Come bruciano o esplodono le batterie al litio?

Claudio Della Volpe

L’episodio di Mestre ha messo sotto i riflettori la possibilità di incendio dei mezzi alimentati elettricamente; e dunque ha senso discutere un po’ questo problema basandoci sui dati e sulla chimica che conosciamo.

Partiamo dalle probabilità reali di incendio dei mezzi elettrici. Dato che i mezzi elettrici sono poco diffusi non ha senso paragonare il numero assoluto di incendi su mezzi elettrici o fossili ma occorre paragonare le percentuali di incendio rapportandole al numero di mezzi in circolazione; è pur vero che certe tipologie di incidente saranno poco probabili, per esempio lo scontro diretto fra due mezzi elettrici è altamente improbabile al momento.

Se si usano i dati dei paesi con statistiche affidabili e con il maggior numero di mezzi elettrici: USA, Svezia, Norvegia, Australia si trova che le probabilità di incendio sono molto più basse rispetto alla probabilità di incendio per i mezzi fossili di qualunque tipo. Purtroppo dati analoghi in Cina che è il paese col maggior numero di EV non ce ne sono[1].

Parecchi dati vengono dalle assicurazioni che hanno ovviamente interesse a valori credibili; e proprio da questi viene fuori che c’è uno o due ordini di grandezza di differenza o più nella percentuale di incendi fra EV e fossili di qualunque tipo.

Dati validi per gli USA nell’anno giugno 22-giugno 23 da documenti citati in nota 1.

Pare inoltre da questi dati che i veicoli peggiori siano gli ibridi mentre i più sicuri sarebbero proprio gli elettrici.

Risultati analoghi o perfino più favorevoli agli EV sono riportati per gli altri paesi occidentali.

Ma al di là dei numeri, che probabilmente diventeranno più precisi in futuro col crescere del ruolo della mobilità elettrica, quali sono i meccanismi degli incendi e quali sono i rischi connessi e i metodi antincendio migliori?

La cosa basilare da considerare è che una batteria è un ambiente in cui si sviluppa in forma elettrochimica una normale reazione chimica che mette in gioco flussi significativi di energia e cambia i numeri di ossidazione dei reagenti partecipanti; tale energia viene sfruttata in forma elettrica ma è anche possibile convertirla direttamente in calore.

A differenza di una reazione normale in cui gli elettroni vengono scambiati direttamente fra i reagenti, in elettrochimica gli elettroni vengono scambiati SOLO agli elettrodi, una sorta di mercato controllato non libero, per fare una analogia economica, quasi un socialismo elettronico.

Ma nonostante tale forma ordinata di processo non tutta l’energia libera può trasformarsi in elettricità: è il famoso secondo principio della termodinamica; una parte diventa comunque calore, scambio incontrollato di energia.

L’elemento critico per regolare questo parametro è la velocità di reazione.

Non è possibile trasformare direttamente in energia elettrica tutta la variazione di energia libera della reazione, una quota  di tale trasformazione anche nel caso migliore diventa calore; si può porre uguale al calore la quota di energia persa per effetto Joule e legata alla corrente: più alta è la corrente, che misura direttamente la velocità di reazione, maggiore è la trasformazione in calore; teoricamente si può avere la massima trasformazione in energia elettrica operando a velocità molto bassa ossia con correnti molto basse al limite nulle; più cresce la velocità ossia la corrente più cresce il calore e diminuisce la quota di elettricità.

Ovviamente nelle batterie reali occorre accettare questo criterio e scegliere una situazione di compromesso, la velocità di reazione che ci serve, ossia la corrente e dunque la potenza che vogliamo e la corrispondente dispersione di calore.

Si capisce dunque che un po’ di calore deve essere sempre dissipato e a volte questo è perfino positivo per il processo elettrochimico contribuendo al mantenimento della temperatura ottimale.

Nel caso delle batterie al litio ricaricabili uno ione litio può occupare due stati energetici diversi, uno nel materiale dell’anodo e uno nel materiale del catodo.

Quando si carica la batteria si sposta lo ione litio e il corrispondente elettrone in un contenitore prevalentemente di carbonio grafitico, fra due strati di grafene diciamo, un fenomeno che prende il nome di intercalazione, lo ione litio viaggia in soluzione di opportuno solvente, spesso polimerico ma non sempre e l’elettrone nel filo di rame.

Nell’anodo lo ione litio ha potenziale energetico più alto incapsulato fra due esagoni di atomi di grafene interagendo con i suoi elettroni pi-greco e il suo elettrone; quando si scarica la batteria il litio ione diffonde nell’elettrolita tornando nel suo contenitore a più bassa energia, comunemente un ossido misto di litio e di altri elementi: cobalto, manganese o altri composti come il fosfato di ferro, mentre l’elettrone fluisce nel cavo facendo lavoro elettrico e calore .

In nessun caso abbiamo a che fare con litio metallico, ma sono comunque due stati “di ossidazione” diversi del sistema Li-grafite o Li in ossido misto o Li-ferro fosfato, come se cambiassero numero di ossidazione il cobalto e il carbonio o il ferro oltre che il litio medesimo.

Il salto energetico ottenuto in questo modo è fra i più alti ottenibili, differenze di potenziale di oltre 4V possono essere gestite con successo. 4V per una mole di elettroni (quasi 100mila coulomb) corrispondono a qualcosa come (ricordiamo che J=VxC) 400 kilojoule/mole!

Ovviamente non possiamo usare un solvente come l’acqua perché a poco meno di 2 volt l’acqua si distrugge trasformandosi nei suoi componenti; dobbiamo usare altri solventi sempre in grado di sciogliere ioni ma non così instabili; i migliori sono polimeri come il PEO; e ovviamente abbiamo bisogno di controioni negativi per bilanciare le cariche del litio (la elettroneutralità è una condizione di esistenza dei sistemi elettrochimici!); anche questi ioni devono essere stabili ma assicurare grande conducibilità elettrica; le specie più adatte spesso contengono fluoro, per esempio lo ione PF6, esafluorofosfato.

Tutte queste sostanze sono stabili nelle condizioni di lavoro comuni, ma possono perdere di stabilità come farebbe l’acqua se tali condizioni cambiano.

Data la grande quantità di energia in gioco questo può succedere; per esempio se la quota di dissipazione aumenta fornendo più calore e dunque aumentando la temperatura del sistema i vari componenti diventano instabili.

Il componente grafitico può bruciare se riscaldato in presenza di ossigeno producendo uno degli ossidi di carbonio; ma attenzione lo stesso possono fare quei leganti polimerici che vengono usati per tenere insieme una struttura micro o nanometrica delle particelle attive degli elettrodi (si tratta di numerosi polimeri analizzati in letteratura[2] i polimeri sono sparsi a piene mani nelle strutture della batteria al litio (LIB)); ma da dove viene l’ossigeno? Può venire da due fonti una esterna, se la batteria, comunemente isolata dall’ambiente esterno, viene forata oppure se un aumento di temperatura esterno è in grado di destabilizzare il catodo; gli ossidi misti in queste condizioni possono liberare ossigeno gassoso; anche il polimero che funge da elettrolita può bruciare, reagire con ossigeno ed infine l’esafluorofosfato può liberare acido fluoridrico che è un gas molto aggressivo (corrode anche i vetri).

La sorgente più comune di calore è un corto circuito fra due elementi della batteria, l’anodo e il catodo, che può dipendere da una deformazione della batteria, dovuta per esempio ad un urto violento.

Un corto circuito è una condizione in cui TUTTA l’energia libera disponibile diventa calore e la quota di lavoro elettrico si azzera.

Le batterie al litio hanno una tipica struttura a spirale o comunque multistrato per accrescere la superficie di reazione; dunque una sua deformazione anche di piccola entità può produrre questo effetto.

Data questa situazione ogni occasione di surriscaldamento della batteria è rischiosa; per esempio la carica della batteria, specie se veloce può compromettere una batteria mal costruita o che abbia subito un precedente danno meccanico; stiamo parlando di spessori degli strati di decine di micron e dunque piccole deformazioni sono critiche.

Aggiungiamo un’ultima considerazione: i processi di cui abbiamo parlato diventano di fatto autocatalitici: il calore li stimola ed essi producono calore, una retroazione positiva; questo ha portato alla definizone comune di “thermal runaway”.

Ovviamente queste cose sono risapute e le batterie sono costruite tenendone conto (ciononostante ricorderete sicuramente il caso delle batterie del Samsung Note7 che bloccò la commercializzazione del dispositivo mettendo in crisi Samsung).

Anche se le batterie al litio sono piano-parallele ossia gli elettrodi piani sono separati a loro volta da uno strato conduttore di spessore costante, il tutto è avvolto in forma di cilindro, di esagono, di parallelepipedo inserito in un contenitore plastico o metallico; l’uso di centinaia o migliaia di batterie sui dispositivi maggiori come i motori d’auto  comporta che la dissipazione di calore può avere effetti diversi e può essere dissipato in modo più o meno facile; per esempio la produzione di gas in un contenitore rigido può causare una esplosione oppure l’espansione del contenitore plastico con ulteriori deformazioni. E il calore prodotto viene dissipato con opportuni apparati o usato perfino per scopi vari.

Un Battery Management System (BMS), controlla il funzionamento del tutto che è costruito collegando le batterie in modo furbo che consente all’elettronica del BMS di evidenziare anomalie in singole batterie o gruppi di batterie, per poterle escludere o sostituire e di regolare la velocità di ricarica.

Consigli banali possono essere di usare sempre batterie di qualità (le batterie sono prodotte in gran numero e in una gaussiana di qualità ci saranno sempre batterie più o meno “buone”; caricarle con dispositivi anch’essi progettati dal costruttore, originali, e non lasciarle mai senza un controllo sia pur qualitativo che ne evidenzi le deformazioni (una batteria che si rigonfia casomai sposta la meccanica del vostro dispositivo: cellulare, computer, il touchpad o la tastiera ne risentono, la forma del cellulare si altera, etc) o la temperatura eccessiva.

Su miliardi di batterie qualcuna potrà sempre surriscaldarsi o perfino esplodere; il rischio si può ridurre ma non azzerare; d’altronde l’incendio di fossili è talmente diffuso nel nostro mondo che abbiamo istituito da secoli un corpo di professionisti i Vigili del Fuoco per gestire questo rischio; e i Vigili del Fuoco si aggiornano in continuazione.

A questo riguardo occorre ricordare che l’incendio delle batteria NON è un incendio di tipo D, da combustione di metalli (polveri di litio, magnesio, alluminio) ma è classificato come incendio nelle classi A e principalmente B, combustione di solidi e liquidi e come tale deve essere trattato; l’acqua (in grandi quantità, circa 10 volte maggiori che nell’incendio tradizionale) o la polvere di sostanze fluorurate o la CO2 possono essere usati;  quest’ultima tende a raffreddare molto essendo fornita in stato condensato e dunque assorbendo energia per evaporare oltre che soffocando l’incendio.

Ancora da notare che il comportamento dell’incendio di LIB è più insidioso perché rispetto ad uno tradizionale l’inizio della fiamma libera può coincidere con l’esplosione se i contenitori sono rigidi e dunque con una fase di incontrollabilità, mentre questa fase è più lenta da raggiungere negli incendi tradizionali Comunque data la complessità dei sistemi usati un incendio di batteria al litio dura più di un incendio comune ed esige dispositivi e spazi adeguati, come depositi dove trasportare il mezzo che brucia  anche se l’incendio è terminato in apparenza; potrebbe riprendere; un maggior numero di estintori deputati ad incendi di questo genere, le polveri classiche possono non bastare, quelle alogenate sono meglio; insomma occorre imparare ad affrontarli. Al momento alcuni grandi carrier marittimi evitano di trasportare le batterie; mentre il settore critico che ha usato sempre più LIB è paradossalmente l’aeronautica a causa del più favorevole rapporto peso-potenza, ma dove un incendio od una anomalia può essere fatale.

Tocca comunque ribadire quel che abbiamo detto all’inizio; le statistiche smentiscono il maggior rischio di incendio delle batterie rispetto alle sorgenti fossili; se si fa riferimento al numero di  impianti o di auto circolanti gli incendi sono si possibili ma in quantità enormemente inferiore; i Vigili del fuoco sono consci delle differenze sulla tipologia di fuoco; casomai sono da aggiornare le tipologie di  estintori da usare e i corsi di formazione dei volontari dovranno contenere anche questo tema, con crescente importanza.


[1]

[2] https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0360128519302138

Documenti consultati.

1-A review of lithium-ion battery safety concerns: The issues, strategies, and testing standards

Journal of Energy Chemistry 59 (2021) 83–99

2 – Procedia Engineering 211 (2018) 629–634 Procedia Engineering 00 (2017) 000–000

Experimental Study on fire and explosion suppression of self ignition of Lithium Ion Battery

3 – Thermal Stability Studies of Li-Ion Cells and Components

Journal of The Electrochemical Society, 146 (9) 3224-3229 (1999) S0013-4651(99)02-009-1

Thermal Stability Studies of Li-Ion Cells and Components Hossein Maleki, Guoping Deng,* Anaba Anani, and Jason Howard

Premio Nobel per la Chimica 2019.

  Claudio Della Volpe

Quest’anno il Nobel per la Chimica va a tre studiosi di elettrochimica:

John B. Goodenough , ormai ultranovantenne, M. Stanley Whittingham e Akira Yoshino che hanno dato contributi importanti allo sviluppo delle batterie ricaricabili al litio basate sul fenomeno dell’intercalazione degli ioni litio in diversi materiali.

Nell’articoletto di Nature Electronics che riporto in figura (Nature electroNics | VOL 1 | MARCH 2018 | 204 ) Goodenough (che poi vuol dire “abbastanza buono”, cognome del tutto azzeccato) sintetizza brevemente i momenti che hanno portato alla tecnologia che oggi usiamo in miliardi di persone, quella delle batterie al litio ricaricabili.

Tuttavia in una pagina sola è difficile raccontare la storia dell’intercalazione del litio; la scoperta del fenomeno dell’intercalazione del litio nella grafite da fase gassosa fu fatta da Herold nel lontano 1955 (Bull. Soc. Chim. France, 187 (1955), p. 999); l’articolo non è reperibile in modo semplice e Goodenough dice semplicemente, riferendosi agli anni 70 del secolo scorso: Non-rechargeable batteries using a lithium anode and an organic-liquid electrolyte were known at the time, so 
the next step was to use the chemistry demonstrated in Europe of reversible lithium-ion insertion into transition-metal layered sulfide cathodes in order to create a rechargeable battery.

E si sta riferendo a fasi successive della ricerca che avevano usato come strutture da inserzione i solfuri di metalli di transizione. Mi piacerebbe sapere se queste linee di ricerca sono state valutate per le attribuzioni del premio; senza queste ricerche pionieristiche dei francesi non ci sarebbero stati passi avanti; Herold fra l’altro ci ha lavorato per decenni, come prova la lunga lista dei suoi lavori.

A Goodenough si deve lo sviluppo del Nasicon un conduttore solido dalla formula: Na1+xZr2SixP3−xO12

×2 unit cel, dark green: sites shared by Si and P l of Na3Zr2(SiO4)2(PO4) (x = 2), which is the most common NASICON material;[1] red: O, purple: Na, light green: Zr

Whittingam, supportato da Exxon Mobil (ironia della storia!!!) riuscì a creare un dispositivo dotato di un catodo di solfuro di titanio che però andava incontro ad una importante crescita dendritica e dunque incapace di essere usato in modo reversibile:

si era nel 1976 e l’anodo era costituito di litio, le dendriti facevano corto circuito.

In quel medesimo periodo Goodenough che si era trasferito nella vecchia, ma sempreverde, Europa mise a punto un catodo di cobaltite.

Fu a questo punto che il terzo ricercatore, il giapponese Yoshino chiuse il cerchio componendo la prima batteria reversibile al litio unendo un anodo di grafite ed un catodo di cobaltite, che è lo schema classico che si usa ancor oggi sia pure con altri componenti , elettroliti e solventi.

Noto di passaggio che il lavoro di Herold trova compimento in queste cose, ma dubito che qualcuno lo ricorderà.

Non è per parlare male del Nobel, ma a me appare sempre più chiaro che ci sono aspetti discutibili ed attività di lobbying in molte attribuzioni. Comunque questa è grande ricerca senza dubbio, ma forse ci sarebbe voluto più lavoro di approfondimento per ricostruire le spalle su cui questi giganti hanno lavorato a loro volta e dare riconoscimenti più ampi, come è ampia la ricerca che sta dietro a queste scoperte.

Voi direte : sei il solito criticone! OK, si sono il solito criticone e visto che ci sono noto di passaggio che dopo un 2018 che ha visto ben tre donne insignite del Nobel fra cui una fisica (Donna Strickland per la scoperta e le applicazioni del laser, dopo 55 anni (sic!) dal precedente Nobel ad una fisica) ed una chimica (Frances H. Arnold per le scoperte in tema di chimica dell’evoluzione enzimatica) siamo tornati a premi Nobel di Fisica e Chimica dominati da triplette di soli uomini.

Il mio spirito “andreottiano” (vi ricordate? “ a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca sempre”) mi suggerisce che il 2018 era stato aperto all’insegna dello scandalo per il premio Nobel per la letteratura che non è stato assegnato quell’anno; il movimento Mee-Too era riuscito a penetrare nei più sacri e maschilisti recessi della Scienza.

I due premi Nobel dopo decenni di assenza delle donne erano legati a questa situazione specifica; una sorta di offerta sacrificale; c’era stato anche lo scandalo dello scienziato del CERN che aveva sostenuto che la Fisica non è scienza da donne; ve lo ricordate?

Passata la festa gabbato lu santu; siamo tornati al predominio maschile assoluto o le donne (e gli uomini di buona volontà) sapranno scuotere questa struttura irrigidita da lobby e maschilismo?

Mi prendo tutte le accuse che volete, fate pure ma non riesco a tacere; sono indignato!

Come dice mia figlia Daniela  non è il femminismo ad essere una cosa da donne, ma il maschilismo ad essere un problema per gli uomini (e per tutta l’umanità)! pensate solo a quanto investiamo nel preparare donne che poi teniamo accuratamente lontane dalle posizioni apicali (o perfino dal lavoro! ).

Ieri a Potenza, in una manifestazione intitolata Donne e/è Scienza, la nostra collega Luisa Torsi ha fatto vedere un grafico in cui la forbice uomo donna parte con più donne che studiano e si laureano, si incrocia a 30 anni con i maschi che crescono lentamente fra dottorandi e post-doc e poi esplode a partire dalle posizioni base dell’università verso il dominio incontrastato di associati e ordinari (o se volete di assistant e full professor) maschi; e culmina (aggiungo io) ovviamente in Nobel praticamente solo maschi; non ci credo alla balla che la fisica (e la chimica ) non sono cose da donne, come ha detto qualcuno al CERN (che ha un direttore donna!!!). Il problema vero è che le donne fanno i figli e si sentono quasi obbligate a questo ruolo dominante. Chi “partorisce” può vincere anche un Nobel? Io dico di si. E voi?

PS Un amico fisico mi segnala che dei tre Nobel per la Fisica di quest’anno Peebles (il più famoso) è anche quello che ha combinato il “pasticcio” con la funzione di correlazione. In pratica ha definito la lunghezza di correlazione dall’ampiezza della funzione di correlazione invece che dal decadimento esponenziale della stessa come si fa nel resto della fisica. Questo ha creato una confusione che ancora perdura. Lobbying.

Elementi della Tavola periodica: Litio, Li.

Rinaldo Cervellati

Il litio è attualmente noto al grande pubblico per l’impiego di suoi composti nelle batterie usate nei telefoni cellulari e in accumulatori per lo sviluppo di auto elettriche (“batterie agli ioni di Litio”).

Il Litio è l’elemento n. 3 della Tavola periodica, la sua abbondanza nella crosta terrestre è di 20 mg/kg (20 ppm), 25° in ordine di abbondanza. E’ il primo dei metalli alcalini, collocato nel I Gruppo insieme a sodio (Na), potassio (K), Rubidio (Rb), Cesio (Cs) e Francio (Fr). Per confronto l’abbondanza del secondo metallo alcalino, sodio è 2,36´104 mg/kg (23600 ppm), al sesto posto.

Il nome deriva dal greco λιθoς (lithos) che significa ‘pietra’. Data la sua alta reattività non si trova libero in natura, in accordo con il suo nome, il litio costituisce una parte minore delle rocce ignee, con la maggior concentrazione nei graniti. Le pegmatiti granitiche sono infatti costituite in gran parte da minerali contenenti litio, come lo spodumene e la petiteite che sono le fonti più sfruttate dal punto di vista commerciale. Un altro minerale significativo del litio è la lepidolite, che è ora un nome obsoleto per una roccia costituita da polilitionite e trilitionite.

Spodumene                                  Lepidolite

Nel 1800 il chimico e statista brasiliano José Bonifácio de Andrada e Silva scoprì un nuovo minerale in una miniera sull’isola di Utö, in Svezia, e lo chiamò petalite (silicoalluminato di Litio, LiAlSi4O10). Tuttavia, fu solo nel 1817 che Johan August Arfwedson[1], che lavorava nel laboratorio del famoso chimico J. J. Berzelius[2], rilevò la presenza di un nuovo elemento durante l’analisi della petalite. Questo elemento formava composti simili a quelli del sodio e del potassio, sebbene il suo carbonato e idrossido fossero meno solubili in acqua e meno alcalini.

Johan August Arfwedson

Berzelius diede al materiale alcalino il nome “lithium” per sottolineare la sua scoperta in un minerale solido, al contrario del potassio, che era stato scoperto nelle ceneri delle piante e del sodio, che era noto in parte per la sua presenza nel sangue animale.

Arfwedson in seguito mostrò che questo stesso elemento era presente nei minerali spodumene e lepidolite.

Nel 1818, Christian Gmelin[3] fu il primo ad osservare che i sali di litio danno un colore rosso cremisi alla fiamma. Tuttavia, sia Arfwedson che Gmelin provarono e non riuscirono a isolare l’elemento puro dai suoi sali.

Fu isolato nel 1821, da William Thomas Brande[4] che lo ottenne per elettrolisi dell’ossido di litio, un processo che era stato precedentemente impiegato dal chimico Sir Humphry Davy per isolare i metalli alcalini potassio e sodio. Brande descrisse anche alcuni sali puri di litio. Stimando che la litia (ossido di litio) contenesse circa il 55% di metallo, egli valutò che il peso atomico del litio fosse di circa 9,8 g/mol (valore moderno ~ 6,94 g/mol).

Nel 1855, grandi quantità di litio furono prodotte attraverso l’elettrolisi del cloruro di litio da Robert Bunsen e Augustus Matthiessen[5]. La messa a punto di questa tecnica portò nel 1923 alla produzione commerciale di litio dalla società tedesca Metallgesellschaft AG, che eseguì l’elettrolisi di una miscela liquida di cloruro di litio e cloruro di potassio.

Il litio è un metallo tenero, color bianco argenteo. In condizioni ambiente, è l’elemento solido più leggero. Come tutti i metalli alcalini, il litio è altamente reattivo e infiammabile e deve essere conservato in olio minerale pesante. Al taglio, mostra una lucentezza metallica, ma l’aria umida lo corrode rapidamente in un grigio opaco argenteo, poi nero offuscato per formazione di idrossido di litio (LiOH e LiOH.H2O), nitruro di litio (Li3N) e carbonato di litio Li2CO3 (risultato di una reazione secondaria tra LiOH e CO2).

Litio metallico: annerito per ossidazione e carbonatazione (a sinistra), galleggiante in olio minerale (a destra)

Come gli altri metalli alcalini, il litio ha un singolo elettrone di valenza che può essere facilmente ceduto per formare un catione. Per questo motivo, il litio è un buon conduttore di calore ed elettricità, nonché un elemento altamente reattivo, sebbene sia il meno reattivo fra i metalli alcalini. Tuttavia, il litio fuso è significativamente più reattivo della sua forma solida.

Come ricordato è abbastanza morbido da poter essere tagliato con un coltello. Al taglio, appare argenteo splendente, ma cambia rapidamente in grigio man mano che si ossida in ossido di litio. Mentre il suo punto di fusione è uno dei più bassi tra tutti i metalli, ha i più alti punti di fusione e di ebollizione fra i metalli alcalini.

Il litio ha una densità molto bassa e può galleggiare sugli idrocarburi liquidi.

Il litio reagisce facilmente con l’acqua, ma con un vigore notevolmente inferiore rispetto agli altri metalli alcalini. La reazione forma idrogeno gassoso e idrossido di litio in soluzione acquosa.

(chimicamente: 2Li(s)+ 2H2O(l) → 2LiOH(aq) + H2(g))

Sebbene i metalli alcalini più pesanti possano essere immagazzinati in sostanze più dense, come olii minerali, il litio non è abbastanza denso da essere completamente immerso in questi liquidi, è quindi più conveniente conservarlo in vaselina.

Il litio si incendia e brucia in ossigeno e in vapor d’acqua, è infiammabile e potenzialmente esplosivo a contatto con l’acqua liquida, sebbene meno degli altri metalli alcalini poiché la reazione non è sufficientemente esotermica per indurre la combustione dell’idrogeno. Il litio è uno dei pochi metalli che reagiscono con l’azoto in condizioni ambiente per formare il nitruro e in ciò assomiglia al magnesio (Mg) che si trova nella seconda casella del Gruppo II della Tavola periodica. Con l’ossigeno forma l’ossido (Li2O) e il perossido (Li2O2), con solubilità simili e instabilità termica dei carbonati e dei nitruri. Il litio reagisce con l’idrogeno gassoso ad alte temperature per produrre idruro di litio (LiH). Il litio forma anche un superossido LiO2.

Altri composti binari noti includono gli alogeni (alogenuri: LiF, LiCl, LiBr, LiI), lo zolfo (solfuro: Li2S), e il carbonio (carburo: Li2C2). Sono noti molti altri composti inorganici in cui il litio si combina con anioni per formare sali: borati, carbonati, nitrato, e il boroidruro (LiBH4). Litio alluminio idruro (LiAlH4) è comunemente usato come agente riducente in sintesi organica.

Possiede un solo numero di ossidazione: +1. Composti organometallici del litio sono comunemente usati come reagenti in chimica organica.

Il litio metallico naturale è costituito da due isotopi stabili: 6Li and 7Li, quest’ultimo essendo il più abbondante (92.5%). Sono stati preparati artificialmente sette isotopi radioattivi del litio, dal più stabile 8Li con tempo di emivita di 838 ms al 4Li, che decade, emettendo un protone, in 7.6 × 10−23 s.

La produzione di litio è notevolmente aumentata dalla fine della seconda guerra mondiale. Il minerale contenente il litio viene dapprima separato dagli altri contenuti nelle rocce ignee e poi trasformato in cloruro. Il metallo viene quindi prodotto per elettrolisi da una miscela fusa di cloruro di litio al 55% e cloruro di potassio al 45% a circa 450 ° C.

Dal 2015, la maggior parte della produzione mondiale di litio si trova in Sud America (Argentina, Bolivia e Cile), dove i minerali contenenti litio si trovano in saline.

Salina di Uyuni in Bolivia

Dalle saline si ottengono salamoie poste in vasche interrate, dove i minerali di litio vengono concentrati per evaporazione solare.

La salamoia di litio è probabilmente l’unica tecnologia di estrazione del litio oggi ampiamente utilizzata, poiché l’estrazione diretta dai minerali è molto più costosa, quindi fuori mercato.

Il contenuto totale di litio nell’acqua marina è piuttosto elevato: una concentrazione relativamente costante di 0,14-0,25 ppm, ma non sono ancora stati sviluppati metodi di estrazione commercialmente validi.

Un’altra potenziale fonte di litio è la fuoriuscita da pozzi geotermici con concentrazioni più elevate che si avvicinano a 7 ppm. Il recupero del litio da questi pozzi si è dimostrato possibile: il litio viene separato dagli altri materiali per semplice filtrazione. I costi di processo e ambientali sono principalmente quelli di rendere operativi questi pozzi, l’impatto netto sull’ambiente potrebbe quindi essere positivo.

Le riserve mondiali identificate nel 2018 ammontano a 16 milioni di tonnellate (dati dell’USGS United States Geological Survey), sebbene una stima accurata delle riserve mondiali di litio sia difficile. 65 milioni di tonnellate di risorse fra note e ancora non scoperte sembra una stima più ragionevole.

Dal 2016 i primi tre paesi produttori di litio al mondo sono, sempre secondo l’USGS, Australia, Cile e Argentina. Metà delle riserve conosciute del mondo si trovano in Bolivia lungo il pendio centro-orientale delle Ande.

Vi sono opinioni diverse sulla potenziale crescita della produzione di litio. Uno studio del 2008 così concluse: “La produzione realisticamente raggiungibile di carbonato di litio sarà sufficiente solo per una piccola parte delle future esigenze del mercato delle auto ibride”, la domanda del settore dell’elettronica dei cellulari assorbirà gran parte dell’aumento di produzione previsto nel prossimo decennio e la produzione di massa di carbonato di litio causerà danni ecologici irreparabili agli ecosistemi che dovrebbero essere protetti, inoltre la propulsione ibrida è incompatibile con il concetto di “automobile verde” ”.

Uno studio del 2011 effettuato dall’Università del Michigan in collaborazione con la Ford Motor Company riportò che le risorse erano sufficienti per supportare la domanda globale fino al 2100, incluso il litio necessario per il potenziale uso nei veicoli elettrici. Lo studio stimò le riserve globali a 39 milioni di tonnellate e la domanda totale di litio durante il periodo di 90 anni fu stimata a 12-20 milioni di tonnellate/anno, dipendentemente dagli scenari relativi alla crescita economica e ai tassi di riciclaggio.

Nel 2014, il Financialist, rivista finanziaria sponsorizzata dal Credit Suisse, affermò che la domanda di litio cresceva di oltre il 12% l’anno. Secondo l’articolo, questa percentuale avrebbe presto superato la disponibilità prevista del 25%. L’articolo paragonò la situazione del litio del 2014 con quella del petrolio, per cui così come “l’aumento del costo del petrolio ha spinto a investire in costose tecniche di estrazione da acque profonde e sabbie bituminose”; anche il prezzo del litio, se continuerà a salire spingerà, in una direzione simile” con pericolose conseguenze per l’ambiente.

Nel luglio 2018 sono state scoperte in Perù nuove risorse di minerali di litio ad alta qualità per 2,5 milioni di tonnellate dell’elemento.

Gli usi del litio e dei suoi composti sono così numerosi che vale la pena esaminarli in breve settore per settore.

Nell’industria della ceramica

L’ossido di litio è ampiamente usato nella lavorazione della silice, riducendone il punto di fusione e la viscosità e portando a smalti con proprietà fisiche migliori fra cui un basso coefficiente di espansione termica. Gli smalti contenenti ossidi di litio sono usati principalmente per stoviglie. L’industria della ceramica utilizza generalmente carbonato di litio perché durante la “cottura”si converte in ossido. In tutto il mondo, questo è uno dei maggiori impieghi dei composti di litio.

Nell’industria elettronica

Alla fine del 20° secolo, il litio è diventato un componente importante degli elettrodi e degli elettroliti di batterie e accumulatori (“celle agli ioni di litio”), per il suo elevato potenziale d’elettrodo. Inoltre, a causa della sua bassa massa atomica, ha un elevato rapporto carica /peso. Una tipica batteria agli ioni di litio può generare circa 3 volt per cella, rispetto a 2,1 volt per quella al piombo e a 1,5 volt per la zinco-carbonio. Le batterie agli ioni di litio sono ricaricabili e hanno un’alta densità di energia, differiscono dalle batterie al litio, che sono batterie usa e getta (primarie) con litio o suoi composti come anodo. Altre batterie ricaricabili che utilizzano litio includono la batteria ai polimeri di ioni di litio, la batteria al litio ferro fosfato e la batteria a nanofili.

Il litio si è rivelato molto utile nell’ottimizzare le nano-saldature al silicio nelle batterie elettriche dei telefoni cellulari e di altri dispositivi elettronici.

Industria dei lubrificanti

Il terzo uso più comune di litio è nei grassi. L’idrossido di litio è una base forte e, se riscaldata con un grasso, produce un sapone a base di stearato di litio. Il sapone al litio ha la capacità di addensare gli oli e viene utilizzato per produrre grassi lubrificanti per tutte gli usi anche ad alte temperature.

Usi in Metallurgia

Il litio (ad es. come carbonato di litio) è usato come additivo per scorie di stampi a colata continua perché ne aumenta la fluidità, un uso che nel 2011 rappresentava il 5% dell’impiego globale del litio. I Composti di litio sono anche usati come additivi per la sabbia di fonderia usata nella fusione del ferro per ridurne le venature.

Il litio (come fluoruro di litio) viene utilizzato come additivo nelle fonderie di alluminio (processo Hall-Héroult), per ridurre la temperatura di fusione e aumentare la resistenza.

Usato come additivo nella saldatura, il litio metallico favorisce la fusione di tutti i metalli durante il processo ed elimina la formazione di ossidi assorbendo le impurità. Le leghe di litio con alluminio, cadmio, rame e manganese sono utilizzate per produrre parti di aeromobili ad alte prestazioni.

Purificazione dell’aria

Il cloruro di litio e il bromuro di litio sono igroscopici e sono usati come essiccanti per gas. L’idrossido di litio e il perossido di litio sono i composti più utilizzati per la rimozione dell’anidride carbonica e la purificazione dell’aria in aree chiuse, come nelle cabine di veicoli spaziali e di sottomarini. L’idrossido di litio assorbe infatti l’anidride carbonica dall’aria formando carbonato di litio (in linguaggio chimico: 2LiOH + CO2 → Li2CO3 + H2O) ed è preferito rispetto ad altri idrossidi alcalini per il suo peso ridotto.

Il perossido di litio (Li2O2) in presenza di umidità non solo reagisce con l’anidride carbonica per formare carbonato di litio, ma rilascia anche ossigeno. La reazione è la seguente:

2Li2O2 + 2CO2 → 2Li2CO3 + O2.

Impiego in Ottica

Il fluoruro di litio (LiF), coltivato artificialmente in forma di cristallo, è chiaro e trasparente e viene utilizzato in ottica specializzata per applicazioni nell’infrarosso (IR), ultravioletto (UV) e UV sotto vuoto. I cristalli di LiF hanno fra il più basso indice di rifrazione e lasciano passare la più ampia gamma di lunghezze d’onda ultraviolette. Il fluoruro di litio è talvolta usato nelle lenti focali dei telescopi. L’elevata non linearità di un altro composto del litio, il niobato di litio, lo rende utile nelle applicazioni di ottica non lineare. È ampiamente utilizzato nei prodotti di telecomunicazione come telefoni cellulari e modulatori ottici.

Composti del litio sono utilizzati in oltre il 60% dei telefoni cellulari.

Usi nell’industria dei polimeri

I composti organici del litio (organolitici) sono ampiamente utilizzati nella produzione di polimeri e altri prodotti chimici. Nell’industria dei polimeri, che è il principale consumatore di questi reagenti, i composti alchil-litici sono usati come catalizzatori/iniziatori nella polimerizzazione di olefine (es. polietilene). I composti organolitici sono preparati con litio metallico e alogenuri alchilici.

Applicazioni militari e nucleari

Il litio metallico e i suoi complessi idruri, come Li [AlH4], sono usati come additivi ad alta energia per i propellenti dei razzi. L’idruro di litio e alluminio può anche essere usato da solo come combustibile solido.

L’idruro di litio contenente l’isotopo 6Li viene utilizzato nelle armi termonucleari, dove funziona da combustibile per la fase di fusione della bomba.

Uso in Medicina

Il litio si è dimostrato efficace nel trattamento del disturbo bipolare[6]. I sali di litio possono anche essere utili per le diagnosi correlate, come il disturbo schizoaffettivo e la depressione maggiore ciclica. La parte attiva di questi sali è lo ione litio Li+.. Tuttavia possono avere effetti collaterali negativi come il rischio di sviluppare l’anomalia cardiaca di Ebstein nei neonati nati da donne che assumono litio durante il primo trimestre di gravidanza.

Il litio è stato anche studiato come possibile trattamento per un’altra patologia neurologica: la cefalea a grappolo.

Ruolo biologico

Benché gli studi sul ruolo biologico siano ancora controversi, il litio è considerato un elemento ultra-traccia nell’organismo umano, assunto cioè per circa 1 μg/giorno. Le fonti alimentari primarie di litio sono i cereali e le verdure e, in alcune aree, anche l’acqua potabile ne contiene piccole quantità. L’assunzione umana varia quindi secondo la posizione e la dieta.

Il litio fu scoperto per la prima volta negli organi umani e nei tessuti fetali alla fine del XIX secolo. Nell’uomo non sono attualmente note patologie da carenza di litio. I meccanismi biochimici di azione del litio sembrano essere multifattoriali e sono intercorrelati con le funzioni di numerosi enzimi, ormoni e vitamine, nonché con fattori di crescita e trasformazione [1,2].

La respirazione di polvere di litio o composti del litio inizialmente irrita il naso e la gola, mentre una maggiore esposizione può causare un accumulo di liquido nei polmoni, portando a edema polmonare. La manipolazione del metallo come tale costituisce un pericolo poiché il contatto con l’umidità forma idrossido di litio caustico.

Riciclaggio

In generale le industrie dei laterizi e dei materiali ceramici riutilizzano i materiali a fine vita e i loro scarti per la fabbricazione di nuovi prodotti. Di seguito è riportato lo schema del ciclo di produzione del Gruppo Steinzeug-Keramo, principale fornitrice di grès ceramico in Europa.

Per quanto riguarda il recupero dalle batterie agli ioni di Li, che va assumendo sempre più importanza, vale quanto scritto per nickel e cobalto, tuttavia uno schema per il recupero di praticamente tutti i componenti di una batteria è stato riportato e discusso da S. Nowack e M. Winter [3]. Eccolo:

Nowack e Winter hanno riprodotto questo schema da un loro recente articolo pubblicato dalla rivista scientifica europea ChemSusChem [4].

Ciclo biogeochimico

In letteratura si trova ben poco sul ciclo biogeochimico del litio, probabilmente perché non ci sono enzimi che lo gestiscono, al contrario il litio è in grado di inibire un enzima importante [2].

Lo schema che segue riporta il ciclo geochimico dell’isotopo naturale più abbondante, il 7Li, elaborato da S. Penniston-Dorland, X-M. Liu e R. L. Rudnick [5].

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, p. 4-18

https://it.wikipedia.org/wiki/Litio

https://en.wikipedia.org/wiki/Lithium

Bibliografia

[1] K.M. Brown, D.K. Tracy, Lithium: the pharmacodynamic actions of the amazing ion., Therapeutic Advances in Psychopharmacology, 2013, 3 163–176.

[2] W.H. Geo, E. Jacobsson, Systems Biology Understanding of the Effects of Lithium on Cancer., Frontiers in Oncology2018, DOI: 10.3389/fonc.2019.00296

[3] S. Nowack e M. Winter, Recycling of Lithium Ion Batteries, https://www.laboratory-journal.com/science/chemistry-physics/recycling-lithium-ion-batteries

[4] S. Rothermel et al. Graphite Recycling from Spent Lithium Ion Batteries, ChemSusChem, DOI: 10.1002/cssc.201601062

[5] S. Penniston-Dorland et al., Lithium Isotope Geochemistry., Rev. Miner. Geochem., 2017, 82, 165-217.

[1] Johan August Arfwedson (1792 – 1841), mineralogista chimico svedese che scoprì l’elemento chimico litio nel 1817 isolandolo come sale (cloruro o solfato). Eletto membro della Reale Accademia Svedese delle Scienze nel 1921.

[2] Jöns Jacob Berzelius (1779 – 1848), famoso chimico svedese. Berzelius è considerato, insieme a Robert Boyle, John Dalton e Antoine Lavoisier, uno dei fondatori della chimica moderna. Autorità indiscussa in Europa nella prima metà del XIX secolo.

[3] Christian Gottlieb Gmelin (1792-1860) chimico tedesco, nipote di Johann Konrad Gmelin e pronipote di Johann Georg Gmelin, nota famiglia di medici e farmacisti.

[4] William Thomas Brande (1788 – 1866) chimico inglese, nel 1811 pubblicò un metodo per dosare l’alcool nelle bevande fermentate, tra cui vino, sidro e birra. Nel 1812 fu nominato professore di chimica presso la Apothecaries Society. Membro della Royal Society.

[5] Augustus Matthiessen (1831-1870), era un chimico e fisico britannico, ha lavorato con Robert Bunsen all’Università di Heidelberg dal 1853 al 1856, in questo periodo isolò il calcio e lo stronzio puri. Tornato in Inghilterra è stato docente di chimica allo St Mary’s Hospital, poi allo St Bartholomew’s Hospital, a Londra. La sua ricerca ha riguardato principalmente la costituzione di leghe e gli alcaloidi dell’oppio.

[6] Quest’anno ricorre il 70 anniversario della scoperta del litio per la cura dei disturbi psichiatrici. A dimostrarne per la prima volta l’efficacia, nel 1949, è stato John Cade (1912-1980), psichiatra australiano che iniziò mentre era prigioniero dei giapponesi (1942-1945) dopo la caduta di Singapore. La storia è ripercorsa nel libro “Lithium”, dello psichiatra americano Walter Brown (Liveright Publishing, 2019), recensito su Nature Online. Notizia ANSA 28 agosto 2019.

Elementi della tavola periodica: Manganese, Mn.

Rinaldo Cervellati

 

Il manganese (Mn) è l’elemento n. 25 della Tavola Periodica. Non si trova libero in natura ma combinato in alcuni minerali, il più importante dei quali è la pirolusite, costituita essenzialmente da biossido di manganese (MnO2). Importante è anche la romanechite (ossidi di manganese e idrossido di bario), costituente principale dello psilomelano, che è un insieme di minerali.

Altri minerali di manganese economicamente importanti mostrano solitamente una stretta associazione con minerali di ferro.

Pirolusite

Diversi ossidi di manganese, ad esempio la pirolusite, abbondante in natura, furono usati come pigmenti sin dall’età della pietra. Le pitture rupestri di Lascaux (Francia), datate fra 30.000 e 24.000 anni fa, contengono pigmenti a base di manganese.

Pitture rupestri a Lascaux (Francia)

L’origine del nome manganese è alquanto complessa. Nell’antichità, due minerali neri provenienti dalla regione detta Magnesia (oggi situata in Grecia) erano entrambi chiamati magnes dal loro luogo di origine, ma avevano caratteristiche e proprietà molto diverse. Il magnes definito maschile di colore grigio scuro con venature rossastre attirava il ferro (si trattava del minerale di ferro ora noto come calamita o magnetite, da cui probabilmente l’origine del termine magnete). Il magnes detto femminile di colore nero non attraeva il ferro, ma era usato per colorare il vetro. Questo magnes femminile era la pirolusite. Né questo minerale né il manganese elementare sono magnetici.

Composti di manganese sono stati usati da vetrai egiziani e romani, sia per aggiungere sia per rimuovere il colore dal vetro. L’uso di questi composti come “sapone per vetrai” è proseguito nel Medioevo fino ai tempi moderni ed è evidente nel vetro trecentesco di Venezia.

Nel 16° secolo la pirolusite era chiamata manganesum dai vetrai, forse come concatenazione di due parole, poiché alchimisti e vetrai dovevano differenziare fra magnesia nigra (il minerale nero) e magnesia alba[1] (un minerale bianco, proveniente anche esso dalla Magnesia, utile anche nella produzione del vetro). Michele Mercati[2] chiamò manganesa la magnesia nigra, in seguito il metallo isolato da essa divenne noto come manganese (in tedesco: Mangan).

Nel 18° secolo diversi chimici, fra i quali Carl Wilhelm Scheele, identificarono importanti composti del manganese, come ad es. il permanganato di potassio, usato come antisettico, e scoprirono che facendo reagire il biossido di manganese con l’acido muriatico (acido cloridrico) si otteneva il cloro. Tutto ciò fece supporre che i composti del manganese dovessero contenere un nuovo elemento, ma il merito di averlo isolato per primo va allo svedese Johan Gottlieb Gahn[3] che lo ottenne arrostendo la pirolusite con carbone (in termini chimici riducendo il biossido di manganese con carbonio: MnO2 + C ® Mn +CO2).

Manganese metallico

Il manganese con le sue 1000 ppm (0.1% ca.) occupa il 12° posto per abbondanza fra gli elementi chimici nella crosta terrestre. Il suolo contiene 7-9000 ppm di manganese con una media di 440 ppm. L’acqua di mare ha solo 10 ppm di manganese e l’atmosfera ne contiene 0,01 μg/m3.

Le risorse terrestri sono grandi ma distribuite in modo irregolare. Circa l’80% delle riserve di manganese conosciute nel mondo si trovano in Sud Africa; altri importanti depositi sono in Ucraina, Australia, India, Cina, Gabon e Brasile.

Distribuzione delle risorse di manganese (minerali), 2006

Secondo la stima del 1978, il fondo oceanico conterrebbe 500 miliardi di tonnellate di noduli di manganese. I tentativi di trovare metodi economicamente validi per la raccolta di questi noduli furono abbandonati negli anni ’70.

In Sud Africa la maggior parte dei depositi identificati si trova vicino a Hotazel nella Provincia di Northern Cape, con una stima (2011) di 15 miliardi di tonnellate. Nel 2011 il Sudafrica ha prodotto 3,4 milioni di tonnellate di manganese, superando tutte le altre nazioni.

Il manganese metallico si ottiene ancor oggi per riduzione del suo diossido. Come riducente però non si usa più il carbone ma una miscela di gas idrogeno e monossido di carbonio che fornisce sia il calore necessario (il processo avviene a 850 °C) sia l’opportuno riducente. Il diossido di manganese si riduce a monossido (MnO), che viene raffreddato e opportunamente frantumato. Questo composto viene poi inviato a un reattore che riduce ulteriormente il monossido di manganese a manganese metallico per reazione con solfato ferroso in ambiente acido. Il rendimento del processo è del 92%.

Il metallo può essere ulteriormente purificato per via elettrolitica.

Il manganese è essenziale per la produzione di ferro e acciaio per le sue proprietà desolforanti, deossigenanti e leganti.

La produzione dell’acciaio e altre leghe ferrose assorbe attualmente dall’85% al 90% della produzione mondiale di manganese: fra le altre cose, il manganese è un componente chiave per gli acciai inossidabili a basso costo e per alcune leghe di alluminio di largo impiego.

Piatti e lastre in manganese sono utilizzati durante la costruzione o riparazione di un tipo di impianti di sabbiatura chiamati granigliatrici, dotati di motori elettrici collegati a speciali turbine che sparano graniglia metallica ad alta velocità sabbiando il pezzo. Il manganese è più resistente del ferro durante il processo di sabbiatura e risulta essenziale per la longevità dell’impianto.

Il manganese può assumere tutti gli stati di ossidazione da +1 a +7 sebbene i più comuni siano +2, +3, +4, +6 e +7. Agli stati di ossidazione più bassi funziona chimicamente come metallo formando ossidi basici (es. MnO), a quelli più alti funziona da non metallo fornendo ossidi acidi, come nei permanganati del cui sale di potassio si è già detto.

Il biossido di manganese (MnO2) è stato ampiamente utilizzato nelle batterie “a secco” zinco-carbone[4]. Lo stesso materiale funziona anche nelle più recenti batterie alcaline, che utilizzano la stessa reazione di base, ma una diversa miscela di elettroliti. Nel 2002 sono state utilizzate più di 230.000 tonnellate di biossido di manganese per questo scopo e sono attualmente in continuo aumento causa lo sviluppo delle auto elettriche.

Il monossido di manganese (MnO) è un pigmento marrone che si usa per vernici e si trova nelle terre naturali (ad esempio nella terra di Siena e nella terra di Siena bruciata ).

Composti del manganese si usano anche per togliere la tinta verdastra conferita al vetro dalle impurezze di ferro; a concentrazioni molto alte donano al vetro un colore violetto.

In chimica organica sono utilizzati come catalizzatori in molte sintesi.

Il riciclo degli scarti degli acciai e delle altre leghe non ferrose contenenti manganese procede come descritto nei precedenti post sul nickel e il cobalto, il metallo riciclato è riutilizzato nell’industria siderurgica. Per coloro particolarmente interessati ai dettagli del riciclaggio dei metalli dagli scarti di tale industria si rimanda al volume curato da Scott Sibley [1].

Il riciclo del manganese dalle batterie alcaline al litio per auto elettriche è più complicato perché lo si deve separare da litio, nickel e cobalto. Illustriamo qui il procedimento messo a punto da una nota fabbrica tedesca di automobili [2]. Con riferimento alla figura:

Riciclaggio manganese da batterie al litio

da ciascun elemento del sistema di batterie si tolgono dapprima i cavi elettronici da cui vengono separati alluminio e rame dall’acciaio, il corpo del modulo viene invece flottato e triturato poi asciugato e infine setacciato fino a ottenere una polvere nera contenente il manganese insieme a litio, nickel e cobalto. Questi metalli vengono poi separati singolarmente con un procedimento idrometallurgico.

In vista della costante diminuzione delle risorse minerarie e del contemporaneo aumento del consumo globale di manganese, lo sviluppo di tecnologie rispettose dell’ambiente per la ricerca di fonti alternative di Mn ha acquisito grande importanza. Il recupero dai residui minerari o metallici utilizzando gli approcci convenzionali è poco remunerativo a causa degli elevati costi di gestione e di energia coinvolti. Il recupero di Mn mediante biolisciviazione con diversi microrganismi può quindi diventare una valida alternativa verde alle attuali tecniche pirometallurgiche. La biolisciviazione è un complesso di operazioni che si compiono su materiali misti, contenenti metalli e altro materiale, al fine di portare in soluzione i metalli, lasciando come residuo indisciolto la porzione non metallica. La trasformazione è lenta se si usano reagenti inorganici (ad es. acidi), mentre è fortemente accelerata se alla soluzione acida si aggiungono particolari organismi, battéri o funghi. La biolisciviazione batterica è principalmente dovuta a influenza enzimatica, mentre quella fungina non è enzimatica.

Schema del meccanismo generale della biotrasformazione batterica intracellulare di Mn [3]

Una rassegna su questa interessante prospettiva “verde” per lo sfruttamento degli scarti di miniera e il riciclo del manganese è stata pubblicata da S. Gosh et al. [3].

Il manganese è un elemento essenziale per l’organismo umano. È presente come coenzima in diversi processi biologici, tra cui il metabolismo dei macronutrienti, la formazione delle ossa e i sistemi di difesa dai radicali liberi. È un componente fondamentale in dozzine di proteine ed enzimi. Il corpo umano contiene circa 12 mg di manganese, principalmente nelle ossa, il rimanente è concentrato nel fegato e nei reni. Nel cervello umano il manganese è legato a metalloproteine, in particolare la glutammina sintetasi negli astrociti[5].

L’enzima Mn-Superossido dismutasi (Mn-SOD) è il tipo di SOD presente nei mitocondri delle cellule eucariote, ma anche nella maggior parte dei batteri. Questo enzima è probabilmente uno dei più antichi, poiché quasi tutti gli organismi che vivono in presenza di ossigeno lo usano per affrontare gli effetti tossici del superossido (O2), formato dalla riduzione del normale ossigeno molecolare (O2).

Cioccolato fondente, riso, noci, pasta e farina contengono discrete quantità del minerale, ma anche tutta una serie di aromi, dallo zafferano al prezzemolo, al basilico [4].

Negli Stati Uniti le dosi giornaliere raccomandate variano dai 1,2 ai 2,3 mg/giorno per i maschi ai 1,2 – 1,8 mg/giorno per le femmine a seconda dell’età. Per le donne incinte e i lattanti le dosi sono aumentate a 2 e 2,6 mg/giorno di manganese. In Europa la dose media raccomandata per individui maggiori di 15 anni è di 3,0 mg/giorno, che è pure quella consigliata per le donne incinte. Per bambini e ragazzi da 1 a 14 anni le dosi vanno da 0,5 a 2,0 mg/giorno.

Casi di deficienza da manganese sono comunque molto rari.

I composti di manganese sono meno tossici di quelli di altri metalli come il nickel e il rame.  Tuttavia, l’esposizione a polveri e fumi di manganese non deve superare il valore massimo di 5 mg/m 3 anche per brevi periodi a causa del suo livello di tossicità. L’avvelenamento con manganese è stato associato a compromissione delle capacità motorie e a disturbi cognitivi.

A livelli di 500 mg/m3 il manganese diventa molto pericoloso per la salute e la vita.

Il manganese è importante anche nell’evoluzione fotosintetica dell’ossigeno nei cloroplasti delle piante. Per soddisfare il fabbisogno, la maggior parte dei fertilizzanti vegetali ad ampio spettro contiene manganese.

Infine un accenno al ciclo biochimico, ricordando anzitutto che con questo termine, tipico delle Scienze della Vita e della Terra e dell’Ecologia, si intende il percorso attraverso il quale una sostanza chimica si muove attraverso compartimenti biotici (biosfera) e abiotici (litosfera, atmosfera e idrosfera) della Terra. Nella figura è mostrata parte del ciclo dei macronutrienti e dei micronutrienti (oligoelementi) che comprende anche il manganese.

Ciclo biogeochimico schematico di macro e micronutrienti

Come ricordato più volte in questo blog molti cicli biogeochimici sono attualmente studiati per la prima volta poiché i cambiamenti climatici e l’impatto delle attività umane stanno cambiando drasticamente la velocità, l’intensità e l’equilibrio di questi cicli relativamente poco conosciuti.

Per chi volesse saperne di più, rimando alla citazione [5].

Opere consultate

https://en.wikipedia.org/wiki/Manganese

Bibliografia

[1] S. F. Sibley (Ed.), Flow Studies for Recycling Metal Commodities in the United States., U.S. Geological Survey, Reston, Virginia, 2004.

[2] https://www.volkswagen-newsroom.com/en/stories/lithium-to-lithium-manganese-to-manganese-4662

[3] S. Gosh et al., A greener approach for resource recycling: Manganese bioleaching., Chemosphere, 2016, 154, 628-639.

[4] http://www.dietabit.it/alimenti/manganese/

[5] V. Cilek (a cura di), Earth System: History and Natural Variability – Volume IV, UNESCO-EOLSS, 2009, pp. 229-249.

[1] Il nome magnesia fu infine usato per riferirsi solo alla bianca magnesia alba (ossido di magnesio), che fornì il nome di magnesio per l’elemento libero quando fu isolato più di trenta anni dopo, precisamente nel 1808 da Humphrey Davy.

[2] Michele Mercati (1541 – 1593) medico italiano, fu sovrintendente dell’Orto Botanico Vaticano sotto i papi Pio V, Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII. Fu uno dei primi studiosi a riconoscere gli strumenti di pietra preistorici come oggetti creati dall’uomo piuttosto che pietre naturali o mitologiche.

[3] Johan Gottlieb Gahn (1745 – 1818), chimico e metallurgista svedese, isolò il manganese metallico nel 1774. Dieci anni dopo fu nominato membro dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze.

[4] Dette anche pile Leclanché, dal nome del loro inventore nel 1866. Il biossido di manganese impastato con cloruro d’ammonio funge da accettore di idrogeno nelle reazioni che avvengono al catodo di zinco. La barretta di carbone funge unicamente come trasportatore di elettroni.

[5] Gli Astrociti sono caratteristiche cellule a forma di stella presenti nel cervello e nel midollo spinale. Svolgono molte funzioni, tra cui il supporto biochimico alle cellule endoteliali che formano la barriera emato-encefalica, la fornitura di sostanze nutritive al tessuto nervoso, il mantenimento dell’equilibrio degli ioni extracellulari e un ruolo nel processo di riparazione e cicatrizzazione del cervello e del midollo spinale dopo trauma o lesioni.

Nuove strade per le batterie al litio.

Claudio Della Volpe

(una parte del testo è tradotto “liberamente” dall’articolo citato)

Le batterie ricaricabili con anodi metallici (per esempio di Li, Al, Na) hanno richiamato di recente una grande attenzione perchè promettono di accrescere di 10 volte la capacità anodica rispetto alle odierne batterie al litio.

Il lettore non esperto potrebbe pensare che un limite sia costituito dal solvente: l’acqua reagisce violentemente con il litio o il sodio, ma in realtà questo problema è stato risolto già in passato usando solventi non acquosi come per esempio il CH3CN acetonitrile o il propilencarbonato CH3CHCH2CO3. Questi solventi resistono alla differenza di potenziale indotta dalla reazione principale e dunque possono essere usati con problemi ridotti, anche se la sicurezza ha portato ad una evoluzione che sta privilegiando solventi molto particolari, polimeri come il PEO per esempio.

Tuttavia nonostante questi enormi progressi una barriera importante è costituita dal fatto che durante le fasi di ricarica la elettrodeposizione del metallo è irregolare e porta alla formazione per diffusione di dendriti, strutture allungate, simili ai rami di un albero come dice la parola, che in condizioni opportune (ricariche complete e veloci per esempio) possono crescere da un lato all’altro, in modo da cortocircuitare la batteria.

Come si può evitare questo problema?

Non c’è ancora una soluzione vittoriosa, ma ci sono molti tentativi.

Un ruolo importante nel percorso per l’eliminazione della crescita dendritica è giocato dal calcolo teorico che permette di prevedere gli effetti delle varie strategie prima di fare dei complessi e costosi esperimenti.

Per esempio elettroliti con un modulo meccanico significativo, oppure elettroliti a stato solido, polimeri nanoporosi o materiali ceramici che ospitano il liquido nella porosità, polimeri cross-linkati o gelificati.

Però nonostante questo si è scoperto che si possono anche verificare reazioni indesiderate fra elettrolita in soluzione ed elettrodo metallico.

Teoricamente nelle batterie che usano elettrodi metallici l’eletrolita tende a formare uno strato passivato, ossia un film di materiale che ha reagito e che è anche compatto e limita la reazione ulteriore, la cosiddetta interfase dell’elettrolita solido (SEI).

Qui interviene un altro fenomeno “sottile” tipico delle batterie ricaricabili, che coinvolgano materiali solidi (anche delle vecchie batterie piombo acido): l’elettrodo viene distrutto e ricostruito durante le fasi di carica/scarica; l’elettrodo ha “una storia”, invecchia e questo lo porterà a fine vita dopo un certo nero di cicli (a differenza di ciò che accede nelle batterie in flusso per esempio che hanno elettrodi “liquidi”). Questo processo ciclico degrada il SEI esponendo il metallo nativo all’elettrolita e formando così ulteriori prodotti di reazione.

Anche in questo caso la creatività dei ricercatori si è sbizzarrita nel cercare una soluzione che protegga il film iniziale oppure che impedisca una deposizione irregolare.

Per esempio strati di nanosfere cave di carbonio che formino uno strato protettivo, fibre di polimero prodotte per elettrospinning o ancora strati molto sottili di allumina. Si è anche provato a generare dei film molto sottili di materiali provenienti dalla soluzione elettrolitica: come fluoroetilene carbonato (FEC) oppure sali come LiFSI, LiPF6, LiF, e CsF.

In questo lavoro si è tentata una nuova strada per certi aspetti più semplice.

Creare un rivestimento uniforme per prevenire il contatto con l’elettrolita ma senza eliminare uno scambio ionico veloce.

I colleghi americani hanno pensato di usare l’Indio come strato protettivo. Essi hanno dimostrato prima teoricamente e poi sperimentalmente che questo è possibile; si spera che quanto prima questa o altre strategie possano incrementare di almeno un ordine di grandezza le prestazioni delle batterie ricaricabili; uesto ci consentirebbe di superare una parte essenzizale del gap che rende ancora così indispensabili i combustibili fossili.

Intercalazione e altre storie. 1.

Claudio Della Volpe.

Dato che il nostro blog vuole occuparsi soprattutto di chimica dell’antropocene dobbiamo in qualche modo fare spazio a quei concetti di chimica, una volta considerati avanzati, ma che oggi costituiscono la base di molte delle applicazioni antropoceniche della chimica. L’intercalazione è uno di questi. Nel discuterne l’aspetto scientifico e tecnico troveremo, quasi naturalmente, i motivi per cui chimica e società ci appaiono così strettamente connesse.

Una delle parole entrate più di recente (si fa per dire eravamo comunque negli anni 60 del secolo scorso) nel linguaggio dei chimici è : intercalazione.

La inventò Lerman, un biologo USA. analizzando il caso delle acridine, molecole aromatiche, che interagivano col DNA intercalandosi fra le basi del DNA, distorcendole dunque inducendo effetti mutageni; oggi trovate il termine nel linguaggio ufficiale della chimica: http://goldbook.iupac.org/I03077.html.

intercalaz1Tuttavia intercalazione è anche quella che dà luogo a composti veramente curiosi, come per esempio il potassio metallico che si intercala fra gli strati della grafite formando un composto dalla formula KC8 o il litio, che in analoghe circostanze forma un LiC6. Ioni diversi possono co-intercalare con effetti reciproci che possono essere anche molto interessanti.

intercalaz2L’intercalazione si può immaginare come una interazione mediata da un legame “a trasferimento di carica”, una parziale donazione di carica fra gli orbitali di frontiera degli atomi coinvolti, dall’HOMO di uno al LUMO di un’altro.

Questi composti sono alla base di molte moderne applicazioni elettrochimiche, come per esempio le batterie al litio ricaricabili.

Nelle batterie al litio lo ione litio viene sostanzialmente pompato contro il suo gradiente di potenziale elettrochimico da un ambiente ad un altro in fase di carica. In particolare il litio può essere spostato dalla cobaltite (un ossido misto di litio e cobalto) verso la grafite durante la fase di carica e tornare verso la cobaltite nella fase di scarica. Lo ione viaggia attraverso la soluzione elettrolitica mentre gli elettroni, come in ogni processo elettrochimico, viaggiano attraverso il circuito esterno; dunque il litio si libera dell’elettrone, si “ossida” sull’elettrodo di grafite e si “riduce” sull’elettrodo di cobaltite, come si può vedere in figura:

intercalaz3Ma se il litio si “ossida” e si “riduce” sui due lati rimanendo però sempre nella sostanza uno ione positivo, quale è il motore del processo? Nelle comuni batterie gli ioni coinvolti sono quelli che si ossidano e si riducono, qui sembra di no. Come riconciliare questa descrizione con le conoscenze comuni di elettrochimica?

Possiamo visualizzare il processo in due modi diversi; in uno meno formale il litio abita i due contesti dei due elettrodi e si sposta fra due potenziali (elettro)chimici diversi; una stessa specie in entrambi gli elettrodi. E il processo non dipende dal suo stato di ossidoriduzione, che rimane il medesimo, ma dal potenziale chimico dei due sistemi, più basso nella cobaltite, più alto nella grafite.

In modo più formale possiamo attribuire al contesto, al resto degli atomi, non al litio, la variazione dello stato di ossidazione: nel contesto della grafite il carbonio acquisisce una carica formale -1/6, oscillando fra 0 e -1/6, mentre nella cobaltite, un’ossido misto CoLiO2, il cobalto oscilla fra due stati +3 in presenza del litio intercalato e +4 in sua assenza, con l’avvertenza che la deplezione di litio dall’elettrodo non può superare il 50% per rimanere un processo reversibile, con tutte le variazioni di volume e di densità che comportano un notevole comportamento a fatica che a lungo andare distruggerà comunque entrambi gli elettrodi.

Come in molte altre batterie ricaricabili (quelle basate su elettrodi allo stato solido) occorre che non tutto il reagente che mettiamo in gioco reagisca se vogliamo che il processo possa essere effettivamente invertito. Solo le batterie con reagenti allo stato liquido e in cui la parte solida funga solo da catalizzatore, possono sfuggire a questa regola e non portare quote morte di reagente (per esempio le batterie al vanadio meglio conosciute come batterie in flusso, flow batteries).

In questo modo possiamo anche interpretare correttamente come anodo la grafite, poichè in fase di scarica il carbonio nell’anodo si ossida da -1/6 a 0, inviando elettroni, mentre il cobalto si riduce da +4 a +3 accettando tali cariche al catodo. Viceversa in fase di carica.

E’ da notare che in condizioni tipiche il rapporto fra atomi intercalati e strati di grafite è tipico di composti non-stechiometrici, ossia che non seguono le leggi usuali di combinazione della chimica, poichè solo alcuni strati o alcune porzioni sono interessati all’intercalazione.

In definitiva l’intercalazione ha espanso l’insieme dei numeri di ossidazione del carbonio (e di altri atomi) a valori frazionari, che raramente sono considerati nelle presentazioni basiche di questo concetto.

Questo meccanismo di funzionamento delle batterie al litio (almeno di alcune) chiarisce due ordini di cose; da una parte a differenza delle tradizionali batterie non esiste un solo potenziale tipico di queste batterie, perchè in effetti ogni coppia di elettrodi fa storia a se e corrisponde ad un salto di energia differente.

Ma non solo; questo spiega l’interesse tecnologico ed economico per le altre specie chimiche coinvolte in questi materiali. Sui giornali degli ultimi giorni qualcuno avrà notato degli articoli che raccontavano la storia del rastrellamento del cobalto sul mercato mondiale.

Gli elettrodi di cobaltite, composto ormai di sintesi perchè non ne esiste più di naturale, sono quelli che in coppia con la grafite producono la più alta differenza di potenziale, ma sono anche quelli che più facilmente danno luogo a problemi di surriscaldamento in fase di ricarica (un fenomeno che va sotto il nome di effetto runaway). Tuttavia il cobalto costituisce comunque un componente importante delle moderne batterie al litio; proprio per questo si pensa che il raddoppio del prezzo del cobalto negli ultimi mesi sia la conseguenza di un rastrellamento del prodotto sul mercato mondiale da parte di pochi operatori che intendono controllare il mercato dell’energia in questo modo.

La Repubblica Democratica del Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale. Il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smart phone e automobili in Cina e in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili in Europa e in America.

Il cobalto è estratto dai residui di lavorazione di altri metalli e le formazioni più ricche sono in Congo.

Insieme con i prezzi del litio anche il cobalto e la grafite stanno andando alle stelle e sono al centro della speculazione finanziaria.

In un mondo che ha sempre più fame di energia e risorse, il controllo sociale di queste risorse diventa sempe più necessario. Quando qualcuno si lamenta dei flussi crescenti di migranti di colore dall’Africa si dovrebbe ricordargli che per dare a lui un telefonino di ultima generazione si sta sacchegiando la terra d’Africa (oltre il cobalto anche il tantalio, il coltan viene dallAfrica) e le guerre e le migrazioni sono indotte anche da questo furto di ricchezza ai danni delle giovani generazioni di quei paesi. C’è un costo sociale dell’energia, che paghiamo in questo modo, che la grande speculazione ripartisce sui consumatori specie europei e sui giovani africani, costretti dalle guerre e dalla distruzione dell’ambiente, oltre che dal cambiamento climatico e dalla povertà, a lasciare la loro terra.