Rileggendo “Il grande bisogno” di Rose George

Mauro Icardi

Non sono molti i saggi che parlano di depurazione delle acque reflue. Il tema è ovviamente molto approfondito nei testi universitari, o più in generale scolastici.

Questo libro  che ormai è forse introvabile, essendo stato pubblicato in Italia nel 2010, è forse l’unico che descrive con i toni del romanzo alcune realtà di cui sentiamo spesso parlare, ma non riusciamo a visualizzare con chiarezza.

Il Grande Bisogno, Bompiani 2010

La ragione è semplice. Siamo intorpiditi dall’abitudine. Assuefatti dalle comodità raggiunte e ritenute indispensabili.  Nei paesi occidentali la toilette è considerata una comodità irrinunciabile, oltre a un luogo tabù che ripara la nostra intimità da sguardi indiscreti.  A livello mondiale però non per tutti valgono le stesse regole. E in passato anche in Italia la situazione era molto diversa da quella di oggi.

Il censimento del 1931 in Italia rivelava che nei capoluoghi, su cento appartamenti, ottantotto non disponevano di un luogo appartato per avere intimità durante le funzioni fisiologiche e l’igiene personale.

In Italia tutto è cambiato in maniera velocissima dal secondo dopoguerra, durante il periodo che è stato chiamato miracolo economico italiano. Oggi in Italia per quanto riguarda le dotazioni di base, il 99,34% delle abitazioni dispone di un accesso privato ai servizi igienici interni con scarico, una percentuale superiore alla media dell’area dell’OCSE che è pari al 95,6%. E’ leggermente inferiore la percentuale in dati assoluti dei comuni serviti da impianti di depurazione che è pari al 95,7%.

Numeri incoraggianti, nonostante vi siano ancora quaranta comuni sprovvisti di servizio di fognatura, e più di un milione e mezzo di cittadini italiani risiedano in comuni privi di servizio di depurazione. I dati provengono dall’ultimo censimento delle acque reflue pubblicato dall’Istat  il 10 Dicembre del 2020,che ha elaborato i dati a tutto il 2018.

Non credo che molti conoscano la filiera di trattamento dell’acqua, che si fidino della sua qualità, che rinuncino a bere acqua in bottiglia. In Italia sempre da dati Istat nel 63% delle famiglie vi è almeno un membro che beve almeno un litro di acqua minerale al giorno.

Ho sempre pensato che ognuno sia ovviamente libero di scegliere come e cosa consumare, e allo stesso tempo mi sono molto spesso domandato che cosa portasse molte persone a preferire acqua in bottiglia.

Probabilmente ci sono paure, legate alle possibili contaminazioni che si ritiene possano esserci nelle acque destinate all’uso potabile. E che un martellamento pubblicitario incessante ci induca in qualche modo all’acquisto di acqua in bottiglia. Acqua che è trasportata su autocarri, che attraversano da un capo all’altro la penisola, contenuta di solito in bottiglie di plastica.

Mi chiedo anche quale sia il nostro rapporto con l’altra acqua, quella che scaricata dai nostri servizi igienici, finisce negli impianti di trattamento. Acqua reflua che per essere resa idonea a essere restituita ai nostri fiumi e laghi deve subire una serie di trattamenti. Perché l’acqua che ci è arrivata in casa, si è arricchita di molte sostanze. Che una volta rimosse dall’acqua finiscono nei fanghi. In ossequio al fatto che il postulato fondamentale di Lavoisier ci rammenta che “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Un’acqua reflua urbana che arriva in un impianto può contenere molte tipologie d’inquinanti. Carta igienica, materiale fecale, urina, garze, residui di farmaci, di oli per il corpo, di prodotti di bellezza.

Spesso non si è consapevoli che anche le nostre azioni quotidiane hanno un impatto sull’ambiente. Per esempio le microplastiche sono contenute anche nelle creme esfolianti, e finiscono negli scarichi e successivamente nei fanghi.

Non sempre ci si fa caso, e la cosa è facilmente comprensibile. In fin dei conti quando l’acqua è stata scaricata, il suo destino non ci riguarda più. Le nostre comodità e il nostro benessere sono salvaguardate.

In Cina per prevenire questo tipo di inquinamento si stanno sperimentando wc che separano azoto e fosforo dalle urine, prima che finiscano in fognatura.

Se si legge, (o si rilegge come ho fatto io) il libro della George si possono fare delle riflessioni che ci ricordano che vivere nella parte ricca del mondo ci concede una vita che persone meno fortunate possono solo sognare.  Non siamo costretti a fare decine di chilometri a piedi per rifornirci di acqua potabile.               Non rischiamo di contrarre malattie dovute alla contaminazione oro fecale dell’acqua.

Non serve a nulla pensare che migliorare le condizioni igieniche sia un problema esclusivo dei paesi poveri.

Nei paesi ricchi in pratica quasi nessuno muore per problemi legati all’ingestione di acqua inquinata (anche se la vicenda legata ai PFAS ha ridimensionato questa sicurezza).

Tuttavia le malattie dei paesi poveri oggi viaggiano grazie ai voli internazionali.

Io penso che il primo passo che occorre fare per pensare di risolvere i problemi ambientali, sia iniziare a sostituire la parola “io”, con la parola  “noi”.

E’ questo richiede un grande sforzo di cambiamento, che riguarda ogni persona di questo pianeta.

7 pensieri su “Rileggendo “Il grande bisogno” di Rose George

  1. Caro Mauro,
    il passaggio dall’ “io” al “noi” che tu auspichi, più che a tutti noi andrebbe concretizzato dalle nostre (di tutti i paesi) classi dirigenti. Ho la triste impressione, confermata da tante evidenze, che per tutte o quasi queste persone (politici, industriali, intellettuali e privilegiati di tutti i generi) la scelta sia invece fra “noi” (tutti noi normali), a cui spetta pagare i prezzi delle transizioni e ridurre le proprie aspettative, e “loro” (tutti privilegiati) a cui invece spetta di aumentare se non mantenere i loro privilegi. Tanto per “loro” (così credono) ci sarà sempre il benessere, ottenuto imponendo le loro regole, anche “democraticamente” con il lavaggio dei cervelli dei mass media.
    Non hanno mai studiato la storia del tracollo ecologico di una comunità chiusa (come, in fondo, è a livello planetario la nostra astronave Terra) come quella dell’ Isola di Pasqua: quasi nessuno ne uscì vivo, da un sistema senza condivisione.

    • Stefano concordo con quanto scrivi. E situazioni di questo genere furono usuali anche in passato, nel periodo della rivoluzione industriale. Restando nel mio settore, solo i ricchi si potevano permettere l’acqua corrente in casa, e quindi una possibilità di confort e igiene. E risalgono ad allora le prime diatribe relative alla gestione dell’acqua che i privati in Inghilterra gestivano fin dal 1830. Il solo profitto, lo sappiamo da sempre non si cura dei beni comuni. Oggi le democrazie sottostanno al sistema liberista. Forse i ricchi pensano di chiudersi nelle loro belle case, ma abitano pur sempre “l’astronave terra”. Il loro potrebbe essere un falso senso di sicurezza. Io avverto un gran bisogno di risveglio da parte della società civile. Che vedo più attenta al materialismo, piuttosto che a prese di posizione sui temi ambientali ed etici. Fornendo possibilità in più ai benestanti.

  2. concordo sul fatto che nessuno può tirarsi indietro. Invito Stefano Antoniutti a rivedere la storia dell’Isola di Pasqua considerando anche il cap. 6 di “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” di Rutger Bregman (Feltrinelli 2020). Forse l’isola non era un sistema così chiuso e la storia non è mai così semplice e definitiva.

  3. Grazie Mauro, non stanchiamoci mai di offrire argomenti razionali come tu fai da sempre con tenacia. Io utilizzo molto di quanto tu dici da anni in ogni attività di divulgazione.

  4. Ringrazio Paolo per il suggerimento di lettura.

    La storia dell’ Isola di Pasqua è oggettivamente enigmatica, mancando memorie scritte ed orali (affidabili) sulle sue vicende. Ho letto negli anni molti tentativi di ricostruzione “scientifica” dei fatti che la hanno portata, al tenpo della sua scoperta, ad essere semispopolata di uomini ma ricca di testimonianze archeologiche (i Moai) non meno enigmatiche.

    L’ultima delle versioni che ho letto è quella di Jared Diamond in “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere” del 2005 (ma che ho letto qualche anno dopo). Forse non conosceremo mai la verità, ma certo non è stato un caso di una società umana di successo…nè di sostenibilità.

    In generale, lo studio delle società Polinesiane, con il suo mix di condizioni geografiche/climatiche/geologiche/botanico-zoologiche ma soprattutto sociali e culturali è di estremo interesse. Spesso son state dei veri esperimenti di sistemi sociali che, ad opera solo della natura umana, han reso quelli che sembravano ai viaggiatori sette/ottocenteschi dei giardini dell’Eden dei veri inferni in terra per chi li abitava.

  5. Concordo col fatto che la teoria dell’ecocidio per spiegare la storia dell’Isola di Pasqua è una semplificazione e probabilmente contiene errori notevoli; si dimenticano il ruolo del ratto (importato dall’uomo) e il ruolo del cibo dalla pesca (esempio di resilienza) ; a questo proposito segnalo l’articolo https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/ajpa.23273 che parla dell’analisi degli isotopi di azoto dalle ossa dei sepolti storici e dai residui vegetali ; aggiungo anche che è pur vero che quando arrivarono gli occidentali l’isola aveva solo 2-3mila abitanti ma DOPO arrivò ad averne poco più di 100 a causa delle molteplici pressioni compreso lo schiavismo a cui furono sottoposti fino ad epoche recentissime dall’azione “civlizzatrice”.

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