La chimica ha un lato oscuro?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luciano Celi*

s200_luciano.celiCi si chiede talvolta il motivo per cui certe discipline scientifiche abbiano un’immagine pubblica così negativa. Se si pensa alla Chimica, e soprattutto al suo utilizzo come aggettivo (“questo è chimico”), lo si trova in netto contrasto con ciò che è naturale e “biologico”, quando si parla di cibo e magari di conservanti. Oppure, per trasposizione – sempre in un confronto tra naturale e artificiale – negli oggetti, per indicare un oggetto di scarso valore si dice “è di plastica” (talvolta usando il dispregiativo “plasticaccia”), un materiale meno nobile di quanto lo siano altri (legno, alluminio), ma, lo sappiamo, insostituibile e praticissimo, senza la quale probabilmente l’80-90% degli oggetti che abbiamo intorno a noi semplicemente non esisterebbero.

Eppure la Chimica ci racconta meglio di tante altre discipline com’è fatto il mondo in cui viviamo e quindi è forse utile una distinzione, pur banale, tra la teoria e la pratica, per indicare cos’è che contribuisce così pesantemente alla sua immagine negativa.

Nel nostro Paese senz’altro non è difficile pensare a quel che in molte parti della penisola è accaduto, complice una scarsa – quando non nulla – legislazione a tutela delle persone e dell’ambiente, almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso. I nomi sono noti a tutti, ma vale la pena ripercorrere una di queste storie. Storie la cui importanza è stata tale che adesso hanno, in certi fortunati casi, un riverbero culturale, a partire da quel fortunato filone teatrale inaugurato da Marco Paolini con le sue “orazioni civili” (ricordate la storia del Vajont?).

Il caso più eclatante è forse quello dell’Acna di Cengio, con una storia centennale, messa in scena con l’orazione civile curata da Alessandro Hellmann e Andrea Pierdicca (Il fiume rubato, a questo indirizzo il promo: https://www.youtube.com/watch?v=aIUuL4DSs4s), tratto da libro scritto dallo stesso Hellmann (Cent’anni di veleno, http://www.stampalternativa.it/libri/88-7226-894-x/alessandro-hellmann/cent-anni-di-veleno.html). L’inquinamento, connesso al fiume Bormida, fu di tale entità e portata che non sfuggì, seppure en passant, alla penna attenta di Beppe Fenoglio, scrittore resistenziale, ma non solo, che proprio in un bel raccoBeppe_Fenoglio_croppednto non resistenziale, ambientato sull’Alta Langa, Un giorno di fuoco, fa dire al suo protagonista in una battuta: «Hai mai visto il Bormida? Ha l’acqua color sangue raggrumato perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata che ti mette freddo». Acqua come sangue raggrumato che è metafora potente di quel sangue, purtroppo reale, che è uscito per anni assieme alle urine degli operai della fabbrica, primo segnale di una morte imminente e ineluttabile.

La presa di coscienza della popolazione, proprio a partire da quella che dentro le fabbriche chimiche ha lavorato in quegli anni, fu forte. Leggi e regolamentazioni sono venute dopo; una vera “consapevolezza del rischio” è arrivata dal basso, con la decimazione di molte sono morte di cancro, o del “male cattivo”, come si diceva una volta.

Così «a partire dal 1968, con le lotte operaie, cominciò anche a crescere […] una contestazione ecologica operaia attraverso lotte in fabbrica per il miglioramento delle condizioni di lavoro […]. Si trattava di battersi contro le nocività dell’ambiente “all’interno” delle fabbriche […]. Varie attività produttive avevano avuto – in qualche caso per decenni – effetti gravi sulla salute dei lavoratori. Si possono citare gli esempi dell’avvelenamento dei lavoratori dell’amianto della miniera di Balangero in Piemonte, o delle operaie dello stabilimento (entrato in funzione nel 1857) di filature e tessitura dell’amianto di Grugliasco, vicino a Torino; dell’intossicazione e degli incidenti alla fabbrica di piombo tetraetile SLOI di Trento, alle fabbriche di coloranti, i danni ai lavoratori del petrolchimico di Marghera e alle fabbriche di cloruro di vinile»[1].

L’elenco, come detto, potrebbe essere lungo, come lunghe spesso sono queste situazioni al limite della follia (si pensi alla sentenza sulla fabbrica di amianto a Casale Monferrato), centrate invariabilmente sul ricatto occupazionale e su lotte che in certi casi, come quello Massa-Carrara in occasione dell’ennesimo (e definitivo – nel senso che decretò la chiusura della fabbrica) scoppio della Farmoplant, sono sfociati in una specie di rivolta popolare, garantendo alla zona apuo-versiliese il più alto tasso di tumori al seno femminili della penisola e una serie di disfunzioni croniche alla tiroide, sempre nelle donne.

Una grande lacuna legislativa fino ad anni relativamente recenti e il profitto a ogni costo, soprattutto sociale, sono di fatto le cause che hanno fatto del nostro paese un luogo deputato ai disastri ambientali, come racconta, almeno in parte, l’agile libro della ricercatrice del Cnr Gabriella Corona, Breve storia dell’ambiente in Italia, appena uscita per i tipi de “Il Mulino”.

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«All’inizio del ‘900 il 20% delle industrie italiane era considerato insalubre e la percezione è sicuramente sottostimata. Lo smaltimento di fumi e fluidi tossici avveniva confidando nell’auto-depurazione dell’aria o nella diluizione dell’acqua, inoltre si riteneva che una barriera fisica come un muro, una ciminiera o un pozzo bastasse per mettere in sicurezza scarti nocivi e tossici», dice la ricercatrice del Cnr, e aggiunge: «La sottovalutazione proseguì al punto che nel 1999 si individuarono 57 siti inquinati di interesse nazionale, soprattutto ex aree industriali come Porto Marghera, Gela, Taranto o Orbetello».

Tutto questo ha contribuito senz’altro alla cattiva immagine della Chimica. Che in realtà è il lato oscuro degli uomini che l’hanno gestita a livello di produzione industriale.

Riferimenti.

[1] Giorgio Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, La scuola di Pitagora editrice, pp. 95-96.

*Luciano Celi (1970) dopo la laurea in Filosofia della Scienza all’Università di Pisa, ha conseguito un primo master in Comunicazione della Scienza alla Sissa di Trieste (a.a. 2002-2004) e un secondo master in Tecnologie Internet al Dipartimento di Ingegneria Informatica all’Università di Pisa (a.a. 2012). Attualmente è in congedo dal CNR, dove lavora nell’ambito della divulgazione scientifica, per il dottorato che sta svolgendo presso il Dicam (Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica) dell’Università di Trento, con un progetto sull’Energetica. Ha fondato la casa editrice Lu::Ce.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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