Rinnovabili al palo.

Luigi Campanella, già Presidente SCI.

L’Italia è il Paese del Sole e per rispondere alle richieste dell’Europa e della nostra coscienza dobbiamo spostarci verso le energie rinnovabili. Oggi (dati 2020) il pacchetto energia elettrica in Italia è composto (se pesato sui consumi) da gas naturale (43%), altre non rinnovabili (7%), rinnovabili (38%, in ordine di produzione totale idroelettrico, fotovoltaico, eolico, carbone, biogas, geotermico, bioliquidi, biomasse). Il restante è importato.

Dovendo spostare l’impegno verso le rinnovabili la considerazione di partenza sembrerebbe configurare una situazione ideale per lo sviluppo del solare. Poi invece si vanno a vedere i dati e ci si accorge che di quel 38% di rinnovabili solo poco più di 1/5  è coperto dal solare che pesa complessivamente solo per l’8% della richiesta totale elettrica con un incremento nell’ultimo anno del 9.6%. Eppure entro il 2030 dovrebbero essere installati nuovi 70 gigawatt di solare dei quali ad oggi solo lo 0.8% è attivo. Gli impianti attivi sono oggi quasi 1 milione con Veneto e Lombardia che coprono quasi il 30 % del totale. Le ragioni di questo ritardo sono innanzitutto, ma non solo, burocratiche: si pensi che dei 33 Gigawatt di opere  presentate dal 2018 soltanto il 9 % ha ricevuto il via libera definitivo e che 35 miliardi di investimenti privati già pronti per essere spesi sono bloccati, secondo quanto denuncia l’Alleanza per il Fotovoltaico, il network di imprese impegnate nel settore. Il procedimento per la realizzazione di un parco fotovoltaico in zone non vincolate si compone di 2 procedimenti, valutazione di impatto ambientale ed autorizzazione unica.

Tra i numerosi pareri positivi da acquisire ci sono quelli di Sovrintendenza e Uffici Regionali relativamente all’impatto sul paesaggio, che finiscono per rappresentare una strozzatura temporale e sostanziale  verso la realizzazione. Il ritardo temporale comporta come conseguenza il rischio di ritrovarsi con progetti tecnologicamente superati. Gli ultimi interventi del Governo in materia concretizzati nei decreti energia e semplificazioni hanno in parte agevolato il superamento di questi ostacoli: ad esempio nel caso di impianti sopra i 10 mega watt entrambi i procedimenti ricordati, VIA ed autorizzazione unica, vengono affidati ad una speciale  commissione PNRR(programma nazionale ripresa e resilienza)-PNIEC(piano nazionale energia e clima).

La responsabilità della burocrazia è indiscutibile, come anche la necessità di una semplificazione normativa, ma un’altra carenza è certamente di tipo più tecnico e meno amministrativo. L’istruzione delle pratiche autorizzative richiede una capacità tecnica che, se manca, preclude il rispetto dei dovuti tempi e modi. Da questo punto di vista la creazione ipotizzata di task force regionali può agevolare nel superare questo collo di bottiglia.

ENI e dintorni

Vincenzo Balzani, Nicola Armaroli e Claudio Della Volpe

Un amico ci ha segnalato l’articolo intitolato ENI e il boomerang delle rinnovabili per l’Italia, pubblicato il 2 gennaio scorso su ilSussidiario.net. L’articolo inizia criticando chi sostiene che il modello di business di ENI, basato su esplorazione e sviluppo di pozzi di gas e petrolio, sia ormai sorpassato. Poi aggiunge che, se ENI abbandonasse la propria storia (fossile) per dedicarsi alle energie rinnovabili, sarebbe un suicidio non solo per l’industria nazionale, ma per il sistema Paese. Noi sosteniamo esattamente il contrario: se ENI non cambia radicalmente il proprio modello di business e non si converte alle energie rinnovabili si autocondanna al fallimento, purtroppo con conseguenze molto gravi per i suoi azionisti e per l’intera economia italiana.

ilSussidiario.net ha come obiettivo “tenere costantemente legati tra loro fatti e approfondimenti: le notizie, che danno un resoconto dei fatti accaduti, sono il punto di partenza per gli approfondimenti che, viceversa, non possono essere slegati dalle cose che accadono“. Siamo perfettamente d’accordo con questa “filosofia” giornalistica. Non ci pare, però, che l’articolo e, più in generale, il modo in cui ENI comunica con gli italiani attraverso le sue numerose e costosissime campagne pubblicitarie espongano e approfondiscano i fatti correttamente.

L’articolo non è corretto perché non parte da fatti, numeri e circostanze, ma da pregiudizi e luoghi comuni privi di fondamento tecnico ed economico. Ci limitiamo a segnalarne alcuni. L’autore scrive: “Facciamo finta di non sapere che gli italiani pagano più di 10 miliardi di euro all’anno per incentivi alle rinnovabili che rimangono più costose di quelle tradizionali.” Evidentemente non ha letto il Piano Nazionale Integrato per Energia e Clima (PNIEC) pubblicato dal governo il 31 dicembre 2018, nel quale viene riportato (pagina 209) che un’indagine del Ministero dell’Ambiente ha individuato 57 sussidi vigenti nel settore energetico che hanno un impatto complessivo di 30,6 miliardi di €. Di questi, 16,9 miliardi sono costituiti da sovvenzioni ai combustibili fossili, mentre i sussidi per fonti a basso impatto ambientale ammontano a 13,7 miliardi (ibidem, p. 215). Dunque, l’uso dei combustibili fossili, responsabili del cambiamento climatico e di pesanti danni alla salute umana, è ancora oggi incentivato in Italia più delle energie rinnovabili, che possono invece salvarci da queste sciagure. Giova ricordare che ENI ha sempre esercitato una fortissima influenza nella definizione della politica energetica italiana e forse non è un caso che gran parte del PNIEC sembra scritto sotto dettatura di portatori di interesse del settore Oil & Gas. Vale anche la pena di ricordare che ENI è, dopo tutto, dal 1992 un’azienda privata, quotata in borsa sul mercato internazionale, e che il 30% delle azioni è detenuto dalla Cassa Depositi e Prestiti con una clausola denominata “golden” che dovrebbe permettere di controllare le operazioni della società.

L’articolo continua con una serie di banalità: “Gli eventi atmosferici estremi e inusuali non sono ben tollerati dalle pale eoliche perché venti troppo forti obbligano il loro spegnimento”. Avrebbe dovuto premettere che gli eventi atmosferici estremi, che (rarissimamente) costringono il blocco di pale eoliche, sono spesso causati dal cambiamento climatico derivante primariamente dall’uso dei combustibili fossili. L’autore prosegue dicendo che il tabù che bisognerebbe rompere è quello del nucleare, che produce energia pulita e facilmente scalabile. “Peccato”, aggiunge “che nessuno vuol sentire parlare di nucleare, tanto più se vicino a casa o nella propria regione”. Farebbe bene a chiedersi perché la Svizzera ha avviato la chiusura definitiva dei suoi impianti due mesi fa e ha deciso di abbandonare per sempre questa opzione. L’autore scrive inoltre che “lo stato dell’arte attuale delle rinnovabili non è neanche lontanamente compatibile con le esigenze di un sistema industriale”. Forse non sa che la fabbrica di batterie della Tesla in Nevada utilizza in gran parte energie rinnovabili e che la gigantesca sede della Apple in California usa l’energia dei pannelli fotovoltaici che ne ricoprono i tetti. L’autore scade nell’imbarazzante quando si scaglia contro il fotovoltaico affermando che “Il problema dello smaltimento di vecchi pannelli solari e vecchie batterie oggi è “risolto” con navi dirette verso l’Africa e caricate di roba che verrà sotterrata senza che il consumatore europeo venga disturbato”. Forse non sa che per questo tipo di rifiuti vale la cosiddetta “responsabilità estesa del produttore” per cui, al termine della loro lunghissima vita, dovranno essere presi in carico dai fabbricanti stessi. Giova poi rimarcare che i pannelli fotovoltaici possono essere quasi totalmente riciclati, così come le batterie agli ioni di litio. Alla fine insiste: “Le rinnovabili non sono una soluzione dell’oggi e nemmeno del domani, soprattutto senza nucleare”. Forse bisognerebbe informarlo che nel 2019 gli impianti fotovoltaici ed eolici nel mondo hanno prodotto una quantità di elettricità pari a quella di 300 centrali nucleari da 1000 MW, che Germania, Svizzera, Belgio e la stessa Francia stanno pianificando l’uscita dal nucleare e che una delle ragioni principali del fallimento del nucleare civile è proprio la difficoltà (o, meglio, l’impossibilità) di mettere in sicurezza le scorie nucleari. Ricordiamo anche che i danni economici del disastro di Fukushima ammontano attualmente ad almeno 300 miliardi di dollari, una cifra che implicherebbe il fallimento economico di quasi tutte le nazioni del mondo. Non vi è nessuno stato democratico che possa assumersi un rischio di questo tipo in caso di incidente ad un solo impianto industriale. Di fatto, il nucleare giapponese è in liquidazione.

L’autore dell’articolo parla anche della “storica e luminosa storia di ENI”. Aspettiamo che in un prossimo articolo ci racconti non la storia, ma l’attualità di ENI. In particolare, la campagna pubblicitaria di ENI che spesso è incomprensibile e a volte ingannevole e come tale condannata e multata dall’Antitrust.

Pubblicità ingannevole per Eni Diesel +, i Consumatori: no al greenwashing

Nei messaggi pubblicitari ENI ha utilizzato in maniera suggestiva la denominazione “Green Diesel”, le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri slogan di tutela dell’ambiente (“aiuta a proteggere l’ambiente; “usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”), per un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato “green”, verde.

La martellante pubblicità di ENI sui giornali e anche in TV continua a meravigliare, non credo solo noi. Dopo averci assicurato che il carburante in Italia si otterrà anche dalle bucce delle mele (Corriere della Sera, 13 maggio 2017), ENI ci informa che ”trasforma gli oli esausti di frittura in componente per produrre biocarburanti avanzati” (La Repubblica, 22 ottobre 2019). Aspettiamo di sapere quante mele dovremo sbucciare e quanti pesci dovremo friggere. Poi ENI (La Repubblica, 16 novembre 2019) ha puntato sull’Idrogeno, ”… il tutto fare di un futuro più sostenibile. Anche se è presente in abbondanza in natura, l’idrogeno è sempre combinato con altre sostanze (a meno di andare a prenderlo sul Sole o sulle stelle). Per utilizzarlo occorre quindi estrarlo da qualcos’altro, dall’acqua o dal metano, dai residui organici o dall’aria”. Parole testuali. In attesa di sapere da ENI come ottenere idrogeno dall’aria, dove è presente con percentuale di 0.5 ppmv, vorremmo sottolineare che ottenere idrogeno dall’acqua per elettrolisi usando energia elettrica rinnovabile (pannelli fotovoltaici, pale eoliche) non è affatto la stessa cosa che ottenerlo dal metano. Ma forse quello che interessa a ENI è proprio estrarre idrogeno dal metano, un’opzione tecnicamente obsoleta e ecologicamente insostenibile.

Dopo i consensi raccolti fra i giovani da Greta Thunberg, ENI è scesa in campo anche in questa direzione. Ed ecco pagine e pagine pubblicitarie dove compaiono belle figure di giovani: mentre ENI “trasforma gli oli esausti di frittura in componente per produrre biocarburanti avanzati”, “Chiara, usa l’auto il meno possibile (La Repubblica, 28 luglio 2019), e mentre “Silvia è sempre attenta a non sprecare acqua” (La Repubblica, 25 luglio 2019), “ENI vuole trasformare il moto ondoso in energia elettrica”. Quest’ultima iniziativa è interessante da approfondire; si tratta di un brevetto sviluppato insieme a polito denominato ISWEC, un dispositivo galleggiante che trasforma il moto alternativo ed oscillante dell’onda in una rotazione; l’efficienza è bassa ma anche la manutenzione; fin qui tutto bene; tuttavia ENI lo usa o vorrebbe usarlo per fornire energia alle zone di estrazione marina per il metano; ossia usare le rinnovabili per estrarre più fossili! Che cosa è questo se non green washing?

Un’altra lunga serie delle pubblicità ENI esalta i benefici della sua presenza in Pakistan (La Repubblica, 13 agosto 2017), Congo (La Repubblica, 10 settembre 2017), Angola (La Repubblica, 8 giugno 2019), Nigeria (La Repubblica, 22 giugno 2019), Mozambico (La Repubblica, 21 settembre 2019), e Ghana (La Repubblica, 4 gennaio 2020). In tutti questi paesi ENI continua a trivellare pozzi di petrolio e di gas e allo stesso tempo si vanta di aiutare la popolazione costruendo strade e scuole. Ma la realtà dei fatti sembra purtroppo molto diversa dalle belle parole presenti sul suo sito. l’ENI è stata più volte accusata dalla comunità nigeriana per aver contribuito all’inquinamento nel Delta del Niger, ma è riuscita a uscire quasi sempre indenne anche grazie agli accordi con il personale amministrativo del Paese. Dal verbale dell’Assemblea Ordinaria del 14 maggio 2019, risulta che dirigenti di ENI siano stati accusati da alcuni azionisti di corruzione e transazioni poco chiare, di società fittizie e compravendite di maxi giacimenti in varie parti dell’Africa, in particolare in Nigeria e in Congo-Brazzaville.

Una intera pagina di pubblicità apparsa sui giornali il 18 gennaio scorso (ad esempio, La Repubblica) intitolata “Le strade della ricostruzione” riporta questo testo: “Due cicloni di enorme potenza hanno colpito il Mozambico in meno di due mesi, seguiti da settimane di pioggia torrenziale. Un bilancio incalcolabile in vite umane, migliaia di case abbattute, infrastrutture distrutte in 7 diverse province, oltre 700.000 ettari di coltivazioni danneggiate. La strada costiera, che dall’aeroporto di Pemba porta al centro della città e al porto, era totalmente distrutta, racconta uno degli Operations manager di ENI, che a Pemba ha una base logistica. Un danno che bloccava l’economia della cittadina, rendeva difficile la vita quotidiana dei suoi abitanti e impossibile ogni attività portuale e commerciale […]”.

E, come accade in tutte le pagine pubblicitarie di ENI, il discorso è interrotto con […] e c’è l’esplicito invito ad andare sul sito eniday.com per legger la continuazione, per saperne di più. Ma che bisogno c’è di saperne di più? La descrizione che ENI ha pubblicato sui giornali e che abbiamo riportato integralmente sopra è esattamente quello che sta succedendo e che succederà sempre più a causa dell’uso e abuso di quei combustibili fossili che ENI si ostina a cercare, anche nello stesso Mozambico. Secondo gli scienziati le emissioni totali di CO2 dal 2011 al 2050 non devono superare 1100 Gt. Questo equivale a dire che devono rimanere sottoterra, inutilizzate (stranded), il 30% delle riserve di petrolio, metà di quelle di gas e l’80% di quelle di carbone.

Quindi ENI si comporta in modo difforme dagli accordi di Parigi, non facilita i deboli tentativi del governo di mettere in atto la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, non si preoccupa dell’amara costatazione del segretario dell’ONU (il mondo è fuori rotta) e dei severi moniti degli scienziati riguardo il cambiamento climatico. È proprio vero quello che ha scritto la Stampa il 25 novembre 2019: Energia: il nuovo è già presente, ma il passato non vuole passare”.

Ma c’è anche una buona notizia che forse l’autore dell’articolo su ilsussidiario.net non conosce: BlackRock, il fund manager più grande del mondo (7 mila miliardi di dollari), avendo perso 90 miliardi negli ultimi 10 anni in investimenti sulle fonti fossili, si è unito a Climate Action 100+, il gruppo di oltre 370 investitori globali che attrae investimenti nel settore delle tecnologie energetiche rinnovabili. Non sarà che chi investe nei fossili incomincia a sentire odore di bruciato? In Italia vogliamo davvero continuare a far finta di nulla?

Standard, norme e certificazioni. 2. Il loro ruolo nell’economia circolare.

Marino Melissano

 

Economia circolare

Il nostro sistema economico attuale è “lineare”: dalle materie prime produciamo un prodotto finito, lo usiamo e poi lo smaltiamo: terminato il consumo, finisce il ciclo del prodotto, che diventa un rifiuto. Esempi eclatanti: esce un nuovo smartphone, lo compriamo e gettiamo via il vecchio; la lavastoviglie si rompe, ne compriamo una nuova ed eliminiamo la vecchia. In questo modo ci siamo allontanati dal modello “naturale”, “biologico”: lo scarto di una specie è alimento di un’altra; in Natura qualsiasi corpo nasce, cresce e muore restituendo i suoi nutrienti al terreno e tutto ricomincia. (www.ideegreen.it)

Per Economia circolare si intende appunto un sistema economico che si può rigenerare da solo. Rigenerazione, riciclo, riuso. Tante “ri”, che non devono rimanere solo prefissi che rendono virtuosi i verbi, riempiendo la bocca di chi non sa poi nella pratica cosa fare, dove mettere le mani.

Per esempio, pensiamo a prodotti, costruiti e trasportati usando energie rinnovabili e che, una volta usati, possano restituire i componenti a chi li ha fabbricati e le eventuali parti biologiche all’ambiente, incrementando la produzione agricola. Ciò significa ripensare un modello industriale che usi solo materiali sicuri e compostabili o, se materiali tecnici, riciclabili. Circolare, flusso continuo: dalla materia prima alla produzione del prodotto finito, uso, riuso o riciclo.


Ponendosi come alternativa al classico modello lineare, l’economia circolare promuove, quindi, una concezione diversa della produzione e del consumo di beni e servizi, che passa ad esempio per l’impiego di fonti energetiche rinnovabili, e mette al centro la diversità, in contrasto con l’omologazione e il consumismo L’idea in sé dell’economia circolare è nata nel 1976, quando spunta in una rapporto presentato alla Commissione europea, dal titolo “The Potential for Substituting Manpower for Energy” di Walter Stahel e Genevieve Reday. Le applicazioni pratiche dell’economia circolare fanno però capolino, concretamente, su sistemi moderni e su processi industriali, solo negli anni ’70.
I maggiori obiettivi dell’economia circolare sono:

– l’estensione della vita dei prodotti (Product Life Cycle o PLC) e la produzione di beni di lunga durata,

– la sostenibilità ambientale,

– le attività di ricondizionamento e

– la riduzione della produzione di rifiuti.

In sintesi, l’economia circolare mira a vendere servizi piuttosto che prodotti.
Lo sviluppo di un sistema di economia circolare indurrebbe un cambiamento epocale ambientale, economico, occupazionale e di stili di vita. Secondo il Ministro dell’Ambiente Galletti “fare economia circolare conviene alle imprese, oltre che all’ambiente, perché significa consumare meno materie prime, avere processi produttivi più performanti, produrre meno rifiuti, che sono un costo e potrebbero, invece, trasformarsi in risorse”.

Nel 2014 la Commissione europea ha approvato una serie di misure per aumentare il tasso di riciclo negli Stati membri e facilitare la transizione verso “un’economia circolare.

La Commissione Europea il 2 dicembre 2015 ha adottato un nuovo Piano d’azione per l’economia circolare che prevede importanti modifiche alla legislazione in materia di rifiuti, fertilizzanti, risorse idriche, per sostenere il passaggio da un’economia lineare ad un’economia circolare, a basse emissioni di carbonio e resiliente ai cambiamenti climatici.

Contestualmente all’adozione della comunicazione COM (2015) 614/2 (http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/vari/anello_mancante_piano_azione_economia_circolare.pdf) contenente il Piano per l’economia circolare, sono state presentate quattro proposte di modifica delle direttive che ricadono nell’ambito del pacchetto di misure sulla economia circolare (tra cui la direttiva quadro rifiuti, la direttiva discariche, rifiuti da imballaggio).

 

Economia circolare nel settore rifiuti

Secondo l’economia circolare i rifiuti sono “cibo”, sono nutrienti, quindi in un certo senso non esistono. Se intendiamo un prodotto come un insieme di componenti biologici e tecnici, esso deve essere progettato in modo da inserirsi perfettamente all’interno di un ciclo dei materiali, progettato per lo smontaggio e riproposizione, senza produrre scarti. Rispettivamente, i componenti biologici in una economia circolare devono essere atossici e poter essere semplicemente compostati. Quelli tecnici – polimeri, leghe e altri materiali artificiali – saranno a loro volta progettati per essere utilizzati di nuovo, con il minimo dispendio di energia.

In un mondo in cui regna l’economia circolare si privilegiano logiche di modularità, versatilità e adattabilità, perché ciascun prodotto sia di più lunga durata, sia realizzato e ancora prima pensato per poter essere aggiornato, aggiustato, riparato. Un design sostenibile di nome e di fatto.
L’EXPO 2015, con il suo 67% di raccolta differenziata, è stato un buon esempio di economia circolare. I visitatori hanno potuto essere parte della sfida di Expo e viverne i risultati, passeggiando in un sito dove verde, acqua, energia e illuminazione, materiali e sistemi di mobilità, erano tutti pensati per essere il più “green” possibile. (http://www.ideegreen.it/economia-circolare-67689.html#b888jJUwMogrfb8k.99).

La CE ha annunciato, nella Comunicazione del 27.01.17 “Chiudendo il cerchio- un piano d’azione europeo per l’economia circolare”, l’intenzione di intraprendere un’analisi e fornire opzioni sulle connessioni tra prodotti chimici di sintesi, materie prime e legislazione sui rifiuti, che portino anche a come ridurre la presenza e migliorare il monitoraggio di prodotti chimici pericolosi nei composti; ciò significa sviluppare politiche che possono fornire economia circolare attraverso un flusso senza soluzione di continuità di materiali riciclati dai rifiuti come materie prime adatte all’economia. L’analisi prenderà in considerazione un certo numero di studi, incluso quello del 2014 che aveva lo scopo di identificare azioni potenziali per l’economia circolare, settori prioritari, flusso di materiali e catene di valore, nonché il recente studio condotto dalla CE su “Ostacoli normativi per l’economia circolare – Lezioni e studio di casi”. Il risultato della procedura legislativa copre le molteplici direttive rifiuti, inclusa la direttiva quadro sui rifiuti 2008/98, attualmente in discussione del Consiglio e del Parlamento europei. I risultati sono previsti per la fine dell’anno in corso.

Esempi di applicazione dell’economia circolare

Grandi aziende aderenti al GEO (Green Economy Observatory) stanno sperimentando e mettendo in pratica modelli di economia circolare: Barilla ha lanciato il progetto “Cartacrusca”: viene prodotta la carta dallo scarto della macinazione dei cereali (crusca), lavorato insieme alla cellulosa; la toscana Lucart produce carta igienica, tovaglioli e fazzoletti dal recupero totale del tetrapak; Mapei ha sviluppato un additivo, “Re-con Zero”, che trasforma il calcestruzzo fresco inutilizzato (scarto) in un materiale granulare, usato come aggregato per nuovo calcestruzzo.

Tutto questo potrebbe portare con sé la fine di uno dei meccanismi su cui si basa l’economia lineare: (l’obsolescenza programmata dei prodotti) e potrebbe introdurre anche una serie di cambiamenti a livello culturale. Quella circolare è una forma di economia più collaborativa, che mette al centro non tanto la proprietà e il prodotto in quanto tale, ma la sua funzione e il suo utilizzo. Se una lavatrice viene progettata per funzionare per 10 mila cicli e non per 2 mila, può essere utilizzata da più di un consumatore attraverso l’attivazione di una serie di meccanismi economici a filiera corta: affitto, riutilizzo o rivendita diretta.

Per diventare un modello realizzabile e dominante l’economia circolare dovrebbe naturalmente garantire ai diversi soggetti economici una redditività almeno pari a quella attuale: non basta che sia “buona”, deve diventare conveniente. Gli incentivi a produrre sul modello di un’economia circolare sarebbero essenzialmente due: un risparmio sui costi di produzione e l’acquisizione di un vantaggio competitivo (un consumatore preferisce acquistare un prodotto di consumo circolare piuttosto che lineare). Prolungare l’uso produttivo dei materiali, riutilizzarli e aumentarne l’efficienza servirebbe a rafforzare la competitività, a ridurre l’impatto ambientale e le emissioni di gas e a creare nuovi posti di lavoro: l’UE, facendo le sue proposte sul riciclaggio, ha stimato che nei paesi membri ne sarebbero creati 580 mila.

Economia circolare e standard

Anche l’economia circolare ha il suo standard.

         Dopo la creazione di ISO 20400 è arrivato il momento di regolamentare un modello a cui le aziende possano fare riferimento per attuare in modo performante e funzionale l’economia circolare all’interno della loro organizzazione.

 Nasce così il primo standard di economia circolare, che parla inglese. A lanciarlo è stata, l’1 giugno 2017, la British Standards Institution BSI), un’organizzazione britannica di standardizzazione sul cui lavoro si basa anche la prima serie di norme ISO 9000.

In una prima volta, unica a livello mondiale, l’Istituto apre le porte alle imprese intenzionate a sposare i principi della circular economy.

La BS8001, questo il nome della norma, servirà ad aiutare le aziende di ogni dimensione a integrare le tre R del nuovo modello economico (ridurre, riusare e riciclare) nelle loro attività quotidiane e nelle strategie societarie a lungo termine. (www.bsigroup.com)

BS 8001 è uno standard “guida”: fornisce consigli e raccomandazioni in un quadro flessibile. “Non si può certificare la propria organizzazione o prodotto/servizio a questo standard”, spiega Cumming della BSI, si è completamente liberi di decidere l’allineamento che si desidera con i principi fondamentali stabiliti dallo standard”.

Questa norma è destinata all’applicazione su scala internazionale e al conseguente sviluppo non solo come standard di efficienza organizzativa aziendale, ma anche come strategia di gestione dei costi e dei conseguenti ricavi.

Lo standard BS 8001 è quindi figlio dell’ISO 20400, primo standard internazionale sugli acquisti sostenibili, che ha visto la luce l’1 aprile 2017, dopo 4 anni di lavoro del Comitato di Progetto ISO/PC 277: anche questo standard è una linea guida che vuole aiutare le aziende e le amministrazioni a fare scelte d’acquisto economicamente, eticamente ed ecologicamente migliori lungo tutta la catena di approvvigionamento; vuole indurre una nuova strategia politica di acquisto sostenibile, introducendo principi quali la responsabilità, la trasparenza e il rispetto dei diritti umani.

Anche qui siamo di fronte a semplici raccomandazioni, ma, nel momento in cui la norma viene inserita nei capitolati di appalto, diviene obbligatoria.

E il cerchio si chiude: dallo standard alla norma, dalla norma alla legislazione europea e nazionale, dalla legislazione al superamento di questa attraverso l’economia circolare.

Rimane tuttavia che tale standard presenta ancora aspetti discutibili e migliorabili; in un recentissimo lavoro (Resources, Conservation & Recycling 129 (2018) 81–92) gli autori scrivono che la norma cerca di mettere d’accordo “ le grandi ambizioni della economia circolare con le forti e ben stabilite routine del mondo degli affari.” che il controllo sull’implementazione della strategia dell’economia circolare rimane vaga e che le organizzazioni che usano la norma dovrebbero tener d’occhio la crescita dell’effettivo stock in uso di un determinato bene per verificare il successo concreto della strategia.

 

Occorre anche considerare che di fatto nel passato e nel presente produttivo ed industriale la necessità economica di ridurre i costi ha già indotto in alcuni casi da molti decenni a riciclare i materiali con cifre di riciclo nel caso di acciaio, vetro, alluminio, oro, piombo che sono di tutto rispetto, ma che questo non ha fatto diminuire quasi mai in modo significativo la pressione sulla ricerca di nuove risorse, sia per l’ampiamento continuo dei mercati e dei consumi che per l’uso di tecnologia che privilegiano non tanto il riciclo in se quanto la riduzione dei costi di produzione e che quindi raramente raggiungono valori veramente elevati.

Un altro recente risultato che dovrebbe farci accostare criticamente alla mera enunciazione della questione riciclo è dato dalla stima energetica del risparmio indotto dall’economia circolare in termini energetici; anche qui una stima realistica della riduzione in assenza di regole forti non darebbe risultati eclatanti; nel lavoro Thermodynamic insights and assessment of the circular economy pubblicato in Journal of Cleaner Production 162 (2017) 1356e1367,

gli autori concludono che l’economia circolare ha un potenziale di riduzione energetica non superore al 6-11% e dunque è equivalente alle tecnologie tradizionali per la riduzione energetica nell’industria. Ma che comunque:

.” The circular economy approaches tend to reduce demand for energy efficient processes slightly more than those with low energy efficiency. Therefore, from an overall perspective, the circular economy approaches are unlikely to make further energy efficiency savings disproportionately harder to achieve.

ossia

Gli approcci dell’economia circolare tendono a ridurre leggermente la domanda di processi efficienti dal punto di vista energetico rispetto a quelli a bassa efficienza energetica.

Pertanto, da un punto di vista generale, è improbabile che gli approcci all’economia circolare rendano ancora più difficile ottenere ulteriori risparmi in termini di efficienza energetica.

Ed infine dati analoghi si trovano in una pubblicazione del Club di Roma sul tema del riciclo (The Circular Economy and Benefits for Society di Wijkman ed altri, marzo 2016) in cui riconfermando i valori diretti di riduzione del consumo energetico dovuti al solo riciclo si sottolinea l’effetto sinergico delle scelte di riciclo, riuso, e uso delle rinnovabili.

Insomma le cose non sono automatiche e probabilmente avremo bisogno di norme e di standard più stringenti ed efficaci come anche di scelte politiche coraggiose e ad ampio raggio.

Note sull’Antropocene.3. Gli scenari.parte seconda.

Claudio Della Volpe.

In questa serie di post stiamo discutendo di Antropocene, l’argomento che da il sottotitolo al nostro blog e ne imposta i temi. Abbiamo via via analizzato nei 4 post precedenti (pubblicati qui, qui, qui e qui) le origini e le ipotesi sul momento iniziale che definisce l’Antropocene; poi ne abbiamo discusso alcuni scenari possibili.

Dedicheremo questo post a quello che ho definito scenario 3R o scenario Balzani.

Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli col loro gruppo Energia per l’Italia esprimono compiutamente una posizione 3R, ossia basata sull’idea che l’uso esteso di energie rinnovabili, il riuso degli oggetti e il riciclo dei materiali, insieme con la riduzione delle diseguaglianze sociali ed economiche fortissime attualmente esistenti, (secondo il rapporto Oxfam dello scorso anno gli 8 uomini più ricchi del mondo posseggono quanto la metà più povera dell’umanità, 3.6 miliardi di persone, o se volete l’1% dell’umanità possiede quanto o più che il rimanente 99%) costituisca la base per una gestione economica sostenibile.

L’idea di base di questo punto di vista è che l’economia sia in effetti basata sul sistema della biosfera, e questo non solo perché una parte dei servizi importanti è fornita direttamente dalla Natura senza essere pagata (pensate al ricambio dell’ossigeno, al ciclo del carbonio, all’impollinazione dei fiori, alla degradazione dei residui (le nostre deiezioni) fornita dai batteri, etc etc) ma anche perchè le risorse anche non rinnovabili che usiamo sono parte di un patrimonio naturale formatosi in centinaia di milioni di anni, come per esempio i combustibili fossili o le concentrazioni di risorse minerarie come i fosfati del Marocco o di Nauru e che non c’è più il tempo di ricostituirli, sono un unicum , un regalo naturale che non si ripeterà e che stiamo dilapidando rapidamente. E’ la posizione definita ecological economics, fondata da scienziati che ho nominato a riguardo del primo scenario come Georgescu Roegen, ma anche da chimici come il compianto Enzo Tiezzi; da ecologisti come Barry Commoner.

Tutti questi scienziati italiani e di altri paesi si sono resi conto che occorre chiudere il cerchio della produzione e della economia umane.

Barry Commoner riassumeva le quattro leggi dell’ecologia, ma che anche l’economia umana dovrebbe soddisfare, perchè dopo tutto l’economia umana è una parte ormai integrante dell’ecologia del pianeta:

Ogni cosa è connessa con qualsiasi altra. “L’ambiente costituisce una macchina vivente, immensa ed estremamente complessa, che forma un sottile strato dinamico sulla superficie terrestre. Ogni specie vivente è collegata con molte altre. Questi legami stupiscono per la loro varietà e per le loro sottili interrelazioni.” Questa legge indica la interconnessione tra tutte le specie viventi, in natura non esistono rifiuti:es. ciò che l’uomo produce come rifiuto ossia l’anidride carbonica è utilizzata dalle piante come risorsa. L’uomo col suo inquinamento altera ogni giorno il ciclo naturale degli eventi. 

2) Ogni cosa deve finire da qualche parte. “In ogni sistema naturale, ciò che viene eliminato da un organismo, come rifiuto, viene utilizzato da un altro come cibo.” Niente scompare. Si ha semplicemente un trasferimento della sostanza da un luogo all’altro, una variazione di forma molecolare che agisce sui processi vitali dell’organismo del quale viene a fare parte per un certo tempo. 

3) La natura è l’unica a sapere il fatto suo. “Sono quasi sicuro che questo principio incontrerà notevole resistenza, poiché sembra contraddire la fede universale nella competenza assoluta del genere umano.” Questo indica esplicitamente l’uomo a non essere così pieno di se e a usare la natura come se potesse renderla a suo indiscriminato servizio. Se la natura si ribella l’uomo crolla. 

4) Non si distribuiscono pasti gratuiti.“In ecologia, come in economia, non c’è guadagno che possa essere ottenuto senza un certo costo. In pratica, questa quarta legge non fa che sintetizzare le tre precedenti. Non si può evitare il pagamento di questo prezzo, lo si può solo rimandare nel tempo. Ogni cosa che l’uomo sottrae a questo sistema deve essere restituita. L’attuale crisi ambientale ci ammonisce che abbiamo rimandato troppo a lungo.” Dal libro “Il cerchio da chiudere” – Barry Commoner

Analogamente un filosofo dell’ottocento che non nomino, ma cito spesso, diceva a proposito di un futuro scenario di antropocene sostenibile: «I produttori associati regolano razionalmente il loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo invece di essere dominati da esso come una forza cieca».

Notate una cosa, che il concetto stesso di profitto dei fattori della produzione, su cui è basato il modello economico neoclassico è contrario alla quarta legge; l’economia è un gioco a somma nulla: se uno guadagna un altro perderà; non ci sono profitti per tutti creati dalla mera proprietà delle cose; le cose tendono a degradarsi senza un continuo afflusso di energia e di lavoro, certo non a crescere spontaneamente, per cui questa supposta proprietà del denaro e dell’economia è del tutto incompatibile con l’ecologia.

Finchè come uomni eravamo piccoli, finchè eravamo pochi potevamo fare orecchio da mercante, illuderci che quel che facevamo era una percentuale ridicola dell’ecologia planetaria, dire una cosa è l’ecologia e una l’economia; ma adesso le cose sono cambiate.

Adesso noi e i nostri animali rappresentiamo una quota enorme della biomassa planetaria, almeno di quella degli animali vertebrati, e usiamo una quota strabocchevole delle risorse totali di tutti i tipi, come già discusso nella prima parte.

Questo conduce ad effetti inattesi di cui vi presento un esempio recentissimo.

Gli insetti sono una vasta classe di esseri viventi che come numero e massa domina il pianeta, seconda solo ai batteri probabilmente, gli insetti compiono innumerevoli servizi, alcuni dei quali ci stanno antipatici e sono nocivi, come le zanzare anofele, ma in genere sono utilissimi (per esempio impollinano la gran parte delle piante che usiamo per la nostra alimentazione e aiutano a decomporre i rifiuti, servizi ecologici fondamentali per i quali non li paghiamo ma ci aspettiamo che li svolgano); ebbene una analisi recente sia pur limitata condotta in Germania e durata quasi 30 anni mostra che il loro numero è in forte e sconcertante diminuzione, una diminuzione molto forte che va sotto il nome di “sindrome del parabrezza pulito”, una osservazione che potete fare da soli la prossima volta che fate un viaggio in autostrada (http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0185809).

Lo studio ha usato un protocollo stantardizzato per misurare la massa totale di insetti in 27 anni e 63 aree di protezione naturale mostrando che il declino stagionale è del 76% con punte di oltre l’80 nella biomassa degli insetti volanti. Esso sembra indipendente dal tipo di habitat e non se ne conoscono le ragioni.

Non si tratta di una osservazione isolata, l’allarme era stato già lanciato da altro studiosi in altri paesi ed aveva trovato ospitalità ripetutamente nelle pagine di Nature (539, p.41, 2016).

Una riduzione generalizzata del numero di insetti volanti è un fenomeno estremamente preoccupante ma che si associa benissimo alla estinzione di specie causata dall’uomo direttamente (inquinamento) o indirettamente (cambiamento climatico e distruzione degli habitat). La chimica è sempre in prima fila in queste azioni perchè di fatto volente o nolente è strumento di controllo attivo e passivo degli insetti specie nell’agricoltura intensiva.

Quale è la soluzione almeno possibile?

Se questa è la situazione attuale come dalle pagine dello Stockholm Resilience Centerla soluzione sta nell’entrare nella cosidetta economia della ciambella, illustrata dalla eco-economista Kate Raworth.

Ce lo racconta Luca Pardi sul sito di Aspo Italia:

L’economia della ciambella include, oltre al tetto ecologico all’attività umana del grafico (il limite oltre il quale la Biosfera inizia a cedere), anche un pavimento sociale al di sotto del quale non si dovrebbe scendere per evitare il malessere e l’instabilità sociale. L’immagine è affascinante perché descrive in una singola figura un’economia di stato stazionario in cui il metabolismo sociale ed economico umano ha raggiunto un livello che garantisce un elevato grado di benessere, equità distributiva e salvaguardia della biosfera. Cioè qualcosa che è sideralmente lontano dall’attuale dinamica globale :

La ciambella indica gli stretti confini “stabili” entro i quali deve muoversi la nostra attività per rimanere nelle possibilità della biosfera.

La crescita continua della produzione, la crescita del PIL del 2-3% all’anno che corrisponde ad una crescita fisica della produzione di energia e di materia non è sostenibile da parte di una biosfera finita; occorrerebbe sganciare la crescita dell’economia dalla crescita fisica dei parametri energetici e dei materiali, ma abbiamo visto come i think thank economici anche i più “democratici” lo ritengano impossibile. In definitiva se pensate che il termine “sviluppo sostenibile” corrisponda ad una “crescita sostenibile” avete sbagliato.
L’ alternativa è dunque obbligata; smontare il meccanismo produttivo basato sulla crescita e che comunemente chiamiamo capitalismo; l’accumulazione continua non è possibile.

Questo concetto è stato espresso anche dal Papa, quando nella sua ultima encliclica, Laudato sì, rivolgendosi non solo ai cattolici, ma «a ogni persona che abita questo pianeta» invita a «eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale» correggendo «i modelli di crescita» incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente.

Ancora più recentemente, la Union of concerned scientists (UCS) ha riproposto una petizione firmata da oltre 15000 scienziati fra cui praticamente tutti i Nobel che rinnova una analoga petizione lanciata già nel 1992 e che denunciava questa situazione; io l’ho firmata dal principio; la petizione conclude:

To prevent widespread misery and catastrophic biodiversity loss, humanity must practice a more environmentally sustainable alternative to business as usual. This prescription was well articulated by the world’s leading scientists 25 years ago, but in most respects, we have not heeded their warning. Soon it will be too late to shift course away from our failing trajectory, and time is running out. We must recognize, in our day- to-day lives and in our governing institutions, that Earth with all its life is our only home.

that Earth with all its life is our only home: che la Terra con tutta la sua vita è la nostra sola casa; la stessa idea di Vincenzo Balzani nel libro “Energia per l’astronave Terra”, ricordate? “ci troviamo su una astronave con risorse limitate”.

Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli hanno espresso il loro punto di vista sul futuro dell’Antropocene quando hanno scritto:

.Per vivere nel terzo millenio abbiamo bisogno di paradigmi sociali ed economici innovativi e di nuovi modi di guardare ai problemi del mondo. Scienza, ma anche coscienza, responsabilità, compassione ed attenzione, devono essere alla base di una nuova società basata sulla conoscenza, la cui energia sia basata sulle energie rinnovabili, e che siamo chiamati a costruire nei prossimi trent’anni. L’alternativa, forse è solo la barbarie.(Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli, Energy for a sustainable world, Wiley CH, 2011)

Cosa dirvi? Occorre non solo condividere questi obiettivi ma orientare verso di essi la nostra attività di ricercatori e di cittadini.

Quale Strategia Energetica per l’Italia?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Nicola Armaroli, Vincenzo Balzani, Enrico Bonatti, Marco Cervino, Maria Cristina Facchini, Sandro Fuzzi, Luca Gasperini, Cristina Mangia, Alina Polonia, Leonardo Setti

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In un articolo sul Messaggero del 18 maggio, il Presidente Prodi ha sollecitato lo sfruttamento di giacimenti di petrolio e gas che si trovano nel Mare Adriatico. Questo articolo, ripreso da molti giornali ed agenzie, è stato positivamente commentato dal ministro Guidi che si è detta preoccupata dai ritardi che comporta il recepimento della Direttiva europea del 2013 sulla sicurezza delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi: “Bisogna evitare che questa moratoria ci faccia perdere ulteriori opportunità. Dato che tutto il mondo lo fa, non capisco perché dovremmo precluderci la possibilità di utilizzare queste risorse, pur mettendo la tutela dell’ambiente e della salute al primo posto”.

Data la sua esperienza internazionale e la sua autorevolezza, ci saremmo aspettati dal Presidente Prodi un appello affinché le nazioni del mondo trovino un accordo per limitare l’uso dei combustibili fossili e anche un invito al Governo italiano, e a quello della Croazia, a non intraprendere attività estrattive che possano compromettere l’incommensurabile valore paesaggistico, culturale ed economico di un bacino chiuso, e quindi particolarmente vulnerabile, come l’Adriatico. La scienza, oggi, sa che l’estrazione e l’uso degli idrocarburi comportano rischi e danni molteplici per l’uomo e per l’ambiente, tra cui la contaminazione di acque ed ecosistemi, l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento climatico. Da approfondire ulteriormente vi sono poi le connessioni fra processi di estrazione e induzione di terremoti, argomenti su cui si sta concentrando l’attenzione della comunità scientifica e dell’opinione pubblica.

L’idea di sfruttare l’Adriatico era già contenuta nel documento di Strategia Energetica Nazionale del marzo 2013. La stima era di estrarre 123 Mtep di riserve certe che, spalmate su 15 anni, corrispondono al 6% del consumo annuale italiano, una quota del tutto marginale. Già allora ci fu chi suggerì di rinunciare alle estrazioni, proponendo come misura alternativa di diminuire i consumi del 6%, una quota che può essere raggiunta con azioni minime di educazione al risparmio e all’efficienza energetica. E’ noto a tutti che nel 2020 l’Europa raggiungerà gli obiettivi che si era prefissati riguardo il risparmio energetico, la riduzione di immissioni di CO2 e lo sviluppo delle energie rinnovabili, che il Parlamento europeo ha già votato l’obbligo di ridurre i consumi del 40% al 2030 e che la roadmap europea prevede un taglio delle emissioni di CO2 dell’80 – 95% entro il 2050.

Nel suo articolo, Prodi afferma che “Gli esperti sono concordi nel dire che non vi è nessun rischio” nell’estrarre petrolio dall’Adriatico. A parte il fatto che molti autorevoli esperti affermano il contrario, l’esperienza dimostra che in imprese tecnicamente complesse, compiute con l’unico scopo di ricavarne profitti, errori e disastri sono sempre in agguato e non è proprio il caso di rischiare di inquinare le coste dell’Adriatico, che sono un’ingente e consolidata fonte di sicuro reddito turistico sia per l’Italia che per la Croazia. L’unica cosa certa è che la trivellazione dell’Adriatico porterebbe profitti a un ristretto gruppo di colossi dell’energia, ben lieti di lavorare in un Paese come l’Italia, che ha un regime fiscale e di royalties tra i più vantaggiosi al mondo.

Col referendum del 2011 gli italiani si opposero al ritorno del nucleare e molte persone autorevoli, fra cui Prodi, affermarono che l’Italia aveva perso un treno. In realtà oggi sappiamo con certezza di aver fatto la scelta giusta. Le prime centrali nucleari sarebbero state pronte (?) non prima del 2025, mentre alla fine del 2011 il fotovoltaico installato in Italia produceva già l’equivalente di una centrale nucleare e attualmente, con oltre 18000 MWp installati, produce l’equivalente di due centrali da 1600 MW.

Oggi la situazione si ripete: si parla della necessità di non perdere il treno dello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi in Adriatico, senza capire che anche in questo caso si tratta di un treno in ritardo. I tecnici sono concordi nell’affermare che ci sono molte difficoltà da superare tanto che, secondo le stime più ottimistiche, lo sfruttamento non potrebbe iniziare prima di almeno 10 anni. A parte i già ricordati aspetti negativi riguardanti l’estrazione e l’uso di idrocarburi, bisogna prendere atto che siamo nel pieno di una transizione energetica. Fra un decennio le energie rinnovabili, anche se poco amate dalla politica e da grandi gruppi economici, ci forniranno, senza lasciare alle prossime generazioni scorie radioattive e senza contribuire all’aumento della CO2 in atmosfera, tutta l’energia che ci avrebbero fornito le quattro centrali nucleari previste dal governo Berlusconi nel 2011 e i 123 Mtep di energia fossile nel sottosuolo dell’Adriatico, indicate nella Strategia Energetica Nazionale del ministro Passera del 2013.

Risparmio energetico, efficienza e sviluppo delle energie rinnovabili sono l’unica via percorribile se vogliamo raggiungere l’indipendenza energetica e custodire il pianeta Terra. L’incremento delle rinnovabili in Italia ha mostrato un trend di crescita medio di oltre 1,7 Mtep/anno, secondo soltanto a quello della Germania, che ci pone tra le Nazioni leader mondiali in questo settore industriale. Per questo motivo, oltre che per la crisi economica, le centrali termoelettriche italiane sono passate oggi da 5000 ore a 2000 ore lavorative anno, mettendo in grave difficoltà i piani industriali di decine di impianti, autorizzati in modo poco lungimirante negli ultimi 15 anni da vari governi. Purtroppo però, nonostante questo straordinario successo, in Italia le energie rinnovabili sono oggetto di un violento attacco che non ha alcun fondamento scientifico ed economico e che ha già causato la chiusura di centinaia di aziende e la perdita di migliaia di posti di lavoro.

E’ sulle energie rinnovabili, quindi, che si dovrebbe investire: energia idrica, eolica, geotermica e, soprattutto, energia solare. Ad esempio, basterebbe coprire con pannelli fotovoltaici lo 0.8% del territorio, poco più dei 2000 km2 occupati dai 700.000 capannoni industriali italiani e loro pertinenze, per ottenere tutta l’energia elettrica che ci serve.

Il futuro economico, industriale ed occupazionale del nostro Paese può essere basato solo sullo sviluppo delle energie rinnovabili, non sulla ricerca spasmodica delle ultime gocce di petrolio.

Purtroppo, una larga parte della classe dirigente italiana continua a guardare indietro, senza comprendere quale opportunità di vero sviluppo ci offre la rivoluzione economica e industriale già in atto. Invitiamo il governo a prendere decisioni lungimiranti riguardo l’energia, che è la risorsa più importante per la vita e lo sviluppo della civiltà.

NB: le foto si succedono nel medesimo ordine della lista di autori.

La lettera di R. Prodi per l’uso del fossile adriatico è comparsa su Il Messaggero del 18 maggio us: http://economia.ilmessaggero.it/economia_e_finanza/prodi-quel-mare-di-petrolio-che-giace-sotto-l-amp-rsquo-italia/697134.shtml