Terra bruciata

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Mauro Icardi

James. G Ballard scrittore inglese, che sarebbe riduttivo definire unicamente autore di libri di fantascienza, nel 1964 pubblica un libro che viene tradotto in Italiano con il titolo di “Terra Bruciata”.

È il libro che sto leggendo in questi giorni, attirato sia dall’immagine di copertina di Karel Thole, il grafico olandese che disegnò le copertine della collana di fantascienza “Urania”, che dallo stile letterario di Ballard. Caustico, molto critico nei confronti della società contemporanea e delle sue palesi contraddizioni, che l’autore mette a nudo con racconti quasi surreali.

In questo libro l’autore immagina un pianeta terra piegato dalla siccità. Sono bastate pochissime righe per provare quella gradevole sensazione, quella specie di scossa elettrica che sento quando mi rendo conto di aver trovato un libro che ti incolla alla pagina, uno di quelli che ti fa restare alzato a leggere fino ad ora tarda.

Nelle prime pagine del libro un brano mi ha particolarmente colpito: “La pioggia! Al ricordo di quello che la parola significava un tempo, Ransom alzò lo sguardo al cielo. Completamente libero da nuvole o vapori, il sole incombeva sopra la sua testa come un genio perennemente vigile. Le strade e i campi adiacenti al fiume erano inondati dalla stessa invariabile luce, vitreo immobile baldacchino che imbalsamava ogni cosa nel suo calore”.

Personalmente queste poche righe mi hanno ricordato la situazione del Fiume Po la scorsa estate.

 Nella trama del romanzo si immagina una migrazione umana sulle rive dell’oceano dove si sono dissalati milioni di metri cubi di acqua marina, e dove le spiagge sono ormai ridotte a saline, ugualmente inospitali per la vita degli esseri umani, così come le zone interne,dove fiumi e laghi stanno lentamente prosciugandosi.

So molto bene che molte persone storcono il naso quando si parla di fantascienza ,senza probabilmente averne mai letto un solo libro,probabilmente per una sorta di snobismo preconcetto. La mia non vuole essere una critica, è solmente una mia personale constatazione. Ma non posso fare a meno di pubblicare su questo post un’altra foto,drammaticamente significativa.

L’immagine scattata dal satellite Copernicus, mostra la situazione del Po a nord di Voghera lo scorso 15 Febbraio. La foto è chiarissima. Rimane valido il motto che dice che un’immagine vale più di mille parole.

Ecco è proprio dalle parole che vorrei partire per chiarire alcuni concetti, porre degli interrogativi a me stesso, e a chi leggerà queste righe.

Parole. Quali parole possiamo ancora usare per convincere chi nemmeno davanti a queste immagini prende coscienza del problema siccità, continuando ostinatamente a negare l’evidenza, esprimendosi con dei triti e tristi luoghi comuni.

Uno fra i tanti, un messaggio inviato alla trasmissione di radio 3 “Prima pagina”. Quando la giornalista lo legge in diretta io rimango sbalordito. L’ascoltatore che lo ha inviato scrive testualmente. “Il riscaldamento globale è un falso problema, tra 100 anni saremo in grado di colonizzare altri pianeti e di sfruttare le loro risorse”. Giustamente la conduttrice risponde che non abbiamo cento anni di tempo. I problemi sono qui e adesso.

Il senso di sbigottimento rimane anche mentre sto terminando di scrivere questo post.  Uscendo in bicicletta nel pomeriggio ho potuto vedere palesemente la sofferenza dei corsi d’acqua in provincia di Varese: il Tresa e il Margorabbia ridotti a dei rigagnoli. Ho visto terreni aridi e molti torrenti della zona prealpina completamente asciutti.

Quali parole possiamo ancora usare, parole che facciano capire l’importanza dell’acqua? L’acqua è indispensabile alla vita penso di averlo letto nelle prefazioni praticamente di ogni libro che si occupasse del tema. Mentre scrivo, in un inverno dove non ho visto un fiocco di neve nella zona dove vivo, leggo l’intervista fatta a Massimiliano Pasqui, climatologo del CNR, che dichiara che ci servirebbero 50 giorni di pioggia per contenere il problema della siccità nel Nord Italia. Il deficit idrico del Nord Ovest ammonta a 500 mm. Le Alpi sono un territorio fragile, i ghiacciai arretrano. Lo speciale Tg1 dedica una puntata ai problemi dei territori dell’arco alpino. Ma buona parte delle persone intervistate sono preoccupate unicamente per il destino delle stazioni sciistiche. Solo una guida alpina valdostana suggerisce un nuovo modo per godere la montagna, uscendo dal pensiero unico che vuole che in montagna si vada unicamente per sciare. Una biologa che si occupa della microfauna dei torrenti alpini ricorda l’importanza della biodiversità e delle catene alimentari che la riduzione delle portate può compromettere.  Un sindaco della zona prealpina del comasco, difende l’idea di creare una pista di innevamento artificiale a 1400 metri di quota, quando ormai lo zero termico si sta situando intorno ai 3000. Non posso pensare ad altro se non ad una sorta di dipendenza. Non da gioco d’azzardo o da alcol, ma una dipendenza che ci offusca il ragionamento. Mi vengono in mente altre parole, le parole di un proverbio contadino: “Sotto la neve pane, sotto la pioggia fame”. Ma anche di pioggia se ne sta vedendo poca nel Nord Italia, e la neve sembra essere un ricordo in molte zone.

Il Piemonte sta diventando arido. Mia cugina che vive nelle terre dei miei nonni, nel Monferrato, mi informa che alcuni contadini stanno pensando di piantare fichi d’india. Nei vigneti il legno delle piante è secco e asciutto e la pianta sembra essere in uno stato sicuramente non di piena salute. Ci si accorge di questo anche nel momento in cui si lega il tralcio al primo fil di ferro per indirizzare la crescita della pianta: si ha timore di spezzarlo.

Ritorno per un attimo al libro di Ballard. Nella prefazione trovo un passaggio interessante: nel libro l’autore ci parla della siccità che ha immaginato, non in maniera convenzionale. Ci sono nel libro descrizioni di siccità e arsura, ma quello che emerge dalla lettura è il fantasma dell’acqua. Ballard ha sempre evitato i temi della fantascienza classica, viaggi nello spazio e nel tempo, incontri con civiltà aliene.

Ha preferito narrare e immaginare le catastrofi e le decadenze del futuro prossimo. Ma sono catastrofi particolari. Sono cioè catastrofi che “piacciono” ai protagonisti.  Che quasi si compiacciono di quello che si sta svolgendo sotto i loro occhi. Vale per i protagonisti di “Deserto d’acqua e di “Condominium”. Il primo si compiace della spaventosa inondazione che ha sommerso Londra, il secondo racconta le vicende degli inquilini di un condominio di nuova generazione, dove una serie di black out e dissidi tra vicini fanno regredire tutti gli inquilini allo stato di uomini primitivi.

Terra bruciata invece ci mostra un’umanità che deve fare i conti con la mancanza ed il ricordo del composto linfa, H2O. La formula chimica probabilmente più conosciuta in assoluto. Conosciamo a memoria la formula, ma forse non conosciamo affatto l’acqua.  E a volte è uno scrittore come Ballard che riesce ad essere più diretto nel mostrarci quello che rischiamo non preservandola e dandola per scontata. L’indifferenza, la mercificazione indotta, le nostre percezioni errate, lo sfruttamento del composto indispensabile alla vita ci stanno rivelando come anche noi ci stiamo forse compiacendo o abituando a situazioni surreali. Sul web ho visto la pubblicità di una marca di borracce che ci ingannano. Borracce con sedicenti pod aromatizzati che ti danno la sensazione di stare bevendo acqua aromatizzata. Riporto dal sito, senza citare per ovvie ragioni la marca.

Tu bevi acqua allo stato puro. Ma i Pod aromatizzati fanno credere al tuo cervello che stai provando sapori diversi come Ciliegia, Pesca e molti altri.

Naturalmente gustosi. Tutti i nostri Pod contengono aromi naturali e sono vegetariani e vegani.

Idratazione sana. Prova il gusto senza zuccheri, calorie o additivi.

E ‘scienza (anche se ci piace pensare che sia anche un po’ magia). Il tuo centro olfattivo percepisce l’aroma come se fosse gusto, e fa credere al tuo cervello che tu stia bevendo acqua con un sapore specifico.”

Trovo questa pubblicità davvero agghiacciante.

Mi sto chiedendo ormai da diverso tempo come possiamo opporci a questa deriva. Ho letto diversi romanzi di fantascienza sociologica che immaginano società distopiche. Ma francamente mi sembra che non sia più necessario leggerla. In realtà mi sembra tristemente che siamo molto vicine a vivere in una società distopica. Sull’onnipresente rifiuto di bere acqua di rubinetto con la motivazione che “sa di cloro” o addirittura “che fa schifo”, qualcuno costruisce il business delle borracce ingannatrici. Ormai l’acqua non è più il composto vitale. E ‘un composto puro ma che deve essere migliorato. Qualcuno mette in commercio acqua aromatizzata, qualcun altro ci vuole vendere borracce che ci fanno credere che lo sia.

Mi chiedo davvero cosa sia andato storto, e quando recupereremo non dico la razionalità ma almeno il buon senso comune. E intanto possiamo aspettare fiduciosi la stagione estiva.

Strafalcioni.

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Mauro Icardi

Forse “’L’altrui mestiere” che Levi amava di più era quello di le lingue, le loro origini e l’etimologia delle parole. Levi lo praticava per puro piacere personale, e girava spesso per casa con in mano un vocabolario o un dizionario. Spinto principalmente dal divertimento ma con una competenza che si salda con la passione. Molti articoli usciti sulla terza pagina del quotidiano “La stampa” hanno un taglio limpido e rapido. Non solo i due capitoli dedicati alla lingua dei chimici, ma anche quelli dedicati alle etimologie popolari, che producono modifiche particolari in parole che dovrebbero essere di uso comune.

Esiste un piccolo elenco di queste false equivalenze che lo scrittore ha raccolto: dai raggi ultraviolenti alle iniezioni indovinose, fino al verme sanitario e il mai dimenticato cloruro demonio.

Questi sono procedimenti nei quali le parole vengono deformate quasi per comprenderle meglio, renderle meno misteriose. Chi le pronuncia cerca di renderle più familiari, utilizzando questo espediente.

Ma la modifica non riguarda soltanto i termini tecnici o scientifici. Anche le parole originarie da altre lingue, che possono risultare difficili da pronunciare, vengono modificate con una certa fantasia.

Levi ne cita una che veniva pronunciata anche da mio padre e da mia nonna, ma che in generale si può sentire in buona parte del Piemonte. La parola è sanguis che altro non è che un tentativo di addomesticare la parola sandwich. Significa panino imbottito, in omaggio a John Montagu, quarto Conte di Sandwich, accanito giocatore di carte, che nelle lunghe sessioni di gare con gli amici, per non perder tempo, si sarebbe concesso solo veloci spuntini di fette di manzo tra due fette di pane tostato.

A mio padre risultava ostico anche il ketchup, sia come salsa, sia come parola da pronunciare che modificò in kachuf. Mio padre non amava avventurarsi in avventure gastronomiche, non amava hamburger e hot dog, si manteneva sui sentieri conosciuti e molto apprezzati della cucina piemontese.

Difficilmente riesco a trattenermi quando sento strafalcioni estremamente particolari, e che tendono a provocarmi un riso irrefrenabile. Mi è capitato di sentire elogiare Mike Tyson che con un pugno bene assestato aveva mandato gnoc out il suo avversario. Per il signore milanese purosangue il termine knock out era evidentemente ostico. Ma essendo un parente acquisito non era opportuno che dessi sfogo all’ilarità, ma risultò piuttosto difficile trattenere le risa. In un altro caso sentendo una signora lamentarsi, perché abitando vicino all’ospedale sentiva spesso le ambulanze che con le loro sirene spietate le disturbavano il sonno del giusto, confesso di non esserci riuscito. Il denominatore comune di tutto questo era quasi sempre la non più giovanissima età di chi le pronunciava. E questo dava alla situazione un qualcosa di quasi gioioso, umoristico.

Ma per molti anni invece uno strafalcione tecnico mi ha lasciato incapace di ogni reazione. Ha imbarazzato forse più me, piuttosto che il collega che lo pronunciava in maniera molto convinta.

La questione riguardava la cavitazione idrodinamica, ovvero ii fenomeno consistente nella formazione di zone di vapore all’interno di un fluido che poi implodono producendo un rumore caratteristico.

Ciò avviene a causa dell’abbassamento locale di pressione, la quale raggiunge la tensione di vapore del liquido, il quale subisce così un passaggio di fase a gas, formando bolle (cavità) contenenti vapore.

Per molti anni quando discutevamo di questo fenomeno lui insisteva a chiamare il problema con il termine di gravitazione delle pompe centrifughe. Ricordo di averlo corretto solo la prima volta che lo disse, poi vi rinunciai. In seguito conobbi un ingegnere che realizzava impianti industriali che si sentì dire da un committente che visionava il progetto: “Mi hanno detto che la pompa deve avere la centrifuga!” Io forse avrei risposto, “Certo, e anche il prelavaggio e l’asciugatura…”. Ma le regole di qualunque bon ton aziendale poco si prestano ad apprezzare l’umorismo. Sono cose che avvengono molto raramente, soprattutto in presenza di partner d’affari.

Vorrei concludere questo post invitando alla rilettura de “L’altrui mestiere” di Primo Levi.

Ma anche di un gradevolissimo libro dal titolo “Bolle, gocce e schiume- Fisica della vita quotidiana” di

F Ronald Young. Dove I fenomeni che avvengono nei liquidi come la turbolenza, la tensione superficiale, la formazione di bolle (e anche la cavitazione), sono spiegati in maniera divertente e con aneddoti molto interessanti.

La situazione della depurazione in Italia: qualche considerazione.

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Mauro Icardi

Il depuratore di Paestum- Capaccio è stato protagonista, nel febbraio 2018, di un incidente che ha causato uno dei più gravi fenomeni di inquinamento marino degli ultimi anni nel Mediterraneo. Dall’impianto fuoriuscirono circa 132 milioni di dischetti in plastica(in inglese carrier) che erano utilizzati come supporti per la crescita di biomassa adesa. La biomassa adesa, così come il fango di ossidazione, è la comunità microbiologica costituita da batteri e protozoi che depura le acque reflue. Nei mesi successivi a questo incidente i dischetti furono ritrovati, sospinti dalle correnti, fin sulle coste della Francia e della Spagna, oltre che nel Lazio, in Toscana, in Liguria, in Sicilia e sugli arenili campani.

Per questo incidente otto persone sono state rinviate a giudizio, con l’accusa di disastro ambientale e inquinamento doloso.

Da quanto ho potuto reperire facendo ricerche in rete, ho desunto che la vasca di ossidazione dove erano contenuti i rack con i dischetti, abbia subito un cedimento strutturale. In qualche caso ho letto che i responsabili della gestione avrebbero sovraccaricato questa vasca, che già presentava segni di ammaloramento, e questo aumento di portata sarebbe stato il fattore scatenante del cedimento.

Posto che l’inchiesta ed il processo (che mi risulta siano ancora in corso), dovranno appurare le responsabilità, ci sono alcune considerazioni che vorrei fare. La prima, piuttosto semplice, è che questo è probabilmente stato il più eclatante incidente occorso ad un impianto di depurazione. Nel momento in cui si verifica un cedimento strutturale, la mente corre al crollo del ponte Morandi, e alle altre decine di situazioni simili che si sono verificate in molte zone d’Italia. E qui la parola andrebbe data a chi è esperto di costruzioni. Si sa che i manufatti in cemento armato possono degradarsi con il tempo. Esiste quindi un problema di insufficiente o mancata manutenzione di questo tipo di costruzioni, che deve essere monitorato e risolto.

Quando si tratta di una vasca di ossidazione, il problema deve essere anche analizzato da un altro punto di vista, cioè quello progettuale. Ovvero un depuratore dovrebbe essere progettato in maniera modulare. Avere cioè delle vasche di equalizzazione, delle vasche di raccolta di maggior volume (chiamate in gergo vasche volano) che possano raccogliere eventuali sversamenti.

Se la portata di acque reflue è molto elevata e il depuratore è al servizio di una grande città, (penso agli impianti di Milano, Torino, Roma per fare un esempio) è usuale avere più linee di trattamento. In questo modo in caso di necessità di manutenzione di queste sezioni, (vasche di ossidazione, sedimentatori, ispessitori), una di esse può essere svuotata per effettuare gli interventi di riparazione o manutenzione, senza che le acque reflue confluiscano senza trattamento direttamente nel corpo idrico ricettore.

Ma a cosa servono i dischetti che sono fuoriusciti dal depuratore di Capaccio?

Un impianto di depurazione in condizioni normali di funzionamento riesce a garantire il rispetto dei limiti su BOD, COD e solidi sospesi senza particolari difficoltà. Diverso è invece il caso dei nutrienti per scarichi in aree sensibili. Le quali non rappresentano più solo i laghi, ma per esempio anche l’area del bacino del Po e che quindi vanno ad interessare impianti che precedentemente non sottostavano a limiti così restrittivi (per esempio per quanto riguarda il fosforo totale).
In generale, quindi, si prospetta la necessità di intervenire su un gran numero di impianti di depurazione per far fronte a due diverse esigenze: incrementarne la potenzialità (come carico trattabile), e migliorare le rese depurative (abbattimento in particolare dei nutrienti).

Nel caso in cui le caratteristiche del liquame influente non rappresentino un fattore inibente, (ad esempio in termini di pH, rapporto BOD/Azoto totale, presenza di sostanze tossiche, ecc.), le condizioni richieste, per conseguire la nitrificazione (ovvero la trasformazione dell’ammoniaca in un composto meno inquinante come il nitrato), sono essenzialmente un adeguato contenuto di ossigeno nel comparto di ossidazione e una biomassa ben strutturata nella quale esista una buona percentuale di batteri nitrificanti.
L’aggiunta di un sistema di coltura a biomassa adesa permette di migliorare la fase di nitrificazione.
Vi sono due distinte possibilità: un sistema ibrido che viene inserito nel preesistente bacino di ossidazione a fanghi attivi, ed un sistema separato che viene di solito inserito a valle della fase di sedimentazione finale per incrementare le rese di nitrificazione e quindi di abbattimento dell’ammonio.
Si tratta in pratica di fissare la biomassa nitrificante su supporti fissi aventi elevata superfice specifica (per esempio supporti in polietilene o in matrici di gel). Mi interessava precisare questa cosa. Può forse sembrare eccessivamente tecnica, ma gli articoli trovati in rete si limitavano a definire i dischetti dei filtri, e la definizione non è esatta, pur avendo un qualche fondamento.

Per una corretta progettazione dei depuratori è necessario effettuare diversi prelievi delle acque che saranno da sottoporre al trattamento, monitorando principalmente COD, BOD5 ,Composti azotati, Fosforo totale, tensioattivi. Una volta conosciuta la concentrazione media di questi parametri, occorre considerare i volumi di acque da trattare.

L’impianto dovrà essere in grado di fare fronte alle variazioni dovute alle precipitazioni. La condizione ideale per ottenere una gestione migliore sarebbe quella di separare le acque nere da quelle meteoriche. Questo per evitare repentine variazioni di portata che possono provocare eccessive diluizioni delle acque reflue, malfunzionamenti e allagamenti. Episodi a cui ho assistito personalmente. La modifica del regime delle piogge è ormai una situazione critica, per i depuratori e per le reti fognarie.  Oppure come già detto in precedenza dotare gli impianti di depurazione di adatte vasche di equalizzazione, per smorzare non solo le variazioni repentine di portata, ma anche per stoccare gli eventuali scarichi anomali costituiti da composti tossici o non biodegradabili.

Data l’ormai ubiqua e di fatto incontrollabile dispersione nell’ambiente di inquinanti emergenti, è di fatto indifferibile la necessità di adeguare gli impianti di depurazione più vecchi, dotandoli di un’efficiente sezione di trattamento terziario, oltre che a potenziare la sezione di ossidazione, non solo con un sistema per la crescita di biomassa adesa, ma anche con sistemi di depurazione più moderni.  Il sistema MBR (Membrane Bio Reactor) è un sistema di depurazione biologica delle acque che consiste nella combinazione del processo tradizionale di depurazione a fanghi attivi e di un sistema di separazione a membrana (generalmente microfiltrazione o ultrafiltrazione) che sostituisce il normale sedimentatore secondario.

Nel 2018 il servizio pubblico di depurazione delle acque reflue urbane, garantito da 18.140 impianti in esercizio, ha trattato un carico inquinante medio annuo di circa 68 milioni di abitanti equivalenti. Il 65,5% del carico inquinante civile e industriale è depurato in impianti con trattamento di tipo avanzato, il 29,5% in impianti di tipo secondario, il restante 5,0% in impianti di tipo primario e vasche Imhoff.

Sin dal 1991, attraverso una specifica Direttiva CEE, l’Europa chiede agli Stati membri l’adeguamento degliimpianti di trattamento delle acque reflue e del sistema fognario.  L’Italia è stata sanzionata con una procedura d’infrazione costata 25 milioni di euro per mancato adeguamento di 74 agglomerati urbani difformi. E altre procedure di infrazione sono in corso.

Se si considerano questi dati e si guarda alle disparità tra Nord e Sud, è evidente che la situazione dell’Italia è complessa e necessita di azioni integrate, coese, coerenti, non solo per garantire gli standard di depurazione su tutto il territorio. È necessaria una concreta politica del ciclo integrato delle acque, con investimenti adeguati sia del settore pubblico che di quello privato.

In quasi tutte le regioni d’Italia il percorso per arrivare alla definizione di un gestore unico a livello provinciale per la gestione del ciclo idrico integrato, è stato lungo ed estenuante.

La gestione unica che molte persone temono serve a razionalizzare gli investimenti. La realizzazione di un depuratore consortile di dimensioni più grandi, rispetto a dieci di piccola taglia semplifica la gestione e la conduzione. Queste sono cose che non tutti possono conoscere, io mi sento di dirle semplicemente perché ho sperimentato queste criticità lavorando sul campo. Chi legge queste righe non me ne voglia, ma ricordando il referendum del 2011 mi sono accorto che spesso intorno al tema acqua si fa molta confusione, e in qualche caso troppa demagogia. Non discuto il diritto all’acqua, e mi sono impegnato in prima persona contro la privatizzazione.

Ma vorrei ricordare che l’acqua non si trasporta, potabilizza, e infine si depura senza adeguati investimenti, programmazioni e senza ricerca. Ho concluso decine di volte i miei post con queste considerazioni e questi auspici. In Italia ci sono molti progetti di ricerca. Il tema acqua e soprattutto il tema fanghi è molto sentito dall’opinione pubblica. Ma mi preoccupa il fatto che troppo spesso l’informazione sia carente.  So che nelle scuole superiori ad indirizzo chimico, con il nuovo ordinamento si studia la depurazione delle acque. Mi piacerebbe anche ci fossero cittadini consapevoli e informati sul tema, che provassero a capire come funziona un depuratore. Ma non solo, anche come funziona questo pianeta.

Quindi mi permetto di dare i miei suggerimenti di lettura. Una bibliografia minima essenziale per avere le idee più chiare.

Ingegneria sanitaria ambientale. 

               D’Antonio Giuseppe Edizioni Hoepli

              Eugene P Odum Edizioni Piccin Nuova Libraria

  • Il grande bisogno

Rose George Edizioni Bompiani

  • I limiti alla crescita

D H Meadows – D L Meadows – J Randers – WW Behrens III Edizioni LU CE

Il lager, la materia, la chimica e la scrittura nell’esperienza di Primo Levi

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Mauro Icardi

Primo Levi in un’intervista televisiva racconta quali siamo stati gli elementi fondamentali della sua vita: la prigionia e l’avere deciso di scrivere.

 Il terzo elemento fondamentale della sua vita, cioè la chimica, non è mai assente anche durante la tragica esperienza quotidiana del vivere in Lager. Si manifesta in diversi modi, dal quasi surreale esame di chimica sostenuto in Lager davanti al Dottor Pannwitz, fino al tentativo di costruire pietrine per accendini con dei cilindretti di cerio trovati in un magazzino dl camp di prigionia.

Levi affermò anche che Auschwitz fosse stata forse l’esperienza più importante della sua vita. Non è semplice mettersi nei panni di questo uomo timido e garbato, che si trova proiettato nella bolgia del Lager a soli ventiquattro anni, e comprendere i pensieri e le emozioni profonde che possono averlo spinto a questa affermazione.

L’esperienza vissuta lo spinge a scrivere, perché sente dentro di sé l’obbligo morale di testimoniare quello che era l’organizzazione dei campi di sterminio.  E lo fa non solo esaminando la questione dal punto di vista morale e storico, ma anche descrivendo le assurde regole che vigevano nel campo, e le terribili condizioni di igieniche a cui i prigionieri dovevano sottostare.

Il primo testo pubblicato da Levi dopo il ritorno dal Lager è intitolato “ Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz”. Fu scritto in collaborazione con l’amico Leonardo De Benedetti, e comparve sulla rivista Minerva Medica. L‘intenzione era quella di descrivere con la massima obbiettività le condizioni del campo, le patologie che affliggevano i prigionieri, e il funzionamento delle camere a gas.

Ma Levi scrisse anche una lettera che inviò alla redazione de “La chimica e l’industria” e che venne pubblicata nel numero di Dicembre del 1947.

Levi descrive la condizione dei prigionieri e fornisce alcune notizie sulle sue produzioni chimiche: il campo di Monowitz, struttura satellite del più noto campo di Auschwitz, era infatti sede di vari impianti chimici, tra cui uno gigantesco per la produzione di gomma sintetica, la cosiddetta “buna”*. I bombardamenti alleati del Luglio 1944 danneggiano in parte gli impianti per la produzione della buna, che infatti non verrà mai prodotta nel campo di Monowitz. Restano attive però altre produzioni, tra cui quella di metanolo. L’azienda che gestisce gli impianti all’interno dei lager e tutta la produzione chimica di interesse per il regime nazista e l’economia di guerra è la IG Farben.

Nel dopoguerra, nel breve periodo in cui Levi prova ad esercitare la libera professione, prova a sintetizzare l’allossana come stabilizzante da impiegare nella formulazione di un rossetto. La descrizione della faticosa ricerca della materia prima, cioè escrementi di gallina, e il difficoltoso tentativo di sintetizzarla partendo dall’acido urico che vi è contenuto, e che terminerà con un insuccesso, è narrata in “Azoto”, sedicesimo racconto contenuto ne “Il sistema periodico”.

Ed è in questo capitolo che Levi spiega una parte della filosofia chimica. Partendo dall’idea che lo faceva sorridere, cioè il ricavare un cosmetico da un escremento. Cosa che non lo imbarazzava minimamente.

Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall’esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima.”

Quello della manipolazione della materia, insieme alla modificazione dell’uomo operata nel Lager, è uno dei capisaldi dell’intera sua opera. La materia che resiste all’uomo in una lotta senza fine, così come l’uomo resiste, nonostante tutto, alla manipolazione operata dai nazisti nel campo di concentramento.

* La buna è la gomma sintetica che si può ottenere dalla copolimerizzazione del butadiene con lo stirolo o con il nitrile acrilico. Il termine, il quale può sembrare così particolare, non è altro che la fusione tra le due iniziali delle parole Butadiene e Natrium (sodio) che sono la materia prima e il catalizzatore che si sfruttano nel processo.

Se un giorno ti svegli e il depuratore non c’è più.

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Mauro Icardi

(Ricordi degli anni 70 e di scelte che sono state inevitabili)

Per la mia formazione culturale e personale, gli anni 70 sono stati decisamente molto importanti. In quel decennio sono passato dall’essere un bambino con le prime insopprimibili curiosità, e sono arrivato ad un passo dall’essere maggiorenne. I diciotto anni li avrei compiuti nel 1980.

Furono molti gli avvenimenti che in quegli anni cercavo di approfondire, leggendo il quotidiano di Torino “La Stampa”, che mio padre acquistava quasi tutti i giorni. L’austerity, l’epidemia di colera, il disastro di Seveso tra i tanti. Ma anche terrorismo, crisi economica, guerre (che non ci facciamo mancare mai), inquinamento e sofisticazioni alimentari.

L’austerity con la conseguente proibizione dell’uso dell’auto nei giorni festivi mi riportò indietro nel tempo, ovvero a prima dell’acquisto della prima automobile di famiglia, una fiat 500. I mezzi che utilizzavamo per spostarci erano principalmente treno e tram. Questa situazione è durata fino a quando non ho compiuto sei anni. Credo che la passione che ancora oggi ho per i mezzi su rotaia sia nata proprio in quel periodo. Mia madre mi racconta che uno dei nostri svaghi era andare in giro la domenica con il tram numero nove, partendo dal quartiere di Borgo Vittoria a Torino, dove ho abitato fino al 1966, percorrendo quasi tutta la  linea fino ad arrivare al capolinea opposto, che si trovava a pochi metri dallo stadio comunale. Con lo stesso tram raggiungevamo la stazione di Porta Nuova quando si andavano a trovare i nonni paterni e materni nel Monferrato. Un tragitto di circa un’ora e mezza che mi sembrava infinito, e che avrei voluto non finisse tanto presto.  Ero un bambino curioso che pronunciava molto spesso una parola: perché. Su quei treni c’erano molte altre persone, parenti o amici dei miei genitori, che ritornavano nello stesso paese, cioè Mombaruzzo.

Quando mia mamma era sul punto di soccombere alle mie continue domande, mi affidava a qualche persona di buona volontà, che mi faceva passeggiare avanti e indietro lungo il convoglio.

 E puntualmente ricominciavo a tempestare il povero sventurato con una raffica continua di domande. Nel 1973 posso dire che l’austerity fu per me decisamente un periodo festoso. Ero libero di viaggiare quasi a piacimento in treno e in bicicletta! Il treno avevamo smesso di usarlo ormai da cinque anni. La 500 color “Blu turchese”, come recitava la targhetta applicata all’interno del piccolo portello che copriva il vano motore posteriore, lo aveva soppiantato. Ma adesso si prendeva la sua rivincita. Così io potevo tornare a soddisfare la mia passione per treni e tram.

La crisi petrolifera del 1973 ebbe l’effetto di far comprendere, anche se solo parzialmente, che non era saggio affidare le necessità di mobilità unicamente alla motorizzazione privata. Torino accantonò il progetto di dismissione della rete tramviaria, e le ferrovie cercarono di fermare la tendenza al calo costante di passeggeri. Ricordo una campagna pubblicitaria per incentivare l’uso del treno che mi aveva molto colpito. Si poteva vedere sui cartelloni pubblicitari, e sulle pagine di riviste e quotidiani.  Uno sconcertato viaggiatore con la valigia in mano sul marciapiede di una stazione, guardava la massicciata priva di rotaie, mentre la didascalia sullo sfondo recitava più o meno cosi: “Se un giorno ti svegli e il treno non c’è più?”

Personalmente vista la mia passione ferroviaria, provo sempre molto disagio quando vedo massicciate senza più binari. Ed è stato proprio il ricordo di quella campagna pubblicitaria che mi ha suggerito il titolo di questo post e le riflessioni che seguono.

L’abitudine a considerare scontate alcune cose, spesso ci fa perdere la percezione della loro importanza.      In quegli anni si manifestarono con molta evidenza i risultati di uno sviluppo industriale che era stato impetuoso, ma che non aveva minimamente considerato l’impatto dei residui sull’ambiente naturale. Anche la crescita della popolazione nelle città più industrializzate ebbe un forte impatto sull’ambiente. Esistevano sul territorio nazionale alcuni depuratori, che si limitavano ad effettuare un trattamento che spesso si limitava alla sola sedimentazione primaria, prima di scaricare i reflui direttamente nei corsi d’acqua.  Proviamo a immaginare cosa potremmo vedere se domani svegliandoci ci accorgessimo che i depuratori sono spariti.

Faremmo un gigantesco passo indietro. Torneremmo a vedere i fiumi cambiare colore a seconda degli scarichi che in quel momento vi si riversano, e potremmo capire che ora del giorno sia. Questo si diceva del fiume Olona, prima che iniziasse l’opera di risanamento. Ci accorgeremmo della presenza di un fiume sentendo a centinaia di metri di distanza l’odore nauseante della degradazione anossica della sostanza organica. Ma prima di tutto questo sentiremmo l’odore della putrefazione dei pesci. Perché i pesci sarebbero i primi a sparire, boccheggiando disperatamente alla ricerca di quell’ossigeno che le loro branchie, nonostante l’evoluzione le abbia rese più efficienti dei nostri polmoni, non riuscirebbero più ad assorbire. Non vi sarebbe più ossigeno disciolto, né vita acquatica come siamo abituati a concepirla.

E di questo si parlava nei testi scolastici proprio degli anni 70. Nei telegiornali, e nelle trasmissioni televisive che ancora si possono rivedere nei siti della Rai.

Credo abbia un valore storico riportare il testo di questo articolo del 29 Luglio 1970,tratto dall’archivio storico del quotidiano “La stampa”, che descrive l’inquinamento della laguna di Venezia. Nella stessa pagina vi erano articoli relativi allo stesso problema, che spaziavano dal litorale di Roma, al canale Redefossi di Milano, e ai fiumi Bormida e Tanaro in Piemonte.

La laguna “fermenta” Moria di pesci – Gravi preoccupazioni a. (g. gr.)

 La laguna fermenta: questo l’allarme che parte da Venezia e si inserisce nel preoccupante quadro degli inquinamenti. Tralasciando di parlare del mare e dei fiumi della sua zona, è soprattutto la laguna che preoccupa i veneziani. Basti ricordare come alla fine dello scorso giugno una preoccupante moria di pesce si sia accompagnata ad un puzzo insopportabile che giorno e notte infastidì i veneziani; gli oggetti in argento si annerivano, alghe putrefatte affioravano nei canali, macchie preoccupanti comparivano sui muri delle case. Il fenomeno — è stato dichiarato ufficialmente dal comune — verosimilmente è da riferirsi a una lenta modificazione dell’ecologia lagunare. A Venezia, hanno detto gli esperti, la laguna si sta concimando, cioè sta diventando troppo fertile. Secondo i ricercatori dell’Università di Padova, i responsabili di questa trasformazione del fondo e della flora lagunare sono gli scarichi urbani, i detersivi, i fertilizzanti agricoli, le immondizie e l’industria. Nella laguna si sono anche notati aumenti nella presenza di idrocarburi, dovuti probabilmente all’accumulo di scarichi incontrollati di nafta sull’arco dei decenni. Quest’ultimo fenomeno mette in evidenza l’urgenza di dotare la città di fognature e di impianti di depurazione adeguati. Il fenomeno dell’inquinamento preoccupa le autorità per due motivi: la circolazione nei canali viene resa difficile dagli accumuli di rifiuti, il turismo sarebbe poi gravemente danneggiato dalla visione delle larghe chiazze di nafta sulla superficie dell’acqua. Venezia perderebbe il suo fascino, insomma. Non esistono per ora pericoli per gli abitanti, ma si prospetta, con l’andare del tempo, anche questo rischio.

E’ stata la lettura di articoli simili a questo, è stato l’aver visto con i miei occhi di bambino prima, e di adolescente poi, che esplorava il proprio spicchio di mondo pedalando su una bicicletta modello “Graziella” di colore azzurro, i canali di irrigazione nella campagna adiacente a Chivasso dove galleggiavano  flaconi di plastica, che si ammassavano sotto le arcate dei ponti. Tutto origina da quegli anni.

I trent’anni di lavoro in depurazione sono stati già superati. La passione di voler imparare e conoscere ancora, proprio no. Perchè c’è sempre tanto lavoro da dover fare. C’è sempre una spinta ad avere delle passioni E c’è da sperare che domani, svegliandoci al mattino, ci si renda conto che non sono spariti né i treni, né i depuratori. La chimica è stata una chiave, uno strumento di lavoro per approcciare questi temi. Giusto ricordarlo. Rifletto spesso che date queste premesse posso dire di essere stato fortunato a fare il lavoro che ho fatto. E anche quello che cerco di fare qui, raccontando di cosa si occupano i tecnici della depurazione.

Recupero del fosforo: problematiche e progetti di ricerca.

In evidenza

Mauro Icardi

Il fosforo (P) è un elemento essenziale della vita, è presente in tutti gli organismi viventi ed èfondamentale in agricoltura per garantire la produttività dei suoli coltivati. Trattandosi di una risorsa nonrinnovabile e limitata, la crescente domanda di fertilizzanti sta gradualmente esaurendo le riserve di rocce fosfatiche. Inoltre i giacimenti di fosforo sono situati in zone specifiche del pianeta. Alcuni dei paesi produttori di fosforo si trovano in condizioni di instabilità geopolitica. Questo rende il prezzo soggetto a forti variazioni, ed allo stesso tempo meno certa la possibilità di approvvigionamento.  L’Europa nord-occidentale importa l’88% del fabbisogno di fosforo, circa 6,37 milioni di tonnellate per anno, da nazioni non appartenenti all’Unione Europea.

 Il fosforo può essere recuperato in diverse fasi del trattamento delle acque reflue, sia sulla matrice acqua che sui fanghi di depurazione. I fanghi di depurazione che si producono alla fine dei trattamenti eseguiti sull’acqua da depurare, contengono circa il 95-99% di acqua e l’1-5% di materia secca. Purtroppo In Italia forse più che in altri paesi, esiste un diffuso senso di perplessità nei confronti di tutto quello che riguarda la gestione ed il trattamento dei fanghi. Con molta probabilità per il risalto che hanno avuto alcune vicende di cattiva gestione. Proprio per questa ragione vanno invece incoraggiate buone pratiche e la ricerca, per la gestione di questi inevitabili residui del trattamento delle acque reflue. E aumentati i controlli sul ciclo dei rifiuti.

Dopo i processi di separazione solido/liquido, la frazione acquosa dei fanghi contiene dal 5 al 20% del fosforo in forma disciolta. Da questa frazione è possibile separare la struvite, sale fosfo-ammonico-magnesiaco. Il processo è conosciuto fin dagli anni 80 ed è utilizzato nei paesi del nord Europa.  Avevo trattato il tema già nel 2015.

 Tuttavia la maggior parte del fosforo (dall’80 al 95%) rimane nei fanghi di risulta, ottenuti dopo i processi di disidratazione meccanica. Se i fanghi vengono essiccati termicamente fino ad avere una percentuale di sostanza secca intorno al 40%, diventano idonei per un processo di termovalorizzazione alimentato dalla combustione dei soli fanghi (mono-incenerimento). La combustione è il trattamento termico oggi più utilizzato (ma non in Italia come vedremo più avanti), per la valorizzazione energetica dei fanghi non idonei per l’utilizzo in ambito agricolo. Il potere calorifico dei fanghi di depurazione essiccati fino al valore del 40% di secco, consente la loro combustione senza necessità di ricorrere all’uso di combustibili ausiliari. Con una progettazione adeguata è possibile recuperare calore per il preriscaldamento dei fanghi, o per la produzione di energia.

La percentuale di fanghi inceneriti sul totale dei fanghi prodotti è del 3% in Italia, 19% in Francia, 24% in Danimarca, 44% in Austria, 56% in Germania, 64% in Belgio, e il 100% nei Paesi Bassi e in Svizzera. Negli Stati Uniti e in Giappone le percentuali sono rispettivamente del 25% e del 55%.  In Svizzera è stato vietato totalmente l’utilizzo agricolo dei fanghi di depurazione.  I fanghi di depurazione in Svizzera sono destinati unicamente all’incenerimento, dopo essere stati sottoposti a disidratazione ed essicamento termico.

Il recupero del fosforo può essere effettuato precipitandolo come struvite dalle acque di risulta del processo di disidratazione dei fanghi, prima che esse siano reimmesse all’ingresso del trattamento depurativo. Queste acque ne contengono all’incirca il 15% del totale. Il rimanente quantitativo, come detto precedentemente, è concentrato nei fanghi umidi. In Svizzera cantone di Zurigo ha realizzato un impianto centralizzato che tratta 84mila tonnellate/anno di fanghi umidi, e produce 13000 tonnellate/anno di ceneri ricche di fosforo residuo del processo di incenerimento. I fanghi provengono da tutti gli impianti di depurazione cantonali. L’ufficio federale per l’ambiente della Svizzera sta modificando la propria normativa sui  rifiuti, ed ha già rilasciato permessi per lo stoccaggio delle ceneri derivanti da incenerimento dei soli fanghi di depurazione. Questo in previsione di poter sviluppare una tecnica adatta ed economicamente conveniente per il recupero del fosforo da questa matrice, con l’intenzione ridurre drasticamente l’importazione di fertilizzanti a base di fosforo. Anche in Danimarca si sta procedendo nella stessa maniera.

Le ceneri di fanghi di depurazione ottenuti da incenerimento potrebbero diventare delle principali risorse secondarie di fosforo. La percentuale di fosforo presente nelle ceneri, espressa come anidride fosforica, di solito varia tra il 10 e il 20%, cioè praticamente uguale alle percentuali presenti nelle rocce fosfatiche minerali. In Svizzera ma anche nell’Unione Europea e in Italia, sono stati sviluppati negli ultimi anni diversi progetti finanziati dall’Unione Europea per lo sviluppo di tecniche per il recupero del fosforo. Non soltanto dalle acque reflue, ma anche dai residui dell’industria agroalimentare, di quella farmaceutica e di quella siderurgica.  

In Lombardia un gruppo di aziende del ciclo idrico ha sviluppato in collaborazione con il Politecnico di Milano, l’università degli di studi Milano-Bicocca e IRSA CNR la piattaforma Per FORM WATER 2030. Le attività di ricerca mirano ad ottimizzare le risorse e a sviluppare tecniche per il recupero di energia e materia dai depuratori. Relativamente al fosforo, il recupero effettuato sui fanghi umidi è una strada ormai abbandonata, per ragioni di scarsa convenienza economica.  L’attenzione si è focalizzata quindi sulle ceneri da mono incenerimento di fanghi, e principalmente su due tecniche per il recupero del fosforo da questa matrice: la lisciviazione acida, e l’arrostimento termico. Il processo termochimico è costituito da un dosaggio di cloruro e da un trattamento termico tra gli 850 e i 1000°C in modo da rimuovere i metalli pesanti. Questa tecnologia nasce a partire dal progetto europeo SUSAN EU-FP6.  In un forno rotativo le ceneri dei fanghi reagiscono con Na2SO4 lasciando evaporare i metalli pesanti e precipitare le ceneri contenenti fosfati.

Nei processi di lisciviazione a umido si effettua una dissoluzione in ambiente acido  (pH< 2) seguita solitamente da una filtrazione, oppure da una separazione liquido-liquido e una successiva precipitazione o scambio ionico. Le tecniche sono attualmente ancora allo stadio realizzativo di impianti pilota. In Italia le sperimentazioni si fermano alle prove di laboratorio, in quanto attualmente sul territorio nazionale non esistono impianti di incenerimento dedicati unicamente alla combustione di fanghi.

Il passaggio allo stato applicativo vero e proprio è ancora frenato dai costi del processo. Se attualmente il prezzo medio del fosforo ottenuto da rocce fosfatiche è di circa 1-1,2 €/Kg le tecniche sperimentali per estrarlo da ceneri arrivano ad un prezzo di produzione pari a 2-2,5 €/Kg. Ma la crescita della popolazione, l’impoverimento dei suoli, la siccità potrebbero essere fattori che con molta probabilità potranno concorrere ad ulteriori richieste di fosforo sul mercato. Ed è facile prevedere la possibilità di ulteriori rincari e difficoltà di approvvigionamento.

Non sono a mio parere importanti le sole considerazioni tecnico-economiche. I passaggi precedenti allo sviluppo di queste tecnologie dovrebbero riguardare un uso meno esasperato della concimazione dei suoli, una diminuzione dello spreco di cibo, una procreazione ponderata e ragionata. Una educazione alla conoscenza delle leggi naturali, delle dinamiche dei cicli biogeochimici, una disintossicazione da un consumismo esagerato e compulsivo, seguito da una negazione dei problemi ambientali del pianeta terra che non ha più nessuna giustificazione logica.

La chimica in questo senso riveste un ruolo fondamentale.  La chimica è studio della materia e, come diceva Primo Levi, non interessa affatto quale sia la sua origine prossima. Se siamo stati distrattamente avidi depauperando le risorse disponibili, dobbiamo imparare e costruire la chimica e la tecnica delle materie residue.

Fango che respira

In evidenza

Mauro Icardi

Un impianto di depurazione acque reflue è un impianto che raccoglie le acque nere (civili oppure industriali) con l’obiettivo di ridurre la concentrazione di inquinanti a limiti inferiori a quanto stabilito dalla normativa, prima dello scarico in un bacino idrico. 

La sostanza organica negli impianti di depurazione viene valutata normalmente con la determinazione del COD e del BOD5. Il rapporto tra le concentrazioni di questi due parametri fornisce già una buona indicazione della biodegradabilità del refluo da trattare. Per le acque reflue domestiche il rapporto è di 1,5/2, che corrisponde a una biodegradazione facile. Questo rapporto può arrivare al valore di 2,5/3 senza che nella vasca di ossidazione si verifichino problemi particolari.

Nel fango presente in una vasca di ossidazione si forma una piccola comunità di microrganismi in cui si possono trovare i decompositori (batteri, funghi) che ricavano l’energia per il loro sviluppo dalla sostanza organica disciolta nel liquame, e i consumatori (flagellati, ciliati, metazoi, rotiferi) che predano i batteri dispersi e altri organismi.

La presenza nei liquami in ingresso oppure nei reflui conferiti tramite autobotte di sostanze tossiche può determinare la riduzione o addirittura il blocco del reattore biologico. Gli effetti sono la riduzione della qualità dell’effluente in uscita, e un aumento dei costi depurativi per il ripristino delle normali condizioni di funzionamento. Effettuando un test denominato OXIGEN UPTAKE RATE, conosciuto con l’acronimo OUR test, si può verificare il consumo di ossigeno della biomassa, a seguito dell’immissione di un refluo. Il valore di questa misura viene generalmente espresso come: S OUR= mgO2/g*hr. (OVVERO OUR SPECIFICO) dove il termine g  è riferito alla concentrazione di solidi in g nel fango attivo. Per un periodo di circa quindici anni ho effettuato queste prove, dato che sugli impianti dove ho lavorato vi erano sezioni di impianti di trattamento di reflui provenienti dalla ripulitura delle fosse imhoff ancora molto diffuse sul territorio.

Si tratta di un test di misura di consumo dell’ossigeno molto semplice. Che si conduce inserendo in una beuta un tubicino che insuffla aria (è sufficiente un piccolo compressore da acquario con diffusore poroso); e una sonda per la misura dell’ossigeno disciolto. Nella beuta viene messa un’ancoretta magnetica e la si pone su agitatore magnetico. La sonda viene inserita in un tappo di gomma rossa forato per fare in modo che sia a tenuta di aria. Si tratta di una prova di respirazione a “respirometro chiuso”.   Dopo l’effettuazione di diverse prove, avevo stabilito di lavorare su una quantità in volume di fango pari a 300 ml.  Quando si doveva testare un refluo trasportato da autobotte, oppure valutare preventivamente se poterlo ricevere la quantità totale era pari a 220 ml di fango della vasca di ossidazione e 80 ml di refluo da testare. Areavo il liquame fino ad avere nella beuta una concentrazione di ossigeno disciolto di circa 6 mg/L e iniziavo la lettura del consumo di ossigeno ad intervalli di 15 secondi per un tempo totale di 5 minuti.

Questo parametro definito appunto come S OUR (ovvero OUR specifico) veniva rapportato con i seguenti valori:

S OUR <0,1 il refluo aggiunto è tossico;

S OUR ≤ 0,35 deve essere ripetuta la prova;

S OUR > 0,35 il refluo è idoneo al trattamento biologico.

 Come detto prima le condizioni di prova sono state stabilite nel tempo effettuando diversi aggiustamenti, sia in termini di volume che di tempo per la prova. Una procedura identica veniva effettuata nel caso si volesse integrare il funzionamento dell’impianto in condizioni di scarsità di carico organico, magari con aggiunta di reflui ad alto tenore di carbonio quali residui di lavorazione della birra che sono certamente appetibili per i microrganismi, ma il cui dosaggio deve essere accuratamente valutato. In questo ultimo caso è sempre preferibile non fermarsi alla fase di prove di laboratorio e organizzare una serie di prove tramite impianto pilota. La biomassa aerobica contenuta nel fango consuma rapidamente ossigeno se viene alimentata con reflui rapidamente biodegradabili. E i reflui civili normalmente soddisfano questa condizione. In qualche situazione invece, per inconvenienti di vario genere, mi sono trovato in difficoltà. In un caso per un refluo inquinato da idrocarburi per la rottura di una caldaia alimentata a gasolio: il gasolio fuoriuscito era finito nella fossa settica. In un secondo caso per un refluo che era un cocktail incredibile di residui per la pulizia e di olio lubrificante per auto. Un terzo caso per la massiccia presenza di residui di materiale per le lettiere dei gatti (situazione di cui ho già scritto sul blog). In questo caso era ardua la discussione con gli operatori dello spurgo. Trattandosi di materiale conferito in autobotte e non proveniente da condotta fognaria, era per definizione legislativa un rifiuto. Noi respingevamo il carico facendolo proseguire fino ad una azienda specializzata per il trattamento dei rifiuti allora catalogati come tossico-nocivi, con la quale avevamo una convezione. Il carico doveva proseguire dalla zona di Varese fino in Brianza. Questo scatenava discussioni infinite, che potevano durare ore. Ovvio che io non recedessi dalla mia decisione. Ripetevo il test anche tre volte, ma era un’impresa non facile convincere gli operatori. Senza contare che sarebbero stati addebitati costi aggiuntivi per la nuova codifica del rifiuto, che da assimilabile cambiava tipologia.

Nonostante il test fosse sufficientemente rapido, molto spesso i conducenti delle autobotti che effettuavano le operazioni di spurgo erano soliti pressarmi perché erano costantemente in corsa contro il tempo. Io ovviamente dovevo mediare e dovevo cercare di essere molto paziente.

Ma ad uno di loro che era sempre particolarmente frenetico combinai un piccolo scherzo.  Mi feci portare il campione una seconda volta e iniziai la misura con lui presente. Assunsi un’aria perplessa e nel frattempo pronunciavo frasi di questo tipo: “Questa è una cosa che non ho mai visto” e “Ma qui proprio non ci siamo”.

Quando lo vidi sbiancare buttai la maschera e gli feci capire che non era il caso di avere sempre tutta questa fretta, considerato che per facilitare le operazioni di conferimento il test era stato standardizzato a cinque minuti. Gli chiesi anche se nell’intimità avesse la tendenza a sempre essere così veloce. Forse rischiai che la faccenda finisse male. Ma alla fine capì e ci facemmo una bella risata. La piccola lezione gli era servita. Il servizio di ricevimento di reflui da fossa biologica ora è stato centralizzato nella zona sud della provincia di Varese. Ovviamente questo ha ulteriormente provocato i mugugni degli operatori dello spurgo, soprattutto del nord provincia. Da questa vicenda io ho tratto molte riflessioni, sulla gestione dei rifiuti anche nelle nostre case, sull’importanza di essere intransigenti.  La corretta gestione dei rifiuti direi che dovrebbe essere norma primaria per tutti. Ogni tanto incontro la “vittima” del mio scherzo. Regolarmente andiamo al bar per un caffè e invariabilmente mi definisce un rompiscatole. Io lo ammetto senza nessun problema. Ero allora un giovane tecnico della depurazione che usava una chimica pratica e che affrontava i primi problemi a cui doveva dare una soluzione rapidamente. Un periodo davvero molto formativo, sia sul piano professionale che personale.

Il “bignamino” della depurazione

In evidenza

Mauro Icardi

Mi sono convinto con il passare degli anni, che per lavorare nel settore del trattamento delle acque reflue occorra non solo acquisire delle competenze tramite lo studio e la preparazione teorica. Ritengo molto importante anche l’esperienza diretta sul campo che col tempo aiuta ad individuare con rapidità e sicurezza la causa degli eventuali problemi e malfunzionamenti dell’impianto, permettendo quindi di porvi rimedio oppure di minimizzarne gli effetti. Quando ho iniziato il mio percorso lavorativo in questo settore, mi ero già documentato su uno dei testi che approfondiva la teoria della depurazione biologica, e illustrava la sequenza logica dei vari stadi di trattamento. In questo modo quando il primo giorno di lavoro mi è stato fatto visitare il primo impianto dove avrei lavorato mi sono sentito molto meno a disagio.  Ci sono alcune valutazioni da fare, e alcuni dati indispensabili da controllare giornalmente per ottenere una qualità dell’effluente in uscita che rispetti i parametri di legge. Ma non ci si deve limitare solo a questo risultato. L’acqua scaricata deve il più possibile non alterare gli equilibri ecologici nel corpo ricettore dove verrà reimmessa. Vediamo allora i parametri basilari e fondamentali per il controllo di processo di un impianto di depurazione. Non sono i soli ovviamente, ma sono quelli dai quali non si può prescindere. Voglio anche ricordare che è fondamentale rimanere sempre aggiornati sulle nuove tecnologie e ricerche relative al trattamento delle acque.  La formazione continua non serve solo per ottenere crediti se si è iscritti ad un ordine professionale, ma anche ad approfondire e migliorare il lavoro giornaliero.

Portata di liquame in ingresso.

Parametro chiave per interpretare i fenomeni di depurazione e per attuare tutte le regolazioni a valle che consentono di mantenere il buon funzionamento del processo depurativo. La portata di liquame che entra nel reattore biologico (chiamato normalmente vasca di ossidazione), è direttamente correlata all’efficienza di depurazione del processo biologico.  La portata non è costante nelle 24 ore (a meno che non vi siano sistemi di equalizzazione) ma presenta valori minimi notturni e massimi diurni. Tali oscillazioni possono provocare uno shock al reattore, qualora il tempo di ritenzione idraulico sia eccessivamente limitato (qualche ora), mentre i reattori con tempi di ritenzione di 10 e più ore (perciò gli impianti a basso carico e gli impianti per la rimozione di N e P) diluiscono tali effetti in una grande massa idrica.

Caratteristiche dei substrati in ingresso (COD, BOD, TKN, NH4, N03, P)

La composizione chimica dei liquami in ingresso è uno dei fattori principali, assieme alla portata, che condizionano l’efficienza dell’intero impianto, incluso il sedimentatore finale. Occorre sottolineare che, in taluni impianti, il liquame che entra nei reattori ha subito prima il passaggio in un sedimentatore primario, ed è quindi privo di solidi pesanti e sedimentabili.   In altri impianti, specie i più piccoli, non è sempre prevista la fase di sedimentazione primaria per cui i reattori vengono alimentati con liquame grezzo. Presupponendo una composizione chimica prevalentemente organica dei substrati in ingresso, i parametri di controllo che occorre verificare sono in genere i seguenti: COD totale, COD solubile, BOD5, TKN (azoto totale Kjeldhal), NH4+ N03, N02, P totale, PH, solidi sospesi, solidi sedimentabili.

Bilanciamento dei substrati in ingresso

La biomassa batterica cresce in una miscela nutritiva (il liquame) che contiene generalmente un’abbondanza di sostanze organiche carboniose e una quantità minore di macronutrienti, soprattutto azoto e fosforo, oltre a piccole quantità di Ca, Mg, K, Mn, Fe. Il liquame domestico presenta rapporti di queste sostanze in genere già bilanciati per un’ottimale crescita batterica. Normalmente il rapporto tra BOD: N: P ha un valore pari 200: 5 :1.  Nel caso di alcuni effluenti industriali siamo in presenza di forti carenze di alcuni di essi. Effluenti di zuccherifici e petroliferi sono spesso carenti di azoto e fosforo. Effluenti di allevamenti sono spesso sovrabbondanti di azoto e fosforo. Effluenti industriali nitrici (N03) da denitrificare sono spesso carenti di carbonio. Effluenti industriali con elevate concentrazioni di NH4 + da nitrificare possono essere carenti di fosforo. Le carenze degli effluenti industriali si risolvono spesso immettendo nella miscela le acque dei servizi igienici o della mensa aziendale. Le carenze di carbonio in denitrificazione richiedono dosaggi di sostanze economicamente convenienti come l’acetone, il metanolo o miscele industriali di recupero (prestando attenzione alle impurezze derivate). Le carenze di azoto e fosforo si risolvono con l’utilizzo di sali e soluzioni di uso agronomico (fosfato mono e di ammonico, monosodico o trisodico, acido fosforico, urea). Poiché i dosaggi non sono facilmente teorizzabili occorre effettuare prove di dosaggio in laboratorio, seguite da verifiche su impianto pilota, prima di iniziare i dosaggi operativi.

pH

Questo parametro influenza notevolmente la funzionalità dei processi biologici agendo su diversi meccanismi. Il processo a fanghi attivi opera senza grosse variazioni di efficacia nel campo di pH 6,8 – 8. In genere il valore più comune si aggira su pH 7,5 – 7,8. I valori vengono misurati in continuo all’interno della vasca di aerazione, o in laboratorio su campioni prelevati dalla stessa. Va sottolineato inoltre che il fango attivo è in grado di tamponare brevi immissioni di flussi a pH estremi (da 1 a 11), senza mostrare grandi variazioni di pH nelle vasche di aerazione. Spesso capita che il sistema non mostri di essere stato danneggiato a livello biochimico mantenendo un buon valore di consumo di ossigeno o di altri parametri di attività, ma mostra invece patologie nelle caratteristiche di sedimentazione e biofiocculazione del fango che si manifestano con un effluente torbido e con un’elevata concentrazione di solidi sospesi. Per questi motivi occorre predisporre sistemi di abbattimento per questi veri e propri shock da pH che sono tanto più pericolosi quanto minore è il tempo di ritenzione idraulica della vasca a fanghi attivi.

Temperatura  

La temperatura del liquame influenza il processo a livello biochimico, microbiologico, chimico e chimico-fisico. A fronte di elevate escursioni notte/giorno della temperatura atmosferica, normalmente le escursioni dei liquami di fognatura sono più contenute. Generalmente nei nostri climi la temperatura di un liquame domestico è abbastanza costante (10°C d’inverno e 20°C d’estate) ed in ogni caso senza variazioni repentine nelle 24 ore. In alcune acque di tipo industriale o dove la componente industriale è elevata, la variazione si verifica più frequentemente per cui occorre prevedere sistemi di omogeneizzazione, oltre ad una progettazione più attenta nei confronti del sistema biologico. Per le località montane, specie quelle adibite a sport invernali, può essere a volte necessaria la copertura degli impianti sia per evitare gli inconvenienti dovuti al ghiaccio sia per proteggere l’attività biologica. Per quanto riguarda la grande maggioranza dei batteri dei fanghi attivi, il range ottimo di temperatura si aggira attorno ai 25 °C mentre il campo di massima variabilità oscilla dai 4 ai 40 °C. Per temperature inferiori ai 10 °C si ha un notevole rallentamento della velocità del processo. I processi più sensibili alla temperatura sono quelli dedicati alla rimozione dell’azoto.

2 Dicembre 1973 prima domenica di austerity

In evidenza

Mauro Icardi

2 Dicembre 1973 prima domenica di austerity. Io avevo undici anni, e come quasi tutti i miei coetanei ero affascinato e incuriosito delle automobili. Le osservavo e molte volte per gioco mi sedevo al posto di guida della 500 di famiglia per curiosare e fingere di essere già capace di guidare.  Ma a partire da quel giorno la nostra piccola utilitaria doveva rimanere ferma la domenica.  Per andare a trovare i nonni bisognava riprendere le abitudini di un tempo, tornare a utilizzare autobus e treno. Si applicarono quel giorno i provvedimenti scaturiti dalla riunione del Consiglio dei ministri del 22 novembre precedente per fare fronte all’emergenza energetica dovuta alla riduzione della produzione di petrolio e all’embargo deciso dai governi arabi nei confronti degli stati filo-israeliani (in particolare Usa e Paesi Bassi) come ritorsione agli esiti della guerra del Kippur. Agli italiani, come a molti altri cittadini dei paesi occidentali, furono imposte misure atte a contenere i consumi energetici che incisero sulla vita quotidiana, sia pure per un periodo limitato.

Il divieto di circolazione era esteso a tutti, anche ai rappresentanti delle istituzioni e al presidente della Repubblica. Giovanni Leone infatti, qualche giorno dopo, per andare dal Quirinale a piazza di Spagna per rendere omaggio all’Immacolata Concezione utilizzò una vecchia carrozza a cavalli. Erano esentati dal divieto di circolazione gli automezzi di vigili del fuoco, corpi di polizia, medici, i furgoni postali, i mezzi per la distribuzione dei quotidiani, le auto del corpo diplomatico.  Per gli spostamenti gli italiani potevano utilizzare treni, aerei, navi, taxi e gli automezzi delle linee pubbliche o con licenza di servizio da noleggio. Le multe per chi trasgrediva andavano da 100mila lire a un milione. Il divieto di circolazione ai mezzi motorizzati su tutte le strade pubbliche, urbane ed extra­urbane, iniziava dalle ore 0 e sino alle ore 24 di tutti i giorni festivi (domeniche o infrasettimanali).

Per me quel giorno rappresenta una sorta di imprinting culturale, una giornata di cui ho ricordi vaghi ma che sicuramente ho trascorso in bicicletta pervaso da una sensazione di libertà indescrivibile. Era irreale vedere le strade deserte e senza traffico. Mi piaceva pensare già allora, di poter circolare con meno rischi per la mia incolumità, e mi faceva sorridere che le biciclette, i monopattini, le carrozze o i carri trainati da cavalli circolassero tranquillamente in strada. Poi però iniziai a fare riflessioni diverse spinto anche dai discorsi che sentivo fare dalle persone adulte. E da allora posso dire di non avere più smesso di farle.

Nel 1972 gli idrocarburi (petrolio e gas naturale) coprivano 64,4 per cento dei bisogni energetici; soltanto vent’anni prima la percentuale era del 37,6 per cento: l’improvviso calo della disponibilità di risorse colpì in maniera più diretta il settore dei trasporti, con forti conseguenze sulla produzione e sul mercato dell’auto, uno dei simboli universali della crescita economica. Mio padre era operaio alla Fiat, e pur non lavorando nel settore auto ma in quello della costruzione dei veicoli industriali, nutriva qualche preoccupazione per il proprio futuro lavorativo.

Questi provvedimenti colpirono, oltre alla dimensione politica e sociale, anche quella psicologica. La crisi era una novità imprevista dagli economisti, dal momento che era la prima volta nella storia in cui si assisteva alla concomitanza di due fenomeni: l’inflazione e la stagnazione economica.

Per quanto riguarda l’impatto psicologico colpiva in Italia la sensazione che i tempi del boom economico fossero definitivamente tramontati, o comunque pesantemente messi in discussione.

Il boom economico produsse la creazione di nuovi posti di lavoro, la diminuzione della disoccupazione e il deciso miglioramento del reddito. Ma anche una eccessiva esplosione dei consumi, dovuta anche all’incremento demografico.  Dopo la seconda guerra mondiale, nonostante la Guerra fredda e la persistenza di elevati gradi di conflittualità in alcune aree del mondo, la società occidentale viveva una nuova fase di progresso nella convinzione di poter dominare la natura per le proprie esigenze, grazie soprattutto allo sfruttamento di risorse energetiche derivanti dai combustibili fossili.

Ma a molti erano sfuggite le premesse che si stavano lentamente concretizzando già nel decennio precedente. L’incremento continuo della domanda di petrolio si accompagnò al raggiungimento del picco produttivo da parte degli USA.  Nell’aprile 1973 Il presidente Nixon dichiarò che la domanda di energia era cresciuta così rapidamente da superare le risorse disponibili; da quel momento gli Usa diventarono importatori di petrolio, mentre l’area mediorientale, in cui si concentravano le più grandi riserve, incrementava la propria capacità produttiva. I paesi produttori però, volevano anche maggiore autonomia nella gestione delle risorse, e maggiori proventi dal sistema delle concessioni a scapito delle grandi compagnie petrolifere.

Il conflitto arabo-israeliano del 1973 costrinse i governi occidentali a varare le misure di austerity, e segna l’inizio di un deciso cambiamento rispetto al decennio precedente. Da quel momento inizia a farsi strada una nuova consapevolezza.  Chi ha vissuto quel periodo come me non può non avere capito un concetto che dovrebbe essere patrimonio di tutti: cambiare le proprie convinzioni sull’irrever­sibilità dei processi di sviluppo che poggiavano sulla crescita economica durata ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale.

Cioè accettare il concetto della limitatezza delle risorse non rinnovabili e operare una profonda trasformazione culturale e personale. Il benessere di cui abbiamo potuto godere nel mondo occidentale poggiava le proprie fondamenta su un terreno fragile. Sulla disponibilità ritenuta infinita di combustibili fossili a buon mercato. E poggiava e ancora poggia sulle profonde disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri. Situazioni di cui troppo spesso ci dimentichiamo.

Gli interventi di mitigazione di quella crisi, ovvero il sostegno alla disoccupazione, l’aumento della spesa pubblica e della tassazione finiranno per mettere in crisi il sistema del welfare state e favorire il successo delle politiche neoliberiste che a partire dai primi anni 80 diventano di fatto egemoni non solo nel mondo occidentale ma direi a livello planetario. Il consumismo diventa quasi una religione, promette di supplire ai vuoti esistenziali. La pubblicità promette e indica modelli di vita quasi irreali dove la realizzazione personale si ottiene quasi unicamente con il ricorso all’acquisto di beni materiali. Negli anni 70 c’è consapevolezza dei problemi ambientali ma nel 1983 il nuovo presidente americano Ronald Reagan si rivolge agli americani sostenendo che “non ci sono limiti allo sviluppo del progresso, quando gli uomini e le donne sono liberi di seguire i propri sogni”. E conclude dicendo “avevamo ragione”. Il presidente aveva attaccato esplicitamente quanto contenuto nel libro “I limiti dello sviluppo” semplicemente perché come molti altri politici che verranno dopo di lui, non riesce ad avere visioni di prospettiva, ma è interessato solo ad obiettivi immediati.

 A distanza di mezzo secolo forse qualcuno può vedere il periodo dell’austerity come nient’altro che un curioso fenomeno di costume.

 Le misure entrarono in vigore dal 1dicembre e durarono fino al 10 marzo del 1974, quando fu introdotta la circolazione a targhe alterne. Le restrizioni si con­clu­sero a partire da domenica 2 giugno 1974 con deroghe in occasione di Pasqua e Pa­squetta (14 e 15 aprile). Tutto sommato un periodo di tempo limitato e presto rimosso e dimenticato.

Io invece iniziai qualche tempo dopo proprio con la lettura de “I limiti dello sviluppo” un mio personale percorso di approfondimento sia del tema energetico, che più in generale dei problemi ambientali che ancora oggi dobbiamo affrontare e risolvere. Ho avuto la fortuna di avere docenti che riuscirono a farmi capire l’importanza fondamentale che lo studio della chimica e della termodinamica avrebbero avuto, per la comprensione dei temi energetici ed ambientali.

Non so se nei programmi scolastici si parli dell’austerity. Sarebbe un tema interessante da sviluppare con i ragazzi di oggi, soprattutto nell’attuale periodo. Se confrontiamo le altre misure imposte nel 1973 con quanto ci viene chiesto oggi possiamo vedere che dopo cinquant’anni le cose non sono molto differenti.

Vediamo alcune altre misure del 1973, oltre a quella più ricordata del divieto di circolazione.

  • i negozi e gli uffici pubblici dovevano anticipare la chiusura: per i primi il limite massimo autorizzato era alle ore 19, per i secondi alle ore 17.30. Anche bar, ristoranti e locali pubblici erano obbligati a chiudere alle 24, mentre cinema, teatri e locali per lo spettacolo potevano rimanere aperti fino alle 22.45, con tolleranza sino alle 23. Anche i programmi televisivi dovevano chiudersi entro le 22.45/23.00.
  • l’illuminazione pubblica dei comuni doveva essere ridotta del 40 per cento, mentre le scritte o insegne luminose commerciali poste nelle vetrine e all’interno di negozi e altri locali pubblici dovevano essere spente. L’Enel fu autorizzata a ridurre del 6-7 per cento la tensione erogata tra le ore 21 e le 7.

Come si può notare ci sono corsi e ricorsi nella storia. E se si conosce il passato si possono affrontare meglio le emergenze del presente. Fino a costruire un futuro su basi totalmente diverse da quelle che sono state seguite fino ad oggi.

Una nuova percezione dell’acqua.

In evidenza

Mauro Icardi

Ogni italiano, in media, beve 208 litri di acqua in bottiglia in un anno: siamo primi in Europa, dove la media è di 106 litri, e secondi al Mondo dopo il Messico (244 litri). Questa abitudine sembra quasi impossibile da modificare. Ma pochi giorni fa ho assistito ad una conversazione tra un cliente e la cassiera di un supermercato che mi ha indotto a scrivere questa breve riflessione. Il cliente voleva verificare se il prezzo della confezione di acqua che aveva appena finito di acquistare fosse esatto. Quando la cassiera lo ha confermato ho avuto per un attimo la tentazione di intervenire, per invitare il signore che era stupito e quasi indignato, a confrontare il prezzo dell’acqua in bottiglia con quello della cosiddetta acqua del sindaco, ovvero quella potabile. Alla fine ho desistito sia per ragioni legate all’educazione ricevuta ma anche per la convinzione che non sarei approdato a nulla, iniziando una conversazione che rischiava di farmi passare per inopportuno ed impiccione. L’attuale situazione economica italiana è stata probabilmente la molla che deve avere spinto il signore in fila alla cassa a chiedere la verifica dello scontrino. Quando ogni singolo euro, o centesimo di euro diventa importante, alcuni schemi mentali possono cambiare.

Ma mi sono sempre posto una domanda. In Italia si è molto dibattuto, manifestato e protestato affinché la gestione dell’acqua rimanesse in capo ad un soggetto pubblico. Votarono per questo quesito referendario 27 milioni di elettori, ed il sì al mantenimento della gestione pubblica delle risorse idriche venne votato da 25 milioni di avanti diritto al voto, ovvero con una percentuale del 95%, risultato che si può definire storico.

Ma nonostante questo la mercificazione dell’acqua è proseguita. A livello subliminale, trainata da martellanti campagne pubblicitarie. I molti esperti della nostra salute individuale, siano essi dottori, amici che la sanno lunga, personal trainer o blogger, ci raccomandano in tutti i modi di bere molto e di farlo proattivamente senza affidarci all’occasionale presentarsi di pulsioni come, per fare un esempio, la sete. Concetto giusto ma che porta anche a comportamenti decisamente esagerati.

Se è concepibile che un medico consigli per i bambini un’acqua oligominerale, trovo semplicemente assurdo leggere commenti sui social dove si consiglia l’acquisto di acqua in bottiglia per gli animali da compagnia. Mi fa venire immediatamente in mente ciò che Nicholas Georgescu Roegen definiva crimine bioeconomico.

Sono state immesse sul mercato “super acque” arricchite di elettroliti e proteine e questo di fatto significa che si sta lavorando a un potenziamento funzionale dell’acqua che non si limita alle caratteristiche che l’acqua potrebbe avere naturalmente. Vengono ancora chiamate acque anche se ormai la parola ha perso il suo significato originario, finendo per definire una categoria di merce più che un composto. Cioè proprio quello che il referendum del 2011 voleva evitare.

Credo si debba lavorare sulla percezione dell’acqua. Non solo ragionando su quella che beviamo che in Italia relativamente al consumo di quella potabile rappresenta il 7% mentre il resto si distribuisce per l’uso di cucina, igiene personale e lavaggio indumenti.

Sarebbe necessario riflettere sulla nostra futura disponibilità di acqua. Il modificarsi del regime delle precipitazioni è evidente. Le statistiche mensili pubblicate dal Centro Geofisico Prealpino di Varese mi informano che in settembre alcuni forti temporali hanno portano piogge del 28% più abbondanti della media, ma che il deficit idrico dal primo dicembre 2021 rimane di 709 millimetri. In una provincia che un tempo era nota per l’abbondanza di precipitazioni. In attesa di vedere se ritroveremo neve sulle Alpi per  evitare quanto accaduto l’estate appena trascorsa, quella che abbiamo definito di siccità epocale.

Ma nel frattempo il Segretario Generale dell’Autorità Distrettuale del fiume Po, in merito allo stato idro-climatico del bacino Padano ha dichiarato il 30 Ottobre che: “La situazione è drammatica. E a preoccupare sono le falde ormai molto basse, quell’acqua che arriva dal sottosuolo è vita per la pianura”

Educazione all’uso dell’acqua, o come mi piace definirla educazione idrica ma non solo. Educazione ambientale che deve partire dallo studio della molecola dell’acqua e dalle sue particolarità cioè un ambito di studio prettamente chimico. Dimenticandoci di distorsioni percettive che sono inutili e dannose.