Elementi della tavola periodica. Cesio, Cs (seconda parte).

Rinaldo Cervellati

 

Applicazioni

Industria estrattiva

Il principale uso di cesio non radioattivo è nel formiato di cesio come fluido di perforazione per l’industria petrolifera estrattiva. Soluzioni acquose di formiato di cesio (HCOO − Cs), prodotte facendo reagire idrossido di cesio con acido formico, furono sviluppate a metà degli anni ’90 per essere utilizzate come fluidi di perforazione e completamento di pozzi petroliferi. L’alta densità della salamoia di formiato di cesio (fino a 2,3 g/cm3), unita alla natura relativamente benigna della maggior parte dei composti di cesio, riduce la necessità di solidi sospesi tossici ad alta densità nella perforazione; un vantaggio tecnologico e ingegneristico. A differenza dei componenti di molti altri liquidi pesanti, il formiato di cesio ha un minor impatto ambientale. Inoltre, è biodegradabile e può essere riciclato, il che è importante in considerazione del suo costo elevato.

Orologi atomici

Gli orologi atomici a base di cesio utilizzano le transizioni elettromagnetiche nella struttura iperfine degli atomi di cesio-133 come punto di riferimento. Il primo orologio accurato al cesio fu costruito da Louis Essen nel 1955 presso il National Physical Laboratory nel Regno Unito.

FOCS-1, un orologio atomico a fontana di cesio freddo continuo in Svizzera, ha iniziato a funzionare nel 2004 con un’incertezza di un secondo in 30 milioni di anni (figura 7)

Figura 7. FOCS-1, orologio atomico a fontana di cesio freddo continuo in Svizzera

Gli orologi al cesio sono migliorati nell’ultimo mezzo secolo e sono considerati “la realizzazione più accurata di un misuratore del tempo che l’umanità abbia mai raggiunto”. Questi orologi misurano la frequenza con un errore da 2 a 3 parti su 1014, che corrisponde a una precisione di 2 nanosecondi al giorno, o un secondo in 1,4 milioni di anni. Le ultime versioni sono più accurate di 1 parte su 1015, circa 1 secondo in 20 milioni di anni. Gli orologi al cesio regolano i tempi delle reti di telefoni cellulari e di Internet.

Unità di misura nel SI

Il secondo, simbolo s, è l’unità di tempo nel Sistema Internazionale (SI). È definito prendendo il valore numerico fisso della frequenza di cesio ΔνCs, la frequenza di transizione iperfine allo stato fondamentale imperturbato dell’atomo di cesio-133, a 9192631770 Hz (cioè s– 1).

Industria elettrica ed elettronica

I generatori termoionici di vapori di cesio sono dispositivi a bassa potenza che convertono l’energia termica in energia elettrica. Nel convertitore tubo a vuoto a due elettrodi, il cesio neutralizza la carica spaziale vicino al catodo e migliora il flusso di corrente.

Il cesio è anche importante per le sue proprietà fotoemissive, poiché converte la luce in flusso di elettroni. Viene utilizzato nelle cellule fotoelettriche perché i catodi a base di cesio, come il composto intermetallico K2CsSb, hanno una bassa tensione di soglia per l’emissione di elettroni.  La gamma di dispositivi fotoemissivi che utilizzano il cesio include dispositivi di riconoscimento ottico dei caratteri, tubi fotomoltiplicatori e tubi per videocamere. Tuttavia, germanio, rubidio, selenio, silicio, tellurio e molti altri elementi possono essere sostituiti al cesio nei materiali fotosensibili.

I cristalli di cesio ioduro (CsI), bromuro (CsBr) e fluoruro (CsF) sono impiegati per gli scintillatori nei contatori a scintillazione ampiamente utilizzati nell’esplorazione dei minerali e nella ricerca sulla fisica delle particelle per rilevare la radiazione di raggi gamma e X. Essendo un elemento pesante, il cesio fornisce un buon potere frenante con una migliore rilevazione.

I vapori di cesio sono utilizzati in molti comuni magnetometri.

L’elemento è utilizzato come standard interno in spettrofotometria. Altri usi del metallo includono laser ad alta energia e lampade a bagliore di vapore e raddrizzatori di vapore.

Usi chimici e medici

Relativamente poche applicazioni chimiche utilizzano il cesio. Il doping con composti di cesio aumenta l’efficacia di diversi catalizzatori per la sintesi chimica, come acido acrilico, antrachinone, ossido di etilene, metanolo, anidride ftalica, stirene, monomeri di metil metacrilato e varie olefine. Viene anche utilizzato nella conversione catalitica di anidride solforosa in triossido di zolfo nella produzione di acido solforico.

Il fluoruro di cesio ha un uso di nicchia nella chimica organica di base e come fonte anidra di ioni fluoruro. I sali di cesio a volte sostituiscono i sali di potassio o sodio nella sintesi organica, ad esempio nella ciclizzazione, esterificazione e polimerizzazione.

L’alta densità dello ione cesio rende le soluzioni di cloruro di cesio, solfato di cesio e trifluoroacetato di cesio (Cs(O2CCF3)) utili in biologia molecolare per l’ultracentrifugazione a gradiente di densità. Questa tecnologia viene utilizzata principalmente nell’isolamento di particelle virali, frazioni subcellulari e acidi nucleici da campioni biologici.

Il cesio è stato utilizzato anche nella dosimetria delle radiazioni termoluminescenti (TLD): quando esposto alle radiazioni, acquisisce difetti cristallini che, se riscaldati, regrediscono con un’emissione di luce proporzionata alla dose ricevuta. Pertanto, la misurazione dell’impulso luminoso con un tubo fotomoltiplicatore può consentire di quantificare la dose di radiazione accumulata.

Applicazioni nucleari e isotopiche

Il cesio-137 è un radioisotopo comunemente usato come emettitore gamma nelle applicazioni industriali. I suoi vantaggi includono un’emivita di circa 30 anni, la sua disponibilità dal ciclo del combustibile nucleare e avere 137Ba come prodotto finale stabile. L’elevata solubilità in acqua è uno svantaggio che lo rende incompatibile con gli irradiatori per piscine di grandi dimensioni per alimenti e forniture mediche. È stato utilizzato in agricoltura, nella cura del cancro e nella sterilizzazione di alimenti, fanghi di depurazione e attrezzature chirurgiche. Il cesio-137 è stato impiegato in una varietà di strumenti di misura industriali, inclusi misuratori di umidità, densità, livellamento e spessore.

Il cesio-137 è stato utilizzato in studi idrologici analoghi a quelli con il trizio. Come prodotto figlia dei test delle bombe a fissione dagli anni ’50 alla metà degli anni ’80, il cesio-137 è stato rilasciato nell’atmosfera, dove è stato prontamente assorbito dall’umidità. La variazione nota di anno in anno in quel periodo consente la correlazione con gli strati del suolo e dei sedimenti.

Il cesio-134, e in misura minore il cesio-135, sono stati usati anche in idrologia per misurare la produzione di cesio dall’industria nucleare. Sebbene siano meno diffusi del cesio-133 o del cesio-137, questi isotopi sono prodotti esclusivamente da fonti antropiche.

Altri usi

Una delle applicazioni industriali più recenti del cesio è quella relativa alla tempra chimica di vetrate destinate a resistere agli incendi: volendo evitare l’impiego di boro, questa rappresenta l’unica alternativa attualmente praticabile.

Gli elettroni irradiati da un cannone elettronico colpiscono e ionizzano atomi di carburante neutri; in una camera circondata da magneti, gli ioni positivi sono diretti verso una griglia negativa che li accelera. La forza del motore viene creata espellendo gli ioni dalla parte posteriore ad alta velocità. All’uscita, gli ioni positivi vengono neutralizzati da un altro cannone elettronico, assicurando che né la nave spaziale né lo scarico siano caricati elettricamente e non siano attratti.

Cesio e mercurio erano usati come propellenti nei primi motori ionici progettati per la propulsione di veicoli spaziali in missioni interplanetarie o extraplanetarie molto lunghe. Ma la corrosione da cesio sui componenti dei veicoli spaziali ha spinto lo sviluppo verso i propellenti a gas inerti, come lo xeno, che sono più facili da gestire nei test a terra e causano meno danni potenziali al veicolo spaziale.  Tuttavia, sono stati costruiti propulsori elettrici a emissione di campo che accelerano gli ioni di metallo liquido come il cesio.

I carbonati di cesio e di rubidio sono stati aggiunti al vetro perché riducono la conduttività elettrica e migliorano la stabilità e la durata delle fibre ottiche e dei dispositivi per la visione notturna. Il fluoruro di cesio o il fluoruro di cesio e alluminio sono usati nelle formulazioni per la brasatura di leghe di alluminio che contengono magnesio.

I sali di cesio sono stati valutati come reagenti antishock in seguito alla somministrazione di farmaci arsenicali. A causa del loro effetto sui ritmi cardiaci, tuttavia, è meno probabile che siano utilizzati rispetto ai sali di potassio o di rubidio. Sono stati anche usati per trattare l’epilessia.

Effetti biologici e precauzioni

I composti di cesio non radioattivo sono solo leggermente tossici e il cesio non radioattivo non è un rischio ambientale significativo. Poiché i processi biochimici possono confondere e sostituire il cesio con il potassio, l’eccesso di cesio può portare a ipopotassiemia, aritmia e arresto cardiaco acuto. Ma queste quantità non si trovano normalmente nelle fonti naturali.

La dose letale mediana (LD50) per il cloruro di cesio nei topi è di 2,3 g per chilogrammo, che è paragonabile ai valori di LD50 di cloruro di potassio e cloruro di sodio.

Il cesio metallico è uno degli elementi più reattivi, altamente piroforico: la temperatura di autoaccensione del cesio è -116 ° C e si accende in modo esplosivo all’aria per formare idrossido di cesio e vari ossidi. L’idrossido di cesio corrode rapidamente il vetro. è altamente esplosivo in presenza di acqua: l’idrogeno gassoso prodotto da questa reazione viene riscaldato dall’energia termica rilasciata contemporaneamente, provocando l’accensione e una violenta esplosione.

Gli isotopi 134 e 137 sono presenti nella biosfera in piccole quantità dalle attività umane, che differiscono secondo la posizione geografica. Il radiocesio segue il potassio e tende ad accumularsi nei tessuti vegetali, compresi frutta e verdura. Le piante variano ampiamente nell’assorbimento del cesio, a volte dimostrando una grande resistenza a esso. È anche ben documentato che i funghi provenienti da foreste contaminate accumulano radiocesio (cesio-137) negli sporocarpi fungini. L’accumulo di cesio-137 nei laghi è stato una grande preoccupazione dopo il disastro di Chernobyl. Esperimenti con cani hanno dimostrato che una singola dose di 3,8 millicurie (4,1 μg di cesio-137) per chilogrammo è letale entro tre settimane; quantità minori possono causare infertilità e cancro. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica e altre fonti hanno avvertito che i materiali radioattivi, come il cesio-137, potrebbero essere utilizzati in dispositivi di dispersione radiologica, o “bombe sporche”.

Riciclaggio

Come ricordato nel post sul rubidio, nel 2014 un gruppo di ricerca giapponese ha brevettato un metodo di riciclaggio di rubidio e cesio da scorie di scarto di estrazione del litio dai suoi minerali, al termine del processo si ottiene carbonato di cesio al 99,9% di purezza [1].

Ciclo biogeochimico

Dopo il disastro di Chernobyl (1986) e l’incidente di Fukushima (2011), che hanno sparso nell’atmosfera grandi quantità di materiale radioattivo, in particolare il cesio-137, le ricerche sul ciclo biogeochimico di questo isotopo si sono moltiplicate. Qui ne riportiamo due, la prima relativa al disastro di Chernobyl, la seconda anche riguardo all’incidente di Fukushima.

La prima, dovuta a ricercatori russi dell’Università Statale di Mosca e del Consiglio delle Ricerche del Saskatchewan (Canada), integra i risultati del monitoraggio lungo 25 anni del ciclo biogeochimico degli isotopi 137C e 90Sr negli ecosistemi forestali contaminati della Russia e dell’Ucraina [2]. La rete di monitoraggio a lungo termine era stata subito istituita con una serie di siti chiave situati da 5 a oltre 500 km dalla centrale nucleare di Chernobyl. Sono stati monitorati i seguenti componenti: biotici (alberi, erba e arbusti, muschi e funghi), suoli (foresta e minerali), acqua del suolo e di caduta. Attualmente, 25 anni dopo il fallout di Chernobyl, l’assorbimento di 137Cs e 90Sr  da parte della vegetazione supera la loro infiltrazione attraverso il suolo, ovvero il ciclo biogeochimico svolge attualmente un ruolo importante nell’impedire l’infiltrazione di radionuclidi attraverso il suolo fino alle falde acquifere. In ambienti umidi, i biotici sono un fattore trainante del ciclo dei radionuclidi, mentre in quelli aridi ed eluviali il complesso di assorbimento del suolo gioca un ruolo più importante. L’effetto del tipo di ambiente si manifesta per 137C, ma meno importante per 90Sr. Il 137Cs è attivamente assorbito dal complesso dei funghi, mentre 90Sr è accumulato principalmente nella vegetazione arborea.

I flussi biogeochimici di 137C e 39K in alcuni ecosistemi sono ancora diversi, anche 25 anni dopo il disastro.

La seconda ricerca, di un gruppo internazionale, riguarda la radiochimica del 137Cs, il suo trasporto e la sua possibile bonifica dagli ambienti acquatici [3]. Il 137Cs è un indicatore importante dell’inquinamento radioattivo in ambienti acquatici. Il trasporto e il destino del 137Cs antropogenico sono correlati alle proprietà chimiche del Cs ionico (Cs+), che generalmente impone un alto grado di mobilità e biodisponibilità di questo radionuclide. Il trasporto di 137C e la sua suddivisione tra le componenti abiotiche e biotiche degli ecosistemi acquatici sono processi complessi che sono notevolmente influenzati da un numero di fattori come la composizione mineralogica dei solidi sospesi,  dei sedimenti di fondo e la caratteristica geochimica dell’acqua. Questi fattori influenzano la cinetica di adsorbimento e desadsorbimento di 137Cs e il trasporto del suo particolato. Tuttavia, l’evidenza suggerisce che l’accumulo biologico diretto di 137Cs nell’ambiente acquatico è dovuto principalmente ai microrganismi e alle piante acquatiche.

Figura 8. Ciclo biogeochimico di 137Cs in sistemi acquatici [3]

Le prove in questo lavoro indicano che137Cs viene continuamente rimesso in circolo nei sistemi biologici per molti anni dopo la contaminazione. Vengono inoltre discussi i possibili metodi di bonifica per i sistemi acquatici contaminati.

Opere consultate

Handbook of Chemistry and Physics 85th Ed. pag. 4-8

https://en.wikipedia.org/wiki/Caesium

Bibliografia

[1] Method for recycling rubidium and caesium from waste lithium extraction slag.

https://patents.google.com/patent/CN103667727A/en

[2] A. Shcheglov, O. Tsvetnova, A. Klyashtorin, Biogeochemical cycles of Chernobyl-born radionuclides in thecontaminated forest ecosystems. Long-term dynamics of the migration processes., Journal of Geochemical Exploration, 2014, 144, 260-266.

[3] M. Aqeel Ashraf et al., Cesium-137: Radio-Chemistry, Fate, and Transport, Remediation, and Future Concerns., Critical Reviews in Environmental Science and Technology, 2014, 44, 1740–1793.

Dubbi sulla presenza di Fosfina sul pianeta Venere

Diego Tesauro

A settembre destò molta risonanza nei media di tutto il mondo la notizia della scoperta di segnali attribuibili alla fosfina nell’atmosfera di Venere. Questo argomento fu oggetto anche di un intervento di Claudio Della Volpe sul nostro blog che illustrava l’importanza della scoperta  ( https://ilblogdellasci.wordpress.com/2020/09/21/vita-su-venere/) .  La notizia intensificò gli sforzi per dimostrane la veridicità oppure fornire alternative attribuzioni ai segnali radio rilevati. Recentemente sono stati accettati dalla rivista  Astrophysical Journal Letters due lavori che aumentano i dubbi sulla reale presenza della fosfina.

Il dibattito verte sull’attribuzione della banda di assorbimento a 266,94 gigahertz (Figura 1)

Figura 1 Gli Spettri di PH3 nell’atmosfera di Venere

misurata dal radiotelescopio Atacama Large Millimeter Array (ALMA) (https://www.eso.org/public/italy/teles-instr/alma/) (Figura 2) situato nel Cile.

Figura 2 L’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) è un radiointerferometro situato a 5000 metri d’altitudine nel deserto di Atacama in Cile.

Questa banda è stata attribuita alla fosfina da un team guidato da Jane Greaves, astronomo dell’Università di Cardiff [1].  In particolare era stata stimata una concentrazione di 20 ppb ad una altezza di 56 Km nelle nuvole alte. Nell’atmosfera venusiana, fortemente ossidante, la formazione di questa molecola non è favorita mentre è fortemente avvantaggiata la sua distruzione.  Inoltre la genesi della fosfina dovrebbe risiedere o in processi geochimico al momento non conosciuti oppure dovrebbe essere prodotta da organismi biologici. La banda a 266.94 cade nella zona in cui però insiste anche una banda di assorbimento del biossido di zolfo che rappresenta il terzo fra i gas presenti nell’atmosfera di Venere dopo il biossido di carbonio e l’azoto. Per discriminare la natura della banda Greaves hanno ricercato altri segnali appartenenti al SO2 e non trovandoli hanno attribuito la banda alla fosfina. I dati però utilizzati erano stati elaborati dall’osservatorio in maniera errata per cui resisi conto dell’errore, i dati erano stati rielaborati. Su questi nuovi dati, il gruppo di  Greaves, ha concluso che la banda era ancora attribuibile alla fosfina, anche se ad una concentrazione molto più bassa (5-10 ppb) di quella che avevano riportato all’inizio [2].

Ma anche i dati ALMA rielaborati sono stati posti al centro di  un nuovo studio che contestano la presenza della fosfina [3]. Un team guidato da Akins, del Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California, utilizzando una diversa procedura di calibrazione nell’elaborazione dello spettro, non concorda con le attribuzioni della banda alla fosfina, ma piuttosto al biossido di zolfo chiaramente non di origine biologica.

Un secondo studio esplora la banda a 266,94 gigahertz, come osservata dal telescopio James Clerk Maxwell (JCMT) (Figura 3), un radiotelescopio submillimetrico situato all’Osservatorio di Mauna Kea (Hawaii), giungendo alla conclusione che la banda era spiegata meglio dalla presenza di SO2 a più di 80 chilometri al sopra della superficie del pianeta, piuttosto che dalla fosfina a 50-60 chilometri dalla superficie, come affermato dal team di Greaves.

Figura 3 Il radiotescopio James Clerk Maxwell (JCMT) è un telescopio submillimetrico situato all’Osservatorio di Mauna Kea (Hawaii),

Ovviamente il dibattito è aperto e sicuramente sono necessarie ulteriori osservazioni sia nel dominio delle onde millimetriche che sub-millimetriche, nonchè osservazioni infrarosse per chiarire l’eventuale presenza di fosfina su Venere.  

  1. Greaves, J. S. et al. Nature Astron. https://doi.org/10.1038/s41550-020-1174-4 (2020).
  2. 5. Greaves, J. S. et al. Preprint at https://arxiv.org/abs/2011.08176 (2020).
  1. Akins, A. B., Lincowski, A. P., Meadows, V. S. & Steffes, P. G. Preprint at https://arxiv.org/abs/2101.09831 (2021).
  2. Lincowski, A. P. et al. Preprint at https://arxiv.org/abs/2101.09837 (2021).

Elementi della tavola periodica. Cesio, Cs.(parte prima)

Rinaldo Cervellati

Il cesio (inglese caesium o cesium), simbolo Cs, è l’elemento n. 55 della Tavola Periodica, posto al 1° Gruppo, 6° Periodo, sotto il rubidio e davanti al francio. È un metallo alcalino morbido, di colore argenteo-dorato con punto di fusione di 28,5 °C, uno dei soli cinque metalli liquidi a temperatura ambiente o vicina ad essa. Il cesio ha proprietà fisiche e chimiche simili a quelle del rubidio e del potassio. La sua abbondanza nella crosta terrestre è valutata in 3 ppm.
Nel 1860, Robert Bunsen e Gustav Kirchhoff scoprirono il cesio nell’acqua minerale di Dürkheim, in Germania. A causa delle linee blu nello spettro di emissione, gli assegnarono il nome latino caesius, che significa azzurro cielo. Il cesio fu il primo elemento a essere scoperto con uno spettroscopio, inventato da Bunsen e Kirchhoff solo un anno prima.

 

Figura 2. Campione di cesio metallico
In presenza di olio minerale (dove è meglio conservato) perde la sua lucentezza metallica e assume un aspetto più opaco e grigio. Ha un punto di fusione di 28,5 °C, rendendolo uno dei pochi metalli elementari che sono liquidi vicino alla temperatura ambiente. Il mercurio è l’unico metallo elementare stabile con un punto di fusione noto inferiore al cesio. Inoltre, il cesio ha un punto di ebollizione piuttosto basso, 641 °C, il più basso di tutti gli altri metalli tranne che del mercurio. I suoi composti bruciano con un colore blu o violaceo.
Il cesio forma leghe con gli altri metalli alcalini, oro e mercurio (amalgame). A temperature inferiori a 650 °C non si lega con cobalto, ferro, molibdeno, nichel, platino, tantalio o tungsteno. Forma composti intermetallici ben definiti con antimonio, gallio, indio e torio, che sono fotosensibili. Si miscela con tutti gli altri metalli alcalini (escluso il litio); la lega con una distribuzione molare del 41% di cesio, 47% di potassio e 12% di sodio ha il punto di fusione più basso (−78 °C ) di qualsiasi lega metallica nota. Sono state studiate alcune amalgame: CsHg2 è nera con una lucentezza metallica viola, mentre CsHg è di colore dorato, pure con lucentezza metallica.
Il colore dorato del cesio metallico deriva dalla diminuzione della frequenza della luce necessaria per eccitare gli elettroni dei metalli alcalini quando si scende nel gruppo. Per il litio attraverso il rubidio questa frequenza è nell’ultravioletto, ma per il cesio entra nell’estremità blu-violetta dello spettro (Figura 3).

Figura 3. Rubidio e Cesio metallici puri
Proprietà chimiche
Il cesio metallico è altamente reattivo e molto piroforico. Si accende spontaneamente all’aria e reagisce in modo esplosivo con l’acqua anche a basse temperature, più degli altri metalli alcalini. Reagisce con il ghiaccio a temperature fino a -116 °C. A causa di questa elevata reattività è classificato come materiale pericoloso. Viene immagazzinato in idrocarburi saturi e secchi , come l’olio minerale. Può essere manipolato solo in atmosfera di gas inerte, ad es. l’argon. Il cesio deve essere conservato in fiale di vetro borosilicato sottovuoto. La sua chimica è simile a quella di altri metalli alcalini, in particolare il rubidio, l’elemento sopra il cesio nella tavola periodica. Come previsto per un metallo alcalino, l’unico stato di ossidazione comune è +1. Alcune piccole differenze derivano dal fatto che ha una massa atomica più elevata ed è più elettropositivo di altri isotopi non radioattivi di metalli alcalini. Il cesio è l’elemento chimico più elettropositivo.
Il cesio naturale ha un solo isotopo stabile, il cesio-133 (o 133Cs). Esistono comunque 39 isotopi artificiali noti, che variano in numero di massa da 112 a 151. Molti di questi sono sintetizzati da elementi più leggeri dal lento processo di cattura dei neutroni (processo S) all’interno di vecchie stelle e dal processo R nelle esplosioni delle supernove.
Il 135Cs radioattivo ha un’emivita molto lunga di circa 2,3 milioni di anni, il più lungo di tutti gli isotopi radioattivi del cesio. 137Cs e 134Cs hanno rispettivamente un’emivita di 30 e due anni. 137Cs si decompone in137Ba di breve durata per decadimento beta, e quindi in bario non radioattivo, mentre 134Cs si trasforma direttamente in 134Ba. L’isotopo 135Cs è uno dei prodotti di fissione a lunga vita dell’uranio prodotto nei reattori nucleari. Tuttavia, la resa di questo prodotto di fissione è ridotta nella maggior parte dei reattori perché il predecessore è un potente veleno per i neutroni e spesso si trasmuta in 136Xe stabile.
Il decadimento beta da 137C a 137Ba presenta una forte emissione di radiazioni gamma. 137C e 90Sr sono i principali prodotti a vita media della fissione nucleare, prime fonti di radioattività dal combustibile nucleare esaurito dopo diversi anni di raffreddamento, della durata di diverse centinaia di anni. Questi due isotopi sono la più grande fonte di radioattività residua nell’area del disastro di Chernobyl del 1986. A causa del basso tasso di cattura, lo smaltimento di 137Cs tramite cattura di neutroni non è fattibile e l’unica soluzione attuale è di consentirne il decadimento nel tempo.
Con i test sulle armi nucleari negli anni ’50 fino agli anni ’80, 137Cs è stato rilasciato nell’atmosfera e restituito alla superficie della terra come componente del fallout radioattivo. È l’indicatore principale del movimento del suolo e dei sedimenti di quei tempi.
Principali composti
La maggior parte dei composti di cesio contiene l’elemento come catione Cs+, che si lega ionicamente a un’ampia varietà di anioni. I sali di Cs+fammide sono generalmente incolori a meno che l’anione stesso non sia colorato. Molti dei sali semplici sono igroscopici, ma meno dei corrispondenti sali dei metalli alcalini più leggeri. Fosfato, acetato, carbonato, alogenuri, ossido, nitrato e solfato sono solubili in acqua. I doppi sali sono spesso meno solubili e la bassa solubilità del solfato di cesio e alluminio viene sfruttata nella raffinazione del Cs dai minerali.
Più degli altri metalli alcalini, il cesio forma numerosi composti binari con l’ossigeno. Quando il cesio brucia all’aria, il principale prodotto è il superossido, CsO2. L’ossido di cesio Cs2O forma cristalli giallo arancio esagonali, vaporizza a 250 °C, e si decompone a cesio metallico e perossido Cs2O2 a temperature sopra i 400 °C. In aggiunta a questi ossidi, sono noti molti altri subossidi intensamente colorati. Esistono anche composti binari con zolfo, selenio e tellurio.
L’idrossido di cesio (CsOH) è igroscopico e fortemente basico, attacca rapidamente la superficie dei semiconduttori come il silicio. Il CsOH è stato considerato dai chimici come la “base più forte”, riflettendo l’attrazione relativamente debole tra il grande catione Cs+ e l’anione OH. È effettivamente la base di Arrhenius più forte, se si escludono composti organici che non si dissolvono in acqua, come n-butillitio e altri composti come la sodio ammide, che sono più basici. Userei cautela a infilare in questo paragone gli idruri di questo tipo che non sono stabili in nessun solvente, non esistono in soluzione.
Come tutti i cationi metallici, Cs+ forma complessi con basi di Lewis in soluzione. A causa delle sue grandi dimensioni, Cs+ adotta solitamente numeri di coordinazione maggiori di 6, il numero tipico per i cationi di metalli alcalini più piccoli. Questa differenza è evidente nella coordinazione 8 dei cristalli di cloruro di cesio.
Questo elevato numero di coordinazione insieme alla tendenza a formare legami covalenti sono proprietà sfruttate per separare Cs+ da altri cationi nella bonifica dei rifiuti nucleari, dove 137Cs+ deve essere separato da grandi quantità di K+ non radioattivo.
Il fluoruro di cesio (CsF) è un solido bianco igroscopico ampiamente utilizzato nella chimica dei composti organici del fluoro come fonte di anioni fluorurati. In particolare, il cesio e il fluoro hanno rispettivamente la più bassa e la più alta elettronegatività tra tutti gli elementi noti.
Il cloruro di cesio (CsCl) cristallizza nel semplice sistema cristallino cubico. Chiamato anche “struttura del cloruro di cesio” è composta da un reticolo cubico con una base di due atomi, ciascuno con una coordinazione di otto volte; gli ioni cloruro giacciono sui punti reticolari ai bordi del cubo, mentre gli atomi di cesio si collocano al centro dei cubi (Figura 4). Questa struttura è condivisa con CsBr e CsI.

Figura 4. Struttura cristallina poliedrica di CsCl
Al contrario, la maggior parte degli altri alogenuri alcalini ha la struttura del cloruro di sodio (NaCl). La struttura CsCl è preferita perché Cs+ ha un raggio ionico di 174 pm e Cl di 181 pm.
Disponibilità
Il cesio è un elemento relativamente raro, stimato in media 3 parti per milione nella crosta terrestre. È il 45° elemento più abbondante e il 36° tra i metalli. È più abbondante di elementi come antimonio, cadmio, stagno e tungsteno, e due ordini di grandezza più abbondante del mercurio e dell’argento; è il 3,3% abbondante del rubidio, al quale è chimicamente strettamente associato.
A causa del suo ampio raggio ionico, il cesio è uno degli “elementi incompatibili” . Durante la cristallizzazione del magma, il cesio si concentra nella fase liquida e cristallizza per ultimo. Pertanto, i più grandi depositi di cesio sono i minerali pegmatiti delle zone formatisi da questo processo di arricchimento. Di conseguenza, il cesio si trova in pochi minerali. Quantità percentuali di cesio possono essere trovate nel berillo (Be3Al2(SiO3)6), nell’avogadrite ((K,Cs)BF4), nella pezzottaite (Cs(Be2Li)Al2Si6O18), nel minerale raro londonite ((Cs,Al4Be4(B, Be)12O28), e nella più diffusa rodizite. L’unico minerale economicamente importante per il cesio è la pollucite Cs (AlSi2O6), che si trova in pochi posti nel mondo nelle pegmatiti, associata ai minerali di litio più importanti dal punto di vista commerciale, lepidolite e petalite.

Figura 5. Campione di pollucite
All’interno delle pegmatiti, la grande granulometria e la forte separazione dei minerali si traducono in minerali di alta qualità per l’estrazione.
La fonte di cesio più significativa e più ricca al mondo è la miniera di Tanco nel lago Bernic a Manitoba, in Canada, che si stima contenga 350.000 tonnellate di minerale pollucite, rappresentando più di due terzi delle riserve mondiali. La pollucite commerciale contiene più del 19% di cesio. Il deposito di pegmatite Bikita nello Zimbabwe viene estratto per la sua petalite, ma contiene anche una quantità significativa di pollucite. Un’altra notevole fonte di pollucite si trova nel deserto del Karibib, in Namibia. Al ritmo attuale della produzione mineraria mondiale di 5-10 tonnellate l’anno, le riserve dureranno per migliaia di anni.
Produzione
L’estrazione e la raffinazione del minerale di pollucite sono un processo selettivo e sono condotti su scala minore rispetto alla maggior parte degli altri metalli. Il minerale viene frantumato, selezionato a mano, di solito non concentrato e quindi macinato. Il cesio viene quindi estratto dalla pollucite principalmente mediante tre metodi: digestione acida, decomposizione alcalina e riduzione diretta.
Nella digestione acida, la roccia silicatica di pollucite viene sciolta con acidi forti, come gli acidi cloridrico (HCl), solforico (H2SO4), bromidrico (HBr) o fluoridrico (HF). Con acido cloridrico, viene prodotta una miscela di cloruri solubili e i doppi sali insolubili di cesio vengono precipitati come cloruro di antimonio di cesio (Cs4SbCl7), cloruro-ioduro di cesio (Cs2ICl) o esaclorocerato di cesio (Cs2(CeCl6)). Dopo la separazione, il doppio sale precipitato puro viene decomposto e CsCl puro viene precipitato evaporando l’acqua.
Il metodo dell’acido solforico produce il doppio sale insolubile direttamente come allume di cesio (CsAl (SO4)2·12H2O). Il componente solfato di alluminio viene convertito in ossido di alluminio insolubile arrostendo l’allume con carbone e il prodotto risultante viene lisciviato con acqua per ottenere una soluzione Cs2SO4.
La torrefazione della pollucite con carbonato di calcio e cloruro di calcio produce silicati di calcio insolubili e cloruro di cesio solubile. La lisciviazione con acqua o ammoniaca diluita produce una soluzione di cloruro diluito (CsCl). Questa soluzione può essere evaporata per produrre cloruro di cesio o trasformata in allume di cesio o carbonato di cesio. Sebbene non sia commercialmente fattibile, il minerale può essere ridotto direttamente con potassio, sodio o calcio sotto vuoto in grado di produrre direttamente il cesio metallico (Figura 6).

Figura 6. Campione di cesio metallico puro
La maggior parte del cesio estratto (come sali) viene convertito direttamente in formiato di cesio (HCOO − Cs) per applicazioni come la trivellazione petrolifera.
I composti commerciali primari su scala ridotta del cesio sono il cloruro di cesio e il nitrato.
In alternativa, il cesio metallico può essere ottenuto dai composti purificati derivati dal minerale. Il cloruro di cesio e gli altri alogenuri di cesio possono essere ridotti a 700 − 800 ° C con calcio o bario e il cesio metallico distillato dal resto. Allo stesso modo, l’alluminato, il carbonato o l’idrossido possono essere ridotti dal magnesio.
Il metallo può anche essere isolato mediante elettrolisi del cianuro di cesio fuso (CsCN). Il cesio eccezionalmente puro e privo di gas può essere prodotto dalla decomposizione termica a 390 ° C dell’azoturo di cesio CsN3, che può essere prodotto da solfato di cesio acquoso e azoturo di bario. Nelle applicazioni sotto vuoto, il bicromato di cesio può essere fatto reagire con lo zirconio per produrre cesio metallico puro senza altri prodotti gassosi:
Cs2Cr2O7 + 2Zr → 2Cs + 2ZrO2 + Cr2O3
(continua)

Opere consultate
Handbook of Chemistry and Physics 85th Ed. pag. 4-8
https://en.wikipedia.org/wiki/Caesium

Rilevare le microplastiche negli impianti di depurazione.

Mauro Icardi

Il settore depurativo sta attraversando un profondo cambiamento.  Deve affrontare sfide tecnologiche per riuscire ad abbattere i diversi inquinanti emergenti, e nello stesso tempo con una gestione e una progettazione totalmente rivista, può inserirsi nel settore dell’economia circolare, recuperando dai residui di trattamento energia e materiali.

In quest’articolo vorrei illustrare un progetto per la rilevazione di uno degli inquinanti emergenti di cui molto si parla e che è probabilmente conosciuto e noto anche ai non addetti. Le  microplastiche.

Le plastiche definite “micro” (meno di cinque millimetri di dimensione) e “nano” (meno di cento nanometri di dimensione) si stanno diffondendo con sempre maggior frequenza, contaminando diversi ambienti acquatici.  Possono essere di diversa provenienza e tipologia. Per esempio particelle di fibre provenienti dal lavaggio dei vestiti, o dalle particelle provenienti dall’usura di pneumatici, e quelle che provengono dalla frammentazione di  rifiuti di plastica di dimensioni più grandi. Un esempio su tutti le onnipresenti bottigliette abbandonante praticamente ( e sciaguratamente)  quasi ovunque.

Finora non era del tutto chiaro quanto queste plastiche fossero trattenute ed eliminate dai processi di trattamento terziario standard.

Una ricerca effettuata dall’istituto federale di tecnologia di Zurigo (ETH), pubblicata sulla rivista Water Research ha chiarito quale sia il percorso compiuto  dai frammenti di microplastiche negli impianti di depurazione. (1)

Le plastiche sono spesso difficili da rintracciare a causa delle loro piccole dimensioni, delle diverse proprietà chimiche e della possibilità di contaminazione da fonti in laboratorio, come le fibre dei vestiti.

Per superare questi problemi, il team di ricerca ha sintetizzato micro e nanoplastiche drogate con tracce di metalli . Questi sono stati aggiunti a un impianto pilota di trattamento delle acque reflue per due mesi, e i ricercatori hanno campionato l’effluente (acqua trattata rilasciata nell’ambiente) e il fango (particelle solide organiche).

I campioni sono stati analizzati utilizzando la spettrometria di massa, che è ben consolidata per la rilevazione di metalli, consentendo un’analisi facile e veloce. L’analisi più facile ha anche permesso al team di determinare la migliore strategia di campionamento in termini di dimensioni e frequenza di campionamento.

 Si è cosi scoperto che il 98% della plastica aggiunta è finita nel fango, una cifra altamente correlata con i solidi totali disciolti che sono stati rimossi dall’effluente e si sono depositati nel fango. Questo suggerisce che i miglioramenti nella rimozione delle particelle potrebbero anche significare una maggiore rimozione della plastica. Questo potrebbe essere ottenuto, per esempio, attraverso una fase extra di flocculazione e sedimentazione.

Aggiungo una mia breve considerazione personale: questo risultato non mi sorprende. Il fango biologico è da sempre il punto centrale di un impianto di depurazione. In esso si concentrano gli inquinanti rimossi nel trattamento delle acque reflue. E in questo settore che si devono concentrare ricerche e sperimentazioni.  Le nuove tecniche di filtrazione che si utilizzano nella sezione di trattamento terziario, e che hanno efficacia per la rimozione di altre sostanze dall’effluente delle acque reflue, come i farmaci e gli agenti patogeni, potrebbero anche ridurre la concentrazione di microplastiche nelle acque reflue. E di conseguenza nell’ambiente. Come per ogni nuova tecnologia, occorre valutarne anche l’aspetto economico e gestionale.

Contestualmente vanno implementate tecnologie che possano pretrattare il fango. Non va dimenticato che alcuni fanghi potrebbero avere un buon valore agronomico.  Circa la metà dei paesi europei utilizza i fanghi degli impianti di trattamento delle acque reflue come fertilizzante per i campi coltivati. Questo perché spesso possiedono un  alto contenuto di sostanza organica e di nutrienti.  Ma questo utilizzo potrebbe essere decisamente compromesso se la contaminazione da microplastiche nei fanghi aumentasse in maniera significativa.

Privandoci della possibilità di recuperare materiale che sta diventando raro, e con un ciclo biogeochimico alterato, come per esempio il fosforo. Nell’approccio di ogni tipo di problema ambientale sono benvenute tutte le sperimentazioni e gli approfondimenti. Che anzi devono essere implementati.  Occorre valutare con la massima attenzione il rapporto costi/benefici, e soprattutto non essere ammaliati da un atteggiamento troppo fideistico sulle possibilità della tecnologia. Un cambiamento culturale relativo a cosa dobbiamo effettivamente produrre, e a come  necessariamente in futuro sia necessario ridurre le quantità di rifiuti e contaminanti che immettiamo nell’ambiente.

  • Long-term assessment of nanoplastic particle and microplastic fiber flux through a pilot wastewater treatment plant using metal-doped plastics Stefan Frehland a , Ralf Kaegi a , Rudolf Hufenus b , Denise M. Mitrano a, * a Eawag, Swiss Federal Institute of Aquatic Science and Technology, Process Engineering Department, Ueberlandstrasse 133, 8600, Duebendorf, Switzerland b EMPA, Swiss Federal Laboratories for Materials Science and Technology, Lerchenfeldstrasse 5, 9014, St. Gallen, Switzerland

Le 4R e il sogno di Luigi.

Luigi Campanella, già Presidente SCI.

Le 4R e il sogno di Luigi. L’Economia Circolare viene presentata anche attraverso il principio delle 4 R:

Ridurre: la base del concetto di circolarità è ridurre i consumi di materia prima, progettando prodotti con una obsolescenza a lungo termine e con una manutenzione semplice, con costi inferiori;

Riusare: il riutilizzo delle materie prime è il primo grande ciclo di vita dei prodotti, per perdere quell’energia spesa per generare quel prodotto;

Riciclare: recupero della materia;

Recuperare: il rifiuto è valorizzato sotto il profilo economico e diventa materia seconda o energia.

Si comprende da questo come il primo indicatore non può che essere il rapporto fra quantità totale di rifiuti conferiti in raccolta differenziata e quantità totale di rifiuti conferiti in indifferenziata. Il secondo indicatore fa riferimento al contenuto energetico della circolarizzazione distinguendo all’interno della raccolta differenziata fra prodotti a  contenuto energetico differente. Emblematico in questo senso è il caso degli scarti alimentari riproposto in un recente articolo dall’amico Vincenzo Balzani. La fotosintesi clorofillana consente di trasformare l’energia solare in energia chimica trasformando composti  a basso contenuto energetico in prodotti ad alto contenuto energetico che l’uomo utilizza quali alimenti. Chiaramente il rendimento di questa trasformazione varia da caso a caso ma in ogni caso per rendere commestibili i prodotti della fotosintesi l’uomo deve aggiungere altra energia (arare, seminare, mietere, trattare) e così facendo contribuisce ai cambiamenti climatici. Diventa allora importante scegliere un’alimentazione che richieda la minima quantità di energia aggiunta a quella solare, energia oggi in larga parte fornita dai combustibili fossili.

https://www.donnissima.it/attualita-tecnologia/tecnologia/Da-rifiuto-a-risorsa-le-4R/7270   Da questi due dati, contenuto energetico  ed energia aggiunta non solare per unità di peso o di volume deriva l’efficienza energetica di un alimento. È nostro compito educare a rispettare le esigenze energetiche della vita con alimenti che siano quanto più possibilmente efficienti energeticamente. In questo senso la ben nota dieta mediterranea rappresenta una buona guida rispetto ad un consumo elevato di carne da evitare: la carne è un alimento che richiede mediamente per kg prodotto 7 litri di petrolio e circa 10000 l di acqua. Le emissioni europee di gas serra imputabili alla produzione di carni alimentari hanno superato quelle di tutti gli autoveicoli circolanti nei 28 Stati membri. Anche la biologia mette a disposizione degli indicatori: in Italia vivono circa 12 miliardi di alberi che attraverso la fotosintesi crescono e producono. La quantità di CO2 prodotta in Italia in un anno attraverso tutte le attività è di 460 Milioni di tonnellate che potrebbero essere assorbite dai 12 miliardi di alberi la cui crescita media sarebbe indicatore di questo equilibrio influenzato positivamente da tutte le attività delle 4 R dell’economia circolare. Lo stesso dato della CO2 totale confrontato col parco macchine del nostro Paese (40 milioni di autovetture) , col.chilometraggio medio (12000 km) e con la  produzione media di CO2 per km del parco macchine (130 g)  dimostra, ai fini dell’assorbimento della CO2, che solo per una riduzione dei km annui percorsi del 10%, si raggiungerebbe a autosufficienza del verde. Indirizzando verso forme di assistenza alla sostenibile si  ridurrebbe anche il costo sociale del traffico di circa 150 euro a persona rispetto all’attuale costo valutato in 1400 euro (0,13 euro per km percorso). https://www.imdb.com/title/tt0306452/mediaviewer/rm3225431552/ 

L’acqua sulla Luna nell’epoca dell’antropocene

Diego Tesauro

Negli interventi ospitati da questo blog, gli estensori hanno messo in luce come, nell’epoca dell’antropocene, il ciclo naturale degli elementi e dei composti chimici sulla Terra ne sia risultato alterato, con particolare riferimento, agli ultimi due secoli e mezzo, cioè dall’avvento della società industriale. Da mezzo secolo l’intervento alterante dell’uomo si è esteso allo spazio. Soprattutto lo spazio intorno al nostro pianeta si è andato riempiendo di satelliti che, una volta terminata la loro funzione, sono rimasti ad orbitare costituendo “spazzatura spaziale” che oggi viene ravvisato come pericolo per gli altri satelliti e la stazione spaziale orbitale. All’alba del terzo decennio del XXI secolo ci si comincia a porre il problema di una presenza più invasiva sulla Luna alla luce delle ben otto missioni, che diversi paesi condurranno nei prossimi tre anni. Dal 2022 sono state programmate dalla NASA delle missioni con dei landers nelle zone dei poli lunari che saranno prodromi di nuove missioni umane. I progetti dovrebbero infatti portare alla costruzione di una base lunare. In un intervento, pubblicato di recente sulla rivista Nature, viene posto all’attenzione della comunità scientifica e quindi ovviamente anche di quella politica che deve prendere le decisioni, una possibile trasformazione e contaminazione dell’acqua sulla Luna. La storia della presenza dell’acqua sul nostro satellite è una storia lunga, ma al tempo stessa recente. Galilei, che per primo puntò il suo telescopio rifrattore verso il nostro satellite, nel Sidereus Nuncius descrisse le montagne, le valli, i crateri e delle zone oscure che individuò come mari, anche se dubitava che fossero effettivamente distese di acqua. Con l’avvento delle maggiori conoscenze sulla chimica dell’acqua, si escluse che queste zone non potessero contenerla, fino a giungere alla conclusione che il nostro satellite era completamente anidro. Questa convinzione ebbe riscontro a seguito delle missioni Apollo, una cinquantina di anni fa, che hanno permesso all’uomo di porre piede per la prima volta sulla Luna. Gli astronauti, nelle 6 missioni sul suolo lunare, raccolsero e portarono sulla Terra dei campioni di rocce di varie zone del satellite, e dall’analisi di queste rocce si concluse che non vi erano tracce d’acqua. Nel 2004 la sonda Clementine riuscì ad individuare delle possibili tracce di ghiaccio al polo sud lunare all’ombra dei crateri.

Dopo questa prima osservazione ne sono seguite altre [1] che però solo nel 2018 hanno dato evidenze definitive [2] in quanto i segnali nel dominio dell’UV erano compatibile con un semplice gruppo ossidrile. Come è possibile che si trovi dell’acqua allo stato solido? Sulla Luna si verificano variazioni notevoli di temperatura fra le zone in ombra e le zone illuminate dal Sole con escursioni termiche di oltre 200 gradi, per cui laddove i raggi del sole non arrivano, del ghiaccio può rimanere intatto, essendo la temperatura di solo 100 K (Figura 1). Questo ghiaccio dovrebbe avere avuto origine dalla caduta di comete e meteoriti, che provenendo da zone lontane dello spazio, dove la radiazione solare non distrugge le molecole d’acqua, avevano in miliardi di anni lasciato dell’acqua a riparo dalla radiazione solare. Alternativamente o allo stesso tempo l’acqua proverrebbe dal vento solare (vento di protoni) che bombarda la sua superficie. L’acqua potrebbe avere anche un’origine endogena provenendo dall’interno della stessa Luna a seguito di eruzioni vulcaniche di oltre 4 miliardi di anni fa. Riguardo le origini, l’acqua lunare conterrebbe delle informazioni crociali. Questi dati non sono più presenti sulla Terra a seguito dell’evoluzione geologica causata dal movimento delle placche continentali. L’acqua sulla Luna potrebbe contenere la chiave dell’evoluzione del sistema solare stesso. Successivamente osservazioni condotte dallo Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy (SOFIA) rilevarono una banda alla lunghezza d’onda di 6 µm dovuto dal H–O–H bending indice inequivocabile di presenza di acqua molecolare ad alte latitudini lunari in zone illuminate dal Sole [3]. Sulla base delle osservazioni si stima abbondanze da circa 100 a 400 µg g−1. La distribuzione dell’acqua è un risultato di evoluzione geologia locale ed è probabilmente un fenomeno non globale. La maggioranza dell’acqua deve essersi conservata nei vetri e negli spazi tra i grani che la schermano dalla radiazione solare diretta. Molti meccanismi si potrebbero proporre per spiegare l’origine di quest’acqua. Accanto all’origine esogena già vista che resta poi intrappolata nei vetri o introdotta nell’esosfera e chemioassorbita. L’acqua può essersi formata in situ sulle superficie dei grani da pre-esistenti gruppi ossidrili che deadsorbiti alle alte temperature diurne, particolarmente all’equatore. L’acqua potrebbe anche essersi formata in situ da gruppi idrossili pre-esistenti durante l’impatto di micrometeoriti, quando le alte temperature promuovono le reazioni, come è stato dimostrato in laboratorio.

Recentemente è stato anche proposto un ciclo dell’acqua sulla Luna ovviamente molto diverso da quello presente sulla Terra [4]. Questo ciclo (Figura 2) è indotto dall’impatto di meteoroidi sulla superficie lunare che immettono nella tenue atmosfera lunare del vapore acqueo. Basterebbe che i meteoroidi, anche di soli pochi millimetri, penetrino per 8 centimetri nel suolo lunare, dove si troverebbe un terreno omogeneamente idratato con le molecole d’acqua aderenti alla regolite lunare, per rilasciare vapore acqueo.

Dalle misurazioni di acqua presente nell’esosfera, i ricercatori hanno calcolato che lo strato idratato sotto-superficiale ha una concentrazione d’acqua da 200 a 500 parti per milione, equivalente a circa lo 0,02-0,05 per cento in massa. 

Quindi il nostro satellite sarebbe tutt’altro che anidro. La presenza dell’acqua apre scenari e dilemmi. L’uomo può sfruttare quest’acqua estraendola dalle rocce per utilizzarla ad esempio come combustile per missioni spaziali che dovessero partire dalla Luna. Generando, mediante celle fotovoltaiche, energia elettrica si potrebbe condurre l’elettrolisi dell’acqua ottenendo ossigeno ed idrogeno che potrebbero essere sfruttati come combustibile e comburente per viaggi spaziali e per il funzionamento delle basi stesse. Ora però quest’utilizzo potrebbe far perdere all’acqua ghiacciata quelle preziose informazioni in essa contenute. Inoltre la presenza stessa dell’uomo comporterebbe un inquinamento dell’acqua con quella prodotta dai razzi stessi delle missioni spaziali. Da simulazioni condotte nel laboratorio di fisica applicata della John Hopkins University, l’acqua resta dopo sessanta giorni terrestri per il 30-40% sulla Luna depositandosi in tutti i luoghi.  Quest’allarmante simulazione concluderebbe che già l’inquinamento dell’acqua lunare è un dato di fatto. In realtà questa potrebbe essersi depositata in superficie senza contaminare i ghiacci presenti sui poli. In ogni caso si pone in termini brevi la necessità che le agenzie spaziali dei vari paesi coinvolti nell’esplorazioni della Luna e gli scienziati suggeriscano soluzioni condivise per mantenere inalterato un patrimonio di potenziali future conoscenze per i posteri.  

1 P.O.,Hayne A. Hendrix , E. Sefton-Nash, M.A. Siegler, P.G. Lucey, K.D. Retherford, J.P. Williams, B.T. Greenhagen, D.A. Paige. Evidence for exposed water ice in the Moon’s south polar regions from Lunar Reconnaissance Orbiter ultraviolet albedo and temperature measurements. Icarus 2015, 255, 58–69.

2 S. Li, P.G. Lucey, R.E. Milliken, P.O. Hayne, E. Fisher, J.P. Williams, D.M. Hurley, and R.C. Elphic Direct evidence of surface exposed water ice in the lunar polar regions PNAS  2018, 115,  8907–8912

3 C.I. Honniball , P.G. Lucey, S. Li, S. Shenoy , T.M. Orlando, C.A. Hibbitts, D. M. Hurley and W. M. Farrell Molecular water detected on the sunlit Moon by SOFIA Nature astronomy Pub data: 2020-10-26 , DOI: 10.1038/s41550-020-01222-x

4 M. Benna, D.M. Hurley, T.J. Stubbs, P.R. Mahaffy  R.C. Elphic Lunar soil hydration constrained by exospheric water liberated by meteoroid impactsNature Geoscience  2019, 12, 333–338

 

Figura 1 Ombre sulla Luna di diverse dimensioni riprese (A) dal Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) (https://svs.gsfc.nasa.gov/Gallery/LunarReconnaissanceOrbiter.html), missione lanciata nel 2009 e tuttora operante per individuare le zone in cui far allunare i prossimi robot degli USA. Tra gli scopi della missione, quello di indentificare zone polari con ghiaccio;, (B) dal rover Yuto della missione cinese Chang’e 3 del 2013, prima missione sul suolo della Luna dopo ila sonda sovietica Luna 24 nel 1976; (C) da Apollo 14, terza missione del programma Apollo del febbraio 1971. 

La Plastica: Un’Amica Ingombrante

 

Salvatore Coluccia

La plastica è presente in ogni attimo della nostra quotidianità, a casa, al lavoro, nel tempo libero. E’ difficile immaginare un oggetto, un arredo, un mezzo di trasporto, un sussidio sanitario, computer, un telefonino, capo di abbigliamento, un imballaggio in cui la plastica non sia protagonista. La produzione annuale nel mondo equivale al volume di centinaia di Piramidi egizie. Ha tante qualità: è economica, è leggera, è facilmente modellabile, è durevole. In realtà, non dobbiamo parlare di plastica, ma di plastiche. Ne esistono tanti tipi diversi, per ogni uso e consumo.

Insomma, da più di un secolo, è una grande amica, che ha reso accessibili una infinità di beni che, in materiali diversi, sarebbero stati indisponibili per gran parte della popolazione mondiale.

Eppure, da qualche tempo, desta inquietudine, ci preoccupa. E’ davvero ingombrante. In forme diverse e con varie dimensioni, fino alle nanoplastiche, la troviamo dovunque, anche dove non vorremmo che fosse: nei fiumi, nel mare, in ogni ambiente terrestre. Non c’è angolo della Terra in cui non sia presente. E non è solo un brutto rifiuto da incontrare, può essere letale per fauna e flora in vari ambienti. Alcune delle virtù che ho elencato si ribaltano in difetti, come la sua “indistruttibilità”.

Possiamo trovare modi per continuare a trarre vantaggio dalle sue qualità senza danneggiare così gravemente l’Ambiente? Per orientarci, conviene vedere come sono fatte tutte queste plastiche, e scoprire che, come sempre, la Natura ci ha insegnato come farle e ci può insegnare come gestirle.

Ci saranno innovazioni importanti, ma non si potrà prescindere dai nostri buoni comportamenti.

12.11.2020

Accademia delle Scienze

Giornata delle donne e delle ragazze nella scienza, 11 febbraio

Rinaldo Cervellati

In occasione della Giornata delle donne e delle ragazze nella scienza 2021 desidero ricordare due chimiche afroamericane, Alice Ball (1892-1916) e Winifred Burks-Houck (1950-2004).

Alice Augusta Ball

Alice Augusta Ball è stata una chimica che ha sviluppato il “Ball Method”, il trattamento più efficace per la lebbra all’inizio del XX secolo. Prima donna e prima afroamericana a ricevere un master presso l’Università delle Hawaii, è stata anche la prima professoressa universitaria di chimica afroamericana.

Alice Augusta Ball

Nacque il 24 luglio 1892 a Seattle (Washington) da James Presley e Laura Louise (Howard) Ball, terza di quattro figli, due fratelli maggiori e una sorella minore.  La sua famiglia era di classe media, il padre di Ball era fotografo e editore del giornale Coloured Citizen. Suo nonno, James Ball Sr., era un famoso fotografo e uno dei primi neri americani a fare uso della dagherrotipia, il processo di stampa di fotografie su lastre di metallo. Alcuni storici hanno suggerito che l’amore per la fotografia del padre e del nonno potrebbe aver avuto un ruolo nel suo interesse per la chimica, poiché lavoravano con vapori di mercurio e lastre d’argento sensibilizzate allo iodio per sviluppare le foto. Nonostante fossero membri sostenitori della comunità afroamericana, entrambi i genitori di Alice erano  indicati come “Bianchi” sul suo certificato di nascita. Questo potrebbe essere stato un tentativo di ridurre il pregiudizio e il razzismo che la loro figlia avrebbe dovuto affrontare e aiutarla a entrare all’Università. Dopo un breve soggiorno a Honolulu (Hawaii), la famiglia tornò a Seattle, dove Alice Ball frequentò la Seattle High School conseguendo i migliori voti in scienze, diplomandosi nel 1910. Ball studiò chimica presso l’Università di Washington, ottenendo un B.Sc. in chimica farmaceutica nel 1912 e un secondo B.Sc. in scienze della farmacia due anni dopo. Insieme al suo professore, Williams Dehn, pubblicò un articolo sulle benzoilazioni in soluzione eterea nel Journal of the American Chemical Society. Pubblicare un articolo del genere in una rivista scientifica rispettata era un risultato raro per una donna all’epoca, in particolare per una donna di colore.

Dopo i due B.Sc. a Ball furono offerte molte borse di studio, fra le quali quella dell’University of California a Berkeley. Lei accettò quella del College of Hawaii (oggi University of Hawaii), dove decise di frequentare un master in chimica. La sua tesi di master riguardava lo studio delle proprietà chimiche delle specie di piante Kava. Nel 1915 divenne la prima donna e la prima nera americana a diplomarsi con un master presso il College of Hawaii. Ball è stata anche il primo “chimico ricercatore e istruttore” afroamericano nel dipartimento di chimica del College of Hawaii.

Grazie a questa ricerca e alla sua comprensione della composizione chimica delle piante, fu contattata dal Dr. Harry T. Hollmann, che aveva bisogno di un assistente per le sue ricerche sul trattamento della lebbra,  al Kalihi Hospital delle Hawaii, per studiare l’olio di chaulmoogra e le sue proprietà chimiche.

A quel tempo la lebbra (malattia di Hansen) era altamente contagiosa con praticamente nessuna possibilità di guarigione. Il miglior trattamento disponibile era l’olio di chaulmoogra, dai semi dell’albero Hydnocarpus wightianus del subcontinente indiano, che era stato utilizzato in medicina già nel 1300. Ma il trattamento non era molto efficace e ogni metodo di applicazione presentava problemi. Era troppo appiccicoso per essere usato efficacemente per via topica e, come iniezione, la consistenza viscosa dell’olio lo faceva ammassare sotto la pelle e formare vesciche invece di essere assorbito. Anche l’ingestione dell’olio non era efficace perché aveva un sapore acre che di solito faceva vomitare i pazienti.

All’età di 23 anni, Ball sviluppò una metodica per rendere l’olio iniettabile e assorbibile dal corpo. La sua tecnica prevedeva l’isolamento dei composti esteri dall’olio e la loro modifica chimica, producendo una sostanza che conservava le proprietà terapeutiche dell’olio e veniva assorbita dal corpo quando iniettata. Sfortunatamente, a causa della sua morte prematura[1], Ball non fu in grado di pubblicare le sue scoperte rivoluzionarie.

Arthur L. Dean, un chimico dell’Università delle Hawaii, le rubò il lavoro, pubblicò i risultati, senza darne credito a Ball, e iniziò a produrre grandi quantità dell’estratto di chaulmoogra iniettabile con il suo nome. Nel 1920, un medico delle Hawaii riportò sul Journal of the American Medical Association che 78 pazienti erano stati dimessi dal Kalihi Hospital dal comitato degli esaminatori sanitari dopo il trattamento con iniezioni di olio chaulmoogra modificato. Fu solo anni dopo la sua morte che Hollmann tentò di correggere questa ingiustizia. Pubblicò un articolo nel 1922 dando credito a Ball, chiamando la forma iniettabile dell’olio il “metodo Ball”[2]. Sfortunatamente, è rimasta ancora dimenticata nella documentazione scientifica.  Negli anni ’70, Kathryn Takara e Stanley Ali, professori all’Università delle Hawaii, perquisirono gli archivi per trovare la ricerca di Ball. Dopo numerosi decenni sono stati in grado di portare alla luce i suoi sforzi e risultati, dandole il merito che si era guadagnata. Dopo il lavoro di molti storici, l’Università delle Hawaii ha finalmente onorato Ball nel 2000 dedicandole una targa sull’unico albero chaulmoogra della scuola.

Nel 2018 un nuovo parco nel quartiere Greenwood di Seattle è stato intitolato a Ball. Nel 2019 la London School of Hygiene and Tropical Medicine ha aggiunto il suo nome al fregio in cima al suo edificio principale, insieme a Florence Nightingale e Marie Curie, in riconoscimento del loro contributo alla scienza e alla ricerca sulla salute globale.

Winifred Burks -Houck

Winifred Burks-Houck è stata un chimico organico e ambientale, la prima donna presidente della NOBCChE (National Organization for the Professional Advancement of Black Chemists and Chemical Engineers).

Winifred Burks-Houck

Nata ad Anniston, Alabama, nel 1950, una dei sei figli di Matthew Burks e da Mary Emma Goodson-Burks. Era la pronipote del noto abolizionista Harriet Tubman. Winifred frequentò la scuola elementare e la scuola superiore ad Anniston, Alabama. Conseguì un B.Sc. in chimica presso la Dillard University di New Orleans e un Master of Science in Chimica organica nell’ l’Università di Atlanta in Georgia.

Winifred entrò a far parte della Delta Sigma Theta Sorority, una associazione studentesca con programmi di assistenza agli afroamericani, mentre era studentessa universitaria alla Dillard University.

Dopo un periodo di ricerca in chimica organica, nel 1983, iniziò la sua carriera come chimica analitica ambientale presso il Lawrence Livermore National Laboratory di Livermore (CA). Come risultato del suo lavoro, fu invitata a Dakar, in Senegal, dove rappresentò NOBCChE presentando una relazione intitolata “Applicazioni ambientali e rapporti normativi”.

In qualità di leader della NOBCChE, Burks-Houck è stata fondamentale nella fondazione dell’Organizzazione sulla costa occidentale degli USA. È stata la prima presidente del San Francisco Bay Area Chapter dal 1984 al 1990, organizzando numerose attività educative e di sviluppo professionale per la comunità locale. Aveva un forte senso di leadership, organizzazione e visione in tutti gli eventi e le attività che ha guidato. Nel 1991, Burks-Houck è stata eletta vicepresidente nazionale della NOBCChE, carica che ha ricoperto fino a diventarne presidente nel 1993. In seguito restò presidente per quattro mandati consecutivi (fatto senza precedenti) fino alle dimissioni nel 2001. Il suo mandato come presidente nazionale ha segnato diversi cambiamenti positivi all’interno dell’organizzazione. Sotto la sua guida, furono istituiti il Science Quiz Bowl e la Science Fair, eventi per promuovere le conoscenze dei ragazzi nelle discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche. Favorì contratti di collaborazione con altre organizzazioni come l’American Association for the Advancement of Science (AAAS), l’American Chemical Society (ACS), l’American Indian Science and Engineering Alliance, la National Aeronautics and Space Administration (NASA) e la Society for the Advancement of Chicanos e Native Americans in Science (SACNAS). Aumentare il numero di studenti di colore nelle scienze e tecnologie, aumentare la visibilità della NOBCChE, istituire borse di studio tramite enti pubblici e privati e aggiornare i sistemi  informatici presso l’Ufficio Nazionale, sono stati fra gli scopi di queste collaborazioni.

Alla 43a Convention nazionale delle Sorority, è stata riconosciuta come Project Cherish Honoree per il suo eccezionale lavoro nel campo della scienza.

Winifred Burks-Houck è deceduta nel 2004, è ricordata come studiosa appassionata, un brillante scienziato e un matematico dotato, con una straordinaria capacità di ricordare numeri, canzoni e altre curiosità, ma anche per la grande capacità di leadership, il senso dell’umorismo e il sorriso affascinante.

Nel 2009, la NOBCChE, ha istituito in suo onore il Premio Winifred Burks-Houck, destinato a professioniste, laureate, studentesse afroamericane distintesi in campo scientifico e ambientale.


[1] Ball morì il 31 dicembre 1916, all’età di 24 anni. Si era ammalata durante le sue ricerche ed era tornata a Seattle per curarsi pochi mesi prima della sua morte. Si disse che fu un avvelenamento da cloro durante un’esercitazione, ma la causa della sua morte è sconosciuta, poiché il suo certificato di morte originale è stato alterato citando la tubercolosi.

[2] L’estere etilico isolato rimase il trattamento preferito per la lebbra fino a quando non furono sviluppati farmaci sulfamidici negli anni ’40 del secolo scorso.

Zoofarmacognosia, ovvero chimica e animali (e noi stessi).

Claudio Della Volpe

La farmacognosia è una branca della farmacologia che si occupa dello studio di farmaci ricavati da fonti naturali. La Società italiana di farmacognosia (Siphar) la definisce come “una disciplina che tratta i prodotti di origine naturale impiegati come medicamenti o nella preparazione di medicamenti”.
E fin qui tutto “normale”; ma quanti sanno che esiste una zoofarmacognosia, ossia che gli animali usano sostanze naturali per curarsi o per prevenire certi disturbi? La cosa presenta molto interesse, anche per possibili applicazioni di queste conoscenze agli umani.
L’idea che gli animali abbiano conoscenze di automedicina è presente nella cultura umana e nella grande letteratura; nel racconto Rikki-Tikki-Tavi di Rudyard Kipling, l’autore cita la leggenda secondo la quale solo le manguste conoscano un’erba che funziona da rimedio al morso del cobra, così potente che basta il suo odore perché il cobra abbia timore della mangusta e ne rimanga bloccato.  Un recente articolo comparso su The conversation, parla estesamente della zoofarmacognosia.
The conversation è una rivista in lingua inglese che ha come sottotitolo: Rigore accademico, stile giornalistico, un programma interessante anche per un blog come il nostro e che nel nostro giornalismo non è poi così diffuso.

L’articolo di cui parliamo oggi, intitolato ”Come gli altri primati si automedicano – e cosa possono insegnarci” è scritto da Sophia Daudi, studente di dottorato in odore di tesi finale (candidate è il titolo ufficiale, ossia superati gli esami può accedere alla proposta di tesi e scriverla ) presso l’Università di Stirling in Comportamento dei primati.
Cosa ci racconta l’articolo?
Fa una serie di esempi di zoofarmacognosia che altri animali, in particolare primati, scimmie, attua comunemente, ma vedremo, da altre fonti, che anche altri animali hanno comportamenti analoghi ed alcuni di essi sono chiaramente di origine culturale non istintiva. Questo è secondo me il punto importante.
Un primo esempio sono alcuni gruppi di scimpanzè di Nigeria, Tanzania e Uganda che ingoiano senza masticarle le foglie di Aspilia Mossabicensis e di pochi altri tipi di Aspilia; queste foglie contengono vari principi attivi[1], ma la cosa interessante è che sono molto ruvide e vengono ingoiate senza masticazione e si è scoperto che vengono espulse non digerite, ma insieme a molti vermi. In sostanza gli scimpanzè usano le foglie come vermifugo; e si sa che la pianta ha effetti vari di tipo farmacologico anche su specie lontanissime come alcuni pesci[2].

Ora è chiaro che fenomeni di questo tipo che non sono rari potrebbero essere interpretati su base istintuale. Tuttavia l’ipotesi dei ricercatori è che sia su base culturale, seguendo l’insegnamento dei genitori. Una molecola potenzialmente implicata nell’azione antielmintica è la tiarubina A che è presente nelle foglie e che si è scoperto avere anche azione antibiotica, forse utile anche nell’uomo.

In modo simile per esempio i tamarini, alcune scimmie diffuse in Sud America, inghiottono, allo stesso scopo, alcuni grossi semi, larghi anche 1,5 cm, che passando nell’intestino trascinano con sé ogni possibile “intruso”.
Tuttavia un caso più difficile da interpretare in modo istintuale è quello del còlobo rosso di Zanzibar (Piliocolobus kirkii) che ingerisce, invece, carbone, proprio come facciamo noi per risolvere alcuni fastidiosi problemi di gas addominale.

La dieta di queste scimmie si basa su foglie e germogli ancora acerbi e piuttosto tossici: si pensa che il carbone serva proprio a eliminarne le tossine. In questo caso la dieta è basata non su frutti ma su foglie, che i còlobi possono digerire grazie al loro particolare stomaco (a 4 comparti), ma che contengono sostanze tossiche; secondo alcuni ricercatori le specie vegetali di cui si nutrono prevalentemente sarebbero state introdotte a Zanzibar dagli uomini in tempi storici, ma soprattutto mangiare il carbone, che le scimmie rubano (come documentato da vari filmati) dai villaggi umani, non può rappresentare un comportamento istintuale ma legato alla osservazione delle scimmie su eventi e fatti; sembra infatti che istintualmente tali animali usassero in passato terriccio o argilla; ma con gli uomini sono passati al carbone vegetale, che anche noi conosciamo come sostanza che assorbe molto e la usiamo contro i gas intestinali. Rimane certo un comportamento misterioso e non abbiamo la prova sicura che dipenda dalla intelligenza del còlobo; sta di fatto che il còlobo non ruba il cibo dalle cucine umane, ma ruba il carbone.
D’altronde è da dire che comunque la trasmissione culturale è ampiamente provata nei primati; un esempio è quello dei macachi giapponesi (Macaca fuscata): un gruppo di questa specie che popolava (e popola tuttora) l’isola di Kōjima, che imparò a salare il proprio cibo immergendolo in acqua di mare, una pratica di cui si conosce la storia integrale illustrata da Danilo Mainardi.
Ma la forma più curiosa di automedicazione tra primati è probabilmente l’abitudine di strofinare sul pelo sostanze dall’odore pungente, un comportamento collegato alla comunicazione sessuale, ma che in alcuni casi ha lo scopo di tenere alla larga i parassiti della pelle.
Per esempio il lemure macaco o maki nero (Eulemur macaco) si strofina la pelliccia con millepiedi velenosi, mentre l’atele di Geoffroy (Ateles geoffroyi) utilizza, allo stesso modo, le foglie di sedano.
Gli oranghi usano le foglie di commelina, una pianta di origine asiatica molto diffusa, mentre il cebo dai cornetti (Cebus Apella) si cosparge di un’ampia gamma di prodotti, dai millepiedi alle formiche, dai frutti di limone alle cipolle, tutte sostanze dalle proprietà disinfettanti e antiparassitarie. Interessante il modo usato dall’orango: mastica molto bene le foglie, fino a provocare un’intensa schiuma. Lo scopo? Estrarre le saponine (glicosidi terpenici). Dopodiché spalma il prodotto.

Anche qui rimane il dubbio se questo tipo di comportamento così particolare dipenda dall’istinto o da un meccanismo di trasmissione culturale a sua volta prodotto in gruppi specifici di animali dall’osservazione del proprio ambiente; non è necessario immaginare che questi animali teorizzino qualcosa, ma solo che abbiamo osservato e notato la coincidenza di fatti diversi; le piante usate sono diverse in diversi ambiti e il loro uso è geograficamente limitato.
Dunque come gli umani anche altri primati sembrano avere un vivo spirito di osservazione ed una vivace intelligenza. Personalmente questa cosa mi stimola ancor più ad essere contrario alla sperimentazione animale su esseri così complessi e intelligenti, un tema che anche di recente è venuto alla ribalta sui giornali.
Ci sono molti altri animali che hanno comportamenti complessi di questo tipo, ma probabilmente di origine istintiva: i cani e i gatti (carnivori) mangiano le parti apicali di varie erbe, per esempio dell’avena selvatica, per vomitare e liberarsi del disturbo causato da alcuni cibi; alcuni uccelli come i corvi, fanno il bagno nei formicai per essere assaliti dalle formiche che in difesa del formicaio emettono acido formico con notevole azione antiparassitaria.

La Nepeta cataria, una lamiacea, chiamata in inglese catnip, in italiano erba gatta, attrae sia i cani che i gatti; l’attrazione per i gatti è su base genetica, dipendente dalla presenza di una sostanza, il nepetalattone, che è simile ad un feromone dei gatti; gli effetti dell’erba gatta sull’uomo sono ben documentati e questa pianta è usata spesso in infusi vegetali.

Il massimo è il giaguaro amazzonico che si nutrirebbe di una pianta l’Ayahuasca con effetto allucinogeno prima di cacciare, per stimolare forse i propri sensi, di per se già molto acuti in effetti. La cosa è stata ipotizzata ma non provata in modo inoppugnabile.

Insomma alla fine la chimica ci viene dal nostro trascorso “animale”? La similitudine degli effetti di alcune piante su di noi e sui nostri amici animali e soprattutto il comportamento dei primati che vi ho raccontato mi stimola a pensare che le radici profonde della chimica stiano qui in questo legame complesso fra noi e il nostro mondo, fra noi e la biosfera; e che la chimica è dopo tutto l’espressione più alta e culturale del comportamento prima istintivo o geneticamente basato dei gatti, ma poi culturale e trasmissibile del còlobo e di altri primati; la chimica è dentro di noi a partire dalla nostra storia animale.
Grande Darwin!! (di cui il 12 febbraio ricorre la Giornata mondiale).

Riferimenti.
[1] Aspilia spp. Leaves: A puzzle in the feeding behavior of wild chimpanzees R. W. Wrangham & T. Nishida Primates volume 24, pages276–282(1983)
[2] International Journal of Veterinary Science and Medicine Volume 6, Issue 1, June 2018, Pages 31-38
[3] https://www.palermomania.it/rubrica/venere-scienze-lettere-passioni/zoofarmacognosia-scopriamo-di-che-cosa-si-tratta-1695.html
Da consultare:
https://jinrui.zool.kyoto-u.ac.jp/CHIMPP/CHIMPP.html gestita da un studioso dell’università di Kyoto con una ampia bibliografia
https://en.wikipedia.org/wiki/Zoopharmacognosy con una vasta bibliografia inclusa praticamente su tutte le specie animali.
https://it.wikipedia.org/wiki/Nepeta_cataria sulle caratteristiche dell’erba gatta
https://www.carolineingraham.com/what-is-applied-zoopharmacognosy/ ampio e molto ben curato dedicato all’argomento dell’uso veterinario dell’automedicazione animale
una review dedicata al tema e scaricabile gratuitamente: Resonance · March 2008 DOI: 10.1007/s12045-008-0038-5 in cui si sviluppa il tema di come la zoofarmacognosia sia un comportamento derivante in ultima analisi dall’adattamento alla pressione dei parassiti.

Chimica e medicina

Luigi Campanella, già Presidente SCI

 

Sono da sempre un aperto sostenitore dei reciproci supporti che medicina e chimica possono ottenere dalla loro collaborazione, in.passato non sempre così stretta e continua, oggi molto più attiva.

Due recenti notizie mi hanno confermato nella mia convinzione.

La prima fa riferimento alla raccomandazione del Ministero della Salute circa le condizioni di idratazione e adeguata nutrizione dei malati covid19, raccomandazione rispetto alla quale assume importanza, come osservato in più sedi, l’assunzione di vitamina C, principio attivo di molti agrumi. Da qui il moltiplicarsi di studi sugli agrumi. In particolare l’attenzione dei ricercatori è concentrata sulla composizione in flavonoidi considerati preziosi componenti alimentari con possibile attività antivirale, modulatori del sistema immunitario e sentinelle dell’organismo rispetto allo stress ossidativo associato all’infezione. Particolarmente presente negli agrumi l’esperidina è stata studiata per i suoi effetti benefici nel regolare il metabolismo e la pressione del sangue, nell’accrescere le capacità antiox dell’organismo. Con riferimento specifico al covid 19 sono emerse dagli studi due proprietà, la capacità dell’esperidina a legarsi alla proteina Spike del coronavirus impedendo il legame al recettore e quindi la penetrazione del virus nella cellula e la sua capacitá di inibire l’enzima proteolitico necessario alla replicazione del virus.

Oltre all’esperidina un altro flavonoide che può risultare utile nella lotta al covid 19 è la quercetina, antiossidante ed antiinfiammatorio, contenuto nei capperi, cicoria, piselli e cipolle.

Questi composti giovano all’organismo in quanto favoriscono il metabolismo dei carboidrati e dei lipidi migliorando le condizioni di salute ed evitando co-patologie che possono aggravare quella dovuta al virus. Ricerche sono ancora in atto in tutto il mondo e la speranza è quella di acquisire nuove e più profonde conoscenze in materia.

La chimica è senz’altro la disciplina a cui queste speranze sono affidate con maggiore concretezza. Alcune delle tecnologie analitiche innovative dedicano la loro attenzione proprio alle interazioni fra cellula ed analitica con essa a contatto ed agli effetti di tale interazione. Le cosiddette scienze omiche attraverso l’ analisi e caratterizzazione delle proteine e dei metaboliti forniscono conoscenze accurate e sensibili preziose in medicina.

La seconda notizia riguarda una vecchia posizione dei Chimici che finalmente sta emergendo  in oncologia: e riferita alla asserita necessitá di studiare l’ambiente circostante il tumore come prezioso indicatore di alterazioni e come supporto allo sviluppo di modelli di crescita del tumore stesso. Per interpretare le relazioni fra cellule tumorali e cellule circostanti diventano fondamentali due discipline, la bioinformatica capace di estrarre conoscenze significative dai set di dati sperimentali raccolti e proprio la chimica con la definizione delle composizioni e delle relative discontinuità. L’ambiente circostante il tumore potrebbe essere responsabile della sua crescita e quindi anche uno strumento di contrasto a questo processo. Potremmo parlare, d’intesa con alcuni medici di una sorta di cartografia molecolare per mappare il sistema tumorale. Il problema è però sperimentale: qualunque tecnica, anche la più sofisticata, fotografa il presente anche nel tempo, ma non sarebbe capace di interpretare le interazioni molecolari fra tumore ed ambiente circostante.

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Un nuovo settore delle scienze analitiche, la trascrittomica,  considera le relazioni intercellulari nello spazio e cerca di conoscere il contenuto di ogni singola cellula senza rinunciare ai dati sulla sua organizzazione e sul tessuto di cui fa parte. La parte della medicina che potrebbe avvantaggiarsi di più della trascrittomica è l’immunoterapia che agisce su bersagli generali e spesso non può essere utilizzata per le sue forti reazioni avverse. Con questo nuovo approccio si dovrebbe arrivare a comprendere quali siano i meccanismi che impediscono al sistema immunitario di colpire il tumore : per tale traguardo la conoscenza dell’ambiente circostante il tumore stesso è fondamentale ed ancora è la chimica che ci aiuta