Plastiche biodegradabili e bioplastiche

Rinaldo Cervellati

Dal 1907, quando fu brevettata la prima plastica completamente sintetica, la bachelite[1], a oggi, le materie plastiche sono aumentate in modo vertiginoso, tanto che difficilmente potremmo farne a meno. Le materie plastiche sono una vasta gamma di materiali sintetici o semisintetici che utilizzano i polimeri come base principale. La loro plasticità consente di modellarle, estruderle o pressarle in oggetti solidi di varie forme. Quest’adattabilità, come la leggerezza, la durevolezza, la flessibilità e l’economicità di produzione, ha portato al loro impiego diffuso. Le materie plastiche sono tipicamente prodotte attraverso sistemi industriali. La maggior parte delle plastiche moderne deriva da sostanze chimiche a base di combustibili fossili come il gas naturale o il petrolio; tuttavia, i metodi industriali recenti utilizzano varianti realizzate con materiali rinnovabili, come i derivati del mais o del cotone.

Poiché la struttura chimica della maggior parte delle materie plastiche le rende durevoli, sono resistenti a molti processi di degradazione naturale. Gran parte delle plastiche può persistere per secoli o più, come dimostrano le seguenti figure, con incalcolabili danni ambientali (fig 1-4).

Figure 1-4. Discariche in spiagge, animali marini e uccelli si cibano di plastiche.

Esistono stime diverse sulla quantità di rifiuti di plastica prodotti nell’ultimo secolo. Secondo una stima, un miliardo di tonnellate di rifiuti di plastica sono stati scartati dagli anni ’50. Altri stimano una produzione umana cumulativa di 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, dei quali 6,3 miliardi di tonnellate sono rifiuti, con un tasso di riciclaggio di solo il 9%.

Per questi motivi sono state studiate e prodotte “plastiche biodegradabili” e “bioplastiche”, parole che sebbene siano simili, non sono sinonimi.

La bioplastica è, secondo la definizione data dall’European Bioplastics, un tipo di plastica che può essere biodegradabile, a base biologica (bio-based) o possedere entrambe le caratteristiche. Più precisamente: può derivare (parzialmente o interamente) da biomassa e non essere biodegradabile (per esempio: bio-PE polietilene, bio-PET polietilentereftalato); può derivare interamente da materie prime non rinnovabili ed essere biodegradabile (per esempio: PBAT polibutirrato, PCL policaprolattone, PBS polibutilene succinato); può derivare (parzialmente o interamente) da biomassa ed essere biodegradabile (per esempio: PLA acido polilattico, PHA poliidrossialcanoati, plastiche a base di amido).

Secondo la definizione data da Assobioplastiche, per bioplastiche s’intendono quei materiali e quei manufatti, siano essi da fonti rinnovabili che di origine fossile, che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili. Assobioplastiche suggerisce di non includere nelle bioplastiche quelle derivanti (parzialmente o interamente) da biomassa, che non siano biodegradabili e compostabili, indicandole piuttosto con il nome “plastiche vegetali”.

Su questo blog molto è stato scritto sulle plastiche, il loro riciclo e la degradazione, qui riportiamo i risultati di una recente ricerca condotta da un gruppo dell’Università di Berkeley, coordinato dalla Prof. Ting Xu [1].

Prof. Ting Xu

I ricercatori sono partiti dalla considerazione che molte plastiche biodegradabili spesso impiegano mesi o anni per decomporsi e anche in questo caso possono formare microplastiche[2] potenzialmente dannose. Essi sono stati in grado di accelerare il processo attraverso enzimi che trasformano la plastica in un rivestimento protettivo che incorpora le nanoparticelle.

L’esposizione a umidità e temperature comprese tra 40 e 60 °C libera gli enzimi, che decompongono i polimeri in monomeri di unità trimeriche in poche ore o giorni.

Il policaprolattone (PCL) e l’acido polilattico (PLA) sono entrambi plastiche biodegradabili, utilizzate per contenitori per alimenti, applicazioni biomediche e sacchetti per rifiuti. Tuttavia, questi polimeri si degradano facilmente solo alle alte temperature che si trovano negli impianti di compostaggio industriale. Ting Xu, un ingegnere chimico, e il suo gruppo del Lawrence Berkeley National Laboratory, dell’UC a Berkeley e dell’Università del Massachusetts intendono consentire anche ai consumatori di degradare queste plastiche in casa propria [1].

Il nuovo materiale del gruppo incorpora nanoparticelle, insieme a enzimi tipo lipasi o proteinasi K e avvolte in un polimero costituito da una miscela di esteri metilenici metacrilici, come il “ripieno” di un raviolo. Questo rivestimento protegge gli enzimi dalle alte temperature necessarie per fondere ed estrudere la plastica a formare fogli e altri oggetti. Il gruppo ha aggiunto meno del 2% della nanoparticelle in peso, quindi esse non interferiscono con le proprietà chimiche o meccaniche della plastica.  Solo quando i ricercatori espongono la plastica all’umidità e al calore o alla luce UV che lo strato protettivo si rompe, rilasciando gli enzimi all’interno. Secondo il polimero e la temperatura del test, l’enzima ha scomposto fino al 98% dei polimeri in appena 30 ore. Gli acidi lattici risultanti possono essere buttati con acqua nello scarico o aggiunti al terreno del giardino, così che la degradazione può essere fatta anche in casa (figura 5).

Figura 5. Gli enzimi incapsulati distribuiti in tutto il policaprolattone accelerano la degradazione del sacchetto in presenza di calore e umidità. Le foto mostrano il materiale prima (a sinistra) e dopo (a destra) il trattamento per 3 giorni. Credit: Nature

Tuttavia, come ricorda Xu, la maggior parte delle materie plastiche è composta di parti sia cristalline sia amorfe. Nelle tipiche plastiche biodegradabili, i microrganismi mangiatori di polimeri presenti nei cumuli di compost, degradano le parti amorfe ma non quelle cristalline. Di conseguenza, i materiali non sono completamente scomposti, lasciando frammenti di microplastica cristallina. Incorporando gli enzimi all’interno della plastica, essi sono in una posizione migliore per accedere alle parti cristalline e degradare completamente i polimeri.

Xu sostiene che il punto chiave è che si possono disperdere gli enzimi a livello nanoscopico, che è la stessa scala delle singole catene polimeriche. Questa dispersione aumenta la disponibilità degli enzimi. La maggior parte dell’enzima sarà abbastanza vicino alle catene polimeriche per catalizzare la loro rottura e quindi non è necessario aggiungerne troppo.

Julia A. Kornfield, ingegnere chimico presso il California Institute of Technology, afferma:

Ci sono stati tentativi precedenti di incorporare enzimi nella plastica allo scopo di degradarli alla fine della loro vita, ma hanno fallito e ho considerato l’approccio un vicolo cieco fino a quando non ho letto questa ricerca. Rispetto ai precedenti tentativi di utilizzare enzimi per abbattere la plastica, le nanoparticelle del gruppo di Xu si disperdono molto più finemente nella plastica, “come la differenza tra le dimensioni di una pallina da tennis e un capello umano”.

Xu e il suo gruppo ritengono che le persone siano in grado di decomporre queste plastiche nelle loro case, sia in vasche di acqua calda o in pile di compost nel giardino. Il metodo sarebbe inoltre compatibile con i servizi di compostaggio municipale su scala più ampia. L’ex studente di Xu e coautore del nuovo lavoro, Aaron Hall, ha ideato uno start-up chiamata Intropic Materials per sviluppare commercialmente queste plastiche.

Opere consultate

L. K. Boerner, Plastics with embedded particles decompose in days instead of years, C&EN, 2021, Vol. 99, n. 15

Bibliografia

[1] C. DelRe, Y. Jiang, P. Kang, et al., Near-complete depolymerization of polyesters with nano-dispersed enzymes. Nature  2021, 592,558–563.


[1] La bachelite (poliossibenzilmetilenglicolanidride) è una resina fenolo-formaldeide termoindurente, formata da una reazione di condensazione del fenolo con la formaldeide. È stata sviluppata dal chimico belga-americano Leo Baekeland (1863-1944) a Yonkers (New York).

[2] Le microplastiche sono frammenti di qualsiasi tipo di plastica di lunghezza inferiore a 5 mm. Qui ci interessano le microplastiche secondarie che derivano dalla degradazione di prodotti di plastica più grandi dopo essere entrati nell’ambiente. Tali fonti di microplastiche secondarie includono bottiglie di acqua e soda, reti da pesca, sacchetti di plastica, contenitori per microonde ecc. È noto che persistono nell’ambiente a livelli elevati, in particolare negli ecosistemi acquatici.