Almeno cacciate senza piombo!

Claudio Della Volpe

Pochi giorni fa il Parlamento Europeo ha votato la messa al bando delle munizioni al piombo in tutte le zone umide europee: già a settembre con 18 paesi favorevoli e 9 contrari il comitato REACH aveva votato per una restrizione di pallini di piombo nelle zone umide che vedrebbe una zona cuscinetto di 100 metri attorno a qualsiasi specchio d’acqua, indipendentemente dalle dimensioni, e in tutte le torbiere. Il regolamento verrà ora presentato per l’approvazione e ratificato al più tardi entro l’inizio del 2021. Entrerà quindi in vigore all’inizio del 2023 negli Stati membri dell’Ue a meno che uno Stato membro non contesti la decisione per motivi formali.

L’Italia ha fatto delle sperimentazioni a riguardo e si spera che l’approvazione e la ratifica avvengano al più presto nonostante le resistenze dell’industria e dei cacciatori.

I cigni applaudono!

Perché ha senso questa scelta?

La carne di selvaggina colpita da munizioni al piombo può raggiungere concentrazioni di metallo di oltre 50 volte superiori ai limiti consentiti per il consumo umano.

Inoltre sono oltre un milione ogni anno, secondo le stime, gli uccelli che nella sola Europa finiscono vittime dell’intossicazione da piombo, perché il piombo usato nelle cartucce viene distribuito in ambiente ed entra nella catena alimentare in ragione di migliaia di tonnellate/anno.

Dunque l’uso delle cartucce di piombo provoca due danni alla fauna e uno anche a chi consuma in modo non accorto le sue carni.

Questi problemi sono documentati ampiamente nei documenti ISPRA citati in fondo.

D’altronde il piombo e la sua tossicità sono talmente importanti che già da anni il suo uso (sotto forma di piombo tetraetile) è vietato nella benzina come antidetonante (la benzina è definita verde proprio per questo anche se è ancora lecito metterci dentro benzene in piccola quantità); dunque perché accettarlo in altri casi?

Ci sono problemi tecnici? Per i cacciatori si, ma limitati. Il piombo (come in altri casi l’uranio impoverito) è usato per rendere i proiettili più densi e dunque se si sostituisce il piombo che ha densità 11.3 con un altro metallo occorre cambiare le caratteristiche dei pallini nelle cartucce; al momento la cosa è stata risolta usando acciaio o rame (densità 8 e 9 rispettivamente), aumentando leggermente le dimensioni dei pallini. Ci sono altri dettagli, che potete leggere nei documenti in fondo, ma sostanzialmente, a parte un aumento dei costi, che non credo sia casuale, il commercio e l’innovazione funzionano così, non ci sono altri problemi. Piuttosto la domanda è se sia ancora accettabile la caccia, specie agli uccelli, in una paese come il nostro il cui territorio è stato devastato e inquinato; è vero che negli ultimi anni l’abbandono del terreno agricolo e il GW hanno comportato modifiche e a volte aumento delle superfici forestali, ma ricordiamo che abbiamo il 3% del territorio inquinato in modo sostanzialmente irreversibile e che le foreste ci mettono decenni a crescere; sostanzialmente foreste primigenie non ne abbiamo quasi più e foreste mature ne abbiamo pochissime; gli stessi parchi nazionali esistono da troppo poco tempo per avere queste caratteristiche su porzioni estese di territorio.

Abbiamo si favorito in alcuni casi la ricrescita della fauna e della avifauna, ma ha senso la caccia?

E’ una industria basata su una malintesa ma forte tradizione culturale; questo è il punto: interessi economici e posti di lavoro si uniscono per continuare a cacciare, ma dal punto di vista ecologico serve? Beh sui posti di lavoro è da ridere; pensate  a quanti posti sono recuperabili nella mera gestione dei parchi e del territorio!!

Tuttavia potrebbe sembrare che fin quando le zone che abbiamo ripopolato di ungulati o lasciato abbandonate ai cinghiali rimangono prive di predatori come il lupo o l’orso o spazzini come l’avvoltoio uno potrebbe pensare che dopo tutto una caccia mirata potrebbe essere utile.

Non sono un esperto, ma dalla lettura dei documenti ISPRA noto che nella maggior parte dei casi anche questa spiegazione non regge: i cinghiali per esempio nonostante la ampia caccia non diminuiscono affatto; la ragione starebbe nel particolare meccanismo di controllo della specie; i gruppi di cinghiali si raccolgono attorno ad una femmina che è l’unica a procreare e i suoi feromoni controllano la fertilità delle altre femmine; se uno uccide un cinghiale, e succede di solito che uccida il capobranco femmina, le altre possono procreare e dunque la caccia è poco utile, anzi è controproducente.

Più utili sono i mezzi di controllo della fertilità come i vaccini autoimmuni, che inattivano le cellule della riproduzione, un metodo ancora poco applicato; la questione rimane dubbia per gli ungulati, i cervidi; per loro forse una caccia mirata avrebbe senso, dato l’alto costo del metodo di controllo della fertilità per i cervidi . Forse, non so non sono un esperto.

Per gli uccelli la cosa è invece quasi del tutto inutile anche se dalle mie parti il ritorno del cormorano, che d’altronde era nativo di queste parti da ben prima di Homo sapiens, fa arrabbiare i pescatori; i quali però pescano poi sostanzialmente quello che hanno introdotto; lo stato dei laghi e dei fiumi anche in una regione apparentemente pulita e ridente come il Trentino Alto Adige è ben poco naturale, i fiumi in particolare sono grandi canali dell’industria idroelettrica, personalmente ho smesso di pescarci da tempo; e i cormorani invece sono bravi cacciatori e nei laghi in particolare fanno il loro mestiere, meglio dei pescatori della domenica.

La eliminazione delle cartucce al piombo almeno nella caccia degli uccelli e attorno alle zone umide è molto o è poco? Secondo me è poco.

E’ un primo passo anche se lento; la direzione è giusta, la velocità ridicola. Potrebbe estendere il mercato delle cartucce alternative, ridurne il prezzo. Ovviamente misureremo la capacità del Governo di recepire piccole cose come queste in tempi VELOCI, senza farsi prendere in giro dalle associazioni dei cacciatori, per i quali casomai ci sono piccoli costi aggiuntivi e dei produttori di armi, che come minimo vorranno smaltire i depositi. Piuttosto si può fare di più, vietare SEMPRE l’uso delle cartucce al piombo, in ogni caso.

Una cosa utile è che fa vedere come REACH possa agire su questioni che apparentemente sono lontane dal suo immediato campo di applicazione. Una riflessione negativa è sui tempi; da quanti anni sappiamo che il piombo è tossico e cancerogeno?

Documenti da consultare:

di piombo abbiamo parlato ripetutamente:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2019/10/07/elementi-della-tavola-periodica-piombo-pb-3-origine-del-piombo/

e nei post ivi citati

https://www.isprambiente.gov.it/contentfiles/00006600/6683-linee-guida-gestione-cinghiale.pdf/

Non era un chimico

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia (nebbia@quipo.it)

Non era un chimico, anzi non era neanche laureato, eppure ha influenzato la chimica e l’ambiente come poche altre persone. Thomas Midgley era nato nel 1889 in una cittadina della Pennsylvania negli Stati Uniti, era per davvero; senza aspettare di laurearsi in ingegneria meccanica all’Università Cornell, si cercò un lavoro come disegnatore nel reparto invenzioni della società National Cash Register. Ci restò solo un anno e passò poi nell’officina del padre che si occupava di copertoni per automobili. L’impresa fallì e Midgley passò nel 1916 a lavorare in una società, la Dayton Engineering Laboratories Co., la Delco, che era stata fondata da un favoloso personaggio, Charles Kettering (1876-1958), per migliorare il sistema di accensione dei motori delle automobili.

ThomasMIdgley

ThomasMIdgley 1889-1944

Kettering gli affidò il compito di perfezionare un motore a scoppio capace di generare elettricità per le case isolate nelle quali, per motivi di sicurezza, non si poteva usare benzina, troppo infiammabile; il motore avrebbe dovuto essere alimentato con cherosene, ma fino allora nei motori a scoppio alimentati a cherosene ogni tanto si verificavano delle reazioni esplosive che rovinavano i pistoni. Kettering affidò a Midgley il compito di eliminare l’inconveniente. Midgley pensò che forse l’aggiunta di un colore rosso al cherosene avrebbe facilitato l’assorbimento del calore della combustione e avrebbe reso più regolare la combustione delle gocce di carburante. La leggenda vuole che un sabato pomeriggio Midgley sia andato in laboratorio a cercare un colorante rosso; non ce n’erano, i negozi erano chiusi e l’unico colorante rosso disponibile era lo iodio che Midgley addizionò al cherosene scoprendo che aveva le proprietà antidetonanti cercate.

Charles_F._Kettering

Charles_F._Kettering, 1876-1958

Questo avveniva nel 1916 e per due anni — l’America era ormai entrata nella prima guerra mondiale — Midgley cercò senza tregua un antidetonante ancora migliore che era intanto richiesto per i carburanti usati nei motori a scoppio per aerei con elevato rapporto di compressione. Finalmente nel 1919 scoprì che l’anilina si comportava meglio dello iodio, ma non era ancora soddisfacente.

Per farla breve, dopo aver provato 35.000 sostanze Midgley scoprì che un composto metallorganico poco noto, il piombo tetraetile, aveva un potere antidetonante soddisfacente in concentrazione bassissima, anche di 0,25 grammi per litro di benzina. L’annuncio della scoperta fu data nel 1922, ma ben presto si vide che il suo uso dava luogo alla formazione di incrostazioni di ossido di piombo nel motore; l’inconveniente poteva essere eliminato aggiungendo al piombo tetraetile il dibromuro di etilene; durante la combustione si formava bromuro di piombo, volatile, che veniva eliminato all’esterno del motore, attraverso il tubo di scappamento, nell’aria — e nei polmoni delle persone che passavano per la strada.

piombotetraetile

Intanto si vide che il processo di fabbricazione del piombo tetraetile era pericoloso; i primi morti per incidenti in fabbrica si ebbero già nel 1924 e 1925, ma soprattutto ben presto le autorità sanitarie misero in guardia sul pericolo di inquinamento dell’aria ad opera dei derivati del piombo. I produttori di benzina con piombo e di automobili lottarono duramente contro norme che limitassero o vietassero l’uso del piombo tetraetile nelle benzine; solo l’addizione del piombo tetraetile permetteva di mettere in commercio benzine con numero di ottano fra 90 e 100, quali erano richieste dai motori a scoppio sempre più compressi prodotti dall’industria automobilistica per poter offrire ai clienti automobili sempre “più brillanti” e veloci e con elevata “ripresa”.

Le benzine ad alto numero di ottano erano inoltre indispensabili per i motori da aereo, prima della diffusione della propulsione a reazione. Sta di fatto che per quasi mezzo secolo il piombo tetraetile è stato prodotto e usato in tutto il mondo e addizionato a decine di miliardi di litri di benzina. La protesta contro il crescente inquinamento atmosferico si è accompagnata ad una crescente attenzione per gli incidenti che si susseguivano nelle fabbriche di piombo tetraetile, per le perdite di composti di piombo nel suolo, eccetera. Alla storia della SLOI è stato dedicato un interessante post di Nicola Salvati: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/04/le-zone-morte-1-la-sloi-di-trento-intervista-a-nicola-salvati/.

Per farla breve, a partire dagli anni sessanta sono state emanate norme nei singoli paesi per vietare l’addizione del piombo tetraetile alle benzine. Sulla crescita e il declino del piombo tetraetile il lettore curioso potrà leggere vari articoli di William Kovarik nel sito Internet http://www.radford.edu/wkovarik/papers/.

Ormai nella maggior parte dei paesi industriali l’uso del piombo tetraetile è stato abbandonato; come antidetonanti sono stati usati vari altri composti, dall’etere metilico butilico terziario, MTBE, al benzene, poi abbandonato per la sua tossicità, a composti aromatici meno tossici; le industrie automobilistiche hanno dovuto adattarsi a produrre autoveicoli con motori meno compressi e le raffinerie hanno dovuto immettere in commercio carburanti con minor numero di ottano.

Ma le invenzioni di Midgley non si erano fermate. Nel 1930 stava cominciando la diffusione di frigoriferi commerciali anche a livello domestico. Un giorno un funzionario della Frigidaire, una divisione della General Motors che produceva frigoriferi, portò a Midgley un messaggio di Kettering che lo invitata a scoprire un fluido frigorifero non infiammabile, non tossico, poco costoso, che potesse sostituire i fluidi frigoriferi usati allora, come anidride solforosa, cloruro di metile, ammoniaca.

Anche qui la leggenda racconta che Midgley e i suoi collaboratori, un giorno, dopo colazione, si misero a consultare le International Critical Tables, la bibbia delle proprietà di tutte le sostanze chimiche note; molti dati erano sbagliati, ma col buon senso e un po’ di fantasia Midgley ritenne che ideale avrebbe potuto essere una sostanza poco nota chiamata diclorofluorometano. Midgley riuscì a preparare alcuni grammi di questa sostanza per reazione fra il trifluoruro di antimonio e il tetracloruro di carbonio, e vide che era proprio il fluido frigorifero cercato.

120px-Dichlorofluoromethane

Il diclorofluorometano, battezzato CFC-21, fu il primo di una numerosa famiglia di idrocarburi contenenti cloro e fluoro che trovarono ben presto applicazione non solo come fluidi frigoriferi, ma anche come propellenti per spray, nella preparazione di resine espanse, come solventi, soprattutto per la nascente industria elettronica; altri idrocarburi alogenati contenenti anche bromo (halon) ebbero successo come fluidi per estintori di incendio.

Centinaia di migliaia di tonnellate di idrocarburi clorurati, fluorurati e bromurati sono stati usati nel corso di quarant’anni e sono finiti nell’atmosfera. Il bel sogno di Midgley ha cominciato ad offuscarsi nel 1974 dopo la pubblicazione di un articolo di Molina e Rowland (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/09/20/ozono-facciamo-il-punto/) che misero in evidenza il rapporto fra l’immissione nell’atmosfera dei cloroflurocarburi e la diminuzione della concentrazione dell’ozono nella stratosfera, fra 15 e 30 mila metri di altezza. Dal momento che l’ozono stratosferico filtra la radiazione ultravioletta B proveniente dal Sole, dannosa per gli esseri viventi, la diminuzione della concentrazione dell’ozono rappresentava un potenziale danno ecologico. Poco dopo si è visto anche che i clorofluorocarburi si comportano come “gas serra” e contribuiscono a trattenere una parte della radiazione solare incidente dentro l’atmosfera che viene così lentamente riscaldata.

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Dopo lunghe discussioni si è arrivati ad un accordo, il “protocollo di Montreal” dell’autunno 1987, che ha deciso di vietare la produzione e l’uso dei clorofluorocarburi in quanto responsabili sia del cosiddetto “buco dell’ozono” sia del riscaldamento globale. Il divieto è stato rafforzato nel 1989 dalla conferenza di Helsinki. E così anche la seconda grande invenzione di Midgley si è tradotta in un insuccesso, dal punto di vista ecologico, il che non oscura l’ingegnosità dell’inventore. Senza contare che Midgley ha inventato molte altre cose, dalla prima benzina ad alto numero di ottano per aviazione, ad un aeroplano telecomandato, a vari perfezionamenti nel campo della gomma e della vulcanizzazione.

Midgley ebbe una morte prematura e tragica. Nel 1940 fu colpito dalla poliomielite che lo rese invalido; col suo solito spirito inventò un meccanismo di pulegge e cavi che poteva comandare da solo e che gli permetteva di alzarsi dal letto. Purtroppo proprio i cavi di questo sistema una sera si sono arrotolati intorno al suo collo e lo hanno strangolato. Era il 2 novembre 1944 e Midgley aveva solo 55 anni.

Le zone morte: 1.La SLOI di Trento. Intervista a Nicola Salvati.

Nella fantascienza moderna è frequente l’incubo in cui una zona morta invade lentamente la nostra realtà, in modo subdolo, ma spesso impossibile da fermare; l’esempio forse più famoso è la “Foresta di cristallo” di J.G. Ballard, in cui una zona di cristallizzazione irreversibile avanza a ricoprire l’intera superficie terrestre a partire dal profondo di una foresta tropicale; e cosi’ in altri romanzi che individuano la “disaster zone”, il buco nero che inghiotte il mondo o anche solo la nostra testa (come The dead zone di S. King). Questi racconti ci hanno ispirato per una nuova rubrica di questo blog, dedicata ai grandi incidenti chimici ed alle loro conseguenze; iniziamo da una zona morta che mi è terribilmente vicina, l’ex-area SLOI nella parte nord di Trento, bellissima città dove vivo. Purtroppo di queste zone morte, inquinate da una distruzione voluta dall’uomo, ce ne sono molte e la chimica, da noi tanto amata, è stata spesso usata come strumento di questa distruzione. Ma può essere anche strumento di rinascita. Buona lettura.

a cura di Claudio Della Volpe

Abito a Trento da oltre vent’anni ormai, ma non sapevo, fino a qualche tempo fa, che ci fosse stato un momento in cui questa città, che oggi è al top delle classifiche italiane sulla qualità della vita, avesse rischiato di scomparire in una nube tossica. Ed ancora oggi, sapendo dove guardare, ne porta il segno.

Mi sono fatto raccontare questa storia, di cui si trovano rari accenni, da uno dei protagonisti, l’ingegner Nicola Salvati, allora capo dei vigili del fuoco della città ed oggi consigliere comunale di Trento.

 nicolasalvati

Nomen est omen“- dico all’ing. Salvati, un pezzo d’uomo con i capelli bianchi e gli occhi azzurri, come si dice “solido come una quercia”. “Lo dica a chi mi chiamava “terrone” da ragazzino“- mi risponde con un accento perfettamente trentino.

La sua famiglia – padre di Montesano un piccolo paesino del Vallo di Diano, madre di Belluno – si trasferì a Trento nel 1947. Salvati ha studiato a Trento ed a Pisa, dove è diventato ingegnere meccanico. Prima ha costruito armi a Gardone Valtrompia, poi ha progettato e costruito acquedotti e fognature con il Genio Civile di Trento per trovarsi, vincitore di concorso, primo ingegnere del Servizio Provinciale Antincendi, nella Trento degli anni 70, quando ancora la città non aveva l’immagine che ha adesso. “Non esisteva allora un corpo dei vigili del fuoco cosi’ ben dotato organizzato ed integrato nella Protezione Civile” mi racconta l’ingegner Salvati; “era normale in quegli anni avere regolarmente incendi nei vecchi stabilimenti industriali – in fase di smobilizzo per dar luogo alla crescita della città – ed incendi boschivi anche molto pericolosi come quelli nei boschi cedui della bassa val d’Adige, pieni di residuati bellici esplosivi della prima guerra mondiale; anche le attrezzature non erano all’altezza ed ho fatto esperienza in quel periodo, coordinando i corpi dei vigili del fuoco volontari presenti in ogni paese del Trentino, sia tecnica che di gestione, iniziando a coltivare, assieme a loro, il seme di quella che sarebbe poi diventata la Protezione Civile della Provincia Autonoma” – che, detto per inciso, è oggi uno dei fiori all’occhiello della PAT.

Abbiamo cominciato con l’ideare e costruire e sperimentare dispositivi contro gli incendi boschivi, che si sono poi diffusi in tutta Europa, ed a sviluppare quell’integrazione tra i corpi dei vigili del fuoco Volontari e Professionali con i Servizi tecnici diversi, presenti nelle Provincia Autonoma di Trento, coniugando la continua accresciuta preparazione con l’orgoglio di essere autonomi, che è la forza della struttura attuale di protezione“.

La Trento di quegli anni era una piccola città industriale, con aziende come la SLOI, Società Lavorazioni Organiche Inorganiche, (piombo tetraetile), Carbochimica (distillazione del catrame), Michelin (pneumatici); Italcementi (cemento), insomma mica male.

In particolare la SLOI, di proprietà di Carlo Randaccio* – ex assistente universitario di Chimica a Bologna, amico di Starace, con forti legami con il regime fascista – era uno dei pochi stabilimenti in Europa dove era inizata, fin dal 1939, la produzione di piombo tetraetile, Pb(C2H5)4 – un antidetonante per motori a scoppio, materiale strategico durante la seconda guerra, ed elemento di prima grandezza nella fase del boom automobilistico dell’Italia del dopoguerra.

Il piombo tetraetile fu individuato da Thomas Midgley e C. A. Hochwait nel 1921 negli USA come un potente agente antidetonante, capace di eliminare il problema della pre-accensione durante la fase di compressione nei motori a scoppio, un fenomeno che portava al cosiddetto “battito in testa” con riduzione dell’efficienza e gravi alterazioni nel funzionamento del motore stesso, insomma un additivo che incrementava il numero di ottano, assolutamente necessario allo sviluppo del motore, specie nelle applicazioni più sofisticate come i motori aerei, e se ne capisce quindi l’interesse anche bellico.

La sintesi del prodotto avveniva a partire da una amalgama NaPb, in differenti proporzioni, che reagiva con un alogenuro di etile in presenza di un catalizzatore come lo iodio: es.:

                                   Na4Pb + 4 C2H5Cl = 4 NaCl + Pb(C2H5)4

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Il piombo è, come si sa, un metallo pesante estremamente tossico, potendosi esso sostituire allo ione calcio in molti composti di interesse neurobiologico e biologico e i suoi composti, come il piombo tetraetile, che di fatto sono dei produttori di radicali lo sono ancor più; tonnellate di piombo sono state immesse nell’ambiente attraverso questa strada fino a non molti anni fa, e la sostituzione con il benzene in anni recenti la dice lunga sulla potenziale pericolosità del prodotto: è più pericoloso del benzene!

Nel deposito della SLOI il sodio, proveniente dalla Russia, veniva da prima immagazzinato in fusti d’acciaio e poi, con lo sviluppo travolgente della produzione, anche in contenitori di legno, circondato da un film isolante, e questo ha certamente favorito i problemi.“- mi racconta Salvati- “Già alcuni anni prima di quello del 1978 ci fu un incendio in una delle vasche sospese che serviva alla fusione del sodio prima del suo utilizzo; allora fummo chiamati, non c’erano spillamenti di sodio in corso, ma già in quella occasione mi vidi obbligato ad usare il cemento per spegnere l’incendio provocato dalla perdita di olio di riscaldamento.

Eh già! La SLOI era una fabbrica in travolgente espansione produttiva dove la sicurezza non era certo rispettata; e comunque problemi sanitari ed anche ambientali si sono succeduti nel tempo.

Ci furono nel passato altre esplosioni probabilmente dovute al sodio. Ma quando i Pompieri arrivavano sul posto ormai erano scomparse le tracce del problema.” aggiunge l’ingegner Salvati ricordando quanto gli venne poi narrato dal precedente Comandante dei Vigili del fuoco di Trento.

C’è da ricordare che nel 1966 Trento fu allagata dal fiume Adige, che ruppe gli argini in zona Roncafort, coinvolgendo anche lo stabilimento SLOI, con un paio di metri d’acqua. Nello stabilimento avvennero molte esplosioni di fusti di sodio raggiunti dall’acqua.

Inoltre già prima del 1970 il saturnismo aveva avuto come conseguenza centinaia di casi di danno cerebrale irreversibile per gli operai, con ricoveri presso l’allora manicomio di Pergine, dove spesso venivano diagnosticati come effetto dell’alcoolismo, una piaga pure diffusa in Trentino. Comunque le proteste di alcuni degli operai e la denuncia di almeno uno dei medici di fabbrica (Giuseppe De Venuto) che si succedettero portarono alla condanna di Randaccio alla quale seguì un tentativo di chiusura dello stabilimento, poi stoppato da serrate e movimenti sindacali guidate dalla stessa azienda. Ma si era arrivati ormai alla fine degli anni 70.

Uno dei problemi nel corso del tempo – dice Salvati- è stato secondo me anche il doppio regime di attività consentito ai medici di fabbrica, regime che in qualche modo li subordinava alla fabbrica stessa e li poteva mettere in conflitto di interessi con il loro ruolo di difensori della salute pubblica.

E il sindacato? “Purtroppo il sindacato di allora doveva privilegiare più il posto di lavoro che la salute, e tendeva insomma alla monetizzazione della stessa.” Capisco cosa intende Salvati: banalmente che gli stipendi SLOI erano più alti di altri e in una terra che è rimasta terra di emigrazione fino a pochi decenni fa.

Arriviamo al fatidico 14 luglio 1978. Una serata estiva, calda e soffocante. Una serata umida, foriera di pioggia, un bel temporale . E questa volta il temporale scatena la tragedia.

Racconta Salvati: “Probabilmente il tetto del capannone del sodio, come il resto dello stabilimento in continua trasformazione e riparazione, presentava delle rotture, l’acqua scrosciante è ruscellata all’interno, ha raggiunto qualcuno dei contenitori in legno del sodio scatenando un incendio, che in breve si è esteso a tutto il deposito, minacciando i depositi vicini del prodotto finito; quando arrivammo con i primi mezzi del Corpo l’incendio era già molto esteso e tutta l’area era avvolta da una fitta nube di soda caustica “.

“Cosa faceste?”.

“Era un intervento difficile, anche con gli autorespiratori la nube acre di soda caustica investiva il corpo e rendeva difficile lavorare, penetrando a contatto con la pelle. Abbiamo usato e consumato velocemente tutta la scorta di polvere estinguente che avevamo a disposizione, ma la dimensione dell’incendio superava ogni nostra possibilità.

Il pericolo rappresentato dalla dimensione dell’incendio, con l’enorme emissione di vapori di soda caustica che si diffondeva verso la città, unito al pericolo che il fuoco  mettesse in gioco i depositi di piombo tetraetile vicini nella fabbrica, accresceva di minuto in minuto paventando una tragedia di enormi proporzioni. Si parlò, per un certo periodo, con il Presidente della Giunta provinciale d’allora e con il Sindaco, di sgomberare la città. Si trattava di una sostanza potenzialmente mortale, addirittura sperimentata come aggressivo chimico bellico. Ma nel frattempo avevo programmato di ricorrere ancora una volta al cemento; il tema era dove trovarlo? Nel Corpo dei Vigili del Fuoco di Trento era presente un ex dipendente dell’Italcementi, Lucin, e un Da Pra, amico di uno degli autisti dei camion che facevano la spola tra lo stabilimento ed i cantieri di costruzione. Individuato il camion carico e trovato l’autista fu “facile” cosa far arrivare sul posto dell’incendio un quantitativo sufficiente di cemento. L’automezzo era dotato di un buon compressore volumetrico e di una lancia per movimentare la polvere di cemento ed il getto di polvere di cemento fu molto efficace nello spegnere, in breve, l’incendio.

La SLOI fu chiusa dopo pochi giorni, con voto unanime e terrorizzato del Consiglio Comunale della città, con revoca della concessione produttiva e quella volta a nulla valsero le proteste di Padron Randaccio, nè ci furono proteste sindacali. Naturalmente ne seguirono varie vertenze presso i tribunali, con pari danni per il Comune e per il Randaccio  “Quell’episodio ha costituito un vero e proprio vaccino per la cittadinanza di Trento – dice Salvati- “. Cioè?“-chiedo. “Beh la gente ha ormai imparato che ci sono cose che non possono essere monetizzate.”

Cosa pensa di Taranto?”. Salvati annuisce: “E’ una situazione che è il risultato di processi simili: una storia di lavoratori stretti fra il ricatto della salute e del posto di lavoro, controlli superficiali, movimenti spontanei di cittadini, grande coinvolgimento delle massime autorità civili e religiose solo a favore dell’occupazione ed infine azione della magistratura a difesa della Legge. Il tutto in un coacervo di posizioni frutto di scarsa maturità culturale, scarso rispetto dei ruoli e scarsa conoscenza dell’esperienze vissute da altre città che non porterà a risultati immediati.”

Se ho capito bene Salvati intende che il rischio superato di misura è un potente agente di crescita culturale, o almeno così è stato a Trento.

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E cosa è successo dopo? “Beh i lavori di smantellamento sono stati condotti in fretta e furia, certamente oggi non sarebbe più possibile smontare in quel modo apparecchiature cosi’ complesse e pericolose; ma sono rimasti i “ricordi”, inquinamento da piombo tetraetile del terreno, “ricordi” che secondo me è meglio lasciare dove sono, in mancanza di metodi già sperimentati  di risanamento, e principalmente sicuri per la città che ormai circonda il sito”

Salvati allude alla situazione attuale: una ampia zona di terreno che era la proprietà SLOI, rivenduta poi a vari proprietari, che forse speravano nella possibilità di una veloce e rapida opera di risanamento, è invece ancora lì; c’è uno strato di circa 15 metri di terreno in cui l’inquinamento da piombo tetraetile è enorme, e non esiste, non è stata trovata ancora nessuna procedura “sicura” per risolvere il problema della bonifica.

Alcune idee, come la delimitazione del sito con palancole profonde e trattamento con prodotti ossidanti sono state proposte come efficaci – dice Salvati- ma sono azioni durante la cui applicazione il rischio per la città e per la diffusione dei prodotti trasformati in falda, crescerebbe e questo non può essere accettato. Meglio lasciare dove sono i prodotti inquinanti, oggi perfettamente fermi nel sito, monitorarli accuratamente finchè non si trovano metodi di bonifica sicuri per la città.”

Metodi chimici o biologici certi al momento non ce ne sono sebbene se ne siano proposti molti; e guardi- mi dice– ho fiducia nella chimica, mi ha spesso salvato la vita, a me e ai miei compagni, se non la conoscessi non sarei qui oggi, nè potrei essere orgoglioso di ricordare di non aver mai perso un compagno; ma un metodo certo di estrazione del piombo tetraetile dal terreno non c’è ancora“. In effetti l’ingegner Salvati ha ragione; in Italia ci sono altri tre siti a rischio simile ma solo uno, quello di Fidenza è stato portato in sicurezza, ma lì il problema dell’inquinamento era concentrato in grandi vasche e non, invece, come a Trento, nel terreno libero immerso in falda acquifera.

Ingegnere mi sarei aspettato un monumento per un azione come questa“- dico.

Salvati mi risponde con un sorriso: “Guardi– mi dice– questa città mi ha voluto bene, ho fatto una bella carriera e infine sono stato eletto in consiglio comunale. Il migliore monumento per me sarebbe la soluzione di quello che considero il principale problema della  nostra città: il rischio alluvione. Una alluvione, come quella sofferta dalla città nel 1966, non può essere ancora scongiurata senza costruire una vasca di espansione che possa laminare le piene dell’Avisio, che è il principale affluente dell’Adige, a monte di Trento; ci vuole una vasca naturale di almeno 30/40 milioni di metri cubi lungo l’Avisio per mettere Trento in sicurezza; devo assicurarmi che la si faccia: quello sarebbe il miglior monumento per chi si è battuto per la sicurezza della nostra città.”

Auguro a Salvati di riuscire nel suo intento; nel frattempo il buco nero SLOI, una superficie di oltre 10 ettari attualmente impraticabile per chiunque eccetto per i disperati immigrati che vi cercano rifugio di notte, ci guarda dalla periferia Nord di Trento, a pochi chilometri dalle montagne dichiarate dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.

*NdA: Non sono riuscito ad appurare il titolo di studio di Randaccio che viene spesso chiamato ingegnere, ma risulta essere stato assistente di Chimica.

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Per approfondire:

– Marino Ruzzenenti, La storia controversa del piombo tetraetile

Industria e ambiente, Annali della Fondazione Micheletti, n. 9, Brescia 2008

– Annali dell’Istituto Superiore di Sanita Volume 34, n. 1, 1998 anche in

“Il caso italiano: industria, chimica e ambiente” Fondazione Micheletti – Jaca Book, Milano 2012

http://www.inventati.org/laleggera/Sloi-cuore-nero-di-Trento

Esiste anche un film “SLOI la fabbrica degli invisibili” regia di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi 2009 UCT Uomo Città Territorio info@krmovie.it, un documento molto bello che consiglio di guardare.

Il grafico che segue è tratto da un lavoro* che analizza l’inquinamento di Pb nei sedimenti lacustri in Svezia; in modo simile ad altri dati pubblicati mostra come l’inquinamento da Pb sia cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 3000 anni e in particolare nell’ultimo secolo, con una marcata riduzione, che trova ampia conferma in letteratura, solo dopo l’interruzione nell’uso del piombo tetraetile nelle benzine, insieme alla maggiore attenzione generale all’inquinamento da piombo.

*Science of The Total Environment 292, (1–2) 20 – 2002, 45–54

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