Due storie su cui riflettere.

Mauro Icardi

Le due storie che voglio raccontare potrebbero essere viste come storie che gettano ombre sulla chimica. Invece ci si accorge subito che, come per ogni altro disastro ambientale, sono storie che hanno come denominatore comune il profitto ricercato ad ogni costo; economizzando in maniera scellerata sulle più elementari misure di sicurezza e igiene del lavoro. Di queste brutte storie sentivo parlare quand’ero ragazzo, perché erano vicine anche geograficamente. Cengio non era poi così distante da Mombaruzzo, il paese dei nonni, e Ciriè era ancora più vicina a Settimo Torinese dove ho vissuto. Sono le storie dell’ACNA e dell’IPCA.

L’ACNA nasce nel 1882 e inizialmente si chiama Dinamitificio Barbieri. Nel 1891 la fabbrica diventa SIPE – Società Italiana Prodotti Esplodenti e ha un forte sviluppo. L’area della fabbrica occupa nel 1908 mezzo milione di m² con una produzione di 14.000 Kg al giorno di acido nitrico, 13.000 di oleum (acido solforico fumante) e 2.500 di tritolo. L’impatto sull’ambiente è da subito devastante. Già nel 1909 si arriva a dover vietare l’utilizzo di qualsiasi pozzo che si trovi a valle dello stabilimento. I comuni toccati da questa direttiva sono quelli di Saliceto, Camerana e Monesiglio.  Ma il numero di persone impiegate continua a crescere e negli anni della prima guerra mondiale sono 6000 le persone che vi lavorano. Dopo il primo conflitto mondiale lo stabilimento passa di mano altre due volte, rilevato prima da Italgas per essere riconvertito alla produzione di coloranti tessili insieme agli impianti di Rho e Cesano Maderno.

 Nel 1929 nasce ACNA – Aziende Chimiche Nazionali Associate ; ma nel 1931 la fabbrica passa in mano alla Montecatini e alla IG Farben mantenendo l’acronimo con un significato diverso: Azienda Coloranti Nazionali e Affini. Con le guerre in Abissinia e in Eritrea viene ripresa anche la produzione di esplosivi e gas tossici. Questi ultimi verranno usati anche contro le popolazioni civili e le tende della Croce Rossa, in completo spregio delle convenzioni internazionali che ne vietavano l’uso. Pagina non edificante della nostra storia; da sempre rimossa e di cui si parla poco, e quando se ne parla traspare più fastidio che imbarazzo o vergogna. Negli anni del secondo dopoguerra anche lo scrittore Beppe Fenoglio, nel racconto Un giorno di fuoco, scritto nel 1954 e pubblicato nello stesso anno nella rivista Paragone, descrive e denuncia il degrado ambientale che sarebbe divenuto ancora più grave negli anni a venire: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna.”

 I contadini della Val Bormida citeranno in giudizio la fabbrica già nel 1938, ma tutto finirà nel 1962 in una sconfitta legale. Ovvero oltre al danno la beffa: gli agricoltori saranno condannati al pagamento delle spese processuali. Ma intanto a fine anni 60 le acque del Bormida si tingevano di UN colore diverso ogni giorno. Nello stesso periodo viene chiuso l’acquedotto di Strevi, e il sindaco di Aqui Terme sporge una denuncia contro ignoti per l’avvelenamento delle acque destinate al consumo umano.

Nel 1974 viene iniziata un’azione penale contro 4 dirigenti dell’ACNA, che però verranno assolti 4 anni dopo. Il 1976 è l’anno in cui viene emanata la legge Merli e qualcosa finalmente si muove, non solo in Val Bormida ma anche nel resto d’Italia. Ma le cronache relative alla gestione dell’ACNA parlano di operazioni che hanno dell’incredibile: rifiuti stoccati illegalmente in buche nel terreno. Nel 2000 la Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti accerterà che una quantità di rifiuti dell’ACNA pari a 800 mila tonnellate è stata smaltita illegalmente nella discarica di Pianura, in provincia di Napoli. Bisognerà attendere il 1999 quando l’ACNA verrà chiusa dopo altre decine di proteste, blocchi stradali, l’interruzione di una tappa del Giro d’Italia nel 1988.

L’ACNA rientrerà nei siti di interesse nazionale per le bonifiche, e la bonifica stessa verrà dichiarata conclusa. L’investimento in totale ammonterà  di 51 milioni di euro.(1)

La seconda storia è quella dell’IPCA di Ciriè. Gli operai che vi lavoravano erano soprannominati “pisabrut”

Il nomignolo stava ad indicare un’urina brutta, perché chi lavorava in quella fabbrica si ritrovava inesorabilmente a urinare “rosso”. Tutto ciò era il preludio di una malattia che avrebbe portato alla inesorabile e dolorosa morte di 168 dipendenti.

La Società Anonima Industria Piemontese dei Coloranti all’Anilina (IPCA s.a.), fu fondata nel 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti; nei pressi di Cirié essi individuarono un’area adatta alla fabbricazione di coloranti all’anilina, un tipo di produzione fino a quel momento assente in Italia.

I successi commerciali dovuti alla concorrenzialità dei prodotti IPCA rispetto a quelli delle ditte estere, si ottennero riducendo in maniera considerevole i costi di produzione mediante un metodo di lavorazione obsoleto e altamente nocivo per gli addetti ai lavori.

Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizioni stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.

È così che veniva descritta l’IPCA di Ciriè, a metà dello scorso secolo.  La produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche la cui pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn.

Si racconta che un medico, che lavorava nella fabbrica e che doveva occuparsi della salute dei dipendenti, consigliava agli operai che urinavano rosso di bere meno vino e più latte. Nel 1972  due operai ex lavoratori dell’IPCA, Albino Stella e Benito Franza presentano una denuncia contro l’azienda.  Ecco alcune testimonianze scaturite durante il processo: “Gli operai usano tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi.”

 “Quelli che lavorano ai mulini dove vengono macinati i colori orinano della stessa tinta dei colori lavorati (blu, giallo, viola, ecc.) fin quando non si comincia ad orinare sangue“.

“Quando lavoravo lì, c’era un paio di guanti in tutto per sei persone addette. Mi sono bruciato parecchie volte e ho ancora le cicatrici sulle mani“.

“I colori e gli acidi che si sprigionano corrodono tutto, anche le putrelle del soffitto sono tutte corrose; figuriamoci i nostri polmoni, il nostro fegato, le nostre vie urinarie“.

“In tutta la fabbrica ci sono solo alcuni aspiratori collocati sopra i tini dove viene fatto cuocere il materiale, ma non aspirano tutto. Evitano soltanto che si muoia subito e ci permettono di morire con un po’ più di calma.”

 In seguito a questa vicenda e alle mutate condizioni di competitività commerciale, l’IPCA fallì e cessò definitivamente l’attività nell’agosto del 1982.

Queste sono due storie di cui leggevo il dipanarsi delle vicende sul quotidiano “La Stampa” che mio padre comprava tre volte alla settimana. Sentivo parlare e discutere parenti, amici, e conoscenti. Ho conosciuto anche ragazzi rimasti orfani, perché il loro papà ad un certo punto faceva la pipì “brutta”. E poi moriva.

Da queste storie si evince come non sia del tutto corretto additare la sola chimica come la responsabile di queste storie drammatiche e cariche di sofferenze.

Nei miei primi anni di lavoro ho visto, pesato, ricevuto e trattato i fusti di fanghi della Stoppani di Cogoleto c sui quali eseguivamo il trattamento di riduzione del Cr(VI)  contenuto nei fanghi a Cr(III).  Si lavorava indossando i DPI, eseguendo le visite periodiche e utilizzando cautela, prudenza e buon senso. In quegli anni ho percepito che poteva e doveva esserci un’altra chimica, la chimica che trova le soluzioni per la tutela ambientale. E mi domandavo come fosse stato possibile che un imprenditore, un dirigente, un funzionario potesse dormire la notte, sapendo i rischi a cui deliberatamente sottoponeva i lavoratori

E alla fine il ragionamento porta sempre alla stessa conclusione. È il profitto, la crescita incontrollata, l’incapacità di concepire un modo diverso di lavorare e di vivere, più che la chimica, la metallurgia o qualsiasi altra tecnologia o scienza a metterci nei guai. È la nostra superbia, la pretesa sciocca di poter disporre a piacimento del pianeta e delle risorse. E anche della vita di persone che avevano semplicemente la necessità di portare uno stipendio a casa. La chimica, sin dalle sue origini, si è sempre trovata al centro dell’attenzione, perché le sue ricadute pratiche si sono dimostrate di vitale importanza. E da sempre il difficile equilibrio tra i benefici e i rischi è al centro di un dibattito serrato. Il dibattito unitamente alla ricerca devono continuare. Ma potrebbero non bastare se il profitto rimane l’unica cosa che importa, che sovrasta ogni altra cosa. Anche la nostra umanità se il denaro finisce per diventare un fine ultimo, piuttosto che un mezzo di sostentamento. E queste purtroppo non sono le uniche storie, ma sono quelle che ricordo con un immutato senso di sgomento e tristezza.

  • Dato ricavato dal sito del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, sezione anagrafica dei siti contaminati.

3 pensieri su “Due storie su cui riflettere.

  1. Lo scorso gennaio ho letto dello sversamento di acido in un corso d’acqua in Brasile, cosa che sarebbe alla base della formazione di schiuma:

    https://www.ilpost.it/flashes/brasile-fiume-joneville-acido/

    Possibile? Qual è il processo chimico che ne sta alla base? Non dovrebbe essere invece un discorso di tensioattivi? L’acido attiva qualcosa di organico presente già in sospensione nell’acqua?

    (Gallarate, dove abito, è attraversata dal Torrente Arno – che noi chiamiamo familiarmente Arnetta – che in passato ha pure avuto presenze di schiume “misteriose” e che un tempo, quando frequentavo le medie alle Scuole Maino (mentre ora sono in età pensionabile), vicino al ponte della Contrada del Broed, aveva le acque di un colore diverso per ogni giorno della settimana, a secondo delle tinture che venivano usate, nelle manifatture, per i tessuti e poi, quelle “chiare e tinte acque” andavano a spagliarsi nelle campagne tra Lonate e Castano, quando non addirittura a giungere al Ticino in caso di forti piogge…).

    Da piccolo, a volte, sognavo di andare nottetempo a svuotare una bottiglia di Bagno Schiuma Vidal in una fontana cittadina – o peggio, nel Ticino all’altezza dello “sfioratore” del Panperduto, nel comune di Varallo Pombia, dove l’acqua si infrange sui “prismi”) – per “vedere l’effetto che fa”. Ovviamente mi sono limitato ai sogni, senza però riuscire effettivamente a soddisfare la mia curiosità, nemmeno quando dormivo. Il sogno si interrompeva sempre mentre mi avvicinavo all’acqua col bagnoschiuma. Quindi non mi sono mai sentito colpevole, nemmeno in sogno, di alcun “sversamento”; per fortuna!

    Però mai avrei pensato di sversare acido per produrre schiuma: semmai bagnoschiuma o shampoo (all’epoca, parliamo degli anni ’60, non c’era ancora sul mercato il sapone liquido).

    Ma bando ai ricordi.

    A creare l’effetto schiuma non sono i tensioattivi? Cosa c’entra, questa volta in Brasile, l’acido?

    Un grazie anticipato e cordiali saluti.

    • Nel caso in questione è stato sversato acido solfonico R-SO2-OH il quale contiene nella formula una catena laterale R che è in genere idrofobica; in questo modo l’acido solfonico si comporta esattamente come un tensioattivo, in cui la testa solfonica è carica negativamente e la coda idrofobica è costituita dalla catena laterale R- Non so che tipo di catena fosse nel caso in questione , in genere si hanno catena alchiliche e aromatiche; entrambe possono dare l’effetto, indipendenza delle loro dimensioni e comunque la alchilica è più efficace della aromatica, in genere, ma occorre vedere la sua esatta natura; per quanto riguarda la domanda si tratta dunque di un acido ma anche di un tensioattivo; comunemente i tensioattivi usati sono in forma salina, hanno come controione il sodio poniamo; ma se hanno come controione l’idrogeno ione ecco che sono dei tensioattivi acidi.

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