Il ciclo dello zolfo ancora da chiarire

Rinaldo Cervellati

In un post sull’elemento zolfo (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2019/03/06/elementi-della-tavola-periodica-zolfo-s/), come già brevemente inserito nella nota in fondo al post aggiunta dal postmaster riguardante il suo ciclo biogeochimico, sono state formulate varie ipotesi sull’effetto climatico del DMS (dimetilsolfuro N.d.R.) e presentati due schemi alternativi sul suo ruolo climatico.

In questo post, liberamente adattato da un articolo di Rachel Brazil su Chemistry Word[1], cercheremo in dettaglio di colmare le lacune che influiscono sulla nostra capacità di modellizzare correttamente gli effetti dello zolfo sul clima.

Infatti, come per il carbonio, l’azoto e il fosforo, il suo uso e la sua conversione chimica attraverso il mondo fisico e biologico sono descritti in un ciclo. Ma parte di quel ciclo non è ben compreso, in particolare come vengano prodotte e utilizzate piccole molecole di organo-zolfo negli oceani. Uno dei motivi principali del rinnovato interesse per il ciclo dello zolfo è la sua influenza sul clima, dovuta alle emissioni oceaniche di dimetilsolfuro (DMS). Spencer Williams, professore di chimica all’Università di Melbourne (Australia), afferma: “Una volta si pensava che lo zolfo fosse rilasciato da alghe marine e microbi come idrogeno solforato, ma ora sappiamo che circa 300 milioni di tonnellate di DMS vengono rilasciate dagli oceani ogni anno. L’odore dell’oceano che tutti conosciamo è caratterizzato da livelli molto bassi di DMS“.

Prof. Spencer Williams

È stato lo scienziato ambientale britannico James Lovelock a proporre l’idea che il DMS potrebbe essere un fattore importante nella regolazione del clima.

Lovelock è noto per aver proposto l’ipotesi  secondo cui la vita sulla Terra agiva di concerto come un sistema complesso tipo un organismo. Nel 1987 suggerì che incoraggiando la formazione di nubi, il DMS agisse da termostato terrestre e prevenisse il surriscaldamento, conosciuta come “ipotesi CLAW”.

James Lovelock

Spiega Martí Galí Tàpias, scienziato marino (Istituto di scienze marine, Barcellona, Spagna):

Martí Galí Tàpias

I prodotti di ossidazione del DMS, come l’anidride solforosa e altri composti [solfati] possono eventualmente formare nuove particelle di aerosol. Le particelle portano alla nucleazione del vapore acqueo, formando nuvole e provocando una maggiore riflessione delle radiazioni per effetto dell’albedo[2]. Ciò potrebbe quindi compensare alcuni degli impatti del riscaldamento dei gas serra”.

L’oceano è un importante serbatoio di zolfo, contenente grandi quantità di solfato disciolto, dilavato dal gesso e da altri minerali. Le specie batteriche possono ridurlo a solfuri come composti organici. Piccole molecole contenenti zolfo eventualmente rilasciate nell’oceano ritornano nell’atmosfera come DMS, che viene quindi ossidato e riciclato tramite l’acqua piovana (Figura 1).

Figura 1 . Il ciclo dello zolfo dipende da percorsi biologici nei batteri e nel fitoplancton che non sono ancora completamente compresi. Credit: Dan Bright

È la parte biologica del ciclo dello zolfo, dove c’è ancora tanto da imparare. Lo zolfo è un costituente di molte proteine ​​e cofattori ed è presente in due degli aminoacidi proteinogenici, la metionina e la cisteina. Afferma Bryndam Durham, microbiologo marino dell’Università della Florida (USA): “Negli organismi marini, la sua abbondanza è paragonabile al fosforo in termini di modo in cui si accumula nella biomassa”.

Bryndam Durham

Oltre alla sua relativa ubiquità, Georg Pohnert (ecologista e chimico, Friedrich Schiller University a Jena (Germania),  spiega che il suo ruolo in biologia scaturisce dalla sua versatilità chimica, con un’ampia gamma di stati di ossidazione da -2 a +6. Dal momento che si può trovare in così diversi stati di ossidazione, ha molti modi per accedere come entità biologica e ha sempre più modi per elaborarli. Questa flessibilità lo rende un protagonista in molti processi cellulari.

Georg Pohnert

Da diversi decenni è noto che il DMS emesso dagli oceani deriva in gran parte dalla scomposizione della molecola di zolfo dimetil sulfinoproprianato (DMSP), una molecola altamente polare contenente uno ione solfonio caricato positivamente. Il DMSP è prodotto dal fitoplancton, l’alga microscopica fotosintetizzante che si trova nello strato superficiale dell’oceano. “Alcuni organismi lo producono in enormi quantità, fino a concentrazioni intracellulari di metà molare; chiaramente impiegano molte energie per farlo“, afferma Jonathan Todd (biologo molecolare, Università dell’East Anglia, Regno Unito). Quando viene degradata, la molecola viene scissa in DMS, gran parte del quale finisce nell’atmosfera, e un frammento proprionato che può essere metabolizzato come fonte di carbonio.

Ma il fitoplancton non è l’unico produttore di DMSP. Afferma Todd: “Una recente scoperta chiave del mio laboratorio è che l’ipotesi che il DMSP sia prodotto solo da organismi eucarioti marini è completamente falsa”. Il suo gruppo ha trovato alti livelli di DMSP e DMS in paludi e sedimenti costieri legati a batteri produttori di DMSP, stimando che potrebbero esserci come minimo fino a 100 milioni di batteri produttori di DMSP per grammo di sedimento di palude salata, una parte del ciclo dello zolfo precedentemente trascurato.

Jonathan Todd

Il gruppo di Todd ha studiato il ciclo del DMSP nei campioni di sedimenti di superficie costiera e ha scoperto che la sua concentrazione nei sedimenti è di uno o addirittura due ordini di grandezza superiore a quello che si vede nell’acqua di mare superficiale. Il fitoplancton resta ancora il principale produttore, ma questo studio mostra che i batteri nelle distese fangose e nelle regioni marine devono essere presi in considerazione come attori significativi.

Una domanda che Todd e altri si stanno ponendo è perché così tanti organismi producono DMSP e qual è il suo uso. La percezione comune è che sia prodotto da organismi eucarioti marini come composto antistress. Qualche anno fa il suo laboratorio ha identificato il gene chiave responsabile della sua biosintesi nei batteri marini e ha anche notato che il gene era sovraregolato in ambienti in cui la salinità era aumentata, le temperature abbassate o le concentrazioni di azoto limitate.

Il DMSP sembra avere un ruolo nella regolazione osmotica di alcuni fitoplancton, sfruttando le sue proprietà zwitterioniche[3]. Ad esempio, le diatomee sono alghe racchiuse in modo univoco da una parete cellulare di silice trasparente, il che significa che non sono in grado di regolare la loro concentrazione cambiando dimensione. Quello che fanno invece è usare la molecola DMSP, spiega Pohnert: “Producono sali mediante processi biosintetici, e poi possono anche regolarlo nuovamente“. Todd afferma che il DMSP, e i suoi prodotti DMS e acido propionico, possono anche essere prodotti come molecole di segnalazione da una varietà di microbi; per esempio, l’acido propionico può essere tossico per alcuni organismi ma il DMS è anche un chemio-attrattivo.

Un indizio sulla diversità dell’uso del DMSP viene anche dal lavoro svolto da Todd e collaboratori per identificare le vie enzimatiche che lo scompongono. Dopo aver identificato il primo enzima liasi, hanno pensato che “sarebbe stata la fine della storia“. Ma alla fine hanno trovato otto enzimi unici in alghe e batteri, tutti provenienti da famiglie proteiche distinte con percorsi chimici unici. Il gruppo ha scoperto che esisteva un’enorme biodiversità nei modi in cui i microrganismi e gli organismi superiori degradano il DMSP per generare DMS.

Recentemente è anche diventato evidente che si è sviluppato un ecosistema oceanico diversificato che non solo produce, ma consuma DMSP e altri composti organo-solforati. “In genere pensiamo che gli ambienti marini siano inondati di nutrienti, ma in realtà l’oceano aperto è piuttosto scarso e il DMSP è un nutriente chiave. Un’ampia gamma di microrganismi importa il DMSP e lo metabolizza come fonte di carbonio e zolfo per l’energia”, spiega Todd. Secondo Durham, questi alimentatori DMSP fanno parte di una serie di interazioni cooperative. “I batteri che possono utilizzare il DMSP sono ritenuti benefici per il fitoplancton [che lo produce], producendo vitamine, molecole di segnalazione, ormoni, e altre sostanze bio-organiche.”

Pohnert ha scoperto un altro percorso mancante o “scorciatoia” nel ciclo dello zolfo marino, con l’esistenza del dimetilsolfonio propionato (DMSOP) trovato in tutti i campioni oceanici dall’Artico al Mediterraneo. Esiste un’intera famiglia di composti strutturalmente correlati al DMSP e il gruppo di ricerca è rimasto piuttosto sorpreso di trovare persino un composto sulfoxonio, che è chimicamente molto insolito. DMSOP è anche uno zwitterione che può essere scomposto dagli enzimi in due unità non cariche, ma con lo zolfo in uno stato di ossidazione superiore a quello del DMSP.

Non possiamo spiegare perché sono necessari entrambi i composti”, afferma Pohnert, ma suggerisce che convertendo il DMSP in DMSOP, alcune specie di alghe e batteri sono in grado di sopravvivere a un aumento delle specie reattive dell’ossigeno che possono incontrare spostandosi rapidamente attraverso un oceano che cambia, essenzialmente un meccanismo di disintossicazione interno. “È davvero solo un’altra messa a punto della loro capacità di adattarsi al loro ambiente”, spiega Pohnert, che sospetta che la produzione di DMSOP possa anche essere collegata all’invecchiamento, in cui l’equilibrio ossidativo negli organismi può essere distorto; questa è un’idea che sta seguendo ora il gruppo.

Pohnert ha colmato le lacune di questa parte del ciclo dello zolfo. Come il DMSP, esistono batteri in grado di metabolizzare il DMSOP, formando dimetilsolfossido (DMSO), che può essere esso stesso convertito in DMS o assorbito da altri batteri.

In particolare ha trovato il 2,3-diidrossipropan-1-solfonato (DHPS) prodotto nelle diatomee in concentrazioni millimolari che viene metabolizzato dai batteri come fonte di carbonio e zolfo. “Quello che capiamo sui solfonati è in ritardo rispetto a come comprendiamo il DMSP”, afferma Durham. Il motivo per cui sono realizzati non è chiaro, ma un suggerimento di Durham è che potrebbe essere un modo per regolare la fotosintesi: sanno dagli organismi coltivati ​​in laboratorio che il DHPS viene prodotto solo durante il giorno. “Se c’è molta luce in arrivo, il fitoplancton non ha la protezione solare, deve solo affrontarla. Quindi l’assimilazione del solfonato è ad alta intensità energetica e potrebbe essere un buon modo per scaricare gli elettroni in eccesso… questo è quello che stiamo immaginando”.

La scoperta del DHPS e il suo legame con la fotosintesi hanno eccitato Williams, chimico dei carboidrati che studia le vie della glicolisi e processi biologici simili per metabolizzare il monosaccaride sulfochinovosio sulfonato. Dice Williams: “Io chiamo sulfochinovosio la molecola più importante e praticamente sconosciuta. Sembra glucosio, tranne per il fatto  che ha un legame carbonio-zolfo”. Si stima che costituisca circa il 50% di tutte le molecole di organozolfo (il restante è in gran parte costituito da cistina e metionina).

“Quasi ogni singolo organismo fotosintetico, che si tratti di cianobatteri, alghe, diatomee, piante o muschio, produce sulfochinovosio”, afferma Williams. La sua ubiquità è spiegata dal suo ruolo nella fotosintesi, essendo parte delle membrane che circondano i compartimenti noti come thulakoidi, all’interno dei cloroplasti dove avviene la reazione fotochimica. Oltre ai fosfolipidi, queste membrane contengono i glicolipidi, sulfochinovosil diacilgliceroli (SQDG).

Williams ha chiarito i percorsi enzimatici attraverso i quali i batteri di nicchia del suolo sono in grado di raccogliere e scomporre il sulfochinovosio dalla materia vegetale. “In ogni grammo di terreno che puoi trovare  ci sarà un insetto che ha un percorso enzimatico latente, in attesa di avere fortuna e ottenere un po’ di questo sulfochinovosio. Ma è stato osservato che nessun singolo organismo può scomporre il sulfochinovosio”. Invece, spiega Williams, tendono a emettere un frammento di zolfo che viene trasmesso ad altri organismi. Una di queste molecole contenenti zolfo è il DHPS, il solfonato osservato per la prima volta negli oceani da Durham nel 2019. Sebbene non ci siano ancora prove chiare, Williams suggerisce che il sulfochinovosio del fitoplancton potrebbe essere la fonte del DHPS oceanico. “Forse è da lì che viene“, dice, ma ammette che nessuno sa davvero cosa succede.

Il sulfochinovosio è anche uno dei modi in cui gli esseri umani interagiscono con il ciclo dello zolfo. Il nostro microbioma intestinale comprende la famiglia di batteri Firmicutes, che metabolizzano il sulfochinovosio dal cibo che mangiamo. “Ad esempio, mangiando grosse quantità di spinaci, potresti ottenere qualche centinaio di milligrammi di sulfochinovosio al giorno”, afferma Williams. Ma questo è sufficiente per supportare questo batterio di nicchia. Il processo alla fine produce una fonte aggiuntiva di idrogeno solforato, che verrà restituito all’atmosfera per essere riciclato.

Per i modellizzatori climatici, la comprensione del ciclo dello zolfo e del modo in cui risponde ai cambiamenti climatici è importante per una previsione climatica più accurata. Mentre lo zolfo rilasciato dai combustibili fossili ha raddoppiato i livelli ambientali dalla rivoluzione industriale ed è ancora la fonte predominante, il DMS proveniente dagli oceani rappresenta un terzo dello zolfo atmosferico totale. Lo zolfo antropogenico è la causa delle piogge acide, che possono degradare significativamente gli ecosistemi.

C’è ancora incertezza sull’impatto dei composti dello zolfo. Nel suo libro del 2006 The Revenge of Gaia, Lovelock ha ampliato le sue idee precedenti e ha suggerito che il riscaldamento globale stava portando a una diminuzione della biomassa oceanica che produce DMS, riducendo i potenziali effetti di feedback positivi che aveva previsto in precedenza e forse creando un effetto a spirale.

Se questo sia il caso, non è ancora chiaro. “Attualmente i modelli della produzione DMS presentano alcune carenze“, afferma Galì. Indica i quattro modelli climatici all’avanguardia pubblicati nel 2021 dal Programma mondiale di ricerca sul clima e alla base del sesto rapporto di valutazione dell’IPCC. “Quattro di loro hanno una rappresentazione alternativa delle emissioni DMS… due modelli prevedevano un aumento nel corso del prossimo secolo, gli altri due prevedevano una diminuzione”. È ora un forte imperativo per modellizzare in modo più accurato la produzione di DMS. Todd è d’accordo e aggiunge che anche il contributo di DMSP da altri ambienti, come le paludi che ha studiato, deve essere preso in considerazione.

Ci sono anche nuove scoperte in altre parti del ciclo. Uno studio del 2020 della National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti, ad esempio, ha identificato che il 30% del DMS è ossidato a idroperossimetil tioformiato, identificato attraverso l’osservazione nell’aria. Il suo impatto sulla formazione di aerosol e sulla condensazione delle nubi deve ancora essere studiato.

Su scala globale, Galì ha iniziato il lavoro di misurazione e modellizzazione del DMS. Egli ha creato un algoritmo per stimare i livelli di DMS marini utilizzando i dati satellitari di telerilevamento. Ad esempio, calcola i livelli di biomassa del fitoplancton sulla base di misurazioni ottiche in grado di stimare la quantità di clorofilla presente dall’analisi dell’intensità del colore. Ma afferma che ciò che ora è veramente importante è essere in grado di stabilire con precisione i tassi di cambiamento globali, e questo richiederà molto lavoro.

Ora spera di creare un database dei tassi globali di produzione e consumo di DMS, attraverso lo Special Committee on Oceanic Research, un’ONG che gestisce la ricerca marina internazionale. Ciò alla fine fornirebbe dati per modelli climatici più accurati. Richiederà un’analisi molto più dettagliata di quella attualmente esistente; ad esempio, essere in grado di distinguere i produttori bassi o alti di DSM e comprendere appieno come altri microbi contribuiscono al consumo e alla produzione di composti organosolforati correlati. “Devi rappresentare tutti questi processi nei  modelli per ottenere la concentrazione di zolfo giusta”, dice Galì. “È piuttosto complesso“. E date le recenti scoperte, potrebbero esserci parti del ciclo dello zolfo ancora da scoprire. Ma, come conclude Pohnert, per individuare davvero il suo impatto sul clima, dovremo migliorare la nostra comprensione del ciclo dello zolfo e dovrà essere uno sforzo multidisciplinare; “necessita un’interazione tra modellizzazione, microbiologia e chimica”.


[1] Rachel Brazil, The secrets of the sulfur cycle, Chemistry World weekly, 28 March, 2022.

[2] L’albedo è la frazione di luce riflessa da un oggetto o da una superficie rispetto a quella che vi incide. Nel caso della Terra, il valore dell’albedo dipende dalla presenza o meno di un’atmosfera, da eventuali nubi e dalla natura della superficie (rocce scure, terreno erboso, deserto sabbioso, oceani); le calotte polari o zone coperte da ghiacci e neve innalzano l’albedo perché hanno un alto potere riflettente.

[3] Lo zwitterione (dal tedesco zwitter, ermafrodita) è una molecola elettricamente neutra che quindi non subisce l’azione di un campo elettrico.

Elementi della tavola periodica: Zolfo, S.

Mauro Icardi

Zolfo: simbolo chimico S, numero atomico 16, massa atomica 32.07 u.  Appartiene alla famiglia dei non metalli, e di quegli elementi arcaici, noti fin dall’antichità. Lo zolfo si lega nei miei ricordi di studio e personali anche alla Sicilia e alle sue miniere. E alle descrizione di Dante nel Paradiso: “E la bella Trinacria che caliga tra Pachino e Peloro , sopra il golfo che riceve da Euro maggior briga non per Tifeo ma per nascente zolfo

E naturalmente, così come per il rame, anche lo zolfo richiama i ricordi d’infanzia. Usato nella coltivazione della vite, per combattere l’oidio quello che i nonni e zii chiamavano il “mal bianco”, termine usato ancora oggi. La malattia di origine fungina, causa la copertura della foglia della vite con delle macchie di colorazione grigio-biancastra e polverulenta, che ricoprono tutti gli organi verdi della pianta. La pianta che viene attaccata dal fungo ingiallisce e cade. Nei pomeriggi d’estate girovagando nei locali dove venivano conservati i sacchi, ho potuto ancora vedere qualche sacco proveniente proprio dalla Sicilia.

Per quanto riguarda l’origine dei depositi di zolfo, si possono distinguere due meccanismi di formazione:

  1.     Origine Sedimentaria

I giacimenti di origine sedimentaria si possono far risalire 25 milioni di anni fa, in terreni detti EVAPORITI perché formatisi per evaporazione di acque marine in ambienti lagunari, e con climi caldi e asciutti. L’evaporazione dell’acqua e la fioritura di alghe fecero diventare l’ambiente, ricco di pesci e di organismi dal corpo racchiuso in un guscio calcareo, sempre più povero di ossigeno, fino a provocare la morte di quasi ogni specie vivente.

La sostanza organica caduta sul fondo venne attaccata da organismi capaci di vivere in assenza di ossigeno (batteri anaerobici) e col trascorrere dei secoli si formò dapprima gesso e quindi carbonato di calcio e zolfo.

Questa la sequenza delle reazioni:

2CaSO4 + 2CH4(o batteri anaerobici) – – > Ca (HS)2 + CaCO3 + CO2 + 3H2O

Ca (HS)2 + CO2 + H2O – – – > CaCO3 + 2 H2S

E per ultimo stadio:

3H2S + CaSO4 – – – > 4S + Ca (OH)2 + H2O

2 Origine vulcanica

Nelle emanazioni di vulcani allo si trovano H2S, SO2 ed altri vapori di zolfo.
Tali composti, in presenza di acqua, reagiscono fra loro e depositano lo zolfo formando incrostazioni e masse che in qualche caso sono state usate in alternativa all’estrazione mineraria vera e propria.
Le più note solfatare sono quelle di Pozzuoli (Na), Montefiascone, Latera, Pomezia (tutte nel Lazio), isola di Vulcano e del Vesuvio , conosciute ampiamente già in epoca romana.

Una delle più note reazioni per la genesi vulcanica è la seguente:

2H2S + O2 – – > 2S + 2 H2O + 527 kJ

ed anche in presenza di anidride solforosa:

2H2S +SO2 – – > 3S + 2H2O.

Dal punto di vista squisitamente lessicale i giacimenti sedimentari si chiamano solfare, mentre quelli di origine vulcanica solfatare.

Il trasporto al mare dello zolfo, sotto forma di ione solfato, avviene tramite dilavamento del terreno e delle rocce e infiltrazione in falde freatiche. Nelle acque degli oceani esso viene utilizzato dalle alghe marine per la produzione di una betaina contenente zolfo, il dimetilsolfonio propionato (DMSP). In seguito alla morte delle alghe questa sostanza viene liberata, scomponendosi a formare lo ione acrilato e il dimetilsolfuro (DMS), che tende a passare allo stato gassoso.

Il DMS gassoso viene ossidato dai gas atmosferici originando un aerosol di sale solfato che funziona come nucleo di condensazione, venendo circondato dalle goccioline d’acqua che daranno così origine alle nubi.
Sotto questa forma lo zolfo perviene nel terreno con le precipitazioni, a beneficio delle piante terrestri, delle quali favorisce la crescita. La sua presenza aumenta inoltre la velocità di erosione delle rocce, con un conseguente maggior flusso di nutrienti a beneficio degli organismi marini.
Il passaggio all’atmosfera dello zolfo può anche essere causato da eruzioni vulcaniche o attività antropica, in seguito all’impiego di combustibili che contengano questa sostanza. Viene così prodotta anidride solforosa (SO2), che si ossida all’aria ad anidride solforica (SO3). L’anidride solforica viene facilmente convertita in acido solforico, e in presenza di inquinanti può originare un aerosol, contenente in prevalenza solfato di ammonio, all’origine di quelle che vengono definite piogge acide.

Lo zolfo trova impiego non solo nei processi industriali quali quelli per la produzione di acido solforico, e la vulcanizzazione della gomma, ma anche per la produzione di saponi e detergenti allo zolfo. Questi vengono usati principalmente per la detersione delle pelli grasse. Essendo lo zolfo un componente della cheratina viene chiamato anche il “minerale della bellezza” principalmente per pelle, unghie e capelli.

Non va dimenticata l’importanza dello zolfo negli aminoacidi. Il nostro organismo trae zolfo principalmente da due aminoacidi: la cisteina e la metionina, aminoacidi solforati. Si tratta di aminoacidi che il nostro organismo deve assumere attraverso l’alimentazione. Essendo costituenti delle proteine, è chiaro come gli alimenti più ricchi di zolfo siano il pesce, il manzo, il pollo, ma anche uova, legumi, asparagi, cipolla, aglio, germe di grano e cavolo. A titolo personale, nonostante il caratteristico odore, io preferisco integrare la mia quantità di zolfo attraverso il consumo di cipolle, aglio e cavoli. Una scelta personale, ma in qualche modo guidata anche da una sorta di istinto primario.

Probabilmente questo elemento potrebbe avere per qualcuno una cattiva fama. Questo per il suo essere associato in moltissime pagine letterarie con il diavolo. E anche nelle diverse leggende relative ai vari “ponti del diavolo sparsi in Italia. Per esempio a Lucca e a Lanzo tra i tanti. Vorrei ricordare la leggenda del ponte di Lanzo, che sentii narrare dalla mia insegnante di scuola elementare, Mariagrazia Rozzi.

Un tempo gli abitanti dei casolari e delle baite periferiche di Lanzo, per raggiungere il borgo erano costretti ad un largo giro, e dovevano superare il torrente Stura più a monte, in prossimità dell’abitato di Germagnano. Anche i collegamenti tra Lanzo e la sponda destra del fiume avvenivano su precari ponti in legno. Venne quindi decisa la costruzione di un nuovo ponte, ma ogni volta avversità naturali e crolli improvvisi ne ritardavano la realizzazione. Il Diavolo, avendo visto frustrati gli sforzi degli aitanti del paese, si offerse di costruire egli stesso un ponte che non sarebbe crollato. Ma in cambio avrebbe preteso l’anima del primo che lo avesse attraversato. Gli abitanti accettarono l’offerta e quando il ponte fu finito fecero passare per primo un cagnolino. Il Diavolo, furioso per l’affronto subito, sbatté con violenza le sue zampe sulle rocce intorno formando le caratteristiche “Marmitte dei Giganti”, visibili ancora oggi dietro la Cappella di San Rocco che si trova all’imbocco del ponte dalla parte di Lanzo. Un’altra versione invece dice che lasciò l’impronta di una zampa proprio sul ponte, sparendo poi, sempre arrabbiato e lasciando dietro di sé il classico odore di zolfo.

Ma per restare in tema letterario e riallacciarsi ad una sorta di contrappasso dantesco, il diavolo stizzito e iracondo finisce male. Infatti nell’apocalisse il diavolo viene gettato proprio in uno stagno di fuoco e zolfo:

“E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli.”

Una piccola rivincita per il povero cagnolino!

 

Nota del Postmaster.

Il ciclo dello zolfo è molto interessante per vari motivi, fra i quali le varie ipotesi fatte per il ruolo climatico del DMS; qui sotto una rapresentazione alternativa del ciclo dello zolfo e le due ipotesi CLAW e anti-CLAW sul ruolo del DMS.

Noterelle di economia circolare.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

L’economia circolare è un nome recente per indicare le operazioni di riciclo dei rifiuti con produzione di materie o merci utili e vendibili. Espressione fortunata che ha già dato vita a libri, saggi, congressi, interviste televisive, gli ingredienti del successo; definizione e descrizione “ufficiali” sono state pubblicate come “Pacchetto sull’economia circolare: domande e risposte” a cura della Commissione Europea http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-15-6204_it.htm.

Economia-circolare

Sta di fatto che qualsiasi società ha sempre cercato di guardare i propri rifiuti per vedere se poteva ricavarne qualcosa di utile; anzi lo sguardo ad alcuni eventi del passato aiuta a comprendere l’ingegnosità di chi ci ha preceduto, i progressi che la ricerca di un riciclo dei rifiuti ha portato anche ad altri campi, e a stimolare nuove imprese. Episodi di economia circolare si sono moltiplicati soprattutto nel corso della rivoluzione industriale, a partire dal Settecento, nel campo della metallurgia, della chimica, delle attività minerarie, dell’industria tessile e della carta, delle attività agricole e alimentari, praticamente dovunque.

Prendiamo il processo inventato dello sfortunato (morì suicida) chimico francese Nicholas Leblanc (1742-1806) per la fabbricazione del carbonato di sodio artificiale, in alternativa a quello ricavato dalle ceneri di alghe e di piante; esso consisteva, come è ben noto, nel trattamento del cloruro di sodio con acido solforico e nella scomposizione del solfato di sodio per reazione con calcare e carbone ad alta temperatura. La lisciviazione della miscela risultante e la successiva concentrazione del liquido così ottenuto fornivano carbonato di sodio con 10 molecole di acqua di cristallizzazione. Il primo passaggio del processo liberava acido cloridrico che dapprima veniva immesso nell’atmosfera e il secondo lasciava come residuo fangoso del solfuro di calcio che all’aria si decomponeva liberando l’inquinante e nocivo idrogeno solforato. https://www.academia.edu/20040414/Il_peggiore_di_tutti

220px-NicholasLeblanc

350px-Leblanc_process_fluxogramLa produzione del carbonato di sodio col processo Leblanc ha dato vita alle prime proteste contro l’inquinamento atmosferico industriale da parte sia degli agricoltori, sia degli abitanti delle zone vicino alle fabbriche. In Inghilterra la protesta è finita in Parlamento ed ha indotto il governo a emanare le prime leggi antinquinamento, l’Alkali Act del 1863. Gli industriali dapprima raccolsero l’acido cloridrico in acqua, scaricando poi le acque acide nei fiumi. L’Alkali Act del 1874 li spinse ad adottare dei metodi di trattamento dell’acido cloridrico. Negli anni 1869-1870 il chimico inglese Walter Weldon (1832-1885) aveva inventato un ingegnoso processo basato sulla reazione dell’acido cloridrico con biossido di manganese; si formavano cloro e cloruro di manganese che poteva essere rigenerato per reazione con calce e aria, col che si completava il recupero del cloro.

Il processo Weldon si può considerare il primo importante esempio di economia circolare e il cloro si può considerare la prima merce ottenuta dai rifiuti. Il cloro trovò ben presto impiego nel campo della depurazione delle acque usate e nella sbianca dei tessuti e della carta, fino ad iniziare un controverso cammino nel campo della chimica organica.

Un secondo caso di economia circolare si ebbe con i processi di lotta all’inquinamento dovuto all’idrogeno solforato liberato dalla scomposizione all’aria dei fanghi di solfuro di calcio. Agli inizi dell’Ottocento l’acido solforico, la materia prima per il processo Leblanc, diffuso in Francia e Inghilterra, era ottenuto partendo dallo zolfo importato dalla Sicilia che ne deteneva praticamente il monopolio.

Il prezzo dello zolfo siciliano subiva bizzarri aumenti, per l’avidità e la miopia sia dei proprietari delle miniere sia del governo del Regno delle Due Sicilie che applicava un pesante dazio sulle esportazioni, con grave disturbo per gli importatori inglesi. Come reazione il potente James Muspratt (1783-1886), che aveva cominciato a produrre la soda col processo Leblanc nel 1823, l’anno in cui il governo inglese aveva eliminato l’imposta sul sale industriale, a partire dal 1834-35 acquistò in Spagna delle miniere di piriti; per arrostimento delle piriti si otteneva anidride solforosa da ossidare poi ad acido solforico nel processo delle camere di piombo. Intanto il chimico Carl Claus (1827-1900), nato in Germania ma immigrato in Inghilterra nel 1882, aveva inventato un processo per trasformare l’idrogeno solforato in zolfo, originariamente per la depurazione del gas illuminante. L’ingegnoso processo consisteva nell’ossidazione di parte dell’idrogeno solforato con ossigeno e nel successivo trattamento dell’anidride solforosa così formata con il restante idrogeno solforato in modo da ottenere zolfo (brevetti inglesi numero 3608 del 1882 e 5958 nel 1883).

Di recente due bravi studiosi tedeschi, Ralf Steudel e Lorraine West, hanno raccontato la storia di questo personaggio e della sua scoperta:

https://www.researchgate.net/publication/270958109_Vita_of_Carl_Friedrich_Claus_inventor_of_the_Claus_Process

Claus_Sulfur_RecoveryClaus descrisse il suo processo nel Journal of the Society of Chemical Industry del 29 aprile 1883.

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Alexander Macomb Chance 1844-1917

Dopo aver letto questo articolo Alexander Chance (1844-1917) volle visitare l’officina in cui era utilizzato, ne ottenne la licenza nel 1883 e si dedicò a perfezionarlo e ad applicarlo all’idrogeno solforato liberato dal solfuro di calcio. Tali perfezionamenti sono descritti nel brevetto inglese numero 8666 del 1887, “Improvements in treating alkali waste to obtain sulphuretted hydrogen and in apparatus employed therein”, che può essere consultato in:

http://discovery.nationalarchives.gov.uk/details/rd/598359c8-6c79-411f-8be6-4b4f84a46db2. Il processo fu descritto da Chance anche in un articolo pubblicato nel Journal of the Society of Chemical Industry del 1888, l’anno in cui fu applicato industrialmente. Il processo è più complicato di quanto si possa dire in poche sbrigative parole, come mostra il seguente articolo:

http://www.topsoe.com/sites/default/files/clark.pdf

Il processo di recupero dello zolfo dal solfuro di calcio del processo Leblanc ebbe successo sia per le pressioni delle norme contro l’inquinamento da idrogeno solforato delle discariche dei fanghi, sia per l’aumento del prezzo non solo dello zolfo siciliano ma anche delle piriti spagnole.

Con i processi Weldon e Claus-Chance fu possibile migliorare il ciclo del processo Leblanc che riuscì a sopravvivere per un’altra ventina di anni prima di essere definitivamente soppiantato dal processo di produzione del carbonato di sodio anidro per trattamento con ammoniaca, inventato dai fratelli Ernest e Alfred Solvay nel 1861 ma applicato con successo soltanto alla fine dell’Ottocento.

Il processo Claus-Chance ebbe gravi conseguenze sull’economia siciliana; nonostante l’invenzione, nel 1880, dei forni inventati da Roberto Gill che permettevano il recupero di parte dell’anidride solforosa inquinante liberata dai calcaroni e miglioravano la resa di zolfo dal minerale (altro esempio di economia circolare), lo zolfo siciliano fu definitivamente messo in crisi delle importazioni in Europa dello zolfo nativo ottenuto negli Stati Uniti col processo Frasch. Qualche notizia su questa interessante pagina della storia economica nel blog:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/10/24/storia-moderna-dello-zolfo/.

Le miniere siciliane sopravvissero malamente fino alla seconda guerra mondiale grazie alle protezioni governative e poi fasciste; sulle “infernali”, come le descrisse l’americano Booker T.Washington nel 1910, condizioni di lavoro in tali miniere si può vedere il bel blog di Icardi: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/10/14/questanno-sono-zolfo/

Claus ottenne anche un brevetto tedesco numero 23763 del 1883 (riprodotto nel lavoro citato di Steudel e West), per un processo per eliminare l’anidride carbonica dal gas illuminante per assorbimento con ammoniaca, variante di un pezzo del processo Solvay. Il processo Claus continuò ad essere utilizzato ogni volta che si trattava di recuperare zolfo da solfuri ma ebbe una vigorosa resurrezione “grazie” all’ecologia. Molti petroli contengono composti solforati che in parte finivano nei prodotti raffinati ed erano fonte di inquinamento atmosferico e di piogge acide. I governi sono stati costretti così a emanare leggi che stabilivano dei limiti massimi dello zolfo nei prodotti raffinati e gli industriali sono stati costretti a eliminare i gas solforati e hanno trovato conveniente almeno recuperare dello zolfo da vendere. Il processo Claus ha avuto ancora più successo quando si è trattato di eliminare l’idrogeno solforato dai gas naturali acidi e così anche gli impianti di estrazione del gas naturale sono affiancati da fabbriche di zolfo molto puro e a basso prezzo.

Questa applicazione del processo Claus ha portato alla crisi dell’estrazione dello zolfo da giacimenti di zolfo nativo e anzi ad un eccesso (milioni di tonnellate all’anno) di zolfo invenduto per cui gli imprenditori cercano qualche sbocco commerciale. Qualcuno ha qualche idea ?

(Nota del blogmaster: incredibilmente non c’è una foto di Carl Claus in tutto il web; qualcuno ne conosce una? Attenzione alle omonimie. Non c’è nemmeno nella sua biografia scritta da Steudel https://www.researchgate.net/publication/280730168_The_Life_of_Carl_Friedrich_Claus_A_German-British_Success_Story)

Quest’anno sono zolfo!

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

Continuiamo la serie di post sugli elementi con il medesimo numero atomico dell’età di chi ne parla, da un’idea di Gianfranco Scorrano.

a cura di Mauro Icardi

A mia figlia Alessia.

L’idea di parlare di elementi della tavola periodica collegando il numero atomico con l’età di una persona è estremamente stimolante. Sedici sono gli anni che mia figlia ha compiuto lo scorso mese di Luglio. Sedici il numero atomico dello zolfo. Mia figlia Alessia ha gradito ed apprezzato l’iniziativa e la dedica di questo articolo.zolfo

Lo zolfo però ricorda atmosfere sataniche. Da sempre nell’immaginario collettivo quando si parla di diavolo lo si associa all’odore dello zolfo che il tetro signore degli inferi lascerebbe come traccia del suo passaggio. Lo zolfo richiama alla mente quella splendida ed affascinante isola che è la Sicilia. Ricordi che nel mio caso si legano a vecchi film in bianco e nero dove le solfare siciliane sono parte dell’intreccio narrativo. Film quali “Il cammino della speranza” e “In nome della legge” entrambi diretti da Pietro Germi. Nel primo film alcuni minatori siciliani si barricano all’interno di una solfara per cercare di impedirne la chiusura. Ma sono costretti ad interrompere la loro lotta per non morire asfissiati. Riportati in superficie si troveranno costretti ad emigrare venendo ingannati da un personaggio soprannominato “Ciccio Ingaggiatore” che si offre di portarli in Francia per trovare lavoro, ma li abbandonerà appena saranno arrivati in treno a Roma. Importante la collocazione temporale. Per le leggi del tempo (il film è ambientato nei primi anni del secondo dopoguerra) questi spostamenti erano proibiti. Quindi i minatori siciliani dovranno muoversi in clandestinità. L’ingaggiatore pretende 20.000 lire del tempo a persona per accompagnarli fino al confine francese. Per entrare in Francia dovranno  percorrere sentieri alpini per evitare le guardie di confine. Per pagarsi il viaggio dovranno vendere i pochi mobili che possiedono. Dopo molte peripezie solo alcuni di essi riusciranno a raggiungere la Francia, la loro terra promessa. Un film che dovrebbe farci riflettere guardando oggi i tanti migranti che vediamo intraprendere lo stesso cammino della speranza diretti in Europa. Nel secondo film la solfara è soltanto evocata, ma anche qui c’è un eco delle tensioni sociali del tempo. Un giovane pretore interpretato da Massimo Girotti inviato in un piccolo paese dell’entroterra siciliano si scontrerà non solo con la mafia, ma anche con un notabile del luogo il barone lo Vasto che è intenzionato a chiudere una solfara. Quasi sul punto di rinunciare all’incarico come il già ha fatto il suo predecessore per il clima di omertà ed ostilità che lo circonda, sceglierà di rimanere al suo posto dopo l’uccisione di un giovane ragazzo: Paolino l’unico in tutto il paese che gli era stato amico e non gli aveva mostrato avversione e ostilità.

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Sappiamo che lo zolfo è molto abbondante, sappiamo che è un componente essenziale di due aminoacidi, la cisteina e la metionina e quindi presente in molte proteine. L’etimologia della parola zolfo rimanda a tempi antichi. Citato nella storia biblica della genesi probabilmente deve il suo nome alla parola araba sufra che significa giallo.

Utilizzato per la produzione di acido solforico il cui consumo per molto tempo è stato visto come l’indice dell’industrializzazione di uno stato.

Fu proprio la produzione dell’acido solforico a dare un grande impulso allo sfruttamento dei giacimenti di zolfo presenti in buona parte della Sicilia, insieme alla produzione di soda con il metodo Leblanc.

Nel 1830 dalla Sicilia vennero esportate circa 35.000 tonnellate di zolfo destinate alle fabbriche di Marsiglia. Ma la concorrenza delle piriti e la messa a punto del metodo Solvay per la produzione della soda provocarono la crisi dello zolfo siciliano. Che veniva anche penalizzato per il maggior costo di trasporto rispetto alle piriti estratte nel centro Italia data la carenza di infrastrutture dell’isola.

A rilanciare lo zolfo siciliano sarà una malattia delle piante, l’Oidio un fungo parassita che devastò i vigneti di tutta Europa. La soluzione per prevenirne la diffusione fu irrorare i vigneti con zolfo in polvere. Questo mi riporta ai ricordi dell’infanzia, quando curiosavo a casa dei tanti parenti viticoltori, dai nonni agli zii che vivevano e continuano a vivere nel basso Monferrato nella zona di Acqui Terme. Insieme alla soluzione blu di solfato di rame ero incuriosito dalla polvere di zolfo che usciva dal soffietto della solforatrice a spalla. Peronospora e oidio combattuti con solfato di rame e zolfo. Anche da queste cose nacque la mia curiosità per la chimica. Ma era la curiosità tout court a portarmi a scovare vecchie solforatrici a soffietto che trovavo nelle soffitte o nei porticati, insieme a tanti altri attrezzi agricoli del passato. E questi sono davvero ricordi velati di una dolce nostalgia.

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Tornando alla zolfo e alla Sicilia non credo si debba dimenticare di parlare delle terribili condizioni di lavoro, al limite del disumano in cui erano costretti a lavorare i minatori. Spesso nudi per resistere al calore all’interno delle miniere in una imbarazzante promiscuità, nè dei tanti bambini (i carusi) che lavoravano insieme agli adulti praticamente dall’alba al tramonto.

In una bellissima novella di Pirandello intitolata “Ciaula scopre la luna” il protagonista è proprio un caruso che lavora e vive praticamente sempre all’interno della miniera. Una sera uscito all’aperto guarda in alto e vede la luna in cielo per la prima volta. E ne rimane talmente estasiato da scoppiare a piangere.

Questa la bellissima parte finale della novella:

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Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

Nel 1894 viene sviluppato il metodo Frasch che utilizza acqua e vapore per emulsionare lo zolfo e spingerlo in superfice tramite elevata pressione. In pratica un pozzo non di petrolio ma di zolfo. Questa tecnica che riduce drasticamente i costi di estrazione condanna pian piano alla definitiva chiusura le miniere siciliane.

A partire dal 1975 varie leggi hanno portato alla chiusura delle miniere siciliane. Oggi non ne rimane nessuna in attività. Rimangono disseminate nel territorio siciliano. Una grande rete che rappresenta un museo unico di archeologia industriale e di storia di vita dei minatori. E anche dello zolfo.

Storia moderna dello zolfo.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia (nebbiaquipo.it)

Accompagnatemi un po’ indietro nel tempo, all’alba della rivoluzione industriale chimica, alla fine del Settecento. In quel tempo per lavare i panni e per produrre il vetro occorreva il carbonato sodico, la “soda”, che si poteva ottenere o da alcuni laghi salati dell’Egitto, o dalle ceneri di alcune piante che crescevano sulle rive del mare. Si trattava quindi di una materia scomoda e costosa per un mondo industriale che stava espandendosi rapidamente. Nei primi anni della rivoluzione francese il medico Nicolas Leblanc (1742-1806) inventò un processo con il quale si poteva ottenere la soda facendo reagire insieme sale, acido solforico e carbone. Costruì anche una fabbrica, col finanziamento di Filippo Egalité (1747-1783), il nobile rivoluzionario a cui la rivoluzione tagliò la testa, con conseguente fallimento della ditta del povero Leblanc che si suicidò. Il suo metodo sopravvisse e si diffuse in tutti i paesi industriali con successo.

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Nicholas Leblanc

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Schema del processo Leblanc

Il processo presentava due difficoltà: richiedeva acido solforico che allora si produceva dallo zolfo che veniva estratto, nel mondo, soltanto dalle miniere della Sicilia. I padroni delle miniere, grandi latifondisti privi di mentalità industriale, si preoccupavano soltanto di ricavare il massimo profitto vendendo ad alto prezzo lo zolfo che veniva estratto sfruttando in modo disumano il lavoro, anche dei bambini; lo stesso recupero dello zolfo dal minerale comportava una perdita di circa la metà dello zolfo, usato come combustibile per la fusione dello zolfo rimanente. Solo più tardi l’ingegner Gill introdusse un sistema per recuperare parte del calore di combustione dello zolfo e aumentare la resa in zolfo vendibile.

Per sfuggire all’esosità dei produttori siciliani gli industriali inglese cominciarono ad utilizzare le piriti spagnole come fonte di zolfo, ma restava il secondo inconveniente: nel processo di fabbricazione della soda, tutto lo zolfo del costoso acido solforico, prodotto sia dallo zolfo sia dalle piriti, finiva in un residuo fangoso molto puzzolente di solfuro di calcio che veniva lasciato in discariche all’aria aperta. I contadini e gli abitanti dei paesi vicino alle fabbriche cominciarono a lamentarsi e a chiedere delle leggi che impedissero agli industriali di avvelenare l’aria con l’idrogeno solforato di queste discariche.

Naturalmente gli industriali per anni si opposero perché qualsiasi norma avrebbe fatto aumentare i costi di produzione e diminuire i loro profitti, ma alla fine il governo inglese emanò una legge contro l’inquinamento, l’Alkali Act. Gli industriali inglesi, per limitare l’inquinamento dell’aria cercarono di “riciclare” il rifiuto sgradevole, il solfuro di calcio, per recuperare lo zolfo che esso conteneva.

La soluzione fu offerta da due tecnici, Alexander Chance (1844-1917) e Carl Claus, che misero a punto un processo per trasformare il solfuro di calcio in zolfo, la stessa materia che veniva importata dalle miniere siciliane; con lo zolfo era possibile produrre di nuovo quell’acido solforico che occorreva per produrre la soda e fu questo il primo esempio di guadagni ottenuti inquinando di meno e riciclando sottoprodotti, secondo il principio che l’ambiente pulito è anche fonte di profitti.

Interguglielmi,_Eugenio_(1850-1911)_-_Sicilia_-_Carusi_all’imbocco_di_un_pozzo_della_zolfara,_1899

I “carusi”, ragazzzi siciliani che lavoravano nelle miniere (1899)

Nello stesso tempo diminuì la richiesta di zolfo e i proprietari delle miniere siciliane dovettero affrontare una dura crisi che fu pagata in gran parte dai poveri minatori che persero il posto e la cui miseria aumentò ulteriormente in quegli ultimi anni del dominio borbonico, prima dell’annessione della Sicilia al regno d’Italia nel 1860. Anche questa parte della storia può insegnare qualcosa: quando un gruppo di potere economico possiede una materia prima o una risorsa naturale o una tecnologia in condizioni di monopolio, non si illuda che questa condizione di privilegio duri a lungo e non ne approfitti, perché i clienti prima o poi cercano qualche alternativa o perché la materia, prima o poi, finisce e, dopo un picco, la produzione declina e scompare. E uno. Le miniere di zolfo siciliano sopravvissero per alcuni anni con protezioni statali, ma alla fine chiusero.

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Intanto, alla fine dell’Ottocento alcuni scoprirono che nel sottosuolo della Lousiana, uno degli stati meridionali degli Stati uniti, esistevano grandi giacimenti di zolfo purissimo che poteva essere portato in superficie con un ingegnoso processo inventato da un ingegnere americano, Herman Frasch (1851-1914): per parte del Novecento lo zolfo usato dall’industria chimica è stato ottenuto con questo processo, negli Stati Uniti, in Polonia e altrove. A poco a poco i giacimenti si impoverirono e la produzione di zolfo Frasch, dopo aver raggiunto un picco, è declinato fin quasi a scomparire. E due.

Nella metà del Novecento altre norme antiinquinamento hanno imposto di eliminare lo zolfo dai prodotti petroliferi e dal gas naturale. E’ stato allora resuscitato il processo Claus, prima ricordato, che consente di trasformare l’idrogeno solforato dei gas naturali “acidi” o i composti solforati dei prodotti petroliferi in zolfo commerciale di recupero. Lo zolfo di recupero è diventato la principale materia prima per l’industria chimica, al fianco di quello ancora recuperato dalla metallurgia dei solfuri. La produzione mondiale annua di zolfo è oggi intorno a 60 milioni di tonnellate all’anno; l’instancabile Cina nel 2012 ha superato con 11 milioni di tonnellate all’anno, la produzione di zolfo degli Stati Uniti.

Ma siccome la tecnica e l’economia hanno strani cicli, adesso di zolfo ce n’è troppo nel mondo, molto di più di quanto possa essere venduto, e lo zolfo in eccesso viene a rappresentare un nuovo problema ambientale: come ci si può liberare di esso, dove lo si può nascondere, è possibile utilizzarlo per qualche altra cosa, oltre alla produzione dell’acido solforico e agli altri usi consolidati ?

produzione mondiale zolfo

E’ ironico che appena un secolo e mezzo fa l’Inghilterra mandasse la flotta militare al largo di Palermo per costringere i produttori di zolfo siciliani ad abbassare i prezzi, e adesso non si come dove mettere lo zolfo. Ultima modesta osservazione: economia, ecologia e tecnologia sono talmente intrecciate e velocemente mutevoli che il successo economico dipende in gran parte dalla capacità di prevedere le innovazioni tecnico-scientifiche…….e anche dalla conoscenza della storia.