ha fatto il veterinario della ASL Na2Nord; e che dopo la pensione essendo un appassionato di api da sempre ed un esperto da molti anni di api è stato coinvolto in uno studio che è stato poi pubblicato (dalla Regione Campania, nella rivista della ASLNa2Nord 2020); Patrizio Catalano ha allevato un bel po’ di api nel recinto del termovalorizzatore; le api sono libere di muoversi in tutto il territorio circostante e di ricavarne il loro miele, la cera e tutti i prodotti tipici della loro attività; questi prodotti sono stati studiati e analizzati per parecchio tempo da enti terzi, insieme alle api defunte e NON MOSTRANO alcuna criticità; ne segue che per quanto concerne gli effetti diretti dell’impianto sull’ambiente circostante un indicatore sensibile come le api, che sono un classico della bioanalisi ambientale, provano che non ci sono emissioni nocive.

Oggi il termovalorizzatore regala il miele prodotto da queste api ai visitatori, come anche il pepe rosa che nasce e cresce nel cortile interno dell’impianto, arricchendolo col suo forte profumo.

Insomma se si usano i migliori sistemi di combustione e di controllo delle emissioni bruciare le ecoballe si può senza inquinare l’aria. Per converso il territorio su cui si è bruciato liberamente e si è inquinato terribilmente (la cosiddetta “terra dei fuochi”, che non è così lontana da Acerra) la situazione si rovescia, lì l’inquinamento e gli effetti sulle api sono palesi.

Conclusione il termovalorizzatore se condotto bene può non inquinare l’aria.

Procediamo ancora; la combustione produce non solo fumi e gas ma anche ceneri; in questo caso la massa delle ceneri varia fra il 20 e il 30% della massa del combustibile usato; non è una percentuale trascurabile; a causa della sua composizione tuttavia il suo VOLUME è parecchio inferiore (le ceneri sono costituite da ossidi di metalli residui essenzialmente a partire da sodio e potassio a finire agli eventuali metalli pesanti presenti nella plastica e dunque hanno una densità molto più alta dei rifiuti); inoltre questo tipo di ceneri che costituisce a sua volta un rifiuto non è stoccabile nelle medesime condizioni del rifiuto di partenza, ma solo in condizioni molto più difficili da ottenere (almeno pro quota) e in parecchie regioni NON CI SONO depositi di rifiuti adeguati alla bisogna. Ne segue dunque che una volta bruciate le ecoballe occorre trasferire una massa che va da un quinto ad un terzo delle ecoballe in appositi depositi (anche questo, come la raccolta e la cernita delle ecoballe ha un costo energetico); si sta cercando di riusare queste ceneri essenzialmente vetrificandole e trasformandole in materiale da costruzione, ma la cosa non è ancora un fatto commerciale.

Dunque è pur vero che le emissioni gassose di un termovalorizzatore ben gestito sono trascurabili in termini di inquinamento atmosferico, ma ricordiamoci che ci sono le ceneri che occorre come le ecoballe, trasferire per molti chilometri in apposite discariche, almeno al momento.

Ed arriviamo qui alle dolenti note climatiche.

Il termovalorizzatore sia pur depurato delle sue emissioni più nocive in termini di fumi e gas emetterà comunque molte tonnellate di gas serra; essenzialmente acqua ed anidride carbonica.

Come sappiamo fra i due il vero gas serra che può alterare il bilancio serra del pianeta è l’anidride carbonica. Per ogni chilo di rifiuto avremo circa tre chili di gas serra.

Questo è un dato inoppugnabile e di solito trascurato; ma non si può farlo; un caso recente ce lo fa capire bene:

Il famoso inceneritore di Copenhagen, quello su cui si può sciare, è diventato a livello mondiale il simbolo della termovalorizzazione pulita, ma…..

C’è un ma; anche quell’impianto esemplare manca di un modo di bloccare le emissioni climalteranti; certo si può, si potrebbe costruire un impianto di assorbimento della CO2 prodotta, anche se poi si dovrebbe stoccarla e metodi sicuri e certi per questo stoccaggio non ci sono, a parte i costi di trasporto; ma il costo di questa parte del dispositivo è molto alto; la comunità danese si è rifiutata di farlo;

https://europa.today.it/ambiente/copenaghen-emissioni-zero-termovalorizzatore.html

La conclusione è che anche l’impianto da sogno su cui si può sciare non è una soluzione perché non può bloccare le emissioni climalteranti e se si applicasse questo metodo a tutti i rifiuti possibili l’effetto sarebbe tragico per il clima.

L’Europa almeno formalmente ha scritto già nel 2018 che i termovalorizzatori non sono la soluzione per i rifiuti proprio per questo motivo.

https://www.pressenza.com/it/2018/01/leuropa-dice-no-agli-inceneritori-aumentano-leffetto-serra/

Un ultimo punto che non è di tipo scientifico ma che fa capire come poi l’inceneritore reagisce con la nostra struttura sociale.

Ma come ha fatto l’inceneritore di Copenaghen a continuare a bruciare tanti rifiuti quando poi la Danimarca è effettivamente all’avanguardia nel riciclo? Semplice; per far si che l’impianto non fosse in perdita la Danimarca ha IMPORTATO la monnezza o meglio i CDR di altri paesi in modo da poter continuare a bruciare.

Mentre in origine l’impianto era stato costruito per bruciare solo i rifiuti di parte della città di Copenaghen, dopo qualche anno per non rinunciare ai profitti ed andare in perdita la regola è stata “superata” e si è andati verso la crescita inarrestabile sia della quantità dei rifiuti trattati (quasi 600mila tonnellate all’anno), sia all’espansione dell’impianto per bruciare anche rifiuti di tipo vegetale.

Ma ovviamente questo non ha fatto proprio piacere ai cittadini danesi. Il governo dopo opportuna riflessione ha deciso di cambiare strada.

Dunque la conclusione è che mentre in Europa si abbandona la strada dell’incenerimento qui da noi si continua a puntare su una tecnologia che è ritenuta SUPERATA dai fatti climatici; i costruendi inceneritori di Roma, di Trento-Rovereto e l’espansione di Acerra rimangono un sogno tecnologico ma insostenibile; i rifiuti si devono ridurre, riducendo la produzione di manufatti e riciclando e riusando gli oggetti e i materiali.

Ma questo confligge con la natura sempre crescente dell’economia capitalistica; per cui o lei o noi, l’economia capitalistica del Pil sempre crescente è insostenibile per noi e per il pianeta e deve passare anch’essa in qualche tipo di pattumiera.

(continua)

L’iperaccumulo, un modo alternativo di estrarre il Nickel (e altri metalli).

Claudio Della Volpe

Del Nickel abbiamo parlato ripetutamente; per esempio qui oppure qui.

Si tratta di un elemento molto importante dal punto di vista applicativo e dotato di un complesso ciclo biogeochimico che ricopio da uno dei post sopracitati.

L’ìmmagine è a sua volta estratta da un fondamentale lavoro sui cicli biogeochimici che non smetterò di citare (2009 (GLOBAL BIOGEOCHEMICAL CYCLES, VOL. 23, GB2001, doi: 10.1029/2008GB003376, 2009).

Come si vede la parte naturale del ciclo del Nickel non è così ridotta ed il Nickel è un elemento che arriva anche dallo spazio come anche è presente nel nucleo terrestre; insomma un elemento veramente principe.

Proprio per questo trovo veramente importante la sottolineatura di un recente articolo giornalistico sull’accumulo di questo elemento in varie piante; l’articolo originale è stato pubblicato dal Guardian, che personalmente considero uno dei migliori quotidiani del mondo e tradotto in italiano da Internazionale, una rivista mensile di articoli da tutto il mondo a cui sono abbonato da molti anni (nel numero 1459 ).

Cominciamo col dire che la percentuale del metallo nei minerali è attualmente in discesa, il che è OVVIO; abbiamo già estratto le risorse più ricche di molti elementi e dunque non possiamo meravigliarci di questa continua discesa della ricchezza dei depositi dei principali elementi che stiamo usando.

Il mondo che abitiamo è limitato e le sue risorse non sono affatto infinite come invece sottintende o ipotizza una ridicola visione economica cosiddetta “neoclassica” sulla quale sono ahimè basati molti programmi economici anche nel nostro paese e le cognizioni “scientifiche” di molti colleghi economisti e di altrettanti uomini politici, fra i quali il nostro attuale Presidente del Consiglio.

Come vedete i minerali dai quali estraiamo il nickel hanno attualmente una percentuale di metallo che si avvicina al 2% e tende a ridursi sempre più; ricordiamo che questo dato è simile in parecchi altri metalli importanti.

Torniamo all’argomento sull’accumulo. In realtà sarebbe più corretto parlare di iperaccumulo, in inglese hyperaccumulation, un fenomeno scoperto in effetti da molto tempo ed ancora in studio.

Di che si tratta?

È interessante notare che ci sono piante che sopravvivono, crescono e si riproducono su terreni metalliferi naturali e su siti inquinati con metalli pesanti a seguito di attività antropogeniche. La maggior parte delle specie che tollerano concentrazioni di metalli pesanti altamente tossici per le altre piante si comportano come “esclusori” (Fig. 1), basandosi su strategie di tolleranza e persino ipertolleranza utili per limitare l’ingresso del metallo. Trattengono e disintossicano la maggior parte dei metalli pesanti nei tessuti radicali, con una traslocazione ridotta al minimo alle foglie le cui cellule rimangono sensibili agli effetti fitotossici. Tuttavia, un certo numero di specie ipertolleranti, definite “iperaccumulatori”, mostra un comportamento opposto per quanto riguarda l’assorbimento e la distribuzione di metalli pesanti nell’organismo (Fig. 1).

Il termine “iperaccumulatore” è stato coniato per le piante (Fig. 1) che, a differenza delle piante che si comportano come “esclusori”, assorbono attivamente grandi quantità di uno o più metalli pesanti dal suolo. Inoltre, i metalli pesanti non vengono trattenuti nelle radici ma vengono traslocati nel germoglio e accumulati in organi fuori terra, in particolare foglie, a concentrazioni 100-1000 volte superiori a quelle che si trovano nelle specie non iperaccumulanti. Non mostrano sintomi di fitotossicità [12,13]. Sebbene sia una caratteristica distinta, l’iperaccumulazione si basa anche sull’ipertolleranza, una proprietà chiave essenziale che consente alle piante di evitare l’avvelenamento da metalli pesanti, a cui le piante iperaccumulatrici sono sensibili quanto quelle che non lo sono.

È il testo di una review scritta da due autrici italiane:

Il lavoro spiega quali meccanismi interni vengono usati dalla pianta per iperaccumulare, quali enzimi servono per trasferire senza danno gli ioni da una zona all’altra e illustra anche le ipotesi che si fanno sull’origine di questo comportamento, che sembrerebbe legato alla difesa della pianta dall’attacco di specie animali di varia natura; è da dire che esistono anche insetti specializzati che riescono comunque a cibarsi della pianta iperaccumulatrice. Le applicazioni che si intravedono per queste proprietà sono due: la depurazione di suoli inquinati (fitodepurazione) e l’estrazione mineraria (fitominazione).

Sierra Exif JPEG

Streptanthus polygaloides – Milkwort jewelflower (bozzolina)

Sierra Exif JPEG

Alyssum bertolonii (in regione mediterranea)

Uno studio pionieristico sulla fitominazione è stato condotto utilizzando l’iperaccumulatore di Ni S. polygaloides: una resa di 100 kg ha−1 di Ni senza zolfo potrebbe essere ottenuta dopo un’applicazione moderata di fertilizzanti. La rimozione del Ni dal suolo mediante fitominazione è praticabile in linea di principio, poiché esistono molte piante iperaccumulatrici, come Alyssum spp. e B. coddii, che soddisfano il criterio di raggiungere concentrazioni di Ni nei germogli superiori a 10 g kg-1 su base di sostanza secca e producendo più di 10.000 kg ha −1 all’anno. A. bertolonii può anche accumulare 10 mg di materia secca Ni g−1 da terreni serpentini. Sono stati condotti esperimenti sul potenziale utilizzo di questa pianta iperaccumulatrice nella fitominazione di terreni serpentini. Nel campo di prova piante di A. bertolonii sono state concimate con N + P + K per un periodo di 2 anni. La fertilizzazione aumenta la biomassa di 3 volte senza diluizione della concentrazione di Ni nelle piante fertilizzate. Si è concluso che A. bertolonii, con una biomassa dopo fertilizzazione di circa 13.500 kg ha-1, o altre specie di Alyssum potrebbero essere utilizzate per la fitominazione. In un’altra prova sul campo B. coddii, con una biomassa non fecondata di 12.000 kg ha-1, è stato segnalato come uno dei migliori candidati per la fitominazione del Ni con fertilizzanti applicati e umidità adeguata, dopo di che è stata raggiunta una biomassa di 22.000 kg ha-1 e un’alta concentrazione di Ni [159.162.177.180 ?].

Da altri lavori si ricavano dati su altre piante iperaccumulatrici; i rapporti estrattivi sono espressi sui grammi di sostanza secca e in questo caso stiamo parlando dunque di concentrazioni che sono comparabili con quelle ottenute da minerale; stiamo parlando di valori fra 0.X e X%, dove X può superare 3-4; inoltre in questo caso si parla anche in resa per ettaro di coltivazione, in analogia a quella ottenuta in campo alimentare.

L’altra cosa da notare è che per avere valori ragionevoli della resa non è necessario coltivare le piante su suoli inquinati o particolarmente ricchi poiché le radici sono in grado di concentrare moltissimo i valori presenti nel suolo (notate la frase sui terreni serpentini, ossia originato dalla degradazione di rocce di tipo serpentinoscisto).

Ecco dunque un metodo che può certamente aiutare nel riciclo dei metalli e che riduce di gran lunga l’impatto umano sul pianeta, almeno in potenza.

Oltre ai metalli elencati nella tabella sono stati condotti esperimenti sull’iperaccumulo di metalli preziosi ed anche in quel caso i risultati sono di tutto rispetto anche se inferiori quantitativamente al caso del Nichel.

Voi ve lo sareste aspettato?

Lavori consultati.

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.2307/1221970

https://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev-arplant-042809-112156

https://scialert.net/fulltext/?doi=jest.2011.118.138

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0168945210002402

Una lista di piante iperaccumulatrici la trovate qui con i riferimenti di letteratura.

Riciclare la plastica.

Claudio Della Volpe

Negli ultimi giorni si è sviluppato un dibattito sul riciclo della plastica legato alle decisioni governative in merito che si coaguleranno a quanto sembra in una tassa sull’uso della plastica usa e getta o monouso.

Vale la pena di fare qualche riflessione sul tema, senza voler peraltro pretendere di risolvere tutto.

Per analizzare questo problema consideriamo due tipi di plastica, uno a lungo uso e non riciclabile, come il PVC che si usa per esempio in oggetti come le finestre o le guaine dei fili elettrici e uno invece che si usa in oggetti monouso a breve vita ma fortemente riciclabile, quasi al 70%, come il PET delle bottiglie dell’acqua minerale o del latte o delle bibite (la percentuale considerata è in massa ed è tratta dal migliore valore trovato in letteratura, valori del riciclo in massa non sono così comuni).

Quando si vuole stimare la possibilità di riciclo di un materiale non basta sapere il modo e la percentuale del riciclo, ma occorre sapere quanto dura la vita di un oggetto.

Se prendiamo la stessa quantità di plastica una usata per fare una finestra ed una usata per fare un certo numero di bottiglie ed inseriamo questo dato otteniamo un risultato inatteso.

Considerando un tempo tciclo di uso del prodotto ed un tempo ttotale di analisi, una percentuale di riciclo indicata da %, avremo che la massa di plastica restante, massarestante, rispetto a quella iniziale massainiziale dopo un tempo ttotale sarà in ogni caso:

massarestante = massainiziale * %t totale/t ciclo

infatti ad ogni ciclo la massa iniziale si ridurrà in proporzione alla % di riciclo (massa al ciclo n+1 = massa al ciclo n * %) , e così via per ogni ciclo successivo con un effetto moltiplicativo in cui la % si moltiplica per stessa ad ogni ciclo ed il numero totale di cicli sarà espresso dal rapporto dei tempi e figurerà ad esponente.

Supponiamo dunque di avere 10 kg di plastica nei due casi e di aspettare i trent’anni di vita della finestra di PVC e i 10 cicli di vita delle bottiglie che durano LEGALMENTE al massimo 3 anni ma si riciclano al 70%. Teoricamente una bottiglia di PET potrebbe durare un solo anno o anche meno ma al momento il numero stimato massimo di cicli possibili non supera i 10; inoltre il materiale PET non giudicato idoneo per le bottiglie e che passa a fibra non viene ulteriormente riciclato.

Nei due casi la percentuale restante sarà 0.000 per il PVC, e 0.028 (280 grammi); (0.7010=0.028) dopo trent’anni avremo da produrre ancora sia i 10kg di PVC che andrà dismesso che il PET, solo (si fa per dire), 9.720 kg; nonostante le due diversissime percentuali di riciclo il risultato finale non è molto diverso nei due casi.

In effetti la vita di una bottiglia può essere ancora più breve ed il numero di cicli di riciclo effettivo molto più basso. La problematica bottiglia può risultare perfino peggiore anche se il PVC non è riciclabile al momento, perché nel concreto la massa usata per la bottiglia potrebbe disgregarsi completamente ben prima dei 30 anni considerati.

Dunque la questione non è tanto quanto si ricicla ma quanto dura la vita di un oggetto, qualunque sia la sua composizione e la sua riciclabilità.

La conclusione è che la plastica è un materiale meraviglioso, capace di adattarsi a innumerevoli usi e condizioni dalle bottiglie alle finestre; il problema del suo uso non sta nella plastica stessa ma nei modi e nelle quantità in cui la usiamo.

Per continuare ad usare la plastica come facciamo adesso, nella medesima quantità e modalità, dovremmo avere durate del ciclo di vita dell’ordine del PVC, molto lunghe e percentuali di riciclo dell’ordine di quella del PET.

Voi cosa ne dite, si può fare?

Ovviamente questo vale per ogni materiale.

Nota:

Per riflettere meglio vi accludo un grafico che mostra la rimanenza del materiale dopo n cicli di vita per le varie percentuali di riciclo; se guardate bene se avete un materiale che si ricicla al 99% (noi non ne abbiamo nessuno, ma supponiamo che sia un qualche tipo di plastica) dopo 99 cicli ve ne rimane solo il 36%! Dunque il problema non è quanto se ne ricicla, ma quanto dura il ciclo di vita e dunque a quanti cicli dovrà resistere. Se il ciclo è troppo breve non c’è modo di resistere alla perdita di materiale. La questione non è tecnica, quanto ne riciclo? ma economico politica: quanto dura il materiale? che ciclo economico ha? Anche una plastica ideale riciclabile al 99% con un ciclo di vita troppo breve ci lascerebbe con i due problemi: perdite (cioè inquinamento) e risorse decrescenti.

Nel caso delle bottiglie la cosa più vicina all’ideale sono quelle di vetro che si possono riusare anche se per un limitato numero di volte (da 15 a 50), poi occorre riciclare il materiale; certo si tratta di una questione non banale, e ci vorrebbero prima di tutto decisioni relative alla standardizzazione dei materiali; plastica o vetro, standardizzare le composizioni è il primo passo per il riciclo VERO, e questa non è una scelta chimica ma economica e sociale e politica.

Ricordo bene quando le bottiglie di vetro verde di buona qualità con attacco per il tappo ermetico facevano parte della dote di matrimonio, mia madre e mia suocera avevano bottiglie di 50 anni in cui ad agosto si facevano i pomodori. Quanti anni hanno le vostre bottiglie?

Si fa presto a dire ricicliamo….3. Elemento per elemento.

Claudio Della Volpe

 (la prima e la seconda parte di questo post sono qui e qui)

In questa terza parte del post discuteremo la situazione del riciclo guardando alla materia come divisa fra gli elementi chimici; ovviamente questo non è vero di per se perché quasi tutti gli elementi, a parte i gas nobili, sono presenti come composti e dunque manipolarne uno ne fa manipolare parecchi.

Ma questo punto di vista consente di avere un quadro partendo da un punto di vista che è familiare per i chimici, ossia quello della tavola periodica, di cui, ricordiamo oggi, il 2019 è stato dichiarato anno internazionale.

Non solo; consente di ragionare del riciclo degli elementi incrociando il riciclo in campo umano con quello che già avviene in campo naturale, ossia i grandi cicli biogeochimici, che sono familiari a parecchi di noi e fanno parte anche della cultura naturalistica della gran parte delle persone. Ragionare per elemento consente di comprendere come l’umanità abbia modificato od alterato o sconvolto alcuni dei cicli basilari della biosfera.

I cicli biogeochimici sono legati alla nascita della chimica; il primo e più famoso di essi, quello del carbonio, legato alla respirazione, e dunque intimamente connesso alla nostra vita ed alle piante, fu scoperto da Joseph Priestley ed Antoine Lavoisier e successivamente popolarizzato dalle famose conferenze sulla candela di Faraday e da Humphry Davy, l’inventore della lampada di sicurezza dei minatori.

Ma questo punto di vista è divenuto quello largamente dominante per tutti gli elementi e soprattutto è divenuto la base della concezione della biosfera come sistema chiuso ma non isolato, alimentato dal Sole e strutturato dal flusso di energia libera e di entropia determinato dai vari gradienti presenti nel sistema e dal loro accoppiamento (si vedano i tre post qui, qui e qui).

I cicli biogeochimici sono in un certo senso le principali “strutture dissipative” (per usare il bel termine coniato da Prigogine) alimentate dal flusso di energia solare e costituiscono il vero anello di congiunzione fra l’animato e l’inanimato, fra la vita e la non-vita. I cicli biogeochimici sono fatti a loro volta di cicli più piccoli e sono intrecciati fra di loro, costituendo un “iperciclo”(termine coniato da Manfred Eigen che lo usava per le molecole autoreplicantesi) ossia un ciclo di cicli, una rete di interazioni che rappresenta l’anima della biosfera terrestre, Gaia, come l’ha chiamata Lovelock. Un iperciclo non è solo una miscela di flussi di materia (e di energia), ma è una serie di interazioni di retroazione in cui ogni parte del ciclo interagisce con le altre e alla fine questo schema può essere sia la base della stabilità, dell’omeostasi del sistema, della sua capacità di adattarsi, sia della sua delicatezza, della sua sensibilità ai più diversi effetti, e dunque della sua capacità di trasformarsi ed evolvere e ovviamente di essere avvelenato e di morire. Nulla è per sempre. Panta rei .“Tutto scorre”, come già Eraclito aveva capito, ma nell’ambito di un unico sistema che Parmenide aveva ricosciuto a sua volta come l’unità della Natura. E la sintesi, secondo me è proprio la concezione dialettica della natura, quello che noi chiamiamo con la parola retroazione, con il termine iperciclo e che quantifichiamo con sistemi di equazioni differenziali (non lineari), che (lasciatemi dire) se colgono i numeri perdono l’unità dell’idea.

Questo fa comprendere come l’invasione di campo che l’uomo ha compiuto nel ciclo del carbonio incrementando lo scambio con l’atmosfera di circa un sesto, con il ciclo dell’azoto di cui oggi rappresenta un co-partner equivalente al resto della biosfera e con il ciclo del fosforo nel quale è il player di gran lunga principale, non siano fatti banali ma alterazioni profonde e probabilmente irreversibili le cui conseguenze non sono ancora ben comprese.

Ma tutto ciò è una visione unitaria del tema; meno unitaria e più dedicata agli scopi pratici ed economici è il paradigma economico dominante che teorizza la crescita infinita, un’economia non biofisica e anzi direi talmente scandalosamente finanziarizzata e lontana dalla vita di noi tutti da dover essere cambiata al più presto possibile.

La questione è che anche gli articoli scientifici non colgono spesso questa unitarietà ma analizzano solo gli aspetti “concreti”.

C’è un bel filmato segnalatomi dall’amica Annarosa Luzzatto (che è una nostra redattrice) che fa vedere come in poco più di 300 anni si siano scoperti tutti gli elementi che conosciamo.

Ebbene in un tempo anche più breve l’uso di questi elementi è divenuto normale nella nostra industria; praticamente non c’è elemento che non sia usato nel nostro ciclo produttivo, anche di quelli che non hanno un ruolo significativo nella biosfera; e, dato il nostro modo lineare di produrre, questo ha corrisposto ad un significativo incremento della “redistribuzione” di questi elementi nell’ambiente.

I dati aggiornati per circa 60 elementi sono stati raccolti dall’ONU (1) e sono mostrati nella figura sotto (tratta dalla ref. 2).>50% corrisponde a poco più del 50%, nella maggior parte dei casi. Si tratta però dei valori di riciclaggio a fine vita non del “riciclaggio” e basta, che potrebbe facilmente confondersi con le procedure di recupero INTERNE al ciclo produttivo, che non cambiano le cose e nelle quali la tradizione industriale è maestra (quasi sempre).

Il report ONU conclude che:

Because of increases in metal use over time and long metal in-use lifetimes, many RC values are low and will remain so for the foreseeable future.

A causa dell’aumento dell’uso del metallo, molti valori RC (NdA grandezza che stima il riciclo) sono bassi e rimarranno tali per il prossimo futuro.

Anche l’articolo da cui è tratto la tabella soprariportata (2) conclude fra l’altro:

The more intricate the product and the more diverse the materials set it uses, the bet- ter it is likely to perform, but the more difficult it is to recycle so as to preserve the resources that were essential to making it work in the first place.

Più il prodotto è intricato e più è vario il gruppo di materiali utilizzato, più è probabile che funzioni, ma più è difficile riciclarlo, in modo da preservare le risorse indispensabili per farlo funzionare (in primo luogo) .

Fate caso che solo meno di un quarto del cadmio viene riciclato a fine vita; il cadmio è un elemento cancerogeno acclarato; che fine fa più del 75% del cadmio che usiamo? Il mercurio, altro metallo pesante tristemente famoso, su cui ho scritto parecchio in passato, viene riciclato a fine vita per meno del 10%; che fine fa più del 90% del mercurio?

Probabilmente il piombo rappresenta una eccezione in questo quadro apocalittico e possiamo dire che quasi la totalità del piombo usato nelle batterie viene riciclato grazie ad una legislazione molto severa.

Perfino i metalli preziosi come il platino o l’oro, che hanno un elevato valore intrinseco che ne favorisce il riciclo a fine vita, sono sfavoriti dal fatto che l’uso in elettronica ne rappresenta una frazione significativa e corrisponde ad una breve vita dei prodotti e ad un elevato grado di miscelazione che rendono poco appetibile il riciclaggio a fine vita (pensateci quando comprerete il prossimo cellulare, io ho sempre comprato prodotti usati, ma non riesco sempre a convincere il resto della famiglia ed il mio notebook, da cui sto scrivendo, quest’anno compie 10 anni ed è difficile mantenerlo aggiornato, ma tengo duro) ci vogliono regole che obblighino i produttori a continuare a produrre le batterie e i pezzi di ricambio e rendere i software compatibili, due scuse che spesso impediscono di continuare ad usare prodotti perfettamente funzionanti.La figura qui sopra riporta, sebbene i dati siano di una decina di anni fa, la situazione di due metalli che sono all’estremo della capacità di recupero; da una parte il nickel che arriva al 52% di recupero a fine vita e dall’altra il neodimio che non viene affatto recuperato.

Questa è la situazione forse non aggiornatissima, ma significativa del nostro punto di partenza. Quando va bene sprechiamo almeno la metà di ciò che estraiamo, altrimenti lo sprechiamo tutto, lo usiamo una volta e lo sottraiamo all’uso delle future generazioni (figli e nipoti); ma non solo, gli sporchiamo il mondo. E prima o poi pagheremo per questo; o pagheranno loro.

Nel prossimo ed ultimo post di questa serie parleremo a fondo di qualche caso esemplare di riciclo.

Ah dimenticavo; buone feste.

(continua)

Da consultare

(1) E. Graedel et al., “Recycling Rates of Metals—A Status Report, a Report of the Working Group on the Global Metal Flows to UNEP’s International Resource Panel” (2011); www. unep.org/resourcepanel/Portals/24102/PDFs/ Metals_Recycling_Rates_110412-1.pdf

(2) Challenges in Metal Recycling Barbara K. Reck and T. E. Graedel Science 337, 690 (2012); DOI: 10.1126/science.1217501

Il Santo Graal del riciclo della plastica.

Claudio Della Volpe

C&N ossia Chemical and Engineering news è una della più brillanti riviste divulgative ed informative di Chimica; curata dall’ACS, la American Chemical Society, la potremmo considerare la sorella maggiore de La Chimica e l’Industria. Ha un settore ampio dedicato proprio alla divulgazione dove sforna figure come questa che vi mostro fatta da Andy Brunning (April 19, 2018 | APPEARED IN VOLUME 96, ISSUE 17):


Vi dà un’idea immediata della situazione del riciclo della plastica (a livello americano e mondiale, guardate i dati con attenzione nelle due colonne), che è stata il tema della recente Giornata della Terra del 22 aprile.

Per fare una cosa del genere ci vuole conoscenza sia della Chimica che della Comunicazione, e anche una abilità grafica e persone che vi si dedicano; eh già direte voi ma dove le troviamo noi? Questo blog si fonda su alcuni volontari quasi tutti pensionati (lo 0.3% degli iscritti SCI e non tutti sono iscritti) che lavorano gratis e C&I ha una redazione fatta da 1 persona a tempo pieno; non azzardo ipotesi sulle cause, mi accontento di considerare le conseguenze disastrose in cui è facile ricevere critiche, ma molto più difficile avere una mano dai medesimi colleghi che criticano: provate voi a scrivere un post, colleghi criticoni, giuro che sarà pubblicato. Ma torniamo al riciclo.

Come vedete dalla grafica la situazione mondiale è tragica; dei 6.3 miliardi di tonnellate di plastica prodotte fra il 1950 e il 2015 solo il 9% è stato riciclato e in effetti buona parte è stato disperso in ambiente, è da questi 6.3 miliardi di ton che arrivano le isole della monnezza dell’oceano. La situazione del riciclo americana è tremenda dato che al massimo riciclano meno del 20% (in media il 9), mentre la situazione europea ed italiana è un poco meglio, siamo in media quasi al doppio.

Dai dati, discussi al recentissimo show del riciclo, PRS, si evince che l’Europa (che ha l’ambizioso progetto di riciclare la plastica completamente dal 2030) ricicla al momento il 41% circa del totale dei rifiuti di plastica.

Se fate il confronto con il riciclo del ferro (>40%), del vetro (80%), dell’alluminio (75% dell’ alluminio mai estratto è ancora in circolazione), Piombo (>60%), della carta (56%) o di sua maestà l’oro che è il materiale più riciclato (chissà perchè?! Si calcola che l’85% di tutto l’oro estratto nella storia umana sia ancora in circolazione) la plastica nella sua media è piazzata veramente maluccio. D’altronde è anche l’ultima arrivata fra tutti i materiali che ho nominato, è un prodotto di massa da pochi decenni, l’alluminio lo è da ben più di un secolo e il ferro o il vetro lo sono da parecchi millenni! I tempi di maturazione delle tecnologie non sono così veloci dopo tutto.

La decisione della Cina di bloccare l’importazione dei rifiuti in plastica ha messo in crisi il giovane apparato industriale di riciclo plastica dell’Europa; l’Europa produce all’incirca un quinto del totale della plastica mondiale (60Mton su 330).

(dati da https://www.plasticseurope.org/application/files/5715/1717/4180/Plastics_the_facts_2017_FINAL_for_website_one_page.pdf)

Solo nel 2016 per la prima volta il riciclo europeo ha superato la discarica, (31% a 27%) ma ATTENZIONE; l’industria considera riciclo “energetico” anche bruciare la plastica, un affare (a mio parere) ecologicamente assurdo che recupera solo una frazione del totale dell’energia immessa nel ciclo e che in realtà serve a mascherare il fatto che il grosso della plastica NON viene riciclata per problemi tecnici, il PVC e il PP per esempio sono di fatto non riciclabili o lo sono poche volte, e nonostante le loro proprietà tecnologiche notevoli non dovrebbero trovare posto nella nostra produzione se non in settori di nicchia (applicati solo in usi di lunga durata, non in altri) mentre fanno la parte del leone.

Quali sono i tempi di uso della plastica? Molto variabili da 1 a 50 anni a seconda dei casi e occorrerebbe evitare di usare in usi dai tempi corti materiali NON riciclabili; per esempio mi risulta che la schiuma di PP come imballaggio sia una sciocchezza: vive pochissimo e non è riciclabile, al massimo la bruciano. Se è così è una assurdità.

Il recupero energetico della plastica (al momento) è un affare solo a certe condizioni: da noi in Italia grazie ai notevoli supporti economici statali verso gli inceneritori: il caso CIP6 in Italia ne è una dimostrazione palese; una scelta che ha deformato il settore energetico, facilitando la costruzione di giganteschi impianti di incenerimento che costituiscono investimenti di lungo periodo e che hanno senso solo pensando a voler continuare a bruciare e non a riciclare; sono i proprietari di questi impianti a combattere una battaglia CONTRO le rinnovabili.

In altri paesi che si sono affidati al “mercato”, (seguendo la più grande bufala concettuale mai inventata ossia che il mercato oligopolistico attuale sia un mezzo efficiente di allocazione delle risorse, posizione che non ha alcuna dimostrazione teorica seria) cosa succede?

In Germania ci sono molti impianti che a causa della riduzione dei consumi nel periodo della crisi e con l’aumento sia pur lento del vero riciclo hanno conosciuto un deficit di offerta. Per riempire il deficit alcuni impianti tedeschi importano regolarmente rifiuti da Italia, Irlanda, Gran Bretagna e Svizzera. La Germania non è l’unica nazione a importare immondizia altrui: la Svezia anche importa rifiuti per alimentare i proprii impianti di generazione termoelettrica mano a mano che i residenti riciclano sempre più: nel 2014 la Svezia ha importato 800.000ton di rifiuti. Se vi sembra una politica “ecologica”!

Considerate infine che il “recupero energetico” della plastica NON elimina le scorie (da recupero fumi) e le ceneri , che rappresentano una quota significativa (5-10%); queste sono poi rifiuti tossici e dunque anche complessi da smaltire e a volte finiscono in discariche speciali.

La realtà è che occorre cambiare strada, e prima di tutto cambiare plastica; o si inventano metodi di riciclo efficienti per materiali come PVC o PP o si rinuncia ad essi: so che molti storceranno il naso. Lo ripeto: prodotti tecnologicamente notevoli ma attualmente non riciclabili come il PVC od il PP che di fatto sono pochissimo riciclati per vari problemi (in genere esistono le tecnologie ma sono costose e poco diffuse), bene per questi o si aggiornano le tecniche oppure occorre passare ad altri prodotti come il PET o altri ancora che consentirebbero proprietà meccaniche E riciclo completo o quasi.

Basterebbe una legge mondiale di un solo articolo: è vietato produrre polimeri che non si possano concretamente riciclare a costi ed in condizioni ragionevoli. La plastica non riciclabile si può usare solo per applicazioni limitate e durature e chi la produce ne deve garantire lo smaltimento a sue spese.

Vi presento una scoperta di questi giorni che affronta il problema in modo radicale e che secondo me potrebbe, se confermata, riconciliare tecnologia e ambiente.

Si tratta del 3,4-T6GBL, una sigla che nasconde un intelligente derivato del γ-butirrolattone; quest’ultimo è un lattone ciclico, un estere ciclico di formula:

sulle cui proprietà di solvente e anche di droga ci sarebbe molto da dire, ma al momento ci concentriamo sul fatto che un polimero basato su questo monomero esiste già e non ha proprietà notevoli.

Alcuni anni fa Eugene X.-Y. Chen all’Università del Colorado pubblicò un lavoro sulla possibilità di ottenere un polimero dalla reazione di apertura del ciclo del GBL, a sua volta ottenibile dallo zucchero. Ma la reazione che proponevano era difficile da realizzare su ampia scala a causa del fatto che occorreva gestirla a -40°C o meno e inoltre il polimero così ottenuto era poco stabile e aveva basso peso molecolare come anche proprietà fisiche e meccaniche che ne limitavano l’uso pratico.

Nel frattempo un gruppo dell’Università di Yamagata aveva provato una nuova strada, polimerizzare non il GBL ma un suo derivato ottenuto fondendo il suo ciclo con quello del cicloesano e i cui risultati vedete rappresentati nella figura seguente.

Polymer Journal

Vol.46  No.2 (2014)   pp.89 – 93

Questa sintesi non produsse risultati utili, ma diede l’idea ai ricercatori del Colorado di sfruttare una sintesi simile ma con un nuovo obiettivo che vedete rappresentato nella parte centrale della figura seguente, con lo spostamento dell’afferraggio dell’anello a 6 termini in posizione 3-4 e che ha consentito di realizzare un nuovo polimero molto interessante.

Il nuovo polimero si può ottenere in forma ciclica o lineare con peso molecolare fino ad 1 milione di dalton, quindi con migliaia di monomeri; può essere rapidamente depolimerizzato a temperature accettabili (inferiori a 200°C) con l’aggiunta di un catalizzatore a base di cloruro di zinco; il polimero ottenuto usando i due enantiomeri del monomero ha proprietà eccellenti; la resistenza a rottura è dell’ordine di quella del polipropilene; il limite principale è che la sintesi del nuovo monomero a partire dalla anidride dell’acido trans-1,2-ciclo­esancarbossilico appare costosa e dunque occorre un ulteriore passo verso una diversa sorgente.

Sembra dunque una scoperta molto interessante che potrebbe fornire un polimero termoplastico “ideale”, una sorta di Santo Graal del riciclo plastica, in grado di essere polimerizzato e depolimerizzato in condizioni tali da non esserne danneggiato e di mantenere proprietà meccaniche di primo ordine nella sua forma pratica anche dopo un numero indefinito di ricicli. In questo modo basterebbe un catalizzatore poco costoso per depolimerizzare il materiale di un oggetto qualunque ottenuto dal nuovo polimero e riforgiare una molecola perfettamente identica, senza danni significativi dal processo di depolimerizzazione, come invece avviene attualmente in altri casi di polimeri termoplastici. Il futuro ci dirà se questa scoperta può aiutarci nello sviluppo di una plastica effettivamente riciclabile e con proprietà analoghe se non superiori a quelle del PET e di altri polimeri canonici.

Nel frattempo pensateci anche voi (sia a nuovi polimeri riciclabili che a scrivere qualcosa per il blog).

https://cen.acs.org/materials/polymers/Strong-stable-polymer-recycled-again/96/i18

Zhu et al., Science 360, 398–403 (2018)         27 April 2018

Il riciclo “di fatto” della plastica.

Claudio Della Volpe

Molti pensano che il riciclo sia fatto una volta che i rifiuti siano separati nei vari cassonetti; poi le famose “mani invisibili”, quelle inventate da Adam Smith, ci penseranno; beh le cose non stanno così.

La separazione dei rifiuti è solo il primo passo, necessario ma non sufficiente; i rifiuti devono poi arrivare in un deposito e successivamente in un luogo di produzione dove l’azione venga perfezionata. (I comuni “ricicloni” non stanno riciclando, stanno solo separando.)

Ora questa strada verso il riciclo è lunga, molto lunga e anche pericolosa per i poveri rifiuti o materie prime seconde, come si dice in politicalcorrettese.

Un esempio di cosa succede ai rifiuti anche nostrani si vede in questo film che potete scaricare o di cui potete vedere qualche fotogramma qui:

La Cina è stata di fatto il deposito intermedio dei rifiuti di mezzo mondo; la cosa dà da “vivere” a un po’ di cinesi ma con qualche problema, tanto è vero che i politici cinesi si sono resi conto che qualcosa non quadrava ed hanno deciso di BLOCCARE, ripeto bloccare, l’import di rifiuti plastici da riciclo dall’Europa dal 1 gennaio di quest’anno di grazia 2018. La cosa ha avuto qualche effetto che adesso analizzeremo brevemente.

Il Corepla (Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo, il recupero degli imballaggi in plastica) scrive in un recentissimo report:

Le aumentate quantità raccolte hanno generato un incremento dei costi di selezione; i costi di recupero sono aumentati in quanto, a seguito della saturazione degli spazi disponibili presso i recuperatori, causata dai volumi provenienti dalla raccolta urbana, sono cresciuti i corrispettivi medi. Questo ha anche generato la necessità di trasferire materiali dal centro-sud al nord, con conseguente aumento dei costi di trasporto.  Laddove ciò non è stato possibile si è reso necessario trasferire del materiale in discarica, con conseguente aumento anche dei costi di smaltimento.”

Dice Il Sole 24 ore: Senza mercato, in Europa i carichi di materiali diventati inutilizzabili vengono deviati verso gli inceneritori affinché almeno vengano ricuperati sotto forma di combustibile di qualità.

http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2018-01-12/la-cina-blocca-l-import-rifiuti-caos-riciclo-europa-160732.shtml?uuid=AELQpUhD

Dunque c’è troppo da riciclare e la plastica finisce in…discarica o nell’inceneritore. (Poi dicono che al classico non si impara nulla? Signori miei questo è un esempio di dialettica hegeliana: la negazione della negazione!)

Ma non solo; molto “riciclo” arriva in depositi di materiale plastico che non riescono a perfezionare il passaggio né verso le fabbriche vere e proprie che sono spesso altrove, casomai in Cina, né perfino verso gli inceneritori.

Sempre il solerte giornale di Confindustria ci avverte:

I pochi impianti italiani di ricupero energetico marciano a tutta forza e non bastano;  in una situazione di forte domanda di incenerimento e di poca offerta di impianti di ricupero energetico le tariffe praticate dagli inceneritori salgono a prezzi sempre più alti, oltre i 140 euro la tonnellata.

Già in ottobre Andrea Fluttero, presidente di un’associazione di imprese del riciclo (Fise Unire), aveva avvertito che «purtroppo sta diventando sempre più difficile la gestione degli scarti da processi di riciclo dei rifiuti provenienti da attività produttive e da alcuni flussi della raccolta differenziata degli urbani, in particolare quelli degli imballaggi in plastica post-consumo».

(notate la raffinatezza di quel “di poca offerta di impianti di ricupero energetico” messo lì con nonchalance! E facciamo altri inceneritori, dai!)

Di conseguenza con o senza l’aiuto di malavitosi compiacenti la plastica prende la via dello smaltimento forzato, della “termovalorizzazione obbligata” tramite incendio doloso; nella seconda metà del 2017 il numero di incendi dei depositi di plastica nella zona Lombardo Piemontese è aumentata di quasi il 50%; difficile dimostrarne la origine dolosa, ma come avviene negli incendi dei boschi c’è qualche traccia e soprattutto i numeri parlano chiaro. (Attenzione anche ai depositi di carta e alle cartiere!).

Potete leggere a proposito un recente e brillante articolo comparso sulla cronaca milanese del Corriere del 3 aprile a firma di Andrea Galli (Milano, il «sistema» degli incendi gemelli: affari sporchi nella terra dei fuochi).

(http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/18_aprile_03/milano-sistema-incendi-gemelli-affari-sporchi-terra-fuochi-6ab3f2e2-36a0-11e8-a836-1a6391d71628.shtml)

C’è una terra dei fuochi anche nel cuore del triangolo industrializzato, fatta di depositi di plastica (o di carta) che scoppiano anche grazie al divieto cinese, ma non solo, e il cui problema viene risolto bruciando tutto e contando sulle inefficienze o sulle compiacenze dell’apparato statale; l’industria chimica esalta i successi del riciclo, ma i 2700 impianti di deposito plastiche del Nord Italia, sulla via del riciclo, non potendo contare più sulla via della Cina, via alla rovescia, che una volta importava seta ed adesso esporta rifiuti, cercano soluzioni alternative.

Il rischio è che qualcuno (ricordate la frase del Sole citata prima) dica “visto che lo bruciano comunque allora fatecelo bruciare per bene”; col cavolo! rispondo io; la plastica non va bruciata MAI! Riciclare e cambiare la sua produzione e il suo uso.

Dunque paradossalmente il successo della differenziata ha messo in luce un problema serio: la via del riciclo è complessa e costosa; in alcuni casi come il PET, la plastica delle bottiglie di cui abbiamo anche parlato di recente la cosa più o meno funziona, ma di plastiche, al plurale ce ne sono tanti tipi che non sono miscibili fra di loro e il loro riciclo costituisce un serio problema, ancora non risolto.

Paradossalmente il PET è un esempio negativo nel senso che occorrerebbe semplicemente consumarne di meno, usare più acqua del rubinetto e meno acqua da bottiglia, meno acqua minerale. Ma è anche il caso in cui il riciclo viene meglio, il caso guida, anche se con qualche problema di qualità.

Come abbiamo detto altrove il riciclo comincia dalla produzione, la materia deve essere trattata dal momento della prima produzione con l’ottica del riciclo, non si può riciclare tutto (dopo averlo ben mescolato!!!) poichè i costi energetici della separazione, dovuti all’onnipresente effetto del 2° principio della termodinamica sono ENORMI. E d’altronde riciclare non il 100% ma poniamo il 95, non risolve il problema, ma lo sposta nel tempo: 0.9510=0.6 ; se ricicliamo dieci volte di seguito una cosa al 95% alla fine ce ne ritroveremo solo il 60% e dovremo comunque attingere a risorse casomai non rinnovabili o al collasso.

Questo è un analizzatore di colore che separa i flakes di PET (ottenuti per macinazione) per colore, realizzando una parte del costoso processo antientropico di separazione.

La realtà vera è che riciclare è assolutamente necessario, ma COSTA! Servono tecnologie sofisticate e spazio di stoccaggio.

E il costo di questo passaggio epocale al momento non è stato ancora né quantificato né chiarito. Lo spazio grigio viene riempito dalla malavita o da imprenditori di pochi scrupoli. Il successo (inaspettato) del riciclo della plastica deve essere a sua volta “curato” riducendone la produzione e l’uso: imballaggi in numero e quantità eccessivi devono essere eliminati e le tipologie di plastica devono essere scelte con l’occhio al loro fine vita. Per fare un esempio pratico, lo stesso PET nel momento in cui si cerca di esaltarne le caratteristiche aggiungendo altri materiali come nanosilicati, grafene o altri diventa più difficilmente riciclabile; la soluzione non è una strategia supertecno dal punto di vista dello scopo ma molto meno dal punto di vista complessivo dell’economia circolare; cosa faremo quando tutto il PET sarà “caricato” di diversi qualcosa? Sarà ancora riciclabile come adesso?

L’economia circolare non può coincidere col riciclare quello che c’è già, e che si fa come si fa adesso e con i medesimi scopi (mercato, profitto, crescita dei consumi); finora l’industra ha riciclato in quest’ottica (vetro, ferro, alluminio, PET), ma adesso le dimensioni sono diventate planetarie e il metodo tradizionale non funziona più.(D’altronde la “pattumiera” oceanica è satura.)

Ora si deve necessariamente trasformare il contenuto “fisico” dei prodotti e della loro manipolazione e anche in definitiva tutto il nostro rapporto con la Natura: non solo riciclare, ma consumare meno e meglio, riprogettando dal principio ogni materiale ed oggetto che usiamo.

Una rivoluzione. In cui la chimica gioca la parte del leone.

Lettera aperta al governo

Vincenzo Balzani

Al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,  Paolo  Gentiloni

e,  p.c.,
   al  Ministro  dello  Sviluppo  Economico,  Carlo  Calenda

al  Ministro  dell’Ambiente  e  della  Tutela  del  Territorio  e  del  Mare,  Gianluca  Galletti

al  Ministro  per  le  Politiche  Agricole,  Alimentari  e  Forestali  ,
Maurizio  Martina

al  Ministro  dell’Economia  e  Finanze,  Pietro  Carlo  Padoan

al  Ministro  della  Salute,  Beatrice  Lorenzin

al  Ministro  per  le  Infrastrutture  e  Trasporti,  
Graziano  Delrio


al  Ministro  dell’Istruzione,  Università  e  Ricerca,  Valeria  Fedeli

Lettera Aperta

Caro  Presidente,

Dopo   mesi   di   siccità,   temperature   ben   più   alte   della   media   stagionale,   ghiacciai   che   si   sciolgono,   foreste  che  vanno  in  fumo,  chi  può  dubitare  che  il  cambiamento  climatico  sia  già  oggi  un  problema   che   colpisce   duramente   l’Italia?   Il   nostro   Paese,   collocato   in   mezzo   al   Mediterraneo,   è   uno  dei   punti   più   critici   del   pianeta   in   termini   di   cambiamento   climatico,   fenomeno   globale   dovuto   principalmente  alle  emissioni  di  gas  serra  causate  dalle  attività  umane.


Tutti   i   settori   economici   e   sociali   sono   colpiti   (se   non   addirittura   sconvolti)   dal   cambiamento   climatico:   l’agricoltura,   fortemente   danneggiata   dalla   siccità;   la   sanità,   che   deve   far   fronte   agli   effetti   diretti   (canicola,   inquinamento   atmosferico)   e   indiretti   (nuovi   vettori   di   malattie)   che   mettono  in  pericolo  la  salute  della  popolazione;  il  turismo  invernale,  che  non  può  più  contare  sulla   neve  naturale,  e  quello  estivo,  danneggiato  dalla  erosione  delle  spiagge;  il  territorio,  degradato  da   disastri   idrogeologici   (frane,   alluvioni);   gli   ecosistemi,   devastati   dai   cambiamenti   climatici;   le   città   che,  come  Roma,  hanno  gravi  difficoltà  di  approvvigionamento  idrico.

I  cambiamenti  climatici  sono  principalmente  causati  dall’uso  dei  combustibili  fossili  che  producono   anidride   carbonica   e   altri   gas   serra,   come   è   stato   unanimemente   riconosciuto   nella   Conferenza   delle  Parti  di  Parigi  del  2015  (COP21).     In   Italia,   in   media   ogni   persona   ogni   anno   provoca   l’emissione   di   gas   serra   per   una   quantità   equivalente   a   sette   tonnellate   di   anidride   carbonica.   Gran   parte   di   queste   emissioni   non   possono   essere   addebitate   direttamente   ai   singoli   cittadini   poiché   sono   l’inevitabile   conseguenza   di   decisioni   politico-­‐amministrative   errate,   a   vari   livelli.

Ad   esempio:   le   scelte   urbanistiche   (uso   del   territorio  e  localizzazione  dei  servizi)  da  parte  dei  comuni  e  delle  regioni;  le  decisioni  prese  in  tema  di   mobilità   locale,   regionale   e   nazionale   che,   direttamente   o   indirettamente,   favoriscono   l’uso   dell’auto;   gli   incentivi,   diretti   ed   indiretti,   alla   ricerca,   estrazione,   trasporto   (spesso   da   regioni   molto   remote)   e   commercio   dei   combustibili   fossili;   la   costruzione   di   infrastrutture   superflue   o   addirittura  inutili  (autostrade,  gasdotti,  supermercati);  la  mancanza  di  una  politica  che  imponga  o   almeno   privilegi   il   trasporto   merci   su   rotaia;   le   limitazioni   e   gli   ostacoli   burocratici   che   frenano   lo   sviluppo  delle  energie  rinnovabili;  gli  incentivi  alla  produzione  e  consumo  di  carne;  la  mancanza  di   una  politica  culturale  che  incoraggi  la  riduzione  dei  consumi  e  l’eliminazione  degli  sprechi.
Nel  nostro  Paese  sembra  che  molti  settori  della  politica,  dell’economia  e  del’informazione  abbiano   gli   occhi   rivolti   al   passato   e   siano   quindi   incapaci   di   capire   che   oggi   siamo   di   fronte   a   problemi   ineludibili   con   cui   è   necessario   e   urgente   confrontarsi:   le   risorse   del   pianeta   sono   limitate   e   limitato   è   anche   lo   spazio   in   cui   collocare   i   rifiuti,   l’uso   dei   combustibili   fossili   va   rapidamente   abbandonato  e  altrettanto  rapidamente  è  necessario  sviluppare  le  energie  rinnovabili.     Si   continua   a   sviluppare   politiche   economiche   ed   industriali   “tradizionali”,   senza   considerare   le   mutate   condizioni   climatiche   e   ambientali.   Il   dogma:   strade-­‐cemento-­‐idrocarburi   appare,   pur   con   qualche  piccola  deviazione,  l’unico  obiettivo  delle  politiche  economiche.     Se   puntassimo   seriamente   alla   realizzazione   di   mitigazione   e   adattamento   climatico   avremmo   grandi  benefici:  aumento  dell’occupazione,  minori  costi  per  emergenze  e  calamità  naturali,  minori   spese  sanitarie  e  un  miglioramento  nella  bilancia  commerciale  (minori  importazioni  di  combustibili   fossili).     Quali   sono   i   principali   obiettivi   strategici   che   dovrebbero   sostituire   il   dogma   strade-­‐cemento-­‐ idrocarburi?

Risparmio-­‐riuso-­‐rinnovabili.     Infatti,   la   sola   conversione   alle   energie   rinnovabili,   pur   essendo   una   condizione   necessaria,   non   è   di   per   sé   sufficiente   per   mitigare   i   cambiamenti   climatici.   E’   indispensabile   anche   ridurre   il   consumo  di  energia  e  di  ogni  altra  risorsa,  particolarmente  nei  paesi  sviluppati  come  il  nostro  dove   regna   lo   spreco.   Attualmente,   un   cittadino   europeo   usa   in   media   6.000   watt   di   potenza,   mentre   negli   anni   ’60   la   potenza   pro   capite   usata   in   Europa   era   di   2000   watt   per   persona,   corrispondenti   ad  una  quantità  di  energia  sufficiente  per  soddisfare  tutte  le  necessità.     Naturalmente,  questo  cambiamento  di  strategia,  richiede,  innanzitutto  una  rivoluzione  culturale  e   una   forte   coesione   sociale.   Senza   la   consapevolezza   della   inevitabile   necessità   di   cambiare   direzione  e  l’analisi  di  un’adeguata  transizione,  rimane  solo  la  conservazione  dello  stato  di  fatto,  e   la  ragionevole  certezza  che  ci  saranno  catastrofi  naturali  e  sociali.     Per   questi   motivi,   chiediamo   ai   colleghi   delle   Università   e   Centri   di   ricerca   italiani   e   a   tutti   i   cittadini   che   condividono   quanto   sopra   riportato   di   firmare   il   nostro   appello   sul   sito   energiaperlitalia   per   stimolare   il   Governo   ad   organizzare   una   Conferenza   Nazionale   sui   cambiamenti  climatici  e  a  mettere  in  atto  i  provvedimenti  necessari.

La  versione  integrale  della  lettera-­‐appello  al  governo  è  sul  sito  energiaperlitalia

Vincenzo  Balzani   Coordinatore  del  gruppo  energiaperlitalia

Un nostro collega chimico riciclatore

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Nel gran discorrere che si fa sempre di rifiuti si insiste continuamente
sulla necessità della raccolta differenziata, un termine riferito alle azioni dirette a separare, dai rifiuti misti, quelle componenti suscettibili di essere sottoposte a riciclo, cioè alla trasformazione di nuovo in merci utilizzabili, una operazione del resto indicata come obbligatoria dalla legge europea e italiana sul trattamento dei rifiuti.

rifiuti
La massa dei rifiuti urbani in Italia si aggira, come è ben noto, fra i 30 e i 40 miliardi di chilogrammi all’anno, il che significa che ogni persona, in media, produce ogni anno una massa di rifiuti solidi corrispondente a oltre sei volte il proprio peso. Tali rifiuti sono miscele molto variabili di merci usate: dagli imballaggi di plastica, vetro, alluminio, ferro, ai residui di alimenti, ai giornali e alla carta e cartoni usati, a indumenti usati, e innumerevoli altre cose, come è facile osservare guardando il flusso quotidiano di sacchetti che arrivano ai cassonetti.
Almeno la metà di questi oggetti potrebbe essere trattata per recuperare la materia che essi contengono, col che si avrebbero molti vantaggi: si dovrebbe estrarre e usare meno petrolio, metalli, prodotti agricoli e forestali, tutti beni naturali scarsi, si diminuirebbe l’inquinamento delle acque e del suolo e dell’aria, si darebbe lavoro a migliaia di persone. Il recupero dei materiali dai rifiuti, anche questo è ben noto ai lettori, presuppone la raccolta separata delle varie frazioni di materiali presenti nei rifiuti — carta tutta insieme, vetro tutto insieme, plastica tutta insieme, eccetera — e l’avvio dei materiali omogenei ad apposite industrie che trasformano le varie frazioni in nuovi materiali.

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Il successo dei processi di riciclo dipende innanzitutto dalla conoscenza della natura e composizione dei materiali di partenza. Mentre esiste una (abbastanza accurata) merceologia della carta, della plastica, dei metalli, si sa molto poco della composizione delle innumerevoli sostanze presenti nelle merci usate. Per esempio: la carta dei giornali è costituita in gran parte da cellulosa, ma contiene anche molte altre sostanze, collanti, additivi e, soprattutto inchiostro al quale è affidata l’informazione che il giornale distribuisce. Se esistesse una macchina magica, un diavoletto di Maxwell, capace di separare la cellulosa dagli additivi e dagli inchiostri, sarebbe facile recuperare cellulosa adatta per nuovi fogli di carta; senza tale macchina, per il recupero della cellulosa riutilizzabile bisognerebbe
avere informazioni chimiche precise sui diversissimi additivi e inchiostri presenti nei molti milioni di tonnellate di carta da giornali che vengono usati ogni anno in Italia.

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Attualmente dal riciclo di un chilo di carta da giornali si recupera molto meno di un chilo di cellulosa adatta per nuova carta, e si formano alcune centinaia di grammi di fanghi in cui sono concentrate le sostanze estranee alla cellulosa. Il riciclo diventa più difficile se fra la carta straccia finiscono imballaggi contenenti sostanze cerose o plastiche.

Prendiamo il vetro: le innumerevoli bottiglie di vetro in circolazione
contengono gli ingredienti di base del vetro, dei silicati di calcio e di
sodio, ma anche sostanze coloranti; da un chilo di rottami di vetro bianco si ottiene, per fusione e riciclo, quasi un chilo di vetro bianco, ma dai rottami di vetro misto colorati non solo non si recupera più vetro bianco, ma si ottengono vetri colorati di minore valore merceologico. Bisogna inoltre stare attenti che fra i rottami di vetro da riciclare non finiscano dei rottami di vetro delle lampade fluorescenti o dei video dei televisori che contengono sostanze tossiche.

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E ancora: se si avessero dei rifiuti di plastica costituiti da una sola materia — polietilene, pvc (cloruro di polivinile), PET (poletilen-tereftalato), eccetera — sarebbe possibile rifonderli e ottenere nuovi oggetti della stessa materia, ma quando siamo in presenza di miscele di varie materie plastiche è possibile al più ottenere oggetti di plastica di limitato valore, come piastrelle da pavimenti o paletti.
Al fine della caratterizzazione degli oggetti adatti per essere riciclati e
dello sviluppo di tecniche e processi per separare e ritrattare con successo le varie frazioni di materie presenti nei rifiuti è centrale il ruolo della chimica e della merceologia, a cominciare dalla analisi degli oggetti in commercio e di quelli che finiscono nei rifiuti.
Esiste un gran numero di nostri colleghi chimici impegnati in queste operazioni spesso raffinate, dalla chimica analitica dei rifiuti da riciclare e delle merci riciclate, all’invenzione di accorgimenti, spesso molto ingegnosi, per rendere più efficiente il riciclo e sarebbe bello ascoltare la loro voce che spesso non arriva nelle aule universitarie, benché ciascuno di noi sia debitore al loro lavoro se ci sono meno discariche e inceneritori. Almeno un grazie.
E almeno un grazie anche ad altri colleghi chimici, che, senza camici bianchi o tute, lavorano indefessi al riciclo di una parte dei rifiuti organici arrecando addirittura beneficio alla vita dei campi e degli animali.

Geotrupes stercorarius

Geotrupes stercorarius

Mi riferisco al paziente scarabeo, il coleottero Geotrupes stercorarius L., molto, più umile, ma anche molto più utile, dei suoi parenti che erano tanto apprezzati e riprodotti in forma di amuleti da Egizi, Fenici e anche Greci.
Non so se lo avete mai visto al lavoro: non è bello e sembra sempre alle prese con qualcosa da fare; non appena trova dei rifiuti organici, soprattutto feci di animali, se ne impossessa e comincia a farli rotolare fino a quando non hanno raggiunto la forma di palline da ping-pong, e intanto si nutre di una parte delle molecole che essi contengono e alla fine trasporta queste palline, ormai ridotte a cellulosa e lignina, nella sua tana per poter finire di mangiarle con calma. Con queste operazioni contribuiscono al ciclo del carbonio e dell’azoto, fra l’altro con processi di grande interesse chimico e biologico. Qualche volta questi, che ho chiamato impropriamente e genericamente scarabei, vengono schiacciati dalle automobili mentre cercano di raggiungere la loro tana, altre volte si dimenticano in giro queste palline sulle spiagge (quando ero bambino le palline abbandonate dagli scarabei erano usate per giocare nelle ”piste” scavate nella sabbia). Lo scarabeo vive, insomma, alleviando il lavoro e i costi delle aziende di raccolta e trattamento dei rifiuti e, nel suo piccolo, lo fa bene, senza discariche, senza CDR e senza inceneritori. Il suo comportamento è estremamente sofisticato, sembra infatti che usi le stelle per orientarsi, muovendosi prevalentemente di notte per trasportare i suoi carichi (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0960982212015072)

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Propongo che qualche azienda del genere lo adotti come proprio emblema.

Nota del Blogmaster. Le palle marroni che si trovano sulle spiagge a volte possono anche essere egagropili di Poseidonia, ossia resti spiaggiati di Poseidonia.