Costruzione e decostruzione di una disciplina scientifica

Alessandro Maria Morelli

Il confronto in atto tra biochimici mi stimola a formulare alcune osservazioni sulle più evidenti criticità che penalizzano la ricerca scientifica. Dovrebbe essere libera, come recitano più articoli della Costituzione italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, art. 9; “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, art 33.

Invece la ricerca scientifica è sottoposta e limitata fortemente da un organismo creato ad hoc, l’ANVUR, che di fatto immobilizza la ricerca. Come mai solo l’attività della ricerca è sottoposta a così rigidi controlli? L’attività economica, per esempio non lo è. Anche l’arte non è soggetta a valutazioni governative della qualità. Solo la ricerca deve sottostare ad un organismo di controllo costituito in prevalenza da burocrati della ricerca, ovvero soggetti che non tengono conto delle seguenti proprietà che valorizzano la ricerca:

  1.  Ricerca vuol dire fare delle scoperte. Trovo che spesso questa intrinseca finalità della ricerca scientifica viene dimenticata. Nella pratica un ricercatore si deve muovere tra i paletti fissati dallo “stato dell’arte” e se trova qualcosa di nuovo deve opportunamente nasconderlo perché non previsto dai progetti di finanziamento. Oggi al ricercatore viene chiesto di attenersi ai protocolli. Ridicolo poi che gli venga anche chiesto quali sono i risultati previsti, una domanda insulsa. Perché la ricerca sarà tanto più valida quanto più risultati “non attesi” avrà.
  2. Si dà troppo credito alle citazioni. Se ci pensiamo bene il citare il lavoro di altri significa stare fermi. Idealmente un lavoro che non porta referenze vuol significare che ha fatto delle scoperte. Ovvero esiste un rapporto di reciprocità inversa tra numero delle referenze e valore di una pubblicazione scientifica. Il paper storico di Watson & Crick su Nature del 25 aprile 1953 riportava solo 6 citazioni e la prima era la confutazione delle tripla elica del DNA proposta e pubblicata dal famosissimo Linus Pauling, il padre del legame covalente, autorità assoluta per la chimica, già in odore di Nobel (che infatti gli fu attribuito l’anno successivo, nel1954). Eppure i 2 sconosciuti e giovanissimi Watson & Crick si permisero di umiliare Pauling dicendo in pratica che aveva visto lucciole per lanterne, perché le macchie nella lastra fotografica proveniente dalla diffrazione a raggi X valutata da Pauling quale indicatore della struttura a tripla elica del DNA, in realtà era dovuta ai sali. 
  3. Noi vediamo solo quello che in filigrana esiste già nella nostra mente. Questo deriva dalla filosofia di Immanuel Kant, mi sembra. Quindi quanto più siamo preparati su un dato argomento, e tanto meno possiamo accogliere una novità perché non fa parte delle nostre categorie mentali. Cioè noi vediamo solo quello che in filigrana è già presente nel nostro cervello per cui siamo naturalmente portati a rifiutare una scoperta perché la consideriamo un inciampo. E la configurazione di queste categorie mentali è in gran parte dovuta ai nostri studi. Più studiamo e più siamo portati a scartare quello che non rientra nei nostri schemi, schemi che si sono consolidati con lo studio e con l’insegnamento.
  4. Una ricerca perde di forza con la “specializzazione”. Molti ambiti della ricerca sono innescati da una osservazione originale al quale seguono tanti interventi che tendono ad enfatizzare la scoperta iniziale. Con il passare del tempo si perde l’ansia di effettuare altre scoperte perché i partecipanti a queste ricerche si specializzano in quell’argomento e quindi nasce la “disciplina” e gli scienziati sono sempre meno recettivi nei confronti delle novità e accade che la tematica non va avanti perché non tiene conto delle anomalie che inevitabilmente emergono.  In altre parole non può nascere un senso critico se l’analisi viene portata avanti con gli stessi criteri che hanno fatta nascere un circoscritto ambito di conoscenze, alias disciplina. Per cui sarà fruttuosa una opera di decostruzione della disciplina stessa, seguendo le indicazioni di George Derrida, il padre del decostruzionismo.

Concludo invitando tutti gli operatori in ambito scientifico a cercare meno sicurezze e garanzie protocollari a sostegno dell’attività della ricerca. La ricerca vuol dire rischio, ed è necessario avere il coraggio di percorrere strade poco battute, come ci ha ricordato Rita Levi Montalcini. Rischio che può essere anche fatale, come testimoniato da Francis Bacon, Madame Curie, Rosalinda Franklin ed altri. Chi vuole fare lo scienziato deve essere disposto a considerare l’ansia per la scoperta come una ferita che non si cicatrizza mai.

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