Cucina, chimica e riciclo.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Mi è capitato di leggere sulla stampa quotidiana l’intervista ad uno chef dalla quale emergeva da un lato il suo suggerimento ad utilizzare i colori degli alimenti per avere a disposizione tutte le vitamine (arancio delle arance  e dei cachi, rosso di peperoni e ravanelli, verde di cicoria e broccoli, bianco del cavolfiore, viola e blu di melanzane e mirtilli) e dall’altro la possibilità anche nella filiera dell’alimentazione e della ristorazione di rispettare i principi della sostenibilità e del ridotto impatto ambientale.

Immaginiamo che i colori siano le squadre e frutta e verdura i giocatori. VI PRESENTO I CAPITANI E LE LORO SQUADRE! Per finire ci sono io capitano dei BIANCHI. Io dei. BLU-VIOLA. Io dei GIALLO-ARANCIONE. Io dei. VERDI. Sono il capitano dei ROSSI. ROSSI. pomodoro. Peperone. Fragola. Ciliegia. Anguria. Ravanello. Arancia. rossa. GIALLI. Arancia. Limone. Pesca. Albicocca. Banana. Carota. Zucca. Peperone. VERDI. Cavolo. Piselli. Carciofi. Rape. Spinaci. Kiwi. BLU –VIOLA. Uva. Mirtilli. Susine. Prugne. More. Radicchio. Melanzana. BIANCHI. Cavolfiore. Sedano. Finocchio. Cipolla. Aglio. Mela. Pera.

https://slideplayer.it/slide/5443316/

Parto da questa osservazione perchè dimostra ancora una volta che se si desse più attenzione alla chimica molte opportunità sarebbero colte con grande anticipo.

Quando la chimica cominció a prestare attenzione e ricerca all’alimentazione ed a collegare i principi nutritivi fondamentali a precise composizioni chimiche evidenziate da colorazioni ben definite fu lanciato quello noto come l’arcobaleno dei cibi abbinato alla piramide alimentare fondamentale per distribuire fra i vari principi nutrizionali (soprattutto carboidrati, grassi e proteine) il bilancio energetico ai fini di una ottimizzazione del rapporto cibo/funzioni organiche. Parlo di oltre 40 anni fa e fa sorridere che oggi si torni a quei concetti come a novità. Ma nell’articolo che cito era presente anche un riferimento alla sostenibilità ed alla circolarità della filiera alimentare. Anche su questo ci sarebbe da dire che la chimica si é mossa con grande anticipo:la cucina molecolare è diventata uno dei temi più trattati negli anni 90-2000 dimostrando come le risorse alimentari che la natura ci mette a disposizione possano essere valorizzate e protette da una cucina intelligente. Ciò anche con una prospettiva di riciclo degli scarti alimentari in una logica di economia circolare a cui la filiera alimentare, tenuto conto della elevata percentuale di scarti alimentari nel pacchetto dei rifiuti organici urbani, ha il dovere di contribuire.

Fai clic per accedere a Arcobaleno_di_salute.pdf

Su questo ho trovato in quell’articolo l’unici spunto di reale novità, ricette gastronomiche finalizzate a recuperare e riciclare scarti alimentari. Così minestre, supplì, polpette, zuppe diventano possibili opportunitá di riutilizzo di scarti alimentari.

https://docplayer.it/12156990-Piramide-alimentare-e-ambientale.html

Ma anche qui la chimica ci dà il suo consiglio circa la maggiore stabilità di certi alimenti rispetto ad altri, circa l’assenza di inquinanti secondari, circa il potere nutritivo dei principi riciclati rispetto agli originari.

Un’idea buona che ha fatto capolino nella stampa di questi giorni è quello di mettere in commercio dei kit finalizzati al menù da riciclo. Noi siamo fortunati: viviamo in un Paese dove si può mangiare bene e sano a costi accessibili. Abbiamo milioni di ingredienti dell’ortofrutta, con tantissime varianti, differenti per gusto, vista ed olfatto. Ed anche le opportunità di riciclo nell’ortofrutta non mancano: i gambi del basilico e del prezzemolo, radici e germogli, bacche, residui delle carote, bucce delle patate. Ma quasi mai chi adotta queste ricette riflette sul fatto che dietro esse c’è tanta chimica.

La base dell’economia circolare è riciclare non il rifiuto in quanto tale, ma le preziose risorse in esso contenute; il che vuol dire analizzare, separare, concentrare, purificare, tutte operazioni primarie della chimica.

Il discorso diviene sempre più ampio e ci porta alla biomassa considerata l’indicatore di rigenerazione: i processi naturali chiudono il ciclo di rinnovo rigenerando la biomassa di partenza. La biomassa più abbondante sul pianeta Terra è di certo vegetale, in gran parte lignocellulosica (cellulosa, emicellulosa, lignina). Fra i tipi di bionassa compaiono per l’appunto gli scarti animali ed agro-industriali.

In fondo quanto è stato detto nella prima parte di questo articolo rappresenta una finestra sulla potenzialità e sulle sfide sottese all’utilizzo della biomassa come materia prima chimica. È certo che le tecnologie e la bioraffineria rappresentano gli strumenti tecnici principali, ma forse anche un po’ di sana arte culinaria, anche rivalutando ricette delle nostre nonne, può tornare utile.

Un caso concreto di riciclo: il brevetto ROMEO dell’ENEA.

Claudio Della Volpe

Vorrei usare l’occasione di una comunicazione dell’ENEA sulla realizzazione di un impianto pilota basato su un brevetto relativo al riciclo del materiale elettronico per discutere con voi dell’economia circolare.

ROMEO corrisponde all’acronimo: Recovery Of MEtals by hydrOmetallurgy, ed è un metodo idrometallurgico ossia basato su reazioni in fase liquida per recuperare metalli da circuiti elettronici; l’altro metodo alternativo è la pirometallurgia, ossia riscaldare ad alta temperatura.

L’impianto è situato presso il Centro Ricerche Casaccia, a nord di Roma, ed utilizza un innovativo processo idrometallurgico brevettato ENEA (che risale al 2015 brevetto RM2015A000064 del 12 febbraio 2015, strettamente collegato ad un precedente brevetto (p. a. RM2013A000549), relativo al recupero di materiali quali oro, argento, rame, etc. attraverso un processo chimico e per il quale è stata anche depositata domanda di internazionalizzazione PCTIB2014065131). Il metodo idrometallurgico (che comunque non è esclusivo di ENEA) promette una drastica riduzione dei costi energetici rispetto alle tecniche pirometallurgiche ad alta temperatura perché non prevede processi di pretrattamento e triturazione delle schede elettroniche ed avviene a “temperatura ambiente”, mentre le emissioni gassose prodotte durante i vari passaggi sono trattate e trasformate in reagenti da impiegare nuovamente nel processo stesso.

I rifiuti interessati a questa procedura sono i RAEE, ossia i Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche. (anche WEEE, Waste electronic and electric equipment)

Quanti metalli ci sono in una scheda? Ovviamente la risposta non è univoca e dipende dalla specifica scheda e anche dal fatto che l’evoluzione tecnologica ha condotto a schede con integrazione sempre più avanzata; diciamo che dai dati disponibili in letteratura il numero varia dal 20 al 40% della massa totale della scheda; le schede sono denominate genericamente PCB ossia printed circuit board, e sono costituite oltre che dai metalli usati da Vetronite (o vetro epossidico o Fiberglass) che è un materiale composito a base di fibre di vetro disposte ortogonalmente fra due strati in una matrice di resina epossidica.

Quale è la percentuale di recupero possibile di ROMEO? Non ho trovato dati precisi o dichiarazioni virgolettate dei ricercatori (a cui avevo scritto ma non ho avuto risposta); alcuni degli articoli giornalistici parlano del 95% ma la cosa non è confermata.

D’altronde nei vecchi articoli giornalistici del 2014 si diceva:

I dati finora ottenuti indicano che da una tonnellata di schede elettroniche si dovrebbero poter estrarre circa 260 Kg di rame, 29 di piombo, 33 di stagno, 0,240 di oro e 0,66 d’argento.

https://www.researchitaly.it/successi/romeo-un-brevetto-dell-enea-per-recuperare-oro-e-argento-da-vecchi-apparecchi-elettronici/In quelli attuali si dice:

L’impianto pilota del sistema, che si trova presso il centro ricerche Casaccia, a Nord della Capitale, che riesce a estrarre da computer e smartphone in disuso il 95% di oro, argento, platino, palladio, rame, stagno e piombo. Dal trattamento di una tonnellata di schede elettroniche è in questo modo possibile ricavare 129 kg di rame, 43 di stagno, 15 di piombo, 0,35 di argento e 0,24 kg di oro, per un controvalore vicino ai 10mila euro.

https://www.corrierecomunicazioni.it/tech-zone/estrarre-oro-dai-rifiuti-elettronici-enea-battezza-romeo/

Vedete voi stessi che i conti sono molto diversi. Non sono in grado dunque di dire se il 95% sia un dato credibile o meno.

I dati che si trovano in letteratura sulla composizione li potete cercare per esempio qui: Materials 2014, 7, 4555-4566; doi:10.3390/ma7064555

E come dicevo (Tab. 3 dell’articolo) vanno dal 20 al 40% per il materiale di partenza con un recupero finale mostrato in altri lavori (per esempio qui, Front. Environ. Sci. Eng. 2017, 11(5): 8 DOI 10.1007/s11783-017-0995-6 ) molto elevato per la idrometallurgia dell’ordine anche del 100% per oro e platino ma usando i cianuri. Dati diversi sono riportati in altre review (Manivannan Sethurajan, et al. (2019) Recent advances on hydrometallurgical recovery of critical and precious elements from end of life electronic wastes – a review, Critical Reviews in Environmental Science and Technology, 49:3, 212-275, DOI: 10.1080/10643389.2018.1540760) Tuttavia sembra che percentuali dell’ordine del 90% non siano impossibili almeno in laboratorio.

I metodi pirometallurgici sono invece basati su una fase meccanica che sminuzza e separa i pezzi in vari modi e poi brucia la plastica e fonde quelli metallici; mentre gli idrometallurgici su una fase di attacco con un acido forte, nel caso di Romeo se ho ben capito è acido nitrico concentrato con recupero dei vapori. Si evita dunque la fase meccanica e inoltre non si usa il calore ma ovviamente l’acido nitrico (ed altri sali usati per le precipitazioni) non è regalato e occorrerebbe fare una LCA per confrontare i due metodi.

Cosa concludere?

Abbiamo bisogno di studiarci parecchio e sviluppare questi metodi per tutto; ricordiamo comunque alcune considerazioni che abbiamo fatto anche altrove.

Non si tratta solo di avere percentuali di recupero alte ma di avere anche durate di vita dei prodotti elevate; al momento la logica è opposta, è quella della obsolescenza programmata, ossia dell’invecchiamento programmato ed accelerato dei prodotti specie elettronici una pratica per cui sono state condannate la grandi aziende dell’elettronica. Un cellulare quanti anni dura in media? E un computer? Il mio portatile da cui vi scrivo ha oltre 10 anni ma combatto quotidianamente contro il problema dei software che non sono più adeguati e del conflitto fra i due e fra poco sarò obbligato a cambiarlo. Il mio cellulare è durato 5 anni e poi l’ho dovuto sostituire. Ma personalmente sono molto testardo e contrario ad acquistare prodotti nuovi; compro sempre usato se posso.

La media dei dispositivi durano di meno; un cellulare dura 18 mesi; e d’altronde io compro usato da persone che spesso hanno acquistato il cellulare 6 mesi prima!!!!! (e ci faccio l’affare perchè lo svendono).

Supponiamo che un dispositivo duri 3 anni e poi vada al macero; cosa succederà in 30 anni? Avremo dieci cicli; allora compariamo il consumo di beni totale dopo 30 anni con varie percentuali di recupero e supponendo di avere bisogno sempre della medesima quantità unitaria di materiale (mercato stazionario).

Senza riciclo      con 50%               con 70%                  con 90%

1+9=10 unità     1+4.5=5.5 unità   1+2.7=3.7 unità       1+0.9=1.9 unità

é chiaro che il riciclo conviene, e anche parecchio ma non risolve la questione delle nuove risorse, ne riduce solo l’importanza, sposta il problema più avanti, in molti casi l’umanità è già la principale player dei cicli biogeochimici degli elementi e dunque anche la più elevata percentuale di riciclo prevede comunque un aumento della pressione umana sulle risorse.

Se invece le nostre richieste fossero più sobrie, se l’obiettivo non fosse vendere sempre cose nuove e in maggiore quantità, ma cose utili e durature nella quantità necessaria, la situazione cambierebbe; non basta accrescere la tecnologia (ossia le percentuali di riciclo) e lasciare costante la volontà accrescitiva di profitti e consumi. Occorre rallentare l’aggiornamento tecnologico NON STRETTAMENTE INDISPENSABILE a fini comuni (spesso tale aggiornamento non ha fini comuni ma privati, serve a rendere vecchie le cose anche se sono ancora utili per espandere “il mercato”, il dio recente dell’umanità) e ridurre le esigenze di profitto che sono di una parte ridottissima dell’umanità, gli altri hanno bisogno di acqua, cibo e salute, casa, istruzione, pace, per se ed i proprii figli e nipoti non di un cellulare che vada più veloce.

Ho capito sono uno stupido idealista; vabbè me ne farò una ragione.

Postilla.

Paul Lafargue il genero di Marx che morì suicida scrisse questo:

«tutti i nostri prodotti sono adulterati per facilitarne il logoramento e abbreviarne l’esistenza. La nostra epoca sarà chiamata l’età della falsificazione, proprio come le prime epoche dell’umanità sono state chiamate età della pietra, età del bronzo, dal carattere della loro produzione. C’è chi accusa di frode i nostri pii industriali, quando in realtà l’intento che li anima è di dare lavoro agli operai, che non sanno rassegnarsi a vivere con le braccia incrociate. Queste falsificazioni, che hanno come unico movente un sentimento umanitario ma procurano superbi profitti agli imprenditori che le praticano, se sono disastrose per la qualità delle merci, se sono una fonte inesauribile di spreco del lavoro umano, testimoniano la filantropica ingegnosità dei borghesi e l’orribile perversione degli operai che, per appagare il loro vizio del lavoro, obbligano gli industriali a soffocare le proteste della loro coscienza e perfino a violare le leggi dell’onestà commerciale.»
(Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, III. Che cosa segue alla sovrapproduzione 1880)

Più recentemente uno scrittore americano, certo non estremista, scrisse negli anni 60 del secolo scorso un libro che denunciava la pratica dell’obsolescenza programmata e del consumismo spinto: The waste makers (I costruttori di immondizia).

La sua descrizione di quella che giustamente considerava una utopia negativa nell’introduzione del libro è la seguente:

The people of the United States are in a sense becoming a nation on a tiger. They must learn to consume more and more or, they are warned, their magnificent economic machine may turn and devour them. They must be induced to step up their individual consumption higher and higher, whether they have any pressing need for the goods or not. Their ever-expanding economy demands it.

If modifications are forced upon the private-enterprise system of the United States in the future, it will be because that system did too good a job of filling many of the needs of the people. Defeat on such terms, we should all agree, would be saddening.

Man throughout recorded history has struggled—often against appalling odds—to cope with material scarcity. Today, there has been a massive break-through. The great challenge in the United States—and soon in Western Europe—is to cope with a threatened overabundance of the staples and amenities and frills of life.

……..

When I refer to the waste makers at large in the land, I refer primarily to those who are seeking to make their fellow citizens more prodigal in their daily lives. In a broader sense, however, it could be asserted that most Americans are becoming waste makers. If I can help it, there will be no villains in this book. A charge of rape cannot be sustained by any adult when consent or co-operation has been given. Prodigality is the spirit of the era. Historians, I suspect, may allude to this as the Throwaway Age.

Il popolo degli Stati Uniti sta in un certo senso diventando una nazione a cavallo di una tigre. Devono imparare a consumare sempre di più o, sono avvertiti, la loro magnifica macchina economica può girare e divorarli. Devono essere indotti a intensificare sempre più il loro consumo individuale, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno necessità urgenti di beni. La loro economia in continua espansione lo richiede. Se in futuro ci saranno modifiche forzate sul sistema di impresa privata degli Stati Uniti, sarà perché quel sistema ha fatto un lavoro troppo buono per soddisfare molte delle esigenze delle persone. La sconfitta a tali condizioni, dovremmo essere tutti d’accordo, sarebbe triste. L’uomo nel corso della storia conosciuta ha lottato, spesso contro difficoltà spaventose, per far fronte alla scarsità materiale. Oggi c’è stata una grande svolta. La grande sfida negli Stati Uniti – e presto nell’Europa occidentale – è far fronte a una minacciata sovrabbondanza di graffette, servizi e fronzoli della vita. …… .. Quando mi riferisco ai produttori di rifiuti in generale sulla Terra, mi riferisco principalmente a coloro che stanno cercando di rendere i loro concittadini più spreconi nella loro vita quotidiana. In un senso più ampio, tuttavia, si potrebbe affermare che la maggior parte degli americani stanno diventando produttori di rifiuti. Non ci saranno cattivi in questo libro. L’accusa di stupro non può essere sostenuta da nessun adulto quando sia stato dato il consenso o la cooperazione. Lo spreco è lo spirito dell’epoca. Gli storici, ho il sospetto, potranno alludere a questo periodo come l’era dello spreco.

Si fa presto a dire ricicliamo…… 1. Premessa.

Claudio Della Volpe.

Riciclare è l’imperativo categorico diventato addirittura una direttiva europea (DIRETTIVA (UE) 2018/851 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 maggio 2018 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti). Ma riciclare è di fatto una attività che l’industria porta avanti da più di cento anni in qualche settore, si pensi all’industria siderurgica che ricicla il ferro: una parte significativa della produzione siderurgica si fa nei forni elettrici e il tondino del calcestruzzo è ferro riciclato, usato per fare le nostre case e i nostri manufatti stradali.

Dunque ricicliamo già, e anche parecchio, ma non basta. Abbiamo già fatto notare questa contraddizione in una serie di articoli pubblicati 6 anni fa da Giorgio Nebbia (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/01/11/noterelle-di-economia-circolare/ e nei successivi di analogo titolo).

Riciclare è una necessità sempre maggiore; lo facciamo già e non in piccola quota ma dovremo farne di più e soprattutto diversamente; ma cosa distingue allora il riciclo che dovremo sviluppare da quello che già facciamo? quanto ne facciamo e quanto dovremo farne? Cosa distingue il semplice riciclo che già si fa dall’economia circolare?

Non sono domande facili. In questo post e nei successivi analizzeremo la situazione in qualche dettaglio e soprattutto cercheremo di mettere dei numeri in questo discorso.

Due o tre osservazioni basilari da fare.

La prima è che il riciclo o ricircolo è una caratteristica base dei reattori chimici che si insegna in tutti i corsi di principi di ingegneria chimica: in un impianto chimico tradizionale un riciclo è rappresentato da un “ciclo chiuso” di correnti materiali, che può passare attraverso una o più apparecchiature chimiche.

Il rapporto di riciclo è dato dal rapporto tra la portata della corrente riciclata e la portata della corrente principale prima del punto di reimmissione del riciclo. Lo scopo del riciclo è quello di aumentare la resa complessiva del processo e riciclare in un reattore è una necessità produttiva indiscutibile. Se la trasformazione è parziale il riciclo fa aumentare la resa. Dunque la chimica ha il riciclo nel proprio DNA.

Non solo, ma in qualunque azienda moderna si riciclano, almeno pro quota, gli sfridi di lavorazione; pensate all’alluminio; gli sfridi dei lingotti ottenuti vengono rimessi nei forni subito; insomma molte aziende di fatto costituiscono già dei sistemi di riciclo molto efficienti al proprio interno. In questo caso il riciclo corrisponde al risparmio. La questione nasce quando esternalizzando i problemi, diventa più economico per l’azienda lasciare all’”esterno” di occuparsi del riciclo: al mare, all’aria o alla terra. E questo non è un problema tecnico, ma di forma della proprietà; se il bene inquinato è “comune”, non privato perché l’azienda privata dovrebbe riciclare? Non altera i suoi conti, altera solo quelli “comuni”. E dunque non è interessata a meno che una legge e una serie di severi controlli non la obblighino. E’ la cosiddetta “tragedy of commons” analizzata dal famoso articolo di Garret Hardin.La seconda osservazione è che riciclare di solito si fa parzialmente, mentre l’economia circolare è un cosa diversa, è chiusa corrisponde ad un riciclo del 100%; di solito si prendono come esempio dell’economia circolare i cicli naturali degli elementi, C, N, P, S etc; e si dice in natura non ci sono discariche.

Già, ma i cicli naturali sono molto lunghi, in genere durano milioni di anni e da qualche parte occorre stoccare le cose; anche la Natura deve farlo; pensiamo al petrolio e in genere ai combustibili fossili, frutto della degradazione degli organismi a partire dal Carbonifero; noi stiamo estraendo questi intermedi di riciclo del carbonio in gran parte nascosti sotto il suolo e li stiamo rimettendo in circolo anzitempo accelerandone la trasformazione in CO2. In un certo senso stiamo solo accelerandone il riciclo. Già, ma il risultato è stato il riscaldamento globale.

E’ un tema del famoso libro: Tempi storici e tempi biologici del compianto Enzo Tiezzi. (Enzo come ci manchi.)

Aggiungiamo che anche i perfetti cicli naturali possono essere alterati; ricordiamo che l’ossigeno che respiriamo e che oggi costituisce la base della vita come la intendiamo, solo un paio di miliardi di anni fa era il prodotto di discarica della reazione di fotosintesi che, accumulandosi in atmosfera come oggi i gas serra, ne cambiò irreversibilmente la composizione. Questo costrinse gli allora dominatori del pianeta, i batteri anaerobi, a rifugiarsi nel sottosuolo, nel fondo del mare, negli intestini degli animali.

Volete un altro esempio? Beh parliamo ancora di ciclo dell’azoto e del fosforo, ma in realtà questi due cicli sono stati completamente alterati dalla nostra azione in quanto oggi produciamo noi uomini la gran parte del fosfato che va in mare e dell’azoto assorbito dall’atmosfera, ma non abbiamo inserito alcun controllo dalla parte del recupero, mandando in tilt il ciclo naturale originario. Dunque cicli naturali sono perfetti ma lunghi e delicati.

Facciamo qualche conto per far capire un’altra differenza fra riciclo naturale e artificiale. Poniamo di avere un materiale che abbia un ciclo di vita di 10 anni, chessò l’oro dei contatti elettronici e supponiamo di riciclarlo al 95%.

Cosa succede dopo 100 anni? Avremo fatto 10 ricicli e quanto dell’oro originale ci sarà rimasto? 0.9510=0.60; avremo comunque perso negli sfridi il 40% e avremo dovuto estrarre altro materiale vergine, in grande quantità. Detto fra di noi nessun materiale è riciclato dalla nostra tecnologia attuale a questo livello, ossia con meno del 5% di spreco. Tutti gli altri stanno peggio.

Ecco, fatte queste riflessioni siamo pronti a partire per una analisi più dettagliata della situazione.

(continua)

Standard, norme e certificazioni. 2. Il loro ruolo nell’economia circolare.

Marino Melissano

 

Economia circolare

Il nostro sistema economico attuale è “lineare”: dalle materie prime produciamo un prodotto finito, lo usiamo e poi lo smaltiamo: terminato il consumo, finisce il ciclo del prodotto, che diventa un rifiuto. Esempi eclatanti: esce un nuovo smartphone, lo compriamo e gettiamo via il vecchio; la lavastoviglie si rompe, ne compriamo una nuova ed eliminiamo la vecchia. In questo modo ci siamo allontanati dal modello “naturale”, “biologico”: lo scarto di una specie è alimento di un’altra; in Natura qualsiasi corpo nasce, cresce e muore restituendo i suoi nutrienti al terreno e tutto ricomincia. (www.ideegreen.it)

Per Economia circolare si intende appunto un sistema economico che si può rigenerare da solo. Rigenerazione, riciclo, riuso. Tante “ri”, che non devono rimanere solo prefissi che rendono virtuosi i verbi, riempiendo la bocca di chi non sa poi nella pratica cosa fare, dove mettere le mani.

Per esempio, pensiamo a prodotti, costruiti e trasportati usando energie rinnovabili e che, una volta usati, possano restituire i componenti a chi li ha fabbricati e le eventuali parti biologiche all’ambiente, incrementando la produzione agricola. Ciò significa ripensare un modello industriale che usi solo materiali sicuri e compostabili o, se materiali tecnici, riciclabili. Circolare, flusso continuo: dalla materia prima alla produzione del prodotto finito, uso, riuso o riciclo.


Ponendosi come alternativa al classico modello lineare, l’economia circolare promuove, quindi, una concezione diversa della produzione e del consumo di beni e servizi, che passa ad esempio per l’impiego di fonti energetiche rinnovabili, e mette al centro la diversità, in contrasto con l’omologazione e il consumismo L’idea in sé dell’economia circolare è nata nel 1976, quando spunta in una rapporto presentato alla Commissione europea, dal titolo “The Potential for Substituting Manpower for Energy” di Walter Stahel e Genevieve Reday. Le applicazioni pratiche dell’economia circolare fanno però capolino, concretamente, su sistemi moderni e su processi industriali, solo negli anni ’70.
I maggiori obiettivi dell’economia circolare sono:

– l’estensione della vita dei prodotti (Product Life Cycle o PLC) e la produzione di beni di lunga durata,

– la sostenibilità ambientale,

– le attività di ricondizionamento e

– la riduzione della produzione di rifiuti.

In sintesi, l’economia circolare mira a vendere servizi piuttosto che prodotti.
Lo sviluppo di un sistema di economia circolare indurrebbe un cambiamento epocale ambientale, economico, occupazionale e di stili di vita. Secondo il Ministro dell’Ambiente Galletti “fare economia circolare conviene alle imprese, oltre che all’ambiente, perché significa consumare meno materie prime, avere processi produttivi più performanti, produrre meno rifiuti, che sono un costo e potrebbero, invece, trasformarsi in risorse”.

Nel 2014 la Commissione europea ha approvato una serie di misure per aumentare il tasso di riciclo negli Stati membri e facilitare la transizione verso “un’economia circolare.

La Commissione Europea il 2 dicembre 2015 ha adottato un nuovo Piano d’azione per l’economia circolare che prevede importanti modifiche alla legislazione in materia di rifiuti, fertilizzanti, risorse idriche, per sostenere il passaggio da un’economia lineare ad un’economia circolare, a basse emissioni di carbonio e resiliente ai cambiamenti climatici.

Contestualmente all’adozione della comunicazione COM (2015) 614/2 (http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/vari/anello_mancante_piano_azione_economia_circolare.pdf) contenente il Piano per l’economia circolare, sono state presentate quattro proposte di modifica delle direttive che ricadono nell’ambito del pacchetto di misure sulla economia circolare (tra cui la direttiva quadro rifiuti, la direttiva discariche, rifiuti da imballaggio).

 

Economia circolare nel settore rifiuti

Secondo l’economia circolare i rifiuti sono “cibo”, sono nutrienti, quindi in un certo senso non esistono. Se intendiamo un prodotto come un insieme di componenti biologici e tecnici, esso deve essere progettato in modo da inserirsi perfettamente all’interno di un ciclo dei materiali, progettato per lo smontaggio e riproposizione, senza produrre scarti. Rispettivamente, i componenti biologici in una economia circolare devono essere atossici e poter essere semplicemente compostati. Quelli tecnici – polimeri, leghe e altri materiali artificiali – saranno a loro volta progettati per essere utilizzati di nuovo, con il minimo dispendio di energia.

In un mondo in cui regna l’economia circolare si privilegiano logiche di modularità, versatilità e adattabilità, perché ciascun prodotto sia di più lunga durata, sia realizzato e ancora prima pensato per poter essere aggiornato, aggiustato, riparato. Un design sostenibile di nome e di fatto.
L’EXPO 2015, con il suo 67% di raccolta differenziata, è stato un buon esempio di economia circolare. I visitatori hanno potuto essere parte della sfida di Expo e viverne i risultati, passeggiando in un sito dove verde, acqua, energia e illuminazione, materiali e sistemi di mobilità, erano tutti pensati per essere il più “green” possibile. (http://www.ideegreen.it/economia-circolare-67689.html#b888jJUwMogrfb8k.99).

La CE ha annunciato, nella Comunicazione del 27.01.17 “Chiudendo il cerchio- un piano d’azione europeo per l’economia circolare”, l’intenzione di intraprendere un’analisi e fornire opzioni sulle connessioni tra prodotti chimici di sintesi, materie prime e legislazione sui rifiuti, che portino anche a come ridurre la presenza e migliorare il monitoraggio di prodotti chimici pericolosi nei composti; ciò significa sviluppare politiche che possono fornire economia circolare attraverso un flusso senza soluzione di continuità di materiali riciclati dai rifiuti come materie prime adatte all’economia. L’analisi prenderà in considerazione un certo numero di studi, incluso quello del 2014 che aveva lo scopo di identificare azioni potenziali per l’economia circolare, settori prioritari, flusso di materiali e catene di valore, nonché il recente studio condotto dalla CE su “Ostacoli normativi per l’economia circolare – Lezioni e studio di casi”. Il risultato della procedura legislativa copre le molteplici direttive rifiuti, inclusa la direttiva quadro sui rifiuti 2008/98, attualmente in discussione del Consiglio e del Parlamento europei. I risultati sono previsti per la fine dell’anno in corso.

Esempi di applicazione dell’economia circolare

Grandi aziende aderenti al GEO (Green Economy Observatory) stanno sperimentando e mettendo in pratica modelli di economia circolare: Barilla ha lanciato il progetto “Cartacrusca”: viene prodotta la carta dallo scarto della macinazione dei cereali (crusca), lavorato insieme alla cellulosa; la toscana Lucart produce carta igienica, tovaglioli e fazzoletti dal recupero totale del tetrapak; Mapei ha sviluppato un additivo, “Re-con Zero”, che trasforma il calcestruzzo fresco inutilizzato (scarto) in un materiale granulare, usato come aggregato per nuovo calcestruzzo.

Tutto questo potrebbe portare con sé la fine di uno dei meccanismi su cui si basa l’economia lineare: (l’obsolescenza programmata dei prodotti) e potrebbe introdurre anche una serie di cambiamenti a livello culturale. Quella circolare è una forma di economia più collaborativa, che mette al centro non tanto la proprietà e il prodotto in quanto tale, ma la sua funzione e il suo utilizzo. Se una lavatrice viene progettata per funzionare per 10 mila cicli e non per 2 mila, può essere utilizzata da più di un consumatore attraverso l’attivazione di una serie di meccanismi economici a filiera corta: affitto, riutilizzo o rivendita diretta.

Per diventare un modello realizzabile e dominante l’economia circolare dovrebbe naturalmente garantire ai diversi soggetti economici una redditività almeno pari a quella attuale: non basta che sia “buona”, deve diventare conveniente. Gli incentivi a produrre sul modello di un’economia circolare sarebbero essenzialmente due: un risparmio sui costi di produzione e l’acquisizione di un vantaggio competitivo (un consumatore preferisce acquistare un prodotto di consumo circolare piuttosto che lineare). Prolungare l’uso produttivo dei materiali, riutilizzarli e aumentarne l’efficienza servirebbe a rafforzare la competitività, a ridurre l’impatto ambientale e le emissioni di gas e a creare nuovi posti di lavoro: l’UE, facendo le sue proposte sul riciclaggio, ha stimato che nei paesi membri ne sarebbero creati 580 mila.

Economia circolare e standard

Anche l’economia circolare ha il suo standard.

         Dopo la creazione di ISO 20400 è arrivato il momento di regolamentare un modello a cui le aziende possano fare riferimento per attuare in modo performante e funzionale l’economia circolare all’interno della loro organizzazione.

 Nasce così il primo standard di economia circolare, che parla inglese. A lanciarlo è stata, l’1 giugno 2017, la British Standards Institution BSI), un’organizzazione britannica di standardizzazione sul cui lavoro si basa anche la prima serie di norme ISO 9000.

In una prima volta, unica a livello mondiale, l’Istituto apre le porte alle imprese intenzionate a sposare i principi della circular economy.

La BS8001, questo il nome della norma, servirà ad aiutare le aziende di ogni dimensione a integrare le tre R del nuovo modello economico (ridurre, riusare e riciclare) nelle loro attività quotidiane e nelle strategie societarie a lungo termine. (www.bsigroup.com)

BS 8001 è uno standard “guida”: fornisce consigli e raccomandazioni in un quadro flessibile. “Non si può certificare la propria organizzazione o prodotto/servizio a questo standard”, spiega Cumming della BSI, si è completamente liberi di decidere l’allineamento che si desidera con i principi fondamentali stabiliti dallo standard”.

Questa norma è destinata all’applicazione su scala internazionale e al conseguente sviluppo non solo come standard di efficienza organizzativa aziendale, ma anche come strategia di gestione dei costi e dei conseguenti ricavi.

Lo standard BS 8001 è quindi figlio dell’ISO 20400, primo standard internazionale sugli acquisti sostenibili, che ha visto la luce l’1 aprile 2017, dopo 4 anni di lavoro del Comitato di Progetto ISO/PC 277: anche questo standard è una linea guida che vuole aiutare le aziende e le amministrazioni a fare scelte d’acquisto economicamente, eticamente ed ecologicamente migliori lungo tutta la catena di approvvigionamento; vuole indurre una nuova strategia politica di acquisto sostenibile, introducendo principi quali la responsabilità, la trasparenza e il rispetto dei diritti umani.

Anche qui siamo di fronte a semplici raccomandazioni, ma, nel momento in cui la norma viene inserita nei capitolati di appalto, diviene obbligatoria.

E il cerchio si chiude: dallo standard alla norma, dalla norma alla legislazione europea e nazionale, dalla legislazione al superamento di questa attraverso l’economia circolare.

Rimane tuttavia che tale standard presenta ancora aspetti discutibili e migliorabili; in un recentissimo lavoro (Resources, Conservation & Recycling 129 (2018) 81–92) gli autori scrivono che la norma cerca di mettere d’accordo “ le grandi ambizioni della economia circolare con le forti e ben stabilite routine del mondo degli affari.” che il controllo sull’implementazione della strategia dell’economia circolare rimane vaga e che le organizzazioni che usano la norma dovrebbero tener d’occhio la crescita dell’effettivo stock in uso di un determinato bene per verificare il successo concreto della strategia.

 

Occorre anche considerare che di fatto nel passato e nel presente produttivo ed industriale la necessità economica di ridurre i costi ha già indotto in alcuni casi da molti decenni a riciclare i materiali con cifre di riciclo nel caso di acciaio, vetro, alluminio, oro, piombo che sono di tutto rispetto, ma che questo non ha fatto diminuire quasi mai in modo significativo la pressione sulla ricerca di nuove risorse, sia per l’ampiamento continuo dei mercati e dei consumi che per l’uso di tecnologia che privilegiano non tanto il riciclo in se quanto la riduzione dei costi di produzione e che quindi raramente raggiungono valori veramente elevati.

Un altro recente risultato che dovrebbe farci accostare criticamente alla mera enunciazione della questione riciclo è dato dalla stima energetica del risparmio indotto dall’economia circolare in termini energetici; anche qui una stima realistica della riduzione in assenza di regole forti non darebbe risultati eclatanti; nel lavoro Thermodynamic insights and assessment of the circular economy pubblicato in Journal of Cleaner Production 162 (2017) 1356e1367,

gli autori concludono che l’economia circolare ha un potenziale di riduzione energetica non superore al 6-11% e dunque è equivalente alle tecnologie tradizionali per la riduzione energetica nell’industria. Ma che comunque:

.” The circular economy approaches tend to reduce demand for energy efficient processes slightly more than those with low energy efficiency. Therefore, from an overall perspective, the circular economy approaches are unlikely to make further energy efficiency savings disproportionately harder to achieve.

ossia

Gli approcci dell’economia circolare tendono a ridurre leggermente la domanda di processi efficienti dal punto di vista energetico rispetto a quelli a bassa efficienza energetica.

Pertanto, da un punto di vista generale, è improbabile che gli approcci all’economia circolare rendano ancora più difficile ottenere ulteriori risparmi in termini di efficienza energetica.

Ed infine dati analoghi si trovano in una pubblicazione del Club di Roma sul tema del riciclo (The Circular Economy and Benefits for Society di Wijkman ed altri, marzo 2016) in cui riconfermando i valori diretti di riduzione del consumo energetico dovuti al solo riciclo si sottolinea l’effetto sinergico delle scelte di riciclo, riuso, e uso delle rinnovabili.

Insomma le cose non sono automatiche e probabilmente avremo bisogno di norme e di standard più stringenti ed efficaci come anche di scelte politiche coraggiose e ad ampio raggio.

Note sull’Antropocene.3. Gli scenari.parte seconda.

Claudio Della Volpe.

In questa serie di post stiamo discutendo di Antropocene, l’argomento che da il sottotitolo al nostro blog e ne imposta i temi. Abbiamo via via analizzato nei 4 post precedenti (pubblicati qui, qui, qui e qui) le origini e le ipotesi sul momento iniziale che definisce l’Antropocene; poi ne abbiamo discusso alcuni scenari possibili.

Dedicheremo questo post a quello che ho definito scenario 3R o scenario Balzani.

Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli col loro gruppo Energia per l’Italia esprimono compiutamente una posizione 3R, ossia basata sull’idea che l’uso esteso di energie rinnovabili, il riuso degli oggetti e il riciclo dei materiali, insieme con la riduzione delle diseguaglianze sociali ed economiche fortissime attualmente esistenti, (secondo il rapporto Oxfam dello scorso anno gli 8 uomini più ricchi del mondo posseggono quanto la metà più povera dell’umanità, 3.6 miliardi di persone, o se volete l’1% dell’umanità possiede quanto o più che il rimanente 99%) costituisca la base per una gestione economica sostenibile.

L’idea di base di questo punto di vista è che l’economia sia in effetti basata sul sistema della biosfera, e questo non solo perché una parte dei servizi importanti è fornita direttamente dalla Natura senza essere pagata (pensate al ricambio dell’ossigeno, al ciclo del carbonio, all’impollinazione dei fiori, alla degradazione dei residui (le nostre deiezioni) fornita dai batteri, etc etc) ma anche perchè le risorse anche non rinnovabili che usiamo sono parte di un patrimonio naturale formatosi in centinaia di milioni di anni, come per esempio i combustibili fossili o le concentrazioni di risorse minerarie come i fosfati del Marocco o di Nauru e che non c’è più il tempo di ricostituirli, sono un unicum , un regalo naturale che non si ripeterà e che stiamo dilapidando rapidamente. E’ la posizione definita ecological economics, fondata da scienziati che ho nominato a riguardo del primo scenario come Georgescu Roegen, ma anche da chimici come il compianto Enzo Tiezzi; da ecologisti come Barry Commoner.

Tutti questi scienziati italiani e di altri paesi si sono resi conto che occorre chiudere il cerchio della produzione e della economia umane.

Barry Commoner riassumeva le quattro leggi dell’ecologia, ma che anche l’economia umana dovrebbe soddisfare, perchè dopo tutto l’economia umana è una parte ormai integrante dell’ecologia del pianeta:

Ogni cosa è connessa con qualsiasi altra. “L’ambiente costituisce una macchina vivente, immensa ed estremamente complessa, che forma un sottile strato dinamico sulla superficie terrestre. Ogni specie vivente è collegata con molte altre. Questi legami stupiscono per la loro varietà e per le loro sottili interrelazioni.” Questa legge indica la interconnessione tra tutte le specie viventi, in natura non esistono rifiuti:es. ciò che l’uomo produce come rifiuto ossia l’anidride carbonica è utilizzata dalle piante come risorsa. L’uomo col suo inquinamento altera ogni giorno il ciclo naturale degli eventi. 

2) Ogni cosa deve finire da qualche parte. “In ogni sistema naturale, ciò che viene eliminato da un organismo, come rifiuto, viene utilizzato da un altro come cibo.” Niente scompare. Si ha semplicemente un trasferimento della sostanza da un luogo all’altro, una variazione di forma molecolare che agisce sui processi vitali dell’organismo del quale viene a fare parte per un certo tempo. 

3) La natura è l’unica a sapere il fatto suo. “Sono quasi sicuro che questo principio incontrerà notevole resistenza, poiché sembra contraddire la fede universale nella competenza assoluta del genere umano.” Questo indica esplicitamente l’uomo a non essere così pieno di se e a usare la natura come se potesse renderla a suo indiscriminato servizio. Se la natura si ribella l’uomo crolla. 

4) Non si distribuiscono pasti gratuiti.“In ecologia, come in economia, non c’è guadagno che possa essere ottenuto senza un certo costo. In pratica, questa quarta legge non fa che sintetizzare le tre precedenti. Non si può evitare il pagamento di questo prezzo, lo si può solo rimandare nel tempo. Ogni cosa che l’uomo sottrae a questo sistema deve essere restituita. L’attuale crisi ambientale ci ammonisce che abbiamo rimandato troppo a lungo.” Dal libro “Il cerchio da chiudere” – Barry Commoner

Analogamente un filosofo dell’ottocento che non nomino, ma cito spesso, diceva a proposito di un futuro scenario di antropocene sostenibile: «I produttori associati regolano razionalmente il loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo invece di essere dominati da esso come una forza cieca».

Notate una cosa, che il concetto stesso di profitto dei fattori della produzione, su cui è basato il modello economico neoclassico è contrario alla quarta legge; l’economia è un gioco a somma nulla: se uno guadagna un altro perderà; non ci sono profitti per tutti creati dalla mera proprietà delle cose; le cose tendono a degradarsi senza un continuo afflusso di energia e di lavoro, certo non a crescere spontaneamente, per cui questa supposta proprietà del denaro e dell’economia è del tutto incompatibile con l’ecologia.

Finchè come uomni eravamo piccoli, finchè eravamo pochi potevamo fare orecchio da mercante, illuderci che quel che facevamo era una percentuale ridicola dell’ecologia planetaria, dire una cosa è l’ecologia e una l’economia; ma adesso le cose sono cambiate.

Adesso noi e i nostri animali rappresentiamo una quota enorme della biomassa planetaria, almeno di quella degli animali vertebrati, e usiamo una quota strabocchevole delle risorse totali di tutti i tipi, come già discusso nella prima parte.

Questo conduce ad effetti inattesi di cui vi presento un esempio recentissimo.

Gli insetti sono una vasta classe di esseri viventi che come numero e massa domina il pianeta, seconda solo ai batteri probabilmente, gli insetti compiono innumerevoli servizi, alcuni dei quali ci stanno antipatici e sono nocivi, come le zanzare anofele, ma in genere sono utilissimi (per esempio impollinano la gran parte delle piante che usiamo per la nostra alimentazione e aiutano a decomporre i rifiuti, servizi ecologici fondamentali per i quali non li paghiamo ma ci aspettiamo che li svolgano); ebbene una analisi recente sia pur limitata condotta in Germania e durata quasi 30 anni mostra che il loro numero è in forte e sconcertante diminuzione, una diminuzione molto forte che va sotto il nome di “sindrome del parabrezza pulito”, una osservazione che potete fare da soli la prossima volta che fate un viaggio in autostrada (http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0185809).

Lo studio ha usato un protocollo stantardizzato per misurare la massa totale di insetti in 27 anni e 63 aree di protezione naturale mostrando che il declino stagionale è del 76% con punte di oltre l’80 nella biomassa degli insetti volanti. Esso sembra indipendente dal tipo di habitat e non se ne conoscono le ragioni.

Non si tratta di una osservazione isolata, l’allarme era stato già lanciato da altro studiosi in altri paesi ed aveva trovato ospitalità ripetutamente nelle pagine di Nature (539, p.41, 2016).

Una riduzione generalizzata del numero di insetti volanti è un fenomeno estremamente preoccupante ma che si associa benissimo alla estinzione di specie causata dall’uomo direttamente (inquinamento) o indirettamente (cambiamento climatico e distruzione degli habitat). La chimica è sempre in prima fila in queste azioni perchè di fatto volente o nolente è strumento di controllo attivo e passivo degli insetti specie nell’agricoltura intensiva.

Quale è la soluzione almeno possibile?

Se questa è la situazione attuale come dalle pagine dello Stockholm Resilience Centerla soluzione sta nell’entrare nella cosidetta economia della ciambella, illustrata dalla eco-economista Kate Raworth.

Ce lo racconta Luca Pardi sul sito di Aspo Italia:

L’economia della ciambella include, oltre al tetto ecologico all’attività umana del grafico (il limite oltre il quale la Biosfera inizia a cedere), anche un pavimento sociale al di sotto del quale non si dovrebbe scendere per evitare il malessere e l’instabilità sociale. L’immagine è affascinante perché descrive in una singola figura un’economia di stato stazionario in cui il metabolismo sociale ed economico umano ha raggiunto un livello che garantisce un elevato grado di benessere, equità distributiva e salvaguardia della biosfera. Cioè qualcosa che è sideralmente lontano dall’attuale dinamica globale :

La ciambella indica gli stretti confini “stabili” entro i quali deve muoversi la nostra attività per rimanere nelle possibilità della biosfera.

La crescita continua della produzione, la crescita del PIL del 2-3% all’anno che corrisponde ad una crescita fisica della produzione di energia e di materia non è sostenibile da parte di una biosfera finita; occorrerebbe sganciare la crescita dell’economia dalla crescita fisica dei parametri energetici e dei materiali, ma abbiamo visto come i think thank economici anche i più “democratici” lo ritengano impossibile. In definitiva se pensate che il termine “sviluppo sostenibile” corrisponda ad una “crescita sostenibile” avete sbagliato.
L’ alternativa è dunque obbligata; smontare il meccanismo produttivo basato sulla crescita e che comunemente chiamiamo capitalismo; l’accumulazione continua non è possibile.

Questo concetto è stato espresso anche dal Papa, quando nella sua ultima encliclica, Laudato sì, rivolgendosi non solo ai cattolici, ma «a ogni persona che abita questo pianeta» invita a «eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale» correggendo «i modelli di crescita» incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente.

Ancora più recentemente, la Union of concerned scientists (UCS) ha riproposto una petizione firmata da oltre 15000 scienziati fra cui praticamente tutti i Nobel che rinnova una analoga petizione lanciata già nel 1992 e che denunciava questa situazione; io l’ho firmata dal principio; la petizione conclude:

To prevent widespread misery and catastrophic biodiversity loss, humanity must practice a more environmentally sustainable alternative to business as usual. This prescription was well articulated by the world’s leading scientists 25 years ago, but in most respects, we have not heeded their warning. Soon it will be too late to shift course away from our failing trajectory, and time is running out. We must recognize, in our day- to-day lives and in our governing institutions, that Earth with all its life is our only home.

that Earth with all its life is our only home: che la Terra con tutta la sua vita è la nostra sola casa; la stessa idea di Vincenzo Balzani nel libro “Energia per l’astronave Terra”, ricordate? “ci troviamo su una astronave con risorse limitate”.

Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli hanno espresso il loro punto di vista sul futuro dell’Antropocene quando hanno scritto:

.Per vivere nel terzo millenio abbiamo bisogno di paradigmi sociali ed economici innovativi e di nuovi modi di guardare ai problemi del mondo. Scienza, ma anche coscienza, responsabilità, compassione ed attenzione, devono essere alla base di una nuova società basata sulla conoscenza, la cui energia sia basata sulle energie rinnovabili, e che siamo chiamati a costruire nei prossimi trent’anni. L’alternativa, forse è solo la barbarie.(Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli, Energy for a sustainable world, Wiley CH, 2011)

Cosa dirvi? Occorre non solo condividere questi obiettivi ma orientare verso di essi la nostra attività di ricercatori e di cittadini.

Trattamento e recupero di acque piovane.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

La disponibilità di acque adatte per il consumo umano (cioè per usi sia potabili che domestici) sta diventando un problema sempre più grave, non solo nei paesi a clima arido, ma anche in Europa.
Uno studio del Joint Research Center della Commissione Europea prevede che nei paesi del sud Europa gli effetti del cambiamento climatico in atto potranno provocare una riduzione fino al 40% della portata dei fiumi. Nel frattempo la crescente richiesta di acqua da parte dei settori produttivi e dalla popolazione urbana potrebbe portare a situazioni di criticità che potrebbero sfociare in misure di razionamento e in eventuali aumenti dei canoni di fornitura.

california

La soluzione per affrontare questo preoccupante scenario potrebbe arrivare dallo sfruttamento delle acque piovane. Occorre precisare però che le acque recuperabili ed utilizzabili sono solo quelle che cadono sui tetti o su appositi bacini, escludendo quelle che cadono su aree pavimentate, strade e piazzali che possono avere carichi inquinanti decisamente elevati.
In effetti le prime acque meteoriche di dilavamento non diluiscono affatto le acque reflue, essendo esse stesse cariche di inquinanti dilavati dalle superfici di deflusso.
A Taiwan una recente legislazione obbliga ad installare sistemi di raccolta per le acque piovane in tutti gli edifici pubblici di nuova costruzione. Per i palazzi privati l’obbligo non sussiste ma è un requisito indispensabile per ottenere la “green building certification” che costituisce un notevole valore aggiunto per il mercato immobiliare.
Nella provincia cinese di Gansu sono stati installati tre milioni di “Shuijiao” (cantine d’acqua) cioè serbatoi interrati per garantire la fornitura di acqua potabile ad altrettante famiglie rurali.
Prima di parlare delle tecniche di trattamento dell’acqua piovana mi piace ricordare i miei anni di infanzia. Oggi sembrerebbe impossibile ma la casa dei miei nonni materni dipendeva per l’acqua da un pozzo esterno, situazione comune in molte cascine del Monferrato nella prima metà dello scorso secolo. Le piogge contribuivano non poco al riempimento e ravvenamento del livello di quel pozzo. Io ero incaricato di agganciare il secchio al gancio e di calarlo nel pozzo facendo scorrere la corda sulla carrucola quando restavo con i nonni durante l’estate. Qualche anno dopo mio padre e mio zio (suo fratello) dotarono mia nonna rimasta vedova di una pompa idraulica per evitarle questo compito che con l’avanzare dell’età risultava per lei sempre più faticoso.

pozzo

Anche se l’acqua piovana non è sempre potabile “tal quale” (soprattutto per la presenza di contaminazioni microbiologiche) i sistemi di filtrazione sono ben conosciuti sia nelle versioni tradizionali (filtrazione su sabbia, disinfezione con ipoclorito o raggi UV) , che nelle versioni più moderne basate su moduli di ultrafiltrazione e carbone attivo. Nel caso del pozzo di mia nonna veniva utilizzato un filtro a carbone di legna che ha sempre funzionato egregiamente. Ne sono la testimonianza diretta, visto che nelle giornate estive spesso bevevo frequentemente l’acqua di quel pozzo direttamente con il mestolo dopo aver calato e poi sollevato il secchio dal pozzo.
La presenza diffusa di sistemi di recupero dell’acqua piovana avrebbe un effetto “ammortizzatore” nel caso di precipitazioni brevi ed intense (le cosiddette bombe d’acqua termine entrato nel lessico corrente ma che personalmente non mi piace troppo).
I contaminanti di un’acqua piovana possono essere i più diversi dal dilavamento di inquinanti atmosferici (per esempio le “piogge acide”, fino al fogliame, escrementi di uccelli ed altri contaminanti microbiologici.
Il sistema di trattamento di queste acque dipenderà anche dall’uso che ne verrà fatto. Su un consumo medio giornaliero di 250 litri di acqua solo il 2% circa viene destinato all’uso potabile propriamente detto, cioè per bere, cucinare, lavare le verdure. Il 49 per cento è destinato ad usi igienici (bagno, doccia e lavaggio pentole e stoviglie. Per questo tipo di usi è comunque necessaria l’eliminazione dei solidi sospesi e della contaminazione microbiologica.
Per il restante 49% dell’acqua che si destina per esempio allo scarico del wc, all’innaffiatura e al lavaggio delle auto può essere sufficiente un semplice trattamento di decantazione e di filtrazione.

recupero_acque

I sistemi di recupero sono di solito costituiti da un serbatoio interrato che raccoglie le acque provenienti dalle gronde. Al di sotto della superfice del liquido si posiziona mediante galleggiante il tubo di aspirazione. La pressione per portare l’acqua alle diverse utenze è ovviamente fornita da una pompa idraulica , e a monte di questa si monta un filtro per l’eliminazione dei solidi sospesi. L’impianto si completa con uno scarico di troppo pieno con recapito in fognatura e da una connessione con la rete di acqua potabile, per sopperire ad eventuali periodi di siccità prolungata e per effettuare eventuali pulizie periodiche. Per usi igienici quali bagno o doccia si include nel sistema uno stadio di trattamento per abbattere la carica batterica. Se si opta per la clorazione o la sterilizzazione con ozono è necessario uno serbatoio di accumulo a valle. Metodi più moderni come lampade uv e microfiltrazione si possono installare direttamente sulla mandata della pompa stessa.
Se, come ancora spesso accade, l’acidità dell’acqua piovana è eccessiva (pH tra 5,5 e 6) e necessaria l’installazione di un filtro di correzione dell’acidità con riempimento di materiale granulare a base di carbonato di calcio. Un sistema di questo tipo con portate di 2000-3000 lt/h a costi che si aggirano intorno ai 4000 euro. Se si vuole poi destinare l’acqua piovana ad uso potabile andrà previsto il passaggio su carbone attivo e l’eventuale aggiunta delle sostanze minerali che di solito non sono presenti nelle acque piovane. Tutto l’impianto idrico dovrà poi essere sottoposto a trattamenti periodici di clorazione.
L’acqua può avere molteplici usi e quindi trattamenti differenziati. Da anni si parla di acqua e della necessità di preservarla e non sprecarla. L’acqua va conosciuta e sarà necessario nel futuro evitare di destinare acqua adatta all’uso potabile per lo scarico dei wc. Ogni fonte di approvvigionamento andrà gestita correttamente. Anche l’acqua piovana.