Quando la fogna uccide.

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Mauro Icardi

Quanto accaduto a Casteldaccia in provincia di Palermo, dove cinque operai sono morti, e un altro versa in gravissime condizioni per avere respirato gas sviluppatosi in una stazione di sollevamento di acque fognarie, mi lascia addolorato ed allo stesso tempo stupito.

In Italia purtroppo si continua a morire sul lavoro, cosa che non è non è più accettabile, e questo è il primo commento che mi sento di fare, e che deve precedere tutti quelli che seguiranno.

Al momento sto cercando di capire cosa abbia potuto provocare quella che si può definire una strage.

Quando si parla di acque reflue In linea generale, tuttavia, è possibile affermare che l’atmosfera – all’interno di una fognatura, una fossa biologica o altro ambiente confinato – diventa pericolosa a causa della:

• presenza di asfissianti semplici (es. azoto, anidride carbonica, freon) fisiologicamente inerti, ma pericolosi perché riducono la concentrazione di ossigeno;

• presenza di asfissianti chimici (es. monossido di carbonio) che limitano il trasporto dell’ossigeno nel sangue;

• presenza di asfissianti chimici (es. acido cianidrico, acido solfidrico) che limitano l’utilizzazione dell’ossigeno a livello cellulare;

• presenza di altre sostanze pericolose.

Da quanto leggo nelle prime notizie di cronaca si parla di una vasca di sollevamento interrata, dove di norma l’acqua di fognatura non dovrebbe essere soggetta a fenomeni di anossia, e conseguentemente sviluppare composti quali monossido di carbonio, anidride carbonica o metano. Se si parla poi di anaerobiosi la condizione mi sembra ancor meno plausibile.

Leggo che il comandante provinciale dei vigili del fuoco afferma con sicurezza che si tratti di esalazioni di idrogeno solforato, e rimarca il fatto che non siano state prese le dovute precauzioni. Non ho elementi oggettivi di giudizio per smentirlo.

In ogni caso di esalazione di gas dalle fognature avevo già scritto nel 2017, quindi ripropongo il post. Li ci sono le considerazioni di base su come approcciare gli interventi di manutenzione delle reti fognarie

Chiudo con qualche mia considerazione finale. I lavori in spazi confinati sono regolamentati con apposite procedure. E’ sempre necessario aerare i pozzetti interrati delle reti fognarie, e prima di accedervi misurare con rilevatori di gas portatili le concentrazioni di eventuali inquinanti che possano ristagnare. Le reti fognarie devono essere frequentemente ripulite, e prevedere sifoni di ventilazione. Per quanto riguarda la questione dello sviluppo di acido solfidrico riporto integralmente quanto scrissi nel 2017.

L’idrogeno solforato è presente nelle fognature in equilibrio tra la forma indissociata (H2S) e la forma ione idrogenosolfuro (HS-) I due composti sono presenti al 50% a valori di pH prossimi alla neutralità (condizione che normalmente si verifica nell’acqua di fogna). L’idrogeno solforato è un gas che presenta una moderata solubilità, la quale naturalmente diminuisce al crescere della temperatura. Se quindi viene a verificarsi un abbassamento del pH o un aumento della temperatura, il gas può facilmente sfuggire, dando luogo a vari inconvenienti, dovuti soprattutto al suo cattivo odore e alla sua elevata tossicità.

L’idrogeno solforato ha una soglia di riconoscimento molto bassa, pari a 0,0047 ppm.  A questa concentrazione il 50% delle persone riconosce il suo caratteristico odore di uova marce.

Questo mi lascia perplesso: monossido di carbonio e anidride carbonica non hanno odore. L’acido solfidrico invece sì. Io ragiono da chimico. Da chimico modesto che ha sviluppato olfatto e precauzione. Leggo che a quanto sembra gli operai non si sarebbero protetti, e che non indossassero nessun tipo di maschera. E non me lo spiego.

Oggi dovrebbe essere il giorno del cordoglio, non dei processi sommari. Poi non nego che spesso si pecchi di superficialità, di pressapochismo. Che troppo spesso sia la fretta ad essere cattiva consigliera, che oggi in ogni settore si corra come forsennati. Trascurando il fattore umano

Non avendo ulteriori considerazioni da poter fare su questa vicenda, mi auguro che in Italia si faccia formazione, prevenzione del rischio, si eviti di lasciare al minimo le piante organiche degli ispettorati del lavoro. La percezione del rischio spesso viene dimenticata.  Ma questo non lo fanno solo gli operai, che troppo spesso sono sul banco degli imputati a prescindere. Lo fanno anche tutti coloro che durante ogni evento particolarmente piovoso rischiano di annegare nei sottopassi allagati. Lo fanno tutti coloro che vedo ogni giorno attraversare i binari, pur avendo un sottopassaggio distante due metri.

La chimica fognaria va insegnata agli operai che in quelle condotte ci dovranno lavorare, una, dieci, cento, mille volte. Va insegnata ai ragazzi delle scuole. Va insegnato il valore del lavoro, e il rispetto di chi ogni giorno esce di casa, e non è sicuro di ritornarci.

C’è davvero molto da cambiare nel mondo del lavoro. Dove l’individualismo ha sostituito la solidarietà di categoria. Non mi azzardo a parlare di solidarietà di classe. Sarebbe purtroppo inutile.

Epifanio, i due Giuseppe, Roberto e Ignazio sono gli ultimi caduti di questa nuova antologia di Spoon River.

Il mio pensiero va a loro e ai loro cari.

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Test ecotossicologici sui fanghi di depurazione.

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Mauro Icardi

Il tema del trattamento, recupero e smaltimento dei fanghi generati dai processi di depurazione delle acque reflue urbane è sempre di attualità.

E questo avviene sia per il notevole quantitativo di fanghi di depurazione prodotti, sia perché con i moderni trattamenti dei reflui (sviluppati e implementati per rispettare i limiti agli scarichi più restrittivi imposti dalle più recenti normative) il loro quantitativo è destinato ad aumentare ulteriormente, con conseguenti problemi per quanto riguarda lo stoccaggio e lo smaltimento dei fanghi stessi, senza trascurare i costi che tali attività comportano. Nella gestione operativa di un impianto di depurazione, i costi sostenuti per il trattamento e lo smaltimento dei fanghi possono incidere in percentuale variabile dal 50 al 65% .

Secondo l’ultimo rapporto ISPRA (ISPRA 2022), i fanghi di depurazione prodotti in ambito nazionale a seguito del trattamento delle acque reflue municipali nel 2020 sono stati pari a 3,4 milioni di tonnellate, delle quali il 53,5% viene avviato ad operazioni di smaltimento e il 44,1% a recupero.

Grazie al loro prezioso contenuto in carbonio organico, azoto, fosforo e micronutrienti, possono rappresentare un substrato ottimale per l‘agricoltura. Opportunità che sarebbe da sfruttare anche alla luce dell’incremento dei prezzi dei fertilizzanti sintetici. La normativa lo consente, previa verifica del contenuto di alcuni inquinanti. Tuttavia, la legislazione legata al riutilizzo dei fanghi in agricoltura, sia a livello europeo (Direttiva 86/278/ CEE) che italiano (D.lgs. 99/92), è ormai obsoleta.

Il dibattito sulla opportunità di una revisione delle norme è molto acceso: la presenza di sostanze indesiderate pone infatti in primo piano la necessità di una valutazione approfondita dei potenziali effetti negativi sull’ecosistema e sulla salute umana. Da quando, nel 1986, è stata emanata la direttiva UE sull’uso agricolo dei fanghi, sono stati sviluppati strumenti e metodi di analisi che permettono la valutazione della tossicità di molte matrici di scarto.

Il saggio ecotossicologico è un esperimento biologico atto a verificare se un campione ambientale, o un composto potenzialmente tossico, causa una risposta biologica rilevante negli organismi utilizzati per il test. In questo modo l’obiettivo diviene non più la semplice protezione dello stato di salute dell’individuo secondo i criteri igienico-sanitari (tossicologia classica), ma piuttosto la conservazione dell’integrità degli ecosistemi.

Solitamente, gli organismi utilizzati per i test sono esposti a differenti concentrazioni o dosi di una sostanza di prova o di un campione (acqua di scarico, rifiuto, fango di depurazione, suolo, sedimento fluviale o marino) diluiti in un mezzo opportuno. Per l’esecuzione dei test ecotossicologici vengono utilizzati diversi organismi appartenenti ai diversi livelli della catena alimentare: produttori, consumatori, decompositori, i semi di crescione, sorgo e cetriolo, il piccolo crostaceo d’acqua dolce Daphnia magna e i batteri bioluminescenti della specie Vibrio fischeri.

Di seguito una breve descrizione di due test ecotossicologici.

 Test di tossicità acuta con Daphnia magna. (un post dal simile soggetto lo pubblicammo anni fa)

Per questo test si utilizza un piccolo crostaceo della specie Daphnia magna , molto sensibile soprattutto all’inquinamento da metalli pesanti (piombo, cadmio, zinco, rame ecc.).
I neonati di meno di 24h vengono immessi nel campione da analizzare e dopo 24h o 48h si osserva la percentuale di individui morti/immobilizzati. I risultati possono essere espressi o come percentuale di individui morti/immobilizzati o come valore di EC50, cioè come concentrazione della sostanza tossica che determina la morte/immobilizzazione del 50% degli individui impiegati nel test. Il metodo applicato è l’APAT CNR IRSA 8020 Man 29 2003. Per questo tipo di test esistono in commercio appositi kit con colonie di crostacei da far schiudere.

Test di fitotossicità.

I semi di piante come il sorgo, il crescione ed il cetriolo vengono utilizzati per effettuare dei test di fitotossicità della durata di 4 giorni, sia su campioni di acqua che su sedimenti, fanghi di depuratori e compost. Le sostanze tossiche agiscono inibendo la germinazione dei semi e inibendo l’allungamento della radice. Il metodo applicato è l’UNICHIM 1651 (2003).

Per poter effettivamente essere certi della qualità dei fanghi potenzialmente utilizzabili per uso agronomico, questi test uniti alle usuali caratterizzazioni di tipo chimico, hanno un’importanza fondamentale nel raccogliere dati sui quali costruire nuovi protocolli operativi e gestionali per gli impianti di depurazione. Allo stesso tempo possono essere la spinta a emanare una normativa più attenta alle esigenze odierne, in particolare sul monitoraggio degli inquinanti emergenti nelle principali matrici: acque sia potabili che reflue, e fanghi residuali del trattamento delle acque reflue. Ci sono molti progetti di studio su questo tema. Alcuni già terminati, altri ancora in corso. Credo che la strada intrapresa vada ulteriormente percorsa con decisione, coinvolgendo tutti i soggetti interessati in prima battuta; ovvero enti di ricerca, autorità di controllo ambientale, gestori del ciclo idrico. Oltre a questi soggetti è necessario coinvolgere l’opinione pubblica, e le varie associazioni interessate (quelle ambientali e quelle degli agricoltori). L’informazione deve essere chiara per evitare il mai risolto problema dell’accettazione sociale di certe pratiche o tecnologie.

Credo debba essere chiaro a tutti, in maniera consapevole quello che ci ricorda il padre della chimica moderna, Antoine Laurent De Lavoisier.

 “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”

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Due storie su cui riflettere.

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Mauro Icardi

Le due storie che voglio raccontare potrebbero essere viste come storie che gettano ombre sulla chimica. Invece ci si accorge subito che, come per ogni altro disastro ambientale, sono storie che hanno come denominatore comune il profitto ricercato ad ogni costo; economizzando in maniera scellerata sulle più elementari misure di sicurezza e igiene del lavoro. Di queste brutte storie sentivo parlare quand’ero ragazzo, perché erano vicine anche geograficamente. Cengio non era poi così distante da Mombaruzzo, il paese dei nonni, e Ciriè era ancora più vicina a Settimo Torinese dove ho vissuto. Sono le storie dell’ACNA e dell’IPCA.

L’ACNA nasce nel 1882 e inizialmente si chiama Dinamitificio Barbieri. Nel 1891 la fabbrica diventa SIPE – Società Italiana Prodotti Esplodenti e ha un forte sviluppo. L’area della fabbrica occupa nel 1908 mezzo milione di m² con una produzione di 14.000 Kg al giorno di acido nitrico, 13.000 di oleum (acido solforico fumante) e 2.500 di tritolo. L’impatto sull’ambiente è da subito devastante. Già nel 1909 si arriva a dover vietare l’utilizzo di qualsiasi pozzo che si trovi a valle dello stabilimento. I comuni toccati da questa direttiva sono quelli di Saliceto, Camerana e Monesiglio.  Ma il numero di persone impiegate continua a crescere e negli anni della prima guerra mondiale sono 6000 le persone che vi lavorano. Dopo il primo conflitto mondiale lo stabilimento passa di mano altre due volte, rilevato prima da Italgas per essere riconvertito alla produzione di coloranti tessili insieme agli impianti di Rho e Cesano Maderno.

 Nel 1929 nasce ACNA – Aziende Chimiche Nazionali Associate ; ma nel 1931 la fabbrica passa in mano alla Montecatini e alla IG Farben mantenendo l’acronimo con un significato diverso: Azienda Coloranti Nazionali e Affini. Con le guerre in Abissinia e in Eritrea viene ripresa anche la produzione di esplosivi e gas tossici. Questi ultimi verranno usati anche contro le popolazioni civili e le tende della Croce Rossa, in completo spregio delle convenzioni internazionali che ne vietavano l’uso. Pagina non edificante della nostra storia; da sempre rimossa e di cui si parla poco, e quando se ne parla traspare più fastidio che imbarazzo o vergogna. Negli anni del secondo dopoguerra anche lo scrittore Beppe Fenoglio, nel racconto Un giorno di fuoco, scritto nel 1954 e pubblicato nello stesso anno nella rivista Paragone, descrive e denuncia il degrado ambientale che sarebbe divenuto ancora più grave negli anni a venire: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna.”

 I contadini della Val Bormida citeranno in giudizio la fabbrica già nel 1938, ma tutto finirà nel 1962 in una sconfitta legale. Ovvero oltre al danno la beffa: gli agricoltori saranno condannati al pagamento delle spese processuali. Ma intanto a fine anni 60 le acque del Bormida si tingevano di UN colore diverso ogni giorno. Nello stesso periodo viene chiuso l’acquedotto di Strevi, e il sindaco di Aqui Terme sporge una denuncia contro ignoti per l’avvelenamento delle acque destinate al consumo umano.

Nel 1974 viene iniziata un’azione penale contro 4 dirigenti dell’ACNA, che però verranno assolti 4 anni dopo. Il 1976 è l’anno in cui viene emanata la legge Merli e qualcosa finalmente si muove, non solo in Val Bormida ma anche nel resto d’Italia. Ma le cronache relative alla gestione dell’ACNA parlano di operazioni che hanno dell’incredibile: rifiuti stoccati illegalmente in buche nel terreno. Nel 2000 la Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti accerterà che una quantità di rifiuti dell’ACNA pari a 800 mila tonnellate è stata smaltita illegalmente nella discarica di Pianura, in provincia di Napoli. Bisognerà attendere il 1999 quando l’ACNA verrà chiusa dopo altre decine di proteste, blocchi stradali, l’interruzione di una tappa del Giro d’Italia nel 1988.

L’ACNA rientrerà nei siti di interesse nazionale per le bonifiche, e la bonifica stessa verrà dichiarata conclusa. L’investimento in totale ammonterà  di 51 milioni di euro.(1)

La seconda storia è quella dell’IPCA di Ciriè. Gli operai che vi lavoravano erano soprannominati “pisabrut”

Il nomignolo stava ad indicare un’urina brutta, perché chi lavorava in quella fabbrica si ritrovava inesorabilmente a urinare “rosso”. Tutto ciò era il preludio di una malattia che avrebbe portato alla inesorabile e dolorosa morte di 168 dipendenti.

La Società Anonima Industria Piemontese dei Coloranti all’Anilina (IPCA s.a.), fu fondata nel 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti; nei pressi di Cirié essi individuarono un’area adatta alla fabbricazione di coloranti all’anilina, un tipo di produzione fino a quel momento assente in Italia.

I successi commerciali dovuti alla concorrenzialità dei prodotti IPCA rispetto a quelli delle ditte estere, si ottennero riducendo in maniera considerevole i costi di produzione mediante un metodo di lavorazione obsoleto e altamente nocivo per gli addetti ai lavori.

Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizioni stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.

È così che veniva descritta l’IPCA di Ciriè, a metà dello scorso secolo.  La produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche la cui pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn.

Si racconta che un medico, che lavorava nella fabbrica e che doveva occuparsi della salute dei dipendenti, consigliava agli operai che urinavano rosso di bere meno vino e più latte. Nel 1972  due operai ex lavoratori dell’IPCA, Albino Stella e Benito Franza presentano una denuncia contro l’azienda.  Ecco alcune testimonianze scaturite durante il processo: “Gli operai usano tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi.”

 “Quelli che lavorano ai mulini dove vengono macinati i colori orinano della stessa tinta dei colori lavorati (blu, giallo, viola, ecc.) fin quando non si comincia ad orinare sangue“.

“Quando lavoravo lì, c’era un paio di guanti in tutto per sei persone addette. Mi sono bruciato parecchie volte e ho ancora le cicatrici sulle mani“.

“I colori e gli acidi che si sprigionano corrodono tutto, anche le putrelle del soffitto sono tutte corrose; figuriamoci i nostri polmoni, il nostro fegato, le nostre vie urinarie“.

“In tutta la fabbrica ci sono solo alcuni aspiratori collocati sopra i tini dove viene fatto cuocere il materiale, ma non aspirano tutto. Evitano soltanto che si muoia subito e ci permettono di morire con un po’ più di calma.”

 In seguito a questa vicenda e alle mutate condizioni di competitività commerciale, l’IPCA fallì e cessò definitivamente l’attività nell’agosto del 1982.

Queste sono due storie di cui leggevo il dipanarsi delle vicende sul quotidiano “La Stampa” che mio padre comprava tre volte alla settimana. Sentivo parlare e discutere parenti, amici, e conoscenti. Ho conosciuto anche ragazzi rimasti orfani, perché il loro papà ad un certo punto faceva la pipì “brutta”. E poi moriva.

Da queste storie si evince come non sia del tutto corretto additare la sola chimica come la responsabile di queste storie drammatiche e cariche di sofferenze.

Nei miei primi anni di lavoro ho visto, pesato, ricevuto e trattato i fusti di fanghi della Stoppani di Cogoleto c sui quali eseguivamo il trattamento di riduzione del Cr(VI)  contenuto nei fanghi a Cr(III).  Si lavorava indossando i DPI, eseguendo le visite periodiche e utilizzando cautela, prudenza e buon senso. In quegli anni ho percepito che poteva e doveva esserci un’altra chimica, la chimica che trova le soluzioni per la tutela ambientale. E mi domandavo come fosse stato possibile che un imprenditore, un dirigente, un funzionario potesse dormire la notte, sapendo i rischi a cui deliberatamente sottoponeva i lavoratori

E alla fine il ragionamento porta sempre alla stessa conclusione. È il profitto, la crescita incontrollata, l’incapacità di concepire un modo diverso di lavorare e di vivere, più che la chimica, la metallurgia o qualsiasi altra tecnologia o scienza a metterci nei guai. È la nostra superbia, la pretesa sciocca di poter disporre a piacimento del pianeta e delle risorse. E anche della vita di persone che avevano semplicemente la necessità di portare uno stipendio a casa. La chimica, sin dalle sue origini, si è sempre trovata al centro dell’attenzione, perché le sue ricadute pratiche si sono dimostrate di vitale importanza. E da sempre il difficile equilibrio tra i benefici e i rischi è al centro di un dibattito serrato. Il dibattito unitamente alla ricerca devono continuare. Ma potrebbero non bastare se il profitto rimane l’unica cosa che importa, che sovrasta ogni altra cosa. Anche la nostra umanità se il denaro finisce per diventare un fine ultimo, piuttosto che un mezzo di sostentamento. E queste purtroppo non sono le uniche storie, ma sono quelle che ricordo con un immutato senso di sgomento e tristezza.

  • Dato ricavato dal sito del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, sezione anagrafica dei siti contaminati.

La sindrome circolare del rasoio al supermercato.

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Mauro Icardi

La conferenza tenuta l’8 novembre 1972 dall’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) alla Yale University può essere considerata come l’atto di nascita della “bioeconomia”.

La conferenza faceva parte di una serie di incontri organizzati dalla storica università statunitense a seguito della pubblicazione, nel marzo dello stesso anno, di The Limits to Growth e del vivace dibattito che il libro aveva suscitato.

Per Georgescu-Roegen non era la limitatezza delle risorse planetarie, quanto la loro esauribilità, dovuta alla legge dell’entropia, “la più economica per sua natura tra le leggi naturali, che sfidava l’idea di una crescita economica continua.

Nel libro “Energia e miti economici” scritto dall’economista rumeno, e pubblicato da Bollati Boringheri nel 1982, si possono leggere gli otto punti di un programma bioeconomico minimale. È una lettura che consiglio, anche se il libro è purtroppo difficile da reperire, anche nei siti di libri usati, e in qualche caso i prezzi possono raggiungere cifre relativamente elevate.

L’ottavo punto del programma bioeconomico è quello che mi torna puntualmente in mente ogni volta che faccio la spesa, e devo acquistare quanto mi occorre per la rasatura quotidiana.

Riporto integralmente il testo: “ Ottavo, in completa armonia con i pensieri sopraelencati, dovremmo guarire da quella che ho chiamato “sindrome circolare del rasoio elettrico”, che consiste nel radersi più velocemente, in maniera da avere più tempo per lavorare ad un rasoio che permetta di radersi più rapidamente ancora, in maniera da avere ancora più tempo per progettare un rasoio ancora più veloce, e così via all’infinito. Questo cambiamento richiederà una buona dose di autocritica da parte di tutte quelle professioni che hanno allettato l’umanità a questo regresso infinito. Dobbiamo arrivare a capire che un requisito importante per una buona qualità di vita è una quantità sostanziosa di svago spesa in maniera intelligente”

Io non adopero il rasoio elettrico, ma prediligo la rasatura con le lamette. Ed è qui che si pone il problema, in quanto esiste certamente, secondo il mio modesto parere, anche una sindrome circolare della lametta da barba. O per meglio dire una profusione di lamette da barba spesso monouso, in altri casi con lama sostituibile.

Per approfondire il tema bisogna citare un altro personaggio: King Camp Gillette. Fu lui l’inventore del rasoio di sicurezza. Nato in una piccola cittadina del Wisconsin inizia a lavorare come commesso viaggiatore.

Nel 1894, Gillette ha 39 anni e non è soddisfatto della sua vita professionale. Decide, così, di tornare nella sua città natale e di lavorare come venditore nell’azienda Crown Cork & Seal Co. Il presidente è William Painter, l’inventore dei tappi di bottiglia a corona, che gli consiglia di inventare qualcosa che la gente usi e poi butti via. Gillette che detestava perdere tempo, e che, come molti altri suoi colleghi commessi viaggiatori dell’epoca, era solito radersi durante i viaggi in treno con un rasoio a mano libera, spesso chiamato “taglia gola,” inventa il rasoio di sicurezza. Una sottile lama di acciaio, montata ad angolo retto su un piccolo manico.

Figura 1 Disegno del brevetto del rasoio di Gillette

Oggi il rasoio di sicurezza con lametta è un oggetto oserei dire di modernariato. Negli scaffali dei supermercati esiste una miriade di rasoi usa e getta, che a partire dagli anni 70 lo stanno sostituendo quasi completamente. E col tempo è cresciuto il numero delle lame, dalla singola alla doppia per arrivare fino al considerevole numero di cinque lame.

Per questo tipo di prodotti colgo una singolare analogia con le pubblicità delle acque in bottiglia. Non nego che non è piacevole radersi con un rasoio con la lama non perfettamente affilata, ma oggettivamente non riesco a capire questa profusione di lame di ogni genere, tipologia e marca, a cui si aggiunge la difficoltà a reperire una semplice confezione di lamette da barba di ricambio per un rasoio di sicurezza.

Una lametta monouso ha come destinazione finale il rifiuto secco indifferenziato. Quelle con confezioni di lamette intercambiabili quantomeno conservano il manico, ma ogni tipologia ha il suo. Non sarebbe una cattiva idea utilizzare un manico universale per diverse tipologie di lamette intercambiabili.

Queste sono riflessioni che faccio ogni volta che sono al supermercato, una cosa a volte più forte di me. E mi rimane una curiosità che non potrò mai soddisfare, ovvero sapere cosa avrebbe detto Georgescu Roegen in un ipotetico incontro con mister Gillette, nello stile delle “Interviste impossibili”, programma radiofonico che mi piaceva e di cui non perdevo una puntata.

Forse è utopia ma sono convinto che le nostre scelte quotidiane potrebbero avere un impatto se solo fossimo maggiormente attenti e consapevoli. Io intanto proseguo la mia ricerca di lamette di ricambio per il rasoio di sicurezza. E in tutta la zona di Varese solo un supermercato, e uno storico negozio, che vende di tutto, compresi i famosi coltellini svizzeri multiuso, sono gli esercizi commerciali in cui posso trovarle.

Per essere consumatori consapevoli occorre molta pazienza e perseveranza.

Giornata mondiale dell’acqua: una modesta proposta

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Mauro Icardi

La giornata mondiale dell’acqua, come tutte le altre ricorrenze simili, corre il rischio di trasformarsi in qualcosa di didascalico. Forse di banalizzarsi.

Ho con l’acqua un rapporto particolare, che è iniziato sin da quando ero un bambino curioso che ci giocava, riempiendo e svuotando per interi pomeriggi bottigliette che avevano contenuto succo di frutta. Mia nonna teneva un mastello prima di zinco, poi dell’indistruttibile e diffusissimo moplen nel cortile. L’acqua che aveva faticosamente attinto con il secchio legato a una carrucola era a disposizione per le necessità più diverse. Dall’igiene personale, al lavaggio del bucato, all’irrigazione dell’orto. Probabilmente la manualità di laboratorio devo averla sviluppata proprio in quegli assolati pomeriggi.

In quegli anni ho imparato una prima, basilare lezione: non bisognava sprecare nemmeno una goccia d’acqua. Io infatti, riempivo le bottigliette versando poi l’acqua nuovamente nel mastello.

Forse può sembrare un gioco stupido, ma per esempio mi ha aiutato a comprendere e a percepire meglio le proprietà fisiche dell’acqua, come la viscosità. E via via tutte le altre che avrei poi studiato negli anni a venire.

Per conoscere e rispettare l’acqua, per festeggiare in maniera coerente la giornata mondiale che tutti gli anni le dedichiamo, io ho un suggerimento.

Riprendiamo in mano i libri scolastici, quelli divulgativi e rileggiamoli senza l’assillo degli esami universitari o dei compiti in classe.

Rileggiamo cosa sono e significano alcuni concetti: il calore latente di evaporazione, la legge di Raoult, la chimica delle soluzioni acquose. L’infinito potere solvente che il composto dalla formula più conosciuta al mondo ha nei confronti di un numero elevatissimo di molecole. Se si ha voglia di capire la meraviglia dell’acqua, questi sono solo alcuni degli stimoli e dei suggerimenti.

Quello che propongo non sono i deliri o i vaneggiamenti di un chimico di mezza età, o per brevità diversamente giovane. E’ un invito che a mio modo di vedere potrebbe avere alcuni benefici.

Risolverebbe le infinite diatribe familiari, o le discussioni sui social, su quando sia opportuno aggiungere il sale nell’acqua in cui stanno cuocendo gli spaghetti.

Eviterebbe di poter sentire gli strafalcioni di due persone che anni addietro, sedute in autobus dietro di me, sostenevano di avere ricevuto una esosa bolletta dell’acqua potabile. Nella quale a loro dire fossero stati contabilizzati troppi “metri quadri di acqua”.

Forse leggere di acqua potrebbe anche smuovere il senso di civico di accaldati cittadini che riempiono piscine con acqua potabile, nelle nostre estati sempre più afose e assolate. Quando magari viene emanata un’ordinanza che invita alla parsimonia e che vieta espressamente di utilizzare l’acqua per questa finalità.

Maggiore è la conoscenza, maggiore potrebbe essere la tutela di questo bene comune.

Affido a Talete la chiusura di questa mia modesta proposta augurando a tutti i lettori di questo blog una buona giornata dell’acqua.

“L’acqua è la sostanza da cui traggono origine tutte le cose; la sua scorrevolezza spiega anche i mutamenti delle cose stesse. Questa concezione deriva dalla constatazione che animali e piante si nutrono di umidità, che gli alimenti sono ricchi di succhi e che gli esseri viventi si disseccano dopo la morte.”

La chimica della discarica

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Mauro Icardi

Quasi tutto il mio percorso lavorativo e professionale si è svolto nel campo della protezione ambientale. Acque reflue e rifiuti hanno molte cose in comune, sia dal punto di vista delle tecniche gestionali, sia come rappresentazione dell’assuefazione ad un consumismo compulsivo. Sono forse i fenomeni che meglio rappresentano l’epoca che viviamo, ormai definita antropocene. Questa volta non voglio occuparmi di acqua ma di rifiuti.

Il percolato può essere definito come quel liquido che liscivia attraverso i rifiuti solidi. Si origina dal liquido che entra nella discariche da sorgenti esterne come la pioggia, l’acqua sotterranea, e il liquido prodotto dalla eventuale decomposizione dei rifiuti. Quando l’acqua percola attraverso i rifiuti solidi che si stanno decomponendo, sia il materiale biologico sia i costituenti chimici vengono lisciviati.

Il percolato che viene raccolto per essere trattato e poi smaltito non ha una composizione chimica costante, ma variabile in funzione delle tipologie di rifiuti che vengono conferiti nelle discariche, e dagli anni di funzionamento. Inizialmente nella massa dei rifiuti si innesca una fase aerobica di idrolisi di proteine e carboidrati, con formazione di CO2 che dissolvendosi in acqua rende il percolato debolmente acido, facilitando la dissoluzione di sostanze minerali. In questa fase il percolato presenta valori elevati di COD.

Quando tutto l’ossigeno è stato consumato inizia una fase di fermentazione acida instabile, sono coinvolte diverse specie di batteri che ossidano acidi grassi, zuccheri e aminoacidi. A partire dal glucosio si possono formare gli acidi organici acetico, butirrico e propionico che insieme alla CO2, la cui concentrazione continua ad aumentare, fanno abbassare il pH del percolato fino a valori compresi tra 5,5 e 6,5.

Una ulteriore stabilizzazione della fermentazione dei rifiuti avviene nella fase acida stabile, che precede quella in cui avviene la produzione di biogas, ovvero quando i batteri metanigeni trovano le condizioni ottimali (valori di pH compresi tra 6,5 e 7,5). Il percolato che si produce è stabilizzato, caratterizzato da bassi valori di BOD5 e rapporti BOD5/COD attorno a 0,1. Il pH aumenta assumendo valori prossimi alla neutralità (compresi tra 6 e 8), azoto ammoniacale, cloruri, solfati sono comunque presenti, i metalli tendono a precipitare.

Nella cosiddetta fase di maturazione, che in genere segue il periodo in cui non si conferiscono più rifiuti, il percolato ha una composizione nella quale sono presenti per la maggior parte acidi umici e fulvici difficilmente degradabili.

 Vorrei precisare che sto utilizzando il termine fermentazione, anziché quello di digestione anaerobica, per una mia personale deformazione professionale. Ovvero il processo di digestione anaerobica dei fanghi viene gestito e ottimizzato con il controllo dei parametri di processo durante il caricamento del digestore anaerobico. Nel caso di una discarica ci sono fasi diverse di lavorazione, quali il compattamento degli strati di rifiuti, la loro eventuale copertura, il controllo della tenuta dell’impermeabilizzazione del fondo.  

Il percolato ed il biogas che si originano vengono gestiti e captati con le migliori tecnologie, ma il termine digestione anaerobica io lo associo al trattamento dei fanghi di risulta, anche se dal punto di vista biochimico le reazioni sono le stesse. Nel caso dei fanghi il digestore anaerobico è un reattore vero proprio. Nel caso di una discarica vi è la gestione di un processo spontaneo di fermentazione della massa di rifiuti che sono conferiti, l’eventuale trattamento del percolato, o il suo conferimento a impianti di trattamento.

Nelle discariche si può effettuare un ricircolo del percolato (altra analogia con quanto avviene negli impianti di depurazione, ma con finalità completamente diverse, l’analogia è decisamente solo terminologica).Il ricircolo del percolato all’ interno della discarica viene operato per garantire un adeguato contenuto d’umidità dei rifiuti e così accelerare la velocità di degradazione.

Il percolato prodotto è, per utilizzare un termine discorsivo, un cliente difficile. Sia dal punto di vista analitico, per la complessità della matrice, sia dal punto di vista del trattamento. La sua variabilità di composizione nel tempo è il fattore principale che richiede quindi controlli e valutazioni appropriate.

In generale un percolato “giovane” può, in determinate condizioni, subire un trattamento aerobico, mentre per altri si può ricorrere al trattamento anaerobico, all’evaporazione, all’osmosi inversa. O combinare i trattamenti in più fasi successive. Per percolati con elevate concentrazioni di azoto ammoniacale si può ricorrere alla tecnica dello strippaggio.

Anche il percolato non sfugge alla contaminazione da PFAS, e negli ultimi anni diversi dipartimenti dell’Arpa in diverse regioni stanno iniziando a raccogliere dati, e a iniziare studi scientifici. La chimica ambientale, la chimica modesta sono pronte a dar loro una mano.

La tendenza, oserei dire arcaica, di disfarsi dei residui delle nostre attività come esseri umani, in buchi nel terreno, o scaricando nei corpi idrici non è ovviamente la scelta più saggia.  Per questa ragione sarebbe opportuno ripensare al nostro modo di vivere. Educandoci ad un atteggiamento più responsabile nei confronti dell’ambiente. Invece mi sembra di notare che, rispetto ad un passato nemmeno tanto remoto, siamo peggiorati come cittadini. Io che viaggio in bici e in treno vedo ogni giorno di più distese di plastica e centinaia di mozziconi di sigarette praticamente ovunque. Sui bordi delle strade come nelle rotaie delle linee ferroviarie. Nel 1961 venne prodotto un cortometraggio Disney che in Italiano è stato intitolato “Paperino e l’ecologia”, o “Paperino lo sporcaccione”.

Si trova facilmente in rete ed è consigliabile la visione, sia ai bambini che agli adulti che dovrebbero educarli. Il famoso papero con giacchetta alla marinara è lo sporcaccione, declinato in moltissime varianti. La riflessione più amara che si può fare su questo cartone animato è quella che viene enunciata in apertura: lo sporcaccione “In un solo weekend riesce a produrre sudiciume pari a tre volte il proprio volume!”

Nessuna tecnica di trattamento, per moderna che sia può funzionare contro questa deprecabile tendenza.

Perché siamo noi quelli che riempiamo discariche e strade dei nostri rifiuti. E poi magari contestiamo un nuovo depuratore o un nuovo impianto di trattamento di rifiuti o di percolato. Riflettiamoci con maggiore attenzione per favore.

“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”

In evidenza

Mauro Icardi

Il titolo del post è tratto da una canzone famosa e struggente di Fabrizio De Andrè. Volendo esaminare questa strofa dal punto di vista del chimico del ciclo idrico è un tentativo, forse anche provocatorio, di far comprendere la necessità del riciclo e riuso dell’acqua. Dell’acqua oggi quasi tutti abbiamo un’idea fortemente influenzata dall’immaginazione e dalla pubblicità.

In un mondo dove l’automazione e l’intelligenza artificiale potrebbero sostituirsi al lavoro degli uomini, questi ultimi continuano ad occuparsi della gestione delle reti fognarie e degli impianti di trattamento delle acque che le raccolgono per essere trattate. Oggi che persino l’acqua del rubinetto viene spesso snobbata in favore della neoacqua che la pubblicità ogni giorno ci propone, diventa difficile e faticoso pensare che ci siano persone interessate a capire l’importanza del riciclo e riuso dell’acqua di fognatura.

Altrove hanno capito meglio le potenzialità del riuso delle acque reflue, e si sono adattati con maggior pragmatismo e minore ribrezzo.

A Singapore il Public Utilities Board ha creato il marchio NEWater©, dato alle acque reflue di recupero altamente trattate. La NEWater viene prodotta purificando ulteriormente le acque reflue trattate in modo convenzionale, attraverso la microfiltrazione, l’osmosi inversa e l’irradiazione ultravioletta. L’acqua è di qualità potabile e può essere aggiunta nelle falde o nei serbatoi, da dove viene prelevata e ulteriormente potabilizzata prima dell’immissione nella rete acquedottistica. La maggior parte dell’acqua di nuova generazione viene attualmente utilizzata per scopi non potabili, soprattutto da industrie che richiedono un’elevata purezza dell’acqua di processo. Per esempio l’industria dei semiconduttori. Singapore ha iniziato a prendere in considerazione il riciclaggio dell’acqua per aumentare le sue limitate riserve di acqua dolce, a partire dagli anni ’70. Un Piano Regolatore redatto nel 1972 propose il recupero dell’acqua e la desalinizzazione, come alternative per ridurre la dipendenza dall’importazione di acqua che al tempo veniva acquistata dalla Malesia.

 Ovviamente il processo per ottenere quest’acqua tramite trattamento ad osmosi inversa non è applicabile ad ogni situazione.  L’acqua depurata può essere utilizzata per il mantenimento degli ecosistemi. Pensiamo a quanto avviene anche in Italia, quando i fiumi restano in secca e sono alimentati unicamente dagli scarichi dei depuratori. Quell’acqua è l’unica che permette il mantenimento di un ecosistema per quel corso d’acqua durante l’emergenza. In Italia anche un fiume certamente non minore come il Lambro è rimasto senz’acqua. Questa situazione si è verificata nel 2015, nel 2017 e nel 2020 quindi un’emergenza tristemente normalizzata.

Singapore rappresenta una singolarità per molti aspetti: è una città stato dove le decisioni in materia di acqua sono prese in maniera illuminata ma unilaterale. Però questo progetto ci fa capire che quando si conosce bene l’acqua, quando non esistono preconcetti o superficialità, si possono intraprendere azioni virtuose nel concreto.

Dove si fa strada l’idea che l’acqua sporca non è un rifiuto da far sparire, ma può essere trasformata per altri usi, o per produrre energia si è già fatto un gran passo avanti. E anche la canzone di un cantautore (anche se io preferisco definirlo un poeta) può essere utile per un cambio di mentalità. Per altro più che mai necessario. Educandoci al concetto della circolarità, dei cerchi da chiudere, anche quando come in questo caso il sentimento di rifiuto o ribrezzo sovrasta ogni considerazione più razionale.

Elenco non esaustivo dei facili alibi.

In evidenza

Mauro Icardi

Da qualche parte, nella marea di libri e riviste sparse per la casa, ho una ristampa del primo numero della rivista “Quattroruote”. Quel numero uscì nel febbraio del 1956 e aveva come sottotitolo “la rivista per gli automobilisti di oggi e di domani”. Vi si può leggere  un editoriale nel quale si stabilisce un principio che è valido ancora oggi: ovvero l’ostracismo sociale nei confronti di chi usa la bicicletta. Le motivazioni addotte dall’autore sono quelle che si possono ascoltare o leggere nei commenti social anche oggi. Ovvero che la strada sia un patrimonio per le auto e non per ciclisti o pedoni. L’autore dimostra questa tesi adducendo che l’automobilista paga una tassa di circolazione, ovvero il bollo, dal quale il ciclista è esentato. Nonostante il bollo dell’automobile sia stato trasformato in una tassa di possesso, ancora oggi molte persone pensano che il bollo sia l’attribuzione del diritto quasi feudale ad essere dei privilegiati nella circolazione su strada. Io per la mia formazione personale ho sempre avuto idee piuttosto diverse…

Preciso che posseggo un’auto che cerco di usare con oculatezza. La tipologia di auto è quella che un tempo si sarebbe definita utilitaria, e oggi invece city car. L’austerity del 1973 fu una vicenda che segnò l’avvio delle mie curiosità e delle mie riflessioni. Molte altre vicende degli anni 70 orientarono il mio percorso professionale che mi ha portato ad essere un chimico che ha praticato la chimica modesta. Ho iniziato ad usare la bicicletta per andare al lavoro nel 1996 ovvero quarant’anni dopo l’editoriale che ho citato. La scelta era decisamente anticonformista per il periodo. Ma la mia passione per la bici non è spiegabile razionalmente. Sono conscio dei rischi che corro e che cerco di minimizzare quanto più posso. Ho già pagato il mio dazio alla monocultura automobilistica. Ma non desisto.

Fino a qualche tempo fa tenevo il conto del risparmio della CO2 che non emettevo, poi ho smesso. Mi sembrava un vezzo inutile. La ragione è semplice, ovvero che comincio a sentire il peso della difficoltà di comunicare in maniera corretta la necessità di adottare stili di vita più rispettosi del pianeta che ci ospita, di cui da sempre molti si sentono i padroni assoluti. Ho avuto docenti che mi hanno fatto amare la termodinamica, e genitori che mi hanno insegnato ad apprezzare quello che si poteva avere, senza crucciarsi troppo di quello che non era ragionevole desiderare. Non sono cose da poco. Negli anni 70 esisteva ancora una cultura ambientalista, poi sopraffatta nel decennio successivo dal trionfo del consumismo più sfrenato. La chimica è stata per me un supporto indispensabile per capire meglio i temi ambientali. Col tempo però ho iniziato ad intuire che c’erano altri meccanismi più subdoli che condizionavano il comportamento collettivo. Non sono molto cambiati nel tempo, anzi sono rimasti più o meno gli stessi, in particolare le obiezioni più comuni quando discuto di temi ambientali. Vediamone alcuni.

Gli allarmi sono esagerati. Mi sembra di vedere in bambini che si mettono le mani davanti agli occhi. Ovvero il pensiero magico trasferito agli adulti.

La terra è grande: ci sono ancora sterminati territori da sfruttare e colonizzare. Il mito del pioniere, forse uno dei più pericolosi. Nell’immaginazione di chi sostiene questa tesi c’è sempre un piccolo eroico uomo che lotta ad armi impari contro le forze della natura. Nella quale non si sente inserito, ma che deve sottomettere e colonizzare. Un’altra convinzione è quella che le risorse naturali e minerali siano inesauribili. Questo tipo di mentalità è purtroppo patrimonio anche di capi di governo.

E’ il prezzo inevitabile che si paga per il progresso.  Questa obiezione troppo spesso mi fa pensare alla malafede, alla speculazione. Alle scelte che si dovrebbero fare con oculatezza ma alle quali si rinuncia con fastidio. Servirebbe anche capire quale sia una definizione condivisa di progresso. Per molte persone l’auto è stata ed è un simbolo del progresso. Difficile far loro cambiare idea. Controproducente citare i dati sulle morti premature dovute all’inquinamento dell’aria. Vengono semplicemente ignorate, pensando che il prezzo da pagare con qualche malattia cronica riguarderà di certo qualcun altro.

Non c’è più niente da fare e poi noi non siamo i maggiori responsabili, la colpa è dei cinesi.

Questa è la classica obiezione alla quale ho smesso di avere la voglia e la forza di obiettare. Soprattutto se viene pronunciata da chi tendenzialmente ha tutta la preparazione che gli dovrebbe permettere di approcciare la questione in maniera più razionale. L’obiezione spesso non è pronunciata  dalla famosa (forse solo per le persone della mia generazione) “casalinga di Voghera”.

Alcune parole, almeno in Italia hanno perso significato e slancio. Ambientalismo è una di queste.

Si disprezzano e si ignorano stupidamente i problemi ambientali, creando neologismi orrendi: “gretini” su tutti, seguiti a ruota da quelli come “spostapoveri” riferito alla metropolitana di Milano, ma per estensione a tutte le reti di trasporto pubblico. Ho scoperto poi di essere in possesso della “patente dei pirla”, ovvero l’abbonamento del treno nel mio caso, o dei mezzi pubblici. Rassicuro per altro di possedere anche quella dei non pirla.

Devo dire con molta franchezza di provare un senso di stanchezza e per dirla con Sartre di nausea. Ho sempre sostenuto che  l’educazione e la conoscenza siano due valori primari. L’educazione intesa come quelle che venivano chiamate buone maniere è di fatto estinta. La conoscenza combatte una strenua battaglia, dall’esito decisamente incerto con la propagazione di ogni tipo di stupidaggini che il web, e in particolare i social possono veicolare.

Vorrei chiudere questo post, con un aforisma che ho sempre amato visceralmente. Che potrebbe essere un punto di partenza o di stimolo per persone di buona volontà che vogliano capire cosa effettivamente governa il nostro mondo. Un buon auspicio per uscire da questo vicolo cieco in cui ci siamo cacciati, trainati dalla sindrome del paese dei balocchi planetario.

” Una teoria è tanto più importante quanto maggiore è la semplicità delle sue premesse, quanto più diversi sono i tipi di cose che correla e quanto più esteso è il campo della sua applicabilità. Di qui, la profonda impressione che ho ricevuto dalla Termodinamica classica. E’ la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base non verrà mai superata.”
Albert Einstein

Lo sviluppo di odori dall’acqua di fognatura.

In evidenza

Mauro Icardi

 I fattori che contribuiscono allo sviluppo di odori dalle acque di fognatura sono dovuti principalmente a:

  • i componenti tipici delle acque di scarico;
  • le trasformazioni biochimiche che avvengono durante il processo depurativo;
  • l’aggiunta di reagenti chimici che  possono essere dosati nei vari stadi di trattamento;
  • il ristagno di fanghi o liquami che possono creare condizioni anossiche/anaerobiche.

Gli odori tipici delle acqua reflue provengono da diverse tipologie di composti chimici: i composti alifatici e aromatici contenuti nei detergenti; solventi; composti derivanti dal metabolismo umano (ammoniaca, urea dalle urine, indolo dalle feci).

La maggior parte dei composti aromatici volatili hanno bassa solubilità, e quindi possono venire  strippati quando si verificano condizioni di turbolenza, come ad esempio nelle zone di sollevamento oppure di aerazione.

Alcuni composti organici volatili possono essere adsorbiti nella fase di sedimentazione primaria e rilasciati durante il processo di digestione anaerobica.

In taluni casi si possono individuare altri fattori di sviluppo di odori, ovvero il verificarsi di scarichi anomali, eventuali volumi elevati di scarichi di reflui da industrie alimentari, la temperatura più alta dell’acqua reflua (caso abbastanza raro),la presenza di scarichi sulfurei o di acqua salmastra nei reflui in ingresso.

La riduzione del rilascio di odori sgradevoli, è sempre correlata ad una corretta gestione delle fasi del processo depurativo.

Nella sezione di ossidazione biologica è raro che si possano sviluppare cattivi odori in quanto si lavora in fase aerobica. In caso si avvertano  occorre verificare il corretto funzionamento delle apparecchiature che trasferiscono aria o ossigeno liquido in vasca di ossidazione. E occorre anche verificare che il mescolamento della vasca di ossidazione sia completo. In caso di accumulo di fango in zone poco areate, la sostanza organica immessa subisce un fenomeno di fermentazione ad opera di batteri anaerobici , simile a quanto avviene nei digestori anaerobici non riscaldati; e questo può esser causa di sviluppo di cattivi odori.

Per quanto riguarda la gestione della sezione fanghi dove si lavora in fase anaerobica, il controllo puntuale e rigoroso del processo è maggiormente necessario. Specialmente nelle fasi di avviamento dei digestori, prima che sia a regime il processo che porta alla produzione di biogas.

Gli intermedi di reazione sono tutti composti odorigeni come ad esempio acidi grassi, mercaptani, solfuri. Per questo in fase di avviamento di un digestore è procedura normale caricarlo con fango digerito proveniente  da altri digestori già a regime. Questo fango formato dovrà venire mescolato con gradualità al fango da trattare, fino a quando il valori di acidi volatili e dell’alcalinità indicheranno che il processo è in grado di procedere autonomamente. Per ridurre il tempo di avviamento il digestore dovrà essere gradualmente riscaldato con combustibile ausiliario.

Altra situazione da monitorare è quella del corretto dosaggio di prodotti chimici, usati come coadiuvanti in alcune situazioni particolari di gestione del processo depurativo.

Per esempio l’aggiunta di prodotti a base di sali di ferro (per esempio il cloruro ferrico),usati per la rimozione del fosforo, o per migliorare la sedimentazione e la rimozione della sostanza carboniosa misurata come BOD, se non correttamente dosati possono provocare la diminuzione del pH e il desorbimento dei solfuri come acido solfidrico.

La stessa attenzione e precauzione si deve avere nel caso si utilizzasse la calce per migliorare la sedimentazione dei fanghi biologici, oppure per la stabilizzazione di quelli disidratati. In questo caso il rilascio di solfuro di idrogeno sarebbe inibito, ma un dosaggio sbagliato favorirebbe lo sviluppo dell’ammoniaca e degli altri composti odorigeni dell’azoto.

In molti depuratori vengono installati impianti di abbattimento degli odori, dove l’aria contenente i composti odorigeni viene sottoposta a una nebulizzazione a doppio stadio, con acqua additivata con acido cloridrico nel primo stadio, e con soda caustica nel secondo per ridurre gli effetti olfattivi indesiderati dei composti odorigeni basici ed acidi. In alcuni casi si può inserire un terzo stadio di trattamento dove l’aria da trattare viene fatta passare in uno scrubber fornito di un generatore di ozono. Inutile dire che la gestione di questo processo di deodorizzazione deve essere estremamente rigorosa e attenta, e la manutenzione fatta ad intervalli regolari. L‘esposizione continuativa ad ozono può provocare irritazioni all’apparato respiratorio, e nei casi peggiori l’insorgere della BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva).

Quindi adottare un buon principio di precauzione è norma primaria.

Bottiglie forzute e pandori griffati.

In evidenza

Mauro Icardi

Confesso apertamente che da molti anni non ho più molto interesse per i programmi televisivi. A questa regola non scritta, ho derogato solo in occasione di trasmissioni che si occupassero di eventi culturali, sia di carattere scientifico che umanistico. Alla sera insieme a moglie e figlia seguiamo insieme le serie televisive prima di cenare. Da circa un mese c’è uno spot che viene trasmesso, che è riuscito davvero a infastidirmi.

Il prodotto reclamizzato è una bottiglia di acqua naturale, che è additivata con proteine e zinco. Nello spot che viene mandato in onda, alla bottiglia spuntano magicamente due braccia forzute e muscolose, che poi si mettono in posa come una volta facevano i culturisti, per mettere in bella mostra i luccicanti bicipiti.

Credo che la mia posizione riguardo il consumo di acqua in bottiglia sia conosciuta. Ma in questo specifico caso ci vedo qualcosa di più, qualcosa di diverso e triste.

Ovvero il superamento quasi definitivo del ruolo dell’acqua che non può più avere le sue caratteristiche originarie, ma per piegarsi al desiderio del consumatore, sia che esso sia consapevole o indotto, deve diventare tutt’altro. Un prodotto che in maniera subliminale promette il vigore e il benessere fisico, la salute e la giovinezza. Che mi ricorda allo stesso tempo le miracolose scatole di spinaci di Braccio di Ferro, o le forse meno conosciute arachidi di Superpippo che risvegliano le nostalgie dei “boomer” come il sottoscritto, che era un accanito lettore di fumetti.

La mia riflessione amara parte da un dato di fatto, ovvero che il messaggio che l’autore dello spot ci trasmette dica che la normale acqua sia ormai un prodotto incompleto, forse addirittura da reiventare, da stravolgere e ricostruire per adattarla a esigenze nuove. Il primo risultato che ha avuto su di me questo spot è stato quello di prendermi una pausa di riflessione. Ho sempre accettato con piacere di mettere l’esperienza maturata nel settore del ciclo idrico per parlare del trattamento completo delle acque, quando qualcuno mi invitava. Ora francamente nutro più di un dubbio. Non è facile combattere ad armi pari con pubblicità suadenti e fondamentalmente fuorvianti.

 Nel film “Idiocracy”  viene dipinto uno scenario distopico del futuro dove, a causa della maggiore prolificità delle persone stupide, il livello di intelligenza medio raggiunge livelli talmente bassi da mettere a rischio la sopravvivenza del genere umano. L’ambientazione temporale è nell’anno 2505 e il pianeta terra soffre di carenza di cibo. I campi soffrono una grave siccità, ma non sono irrigati con acqua, ma con Brawndo il tronca-sete, una bevanda energetica che ha rimpiazzato l’acqua in tutti i suoi usi.

Il film è opera di fantasia ed ha una gradevole connotazione umoristica. La realtà che vedo invece, mi fa pensare che forse passo dopo passo non è così fuori luogo immaginare che il disprezzo, o per meglio dire la sottovalutazione dell’acqua, possa portare nella direzione immaginata dal film. Il referendum sull’acqua pubblica risale al 2011. Le speranze di quella stagione direi che sono ormai svanite, e vedo diverse derive impietose. Alle quali davvero faccio fatica ad immaginare come si possa fare argine. L’attualità ci sta sottoponendo ad uno stillicidio di notizie su una storia tipicamente italiana, quella della beffa (o truffa)  dei pandori griffati i cui proventi sarebbero dovuti servire per beneficienza. Scenario degno di essere narrato in una commedia all’italiana. Non ho intenzione di giudicare o peggio ancora infierire sui protagonisti di questa operazione. Ma francamente tutto questo mi lascia ogni giorno più amareggiato. Consapevole di non poter competere ad armi pari con la prossima showgirl che, in maniera ammiccante, potrebbe in futuro pubblicizzare un’acqua con decantate proprietà afrodisiache. Orwell immaginò la neolingua, i pubblicitari e gli imbottigliatori di acqua lavorano per imporre la neoacqua. La risposta forse arriverà da noi consumatori.

Forse.