Bitul B’shishim (una parte in sessanta) (parte 2)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

Bitul B’shishim (una parte in sessanta)”, gli antichi colleghi … talmudici?

a cura di Federico Maria Rubino, Federico.Rubino@unimi.it

la prima parte di questo articolo è stata pubblicata qui

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Sorge la curiosità di capire quando e come questa specifica proporzione abbia fatto ingresso nelle tradizione ebraica, e quale significato questa informazione possa ricoprire nella reinterpretazione della storia dell’Antico Mediterraneo. La codificazione dell’ebraismo nelle sue forme quali sono state trasmesse e conservate per oltre venti secoli è un prodotto storico complesso, cresciuto nel dibattito interno, spesso tutt’altro che pacifico, e attraverso la convivenza, pacifica o tragicamente conflittuale, con gli altri popoli dell’Antico Mediterraneo. In particolare, l’interazione (più spesso conflittuale che pacifica) del giudaismo con l’ellenismo ne ha agevolato, o consentito la conservazione, anche nelle forme sincretiche e nei mutamenti strutturali che lo rendono ancor oggi peculiare, e ciò a differenza di altre culture antiche, di cui non è rimasta quasi traccia. Un evento particolare sembra abbia caratterizzato alcune di queste perdite: Lucio Russo ha recentemente riesaminato un passaggio poco noto della storia antica, focalizzato intorno al 143-142 BCE, ed essenzialmente corrispondente alla contemporanea distruzione di Cartagine e di Corinto da parte dei Romani. Russo trae le conseguenze di questo evento in due saggi, uno recentemente posto anche all’attenzione di questo blog [12].

La sua tesi [12-14] è che, con la sostanziale e rapida distruzione dei centri dell’esperienza ellenistica, sia stata altrettanto rapidamente distrutta e dimenticata anche un’elaborata esperienza intellettuale, quella della fioritura ellenistica, quale l’Occidente non ha potuto ricostruire se non dall’inizio dell’Età Moderna. Il patrimonio intellettuale distrutto, parte del quale Russo ricostruisce nell’ambito della matematica, della fisica [13] e delle conoscenze geografiche [14], appare di livello confrontabile con quello dell’Europa agli albori dell’Illuminismo, peraltro responsabile, sempre secondo Russo, di aver rapidamente dimenticato e distrutto quanto di quelle conoscenze ancora rimaneva, con l’obiettivo ideologico di far nascere ex-novo, “per solo Lume di Ragione” le proprie scoperte.

Per le scienze “immateriali”, quale la “matematica” e la “fisica” (comunque si voglia distribuire tra esse il patrimonio metodologico e conoscitivo quale a noi appare oggi), quanto è stato tramandato anche in forma lacunosa, incomprensibile spesso agli stessi intermediari, risulta spesso sufficiente per trarre ipotesi speculative sulla natura e sul livello delle conoscenze degli Antichi, quelli “prima del crollo”. Al contario, per altre forme di conoscenza della realtà materiale, tra cui la manipolazione cosciente della materia (vulgo, la “chimica” nelle sue accezioni più ampie), questa ricostruzione appare maggiormente lacunosa nella disponibilità di fonti e più dubbia, in particolar per quanto riguarda la transizione “Dal Mondo del pressappoco all’universo della precisione” (come suona il titolo del saggio di Alexandre Koyrè [15], la cui tesi di fondo Russo intende ridimensionare), ovvero nell’adozione di criteri quantitativi e dei modelli teorici che li giustificano.

La tesi che può essere sviluppata a partire dalla prescrizione rituale degli Ebrei antichi e contemporanei “una parte in sessanta” è che anche le conoscenze “chimiche” (continueremo a utilizzare d’ora in poi termini quali chimico, biologico, farmacologico, per quanto apparentemente in modo anacronistico, nella loro forma estensiva di manipolazione cosciente e finalizzata delle proprietà della materia) dell’Antico Mediterraneo erano basate su criteri quantitativi di complessità confrontabile con quelli che la tecnologia chimica e l’immagine chimica dei fenomeni biologici hanno posseduto fino alla “rivoluzione analitica” di metà ‘900. Ipoteticamente, in sostanza, nella prescrizione halachica “uno in sessanta” rivive una traccia “fossile” di un sapere chimico e farmacologico basato sulla consapevolezza dell’esistenza di criteri di proporzionalità misurabile tra le quantità di materia e alcune almeno delle loro proprietà o conseguenze e sul suo impiego consapevole nelle applicazioni pratiche. Questa consapevolezza quantitativa era parte dell’apparato conoscitivo degli Antichi “prima del crollo” ed è sopravvissuta in forme empiriche, conservata in ambiti, quale appunto quello dell’osservanza rituale ebraica, anche quando delle sue ragioni e della sua esatta formulazione era venuto meno il ricordo.

Innanzitutto, operare per rapporti costanti, piuttosto che per quantità assolute, semplifica molte operazioni tecnologiche, specie in assenza di unità di misura condivise, costanti, riproducibili, come sarà, e tuttora solo in parte, solamente attraverso l’introduzione di una base universale e delle unità metriche decimali da parte degli uomini della Rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico. Russo suggerisce che alla misura della circonferenza terrestre da parte di Aristarco di Samo (Eratostene) e alla sua espressione come 252.000 “stadi” corrisponda in realtà non solamente la misura geodetica in quanto tale, ma anche l’adozione quale unità di lunghezza una basata appunto sulla circonferenza equatoriale terrestre (anziché dell’arco di meridiano, come scelto da Delambre e Méchain alla fine del XVIII secolo) e sulla definizione di un suo comodo sottomultiplo (il numero 2.520 è divisibile per tutti gli interi compresi tra 2 e 10) quale grandezza campione.

La stechiometria dopotutto garantisce la possibilità, oggi del tutto ovvia e conseguente alla struttura della materia alla scala atomica e molecolare, ma in precedenza basata su assunti empirici di solidissimo buon senso, di aumentare o ridurre la scala delle operazioni chimiche, mantenendo la garanzia del risultato atteso, a condizione di mantenere sotto controllo i rapporti reciproci degli ingredienti. Questo procedimento svincola dalla necessità, altrimenti non eludibile, di fissare anche per la quantità di materia unità di misura condivise, specialmente in assenza (o nel perimento) di istituzioni stabili per la loro custodia e il controllo della rispondenza degli strumenti di misura pratici ai campioni di riferimento.

Il numero “60” è la base del sistema sessagesimale, introdotto dagli antichi Sumeri e babilonesi e tuttora impiegato per la misura degli intervalli di tempo e degli angoli. Per questa ragione esso rappresentava anche per gli Ebrei di Babilonia, che costituivano la componente maggioritaria della popolazione diasporica al tempo delle prime redazioni della tradizione orale, una base familiare per il calcolo. Esso appare inoltre possedere il valore di un numero preciso, piuttosto che alludere a una quantità “indefinitamente alta”, affidata fin dal Genesi ad espressioni legate al numero sette.

Lamech, discendente di Caino, rivendica: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,23-24).

e l’espressione veterotestamentaria “settanta volte sette” è a sua volta citata nella “Parabola del servo senza pietà”: In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.” (Matteo 18,22,).

Il numero “60” è espresso in fattori primi come 22 * 3 * 5, e possiede un’impressionante serie di ben 12 divisori, che lo rende agevole l’impiego come base per unità di misura con multipli e sottomultipli. Meglio ancora, i suoi tre fattori primi costituiscono la più piccola terna pitagorica (ovvero: 32 + 42 = 52), ampiamente nota, almeno su base empirica, anche nell’Antico Oriente, e per questa ragione altrettanto largamente impiegata per il tracciamento di allineamenti perpendicolari sul terreno.

1601Una corda lunga 12 unità arbitrarie di lunghezza, annodata ai capi, consente di individuare con certezza la direzione perpendicolare a un allineamento dato, sul quale è identificato a turno ciascun cateto: utilizzando l’ipotenusa lunga 5 unità per definire univocamente la posizione del terzo vertice del triangolo e ripetendo due volte il procedimento, si identifica sul terreno anche la lunghezza del segmento unitario. Utilizzando la base sul terreno per costruire i triangoli rettangoli simmetrici, si identifica anche l’allineamento parallelo alla base originaria. La medesima corda consente anche di disegnare sul terreno triangoli equilateri, ad esempio nel numero di sei, fino a tornare all’allineamento di partenza. Generazioni di praticanti il “gioco di Kim” hanno ripercorso il cammino dei geodeti (arpedonapti, tenditori di funi) e degli architetti “empirici” (?) che edificarono ziggurat, piramidi, templi Maya e altre strutture edilizie macroscopiche.

1602La medesima proprietà della terna pitagorica fondamentale rende semplice dimensionare in modo “esatto” una coppia di recipienti i cui volumi stiano tra loro come 1 sta a 60. Il minore è un “cubetto” di lato unitario, quale che sia la lunghezza arbitrariamente assunta come unità. Il maggiore è un parallelepipedo retto le cui dimensioni sono, appunto, 3, 4 e 5 unità. Ora è sufficiente diluire “un volume” del prodotto incriminato, versato dal recipiente minore, nel recipiente maggiore per avere la certezza di una diluizione 1:60, con una singola operazione.

La Jewish Encyclopaedia ricostruisce le unità di misura impiegate nell’antico Israele, nelle quali si alternano i sistemi delle due principali aree geopolitiche di riferimento, quella babilonese e quella egizia. Per le misure di capacità, il sistema ebraico coincide con quello babilonese, sessagesimale, la cui unità fondamentale (maris, in ebraico mina) aveva come multipli i fattori 12, 24, 60, 72 (60 + 12), 120, 720 [16]. Al contrario, il sistema egizio adottava per i multipli dell’unità fondamentale di capacità la progressione geometrica regolare di ragione 2: 1, 10, 20, 40, 80, 160 [17].

Successivamente, il Talmud (composto tra il II secolo E.V. a Babilonia, Talmud Babilonese o Talmud Bavli, e il V secolo, in Palestina, Talmud Palestinese) fa menzione di una unità di capacità per liquidi, il log, e dei suoi sottomultipli, il mezzo, il quarto, l’ottavo, il sedicesimo e il sessantaquattresimo di log.

1603Il divisore “64” è assai prossimo a “60” e, al contrario del fattore di diluizione per il bitul, è esprimibile attraverso la progressione geometrica delle potenze di 2 come 2 6. La diluizione 1:64 può essere raggiunta per diluzione successiva (6 volte) di un volume del prodotto da saggiare con un egual volume di diluente, alla sola condizione di disporre di un recipiente “di riferimento” (o di 2 uguali, un misurino per il prodotto e uno per il diluente) e di 7 recipienti di volume almeno doppio. La tecnica è semplice: versiamo “un misurino” del prodotto da saggiare nel primo recipiente grande e, (con il medesimo misurino, ben lavato –siamo kosher o pasticcioni?- o anche con uno perfettamente uguale) un egual volume del diluente. Riprendiamo dal primo recipiente grande un misurino della miscela alla prima diluizione (1 a 2) e versiamola nel secondo recipiente grande, seguita da un misurino di diluente, per ottenere la seconda diluizione (1 a 4), e così proseguendo fino alla sesta diluizione (1 a 64).

Senza abbandonarsi agli anacronismi e senza voler scorgere precursori là ove non ne possono esistere, non è inverosimile pensare che il sapere scientifico distrutto con le civiltà mediterranee ellenistiche sia sopravvissuto nei termini empirici resi indispensabili dalla necessità pratica di fornire beni e servizi, e è verosimile che essi restino radicati alla periferia, nelle pratiche degli artigiani, affidate alla tradizione orale ed acquisite con l’affiancamento dei neofiti ai veterani. Ciò può essere accaduto, nel medesimo teatro storico, per la memoria di antiche rotte oceaniche nell’Atlantico centrale (le ipotesi avanzate da Russo su viaggi transoceanici fino alle isole caraibiche tra il IV e il II secolo a.C., continuate da navigatori gaditani anche oltre l’età del grande crollo) e settentrionale (nei Grandi Banchi, ove i Baschi si rifornivano di enormi merluzzi per il Venerdì di magro dell’Europa medievale [18]).

[…] Il vecchio Cometto aggiunse che la vita è piena di usanze la cui radice non è più rintracciabile […] Io … mi accinsi a raccontare la storia della cipolla nell’olio di lino cotto. Quella era infatti una mensa di verniciai … raccontai che in un ricettario stampato verso il 1942 avevo trovato il consiglio di introdurre nell’olio, verso la fine della cottura, due fette di cipolla, senza alcun commento sullo scopo di questo curioso additivo. […] si giudicava della temperatura della cottura […] immergendo nell’olio una fetta di cipolla infilata sulla punta di uno spiedo: quando la cipolla cominciava a rosolare, la cottura era buona. Evidentemente, col passare degli anni, quella che era stata una grossolana operazione di misura aveva perso il suo significato e si era trasformata in una pratica misteriosa e magica. [19]

Questo meccanismo di trasmissione della conoscenza è notoriamente di limitata affidabilità, o meglio il suo scopo è, in termini pragmatici, di mantenere apprezzabilmente affidabile il processo, piuttosto che di capirne le ragioni. Quando esse vengono ricostruite a posteriori, può essere venuta a mancare la conoscenza dei presupposti conoscitivi originari, ed essi possono essere sostituiti da altre spiegazioni, anche arbitrarie, ma che apparentemente forniscono il medesimo risultato.

La tecnica delle diluizioni progressive è antica ed ampiamente utilizzata, ed è durata anche nelle scienze empiriche, almeno dall’avvento della fisiologia e della farmacologia quantitativa, a metà dell’800. Da allora, essa ha costituito la base operativa per l’identificazione di sostanze biologicamente attive nelle miscele complesse, quali gli estratti vegetali e gli omogenati di tessuti, e per seguirne l’arricchimento nelle procedure di frazionamento, fino all’isolamento dei principi attivi. Ancora fino a pochi anni fa, i risultati di alcuni saggi analitici con valore di diagnosi clinica, quale la presenza e la concentrazione di allergeni e di anticorpi, venivano espressi in unità di diluizione (maggiore è la diluizione, maggiore la concentrazione iniziale nel campione saggiato). Un’applicazione attuale del medesimo principio è la misura dell’odorosità delle emissioni (da camini, impianti, sorgenti diffuse) con il metodo dell’olfattometria dinamica, standardizzato dalla norma europea EN 13725.

Che la cultura ellenistica possedesse un sapere biomedico tutt’altro che elementare, e che esso fosse basato su osservazioni di natura quantitativa e su presupposti teorici basati su modelli fisici interpretati in veste geometrica e matematica, è stato ricostruito anche in base alla reinterpretazione di quanto pervenuto “dopo il grande crollo” attraverso la mediazione romana (Galeno e Celso) e successivamente bizantina e araba. Seguendo la ricostruzione di Russo, l’ottica geometrica era alla base di una fisiologia dell’occhio e della visione sorprendentemente “moderna” (al contrario: i “moderni” hanno dovuto faticare per oltre quindici secoli, per ricostruire quanto perduto in pochi decenni di guerra di annientamento).

Le ricostruzioni storiche della medicina antica mantengono un rapporto assai ambiguo sulla questione se e come gli “Antichi” abbiano affrontato la questione della sperimentazione diretta delle ipotesi fisiologiche su organismi viventi, animali e umani. L’evidenza che ad Alessandria questa pratica fosse accettata e praticata, almeno nelle forme della sperimentazione cruenta su individui viventi è fornita dal fatto che i medici sperimentatori Ierofilo ed Erasistrato poterono identificare alcune funzioni, quali la differenziazione tra nervi motori e nervi sensori nell’uomo, attraverso la loro dissezione in soggetti viventi, esperimento evidentemente inutile in un cadavere.

Mitridate IV, re del Ponto, nell’odierna Turchia, vissuto tra il 134 e il 63 A.C., è passato alla Storia per essere riuscito a scampare attentati alla propria vita compiuti con l’uso di veleni (essenzialmente l’ossido di arsenico o miscele di alcaloidi vegetali) facendosi somministrare dai propri medici un trattamento cronico preventivo basato sull’assunzione di dosi dei veleni sub-tossiche, ma che erano tuttavia in grado di potenziare i naturali meccanismi biologici di detossificazione. Il trattamento lo rese in grado di tollerare l’assunzione acuta di dosi che sarebbero risultate tossiche o mortali in individui privi del trattamento preventivo (mitridatismo), al punto che, sconfitto dai Romani, dovette ricorrere per il proprio suicidio ad un’arma piuttosto che al veleno. Anche questo episodio, documentato da storici Romani successivi, rispecchia la padronanza, da parte dei suoi medici, di nozioni di farmacologia quantitativa piuttosto complesse, utilizzate per l’aggiustamento della dose nel tempo e per il mantenimento della “forza” (attività biologica) delle preparazioni lungo parecchi anni di trattamento. “Sbagliare” accidentalmente la dose di pozione in eccesso avrebbe significato causare nel re un’intossicazione acuta, verosimilmente non fatale e in grado, quindi, di scatenare la reazione dell’illustre paziente dotato di poteri assoluti di rappresaglia nei confronti dei suoi infedeli servitori; somministrare, per prudenza, il trattamento a dosi insufficienti a mantenere l’effetto protettivo avrebbe reso il re vulnerabile, ma in caso di fallimento dell’attentato, i medici avrebbero dovuto pagare le conseguenze della loro malpractice. Non è inverosimile che le preparazioni dovessero essere “titolate” all’atto della loro manifattura e a intervalli regolari, per assicurarsi della loro costante efficacia negli anni, e specialmente quando, esaurito un lotto, occorreva premunirsi di preparare il successivo.

Un saggio ormonale per diagnosticare lo stato di gravidanza è riportato in un papiro egizio datato al 1350 a.C. (Papiro di Berlino), ed è basato sull’osservazione dell’effetto dell’urina di una donna gravida nel promuovere la germinazione dei semi di orzo e di grano. Questa osservazione è ripetuta, in forma modificata, in un papiro demotico successivo, che utilizza quale organismo indicatore un’erba palustre del Nilo. Un articolo del 1939 [20] era già in grado di ipotizzare che l’esito positivo del saggio proposto fosse dovuto agli ormoni gravidici che venivano isolati dagli endocrinologi proprio in quel periodo. Queste osservazioni sono state riesaminate anche recentemente, verificandone la sostanziale rispondenza alla realtà [21-25].

Il Giuramento di Ippocrate, base dell’etica medica fin dal IV secolo A.C., contiene un esplicito impegno a non somministrare un agente tossico ad alcuno, se richiesto, e a non prestarsi a dar consigli in proposito. Come altre prescrizioni proibitive, anche questa fa ipotizzare che un coinvolgimento in tale senso di figure professionali esperte fosse se non frequente, almeno possibile, e forniva al medico, ma non ad altri esperti, un modo socialmente lecito per estraniarsene.

L’ambiente nel quale venne a svilupparsi, in poco più di un secolo e mezzo di storia ellenistica, il patrimonio conoscitivo, in termini di metodi e di conoscenze, che comprendeva metodi di misura relativa di “attività biologica” è identificato da Russo nell’Alessandria trilingue (greco-egizio-ebraica) del Museo e della Biblioteca, considerate le prime istituzioni a finanziamento pubblico (ovvero da parte dei Tolomei, i successori ellenistici dei Faraoni d’Egitto) e interamente dedite alla produzione di nuova conoscenza, alla formazione e al perpetuarsi di una classe professionale di studiosi e a guidare la loro applicazione nel contesto produttivo. Quanto resta noto di questa tradizione è stato mediato prevalentemente nella forma deformata del pensiero alchemico, e più per quanto riguarda i metodi di preparazione di sostanze e prodotti utili che per i metodi di riconoscimento e di saggio, che pur dovevano consentire di identificare materie di partenza e prodotti desiderati da tentativi di sofisticazione e impurezze indesiderate. È noto (da Vitruvio, De Architectura IX, 9-13) l’episodio in cui Archimede siracusano (post-doc ad Alessandria, da Eratostene, contemporaneo di alcuni dei Settanta traduttori in greco della Bibbia ebraica) riconobbe che il serto d’oro donato da Dionigi II agli dei conteneva circa un terzo in peso d’argento, effettuando una misura di densità (Oro 19.30 g·cm−3; Argento 10.49 g·cm−3) (Eureka!) [26]. La meraviglia con la quale il fatto (ovvero l’analisi non distruttiva del pregevole e sacro manufatto) venne tramandato implica che, se esso avesse potuto essere manomesso e il metallo saggiato, tale controllo sarebbe stato assai più agevole, in quanto sarebbero esistiti metodi consolidati per farlo: nel caso dell’oro e dell’argento, essi avrebbero implicato non solo una conoscenza delle proprietà, che oggi diremmo chimiche, dei due metalli, ma anche la disponibilità di acidi minerali forti.

Russo avanza la congettura che almeno questo possa essere avvenuto, anche sulla base del racconto riportato da Tito Livio, secondo cui Annibale avrebbe rimosso grandi massi, nel suo attraversamento delle Alpi, aggredendoci con “aceto”, ovvero con acidi minerali forti.

Nessuna di queste informazioni e considerazioni è in grado, per se, di farci immaginare il Museo di Alessandria (o le altre Scuole, a Rodi e a Pergamo) trasformato nel Collége de France, al tempo di Claude Bernard. È inoltre indimostrato (e forse anche improbabile), che studiosi di confessione mosaica abbiano potuto, o voluto far parte del personale scientifico del Museo. Non è però inverosimile che la titolazione di miscele farmacologicamente attive, colà prodotte per scopi sperimentali o quali rimedi, potesse avvenire, per assicurarne la costante attività, attraverso saggi in animali (ed eventualmente nell’uomo). In questo caso, il metodo delle diluizioni successive di ragione 2 sarebbe stato facilmente compatibile anche con la scala delle unità di misura familiari agli Egizi ellenizzati e agli Ebrei ellenistici di Alessandria.

Questi ultimi verosimilmente affrontavano con frequenza il problema del bitul, e in qualche momento adottarono il criterio della diluizione come un espediente pragmatico nel risolvere la questione, in particolare per accertare quando la presenza del componente inaccettabile era inavvertibile. In Alessandria, adottare per la diluizione la progressione geometrica di ragione 2 sarebbe apparso non solo facilmente applicabile, ma anche congruente con la scala di unità di misura adottate localmente. A mano a mano che, con il ridimensionamento del Museo (il cui direttore fu, dal 145 a.C., un Cida, ufficiale dei lanceri), iniziava a venir meno dapprima la catena di trasmissione del sapere professionale e, subito dopo, la comprensione dei fondamenti razionali delle operazioni svolte, anche il controllo sulle unità di misura diveniva erratico ed opinabile. L’unica comunità i cui componenti avevano ragione di spostarsi erano gli Ebrei, tra cui mercanti e studiosi potevano viaggiare tra Alessandria e la Babilonia, ove viveva la comunità ebraica ancora di maggior prestigio. In qualche momento, si perde la ragione di adottare il criterio di diluizione progressiva di ragione 2, “fino all’assenza di percezione”, e si tenta di uniformare la diluizione a uno specifico valore numerico, che risulta di più immediata comprensione. Lo specifico valore di “uno in sessanta” è il primo per il quale le due scale, quella egizia e quella mesopotamica, risultano sufficientemente prossime; un ulteriore vantaggio potrebbe essere stato rappresentato dalla relativa facilità con la quale può essere riprodotto su una scala arbitraria un recipiente di volume esattamente sessanta volte superiore a quello di un recipiente cubico di lato assegnato. Forse per queste ragioni il valore venne adottato, introdotto nei criteri del kasherut e da allora mai più modificato. È anche possibile che questo specifico valore venne accettato perché appariva “sufficientemente tutelativo” (come verrebbe da esprimersi nel linguaggio normativo contemporaneo) nei confronti di quelle contaminazioni involontarie cui non facevano seguito modificazioni percepibili nell’aspetto o nel gusto dei cibi, evento questo che poneva in essere un criterio differente, e più stringente, di inaccettabilità di quanto preparato.

Quanto sopra ricostruito non ha preso in esame se non un riassunto divulgativo della più recente delle fonti normative ebraiche (il tardo Shulchan Aruch), dal quale non è possibile desumere a partire da quale periodo di redazione, mishnaico, toraico, precedente o successivo, nel kasherut abbia fatto la sua comparsa il criterio quantitativo. Quanto, poi, la definizione di tale criterio abbia potuto realmente beneficiare dell’ambiente sincretico (ma tutt’altro che idilliaco) dell’Alessandria ellenistica e delle sue eccellenze scientifiche, potrà solamente essere desunto da analisi ad hoc della scarsa documentazione esistente. Le storie ebraiche scritte da autori ebrei, anche contemporanei [27], sono esplicite nel conservare la memoria negativa dei continui tentativi di assimilazione, e specialmente di ellenizzazione, compiuti in particolare a partire dal V secolo a.C., e della resistenza svolta da parte delle classi dirigenti e, nella maggioranza, dalla popolazione in patria e nell’emigrazione, volta a non rinunciare alla propria identità nazionale.

Sussiste inoltre l’argomento di Gaunilone, ovvero che se anche in antico fosse stato in linea di principio possibile integrare tutti i passi conoscitivi necessari a costruire una teoria farmacologica di cui la prassi rituale dell’ ”uno in sessanta” costituisce un’applicazione empirica, non per questo i fatti reali avrebbero dovuto svolgersi così come ipotizzato, almeno sulla base dell’assenza di evidenze oggi disponibile. Rimane tuttavia, di questo complesso tentativo di ricostruzione degli eventi di un mondo lontano nel tempo e cancellato dalla memoria storica, l’evidenza del criterio da allora radicato nella legge rituale ebraica, e da allora osservato.

Riferimenti.

Un pensiero su “Bitul B’shishim (una parte in sessanta) (parte 2)

  1. Questioni complesse e al di là dei miei interessi sui numeri rituali di origine astronomica e storica…. faccio presente una derivazione del valore del secondo da parte di Flavio Barbiero, origine dai Maya e apparirà in un mio libro, e come estremamente complessa sia la derivazione del cubito, che va al di là della semplice derivazione di O’Brien in Megalithic Odyssey.

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