Il futuro è agro-ecologia.

Katia Genovali*, Claudio Della Volpe e Luigi Campanella

La biodinamica non può essere equiparata all’agricoltura biologica secondo il testo approvato dalla Camera dei Deputati e che ha modificato la precedente versione in cui tale equiparazione era di fatto accettata. Il testo approvato è tutto sommato una mediazione: salta l’equiparazione fra metodo biologico e metodo biodinamico in agricoltura, ma quest’ultimo resta fra i beneficiari della legge.

Non si può che essere d’accordo sul non confondere il metodo scientifico con procedure e metodologie esoteriche, non scientifiche e per certi aspetti simili a stregoneria, basate sulle teorie di Rudolf Steiner. Queste ultime incorporano nella biodinamica alcuni dettami dell’omeopatia e dell’agricoltura biologica, che condivide con il biodinamico l’obiettivo di coltivare la terra in equilibrio con l’ecosistema terrestre. Tuttavia, proprio per queste commistioni, il discorso merita un approfondimento, al di là del freddo testo approvato che dovrà ora tornare al Senato per la definitiva approvazione. Ma prima dobbiamo fare un passo indietro e capire il percorso compiuto dall’agricoltura moderna che oggi rende il metodo biologico degno di essere, per certi aspetti rivalutato, sicuramente almeno per quanto concerne le ragioni su cui idealmente affonda le sue radici.

Il cambiamento epocale dell’agricoltura che l’ha resa ciò che conosciamo oggi si è avuto con la cosiddetta “rivoluzione verde”, un processo di industrializzazione e meccanizzazione dell’agricoltura che si è verificato essenzialmente dalla fine della seconda guerra mondiale. Si tende a volte a confondere questo processo col generico sviluppo, basato sulle conoscenze chimiche e biologiche a partire dalla metà del XIX secolo fino a risalire a Justus von Liebig (1803-1873), che scoprì i meccanismi metabolici dei vegetali, e a Gregor Johann Mendel (1822- 1884), che gettò le basi della genetica.

Liebig aveva compreso che gli scarichi fognari delle città potevano rappresentare ricche riserve di azoto e fosforo per l’agricoltura al posto del guano acquistato dall’estero, in perfetta ottica circolare; per questo forse oggi sarebbe il riferimento di una intera generazione di ecologisti e probabilmente un difensore cristallino del riciclo di materia ed energia.

Viceversa l’applicazione odierna della rivoluzione verde, dominata dal mercato, ha deformato le cose, nel senso di considerare prima di tutto la produttività come tale dell’area agricola usata; questo senza porre attenzione all’ecosistema in cui l’agricoltura è inserita con effetti drammatici, quali la riduzione di aree coltivabili e di biomassa, la dipendenza energetica, la riduzione della biodiversità, l’incapacità a riciclare le grandi quantità di N e P messe in circolo. Ma le cose sono poi ancora più articolate.

Un precursore poco conosciuto della rivoluzione verde fu un ricercatore italiano, Nazareno Strampelli (1886-1942), che riuscì ad ottenere fra gli altri il grano “Ardito”, un chiaro riferimento all’ideologia fascista imperante all’epoca; le sue scoperte vertevano essenzialmente sui fenomeni di ibridizzazione delle varietà. Dal punto di vista pratico il suo metodo di incrociare varietà differenti per ottenere nuove cultivar si dimostrò vincente sul metodo allora più in voga di selezionare le sementi solo all’interno di una singola varietà. Gli aumenti di produttività innescati da queste modifiche portarono l’Italia a vincere la cosiddetta “battaglia del grano”, ossia a reagire in modo significativo ai provvedimenti politico-economici scatenati contro l’Italia fascista che aveva invaso l’Etiopia per trovare il proprio posto al sole.

La sostenibilità in agricoltura, focus della rivoluzione verde, può essere misurata tramite indicatori che non sempre vanno a braccetto gli uni con gli altri. Il caso più lampante è quello del consumo di suolo utilizzato da Elena Cattaneo per screditare la sostenibilità del biologico rispetto al metodo convenzionale. È fatto altamente accertato che la produzione biologica necessita di una maggiore quantità di suolo a parità di resa. Tuttavia, presentare solo questo aspetto per valutare la sostenibilità di un metodo agricolo può rivelarsi un approccio, anche in questo caso, pericolosamente riduzionista.  Negli ultimi 150 anni abbiamo trasformato il 40% delle terre emerse in aree urbane o coltivate.

Il suolo disponibile per la coltivazione è in diminuzione a causa dell’aumento costante dell’urbanizzazione (si stima che la percentuale di persone che vivranno nelle città passerà dal 50% di oggi al 70% di qui al 2050), ma anche per la degradazione della qualità del suolo.

I dati italiani mostrano che negli ultimi 50 o 60 anni abbiamo perso oltre 100mila kmq di terreno adibito ad attività agricole e di questi il grosso non è ridiventato bosco, non si è “rinselvatichito”, se non per un 20% mentre il grosso di questa superficie è stata infrastrutturata in qualche modo, cosa che non appare strana se pensiamo che la popolazione nel frattempo è cresciuta di circa 15 milioni di abitanti e la qualità della vita, i bisogni di mobilità e il consumo energetico pro-capite sono aumentati. Il terreno abbandonato dall’agricoltura specie nella mezza montagna si è rinselvatichito forse di più ma la sua qualità complessiva si è ridotta nel senso che la gestione umana è venuta a mancare e i tempi di una riappropriazione “naturale” non ci sono stati: una foresta raggiunge il suo climax in secoli non in decenni. La conseguenza di questo è stata l’incremento massiccio della degradazione del paesaggio, del suolo, l’aumento del numero di “incidenti” naturali devastanti: alluvioni, frane, etc.

L’eccessivo sfruttamento del suolo può portare infatti a una perdita di qualità tale da renderlo inutilizzabile, producendo squilibri sui cicli dei nutrienti e dell’acqua e sulla biodiversità. Un metodo di coltivazione più estensivo permette di preservarne la qualità più a lungo, poiché ne riduce l’impoverimento in nutrienti e numero di specie presenti e aumenta la sua capacità di trattenere l’umidità. In questo senso l’agricoltura biologica offre prestazioni migliori nel preservare la biodiversità, compresa quella microbiotica, e, di conseguenza, la qualità del suolo.

L’altro aspetto da considerare legato al consumo di suolo, di cui pochissimo si parla, è quello energetico. Per aumentare le rese per ettaro è infatti necessario investire quantità maggiori din energia, a discapito dei costi biofisici già esposti (Conforti, Giampietro 1997). Considerando che oltre a una certa soglia ulteriori investimenti energetici non corrispondono a un parallelo aumento di resa, il rapporto tra energia investita e energia ricavata diventa sempre più svantaggioso superata una certa soglia. L’approccio della produzione biologica è quello di ridurre quanto più possibile le pratiche più impattanti sul terreno, come l’aratura profonda del suolo.

Abbiamo detto come la fertilizzazione di sintesi rappresenti uno dei maggiori consumi energetici dell’agricoltura convenzionale. Se aggiungiamo l’alto grado di meccanizzazione, le attività agricole convenzionali in genere contribuiscono maggiormente ai consumi energetici e alle emissioni complessive di CO2 in atmosfera, con maggiori contributi al riscaldamento globale, all’acidificazione degli oceani e, di conseguenza, alla perdita di biodiversità su scala globale. Sarebbe importante, sia da parte della politica che della comunità scientifica, cominciare ad affrontare il problema dell’agricoltura e della sua sostenibilità, presente e futura, con quella complessità che lo contraddistingue, riconoscendo meriti e limiti di ogni approccio finora sperimentato, così come quelli di nuova introduzione. Una complessità che dipende dalla enorme quantità di variabili in gioco, tra cui quella troppo spesso sottovalutata: dietro all’agricoltura ci sono le persone, con la loro necessità di lavorare e sostentarsi, il loro diritto a un cibo sano e sicuro, i loro interessi economici e sociali, la loro cultura, il legame con i loro territori.

Ci sono 5 punti che qualunque strategia deve assicurare; li copiamo quasi pari pari da un aureo libretto di pratica biologica scritto da uno dei padri del biologico europeo, Claude Aubert (Agricoltura biologica, tecniche di base La casa verde 1988) senza condividere per forza le convinzioni dell’autore:

– Produrre alimenti di qualità

– Salvaguardare l’ambiente

– Mantenere o migliorare la fertilità del suolo

– Ridurre o eliminare lo spreco di energia e materie prime

– Permettere agli agricoltori (e a tutti i lavoratori della terra, qualunque ruolo abbiano) di

vivere del proprio lavoro

Questi 5 punti irrinunciabili consentono di capire perché la prospettiva economica misurata a colpi di “rese agricole per ettaro” spesso non tiene esplicitamente conto dei costi sociali, energetici e ambientali e le politiche in questo hanno delle grosse responsabilità. In alcuni paesi emergenti, la scelta di sovvenzionare e liberalizzare i fertilizzanti di sintesi ha reso più conveniente mettere da parte la maggior parte delle problematiche ambientali per andare incontro alla necessità di risparmio di suolo. Non si può inoltre tralasciare come l’incentivazione del biologico possa trainare effetti positivi sulle abitudini alimentari dei cittadini. È stato infatti dimostrato che i consumatori di prodotti bio non soltanto hanno in media abitudini alimentari più salutari, ma adottano stili dietetici di minore impatto ambientale e più ecofriendly.

La ricerca scientifica è di fondamentale importanza per tutto questo discorso, anche per fronteggiare il momento storico che globalmente stiamo vivendo, in un mondo che non ha ancora finito di condividere equamente i benefici del progresso scientifico e tecnologico, ma già deve spartire le conseguenze di uno sviluppo umano troppo rapido per i tempi del Pianeta. E probabilmente neppure le innovazioni che la scienza ci offrirà saranno sufficienti se non capiremo che non si può crescere all’infinito nei limiti fissati dalla materia e dall’energia a disposizione sulla Terra. Dovremo presto porci il problema di dover attingere a una molteplicità di soluzioni che non necessariamente proverranno da quelle fornite decenni fa dalla rivoluzione verde né probabilmente dal biologico. Tutto ciò avrà bisogno di un nuovo nome: agroecologia.

  • Katia Genovali, giovane fisica con un dottorato in astrofisica, si dedica alla divulgazione della scienza e lavora attualmente presso il CNR di PIsa con una borsa di studio.

6 pensieri su “Il futuro è agro-ecologia.

  1. “Il caso più lampante è quello del consumo di suolo utilizzato da Elena Cattaneo per screditare la sostenibilità del biologico rispetto al metodo convenzionale. È fatto altamente accertato che la produzione biologica necessita di una maggiore quantità di suolo a parità di resa”

    Se consideriamo l’intero processo di filiera, non sono certo che il consumo di suolo del convenzionale sia poi tanto inferiore. Alle sue spalle un campo convenzionale ha infatti un giacimento di gas e due miniere, di fosfati e potassio, per realizzare i fertilizzanti di sintesi.

  2. L’ha ripubblicato su Umani 5.0e ha commentato:
    Biologico o convenzionale
    Quale agricoltura per il futuro?

    Il parlamento ha approvato una legge attesa da anni con cui l’Italia decide di sostenere e promuovere il biologico come metodo agricolo di “interesse nazionale”.

    Quanto c’è di scientifico dietro questa scelta? La risposta non è banale, se consideriamo i molteplici fattori in gioco, di cui il consumo di suolo è forse solo il più visibile.

    Ho provato a tirar giù qualche riflessione sul Blog della SCI con Claudio Della Volpe e Luigi Campanella.

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