Banalità di base.

Claudio Della Volpe

Questo post rientra nella categoria dei post grafici; ho messo insieme alcuni dati climatici di base in forma grafica; sono dati ufficiali o pubblicati sulle grandi riviste; ho aggiunto pochi commenti.,

Sono dati di base, in un certo senso banali ma una banalità che non dovrebbe evitarci di agire il più presto e il più ampiamente possibile. Se sono disponibili vanno in coppia, il primo dà informazioni su un periodo maggiore e il secondo su un periodo più ristretto e recente. Dovrebbero far parte della cultura di base di ogni chimico, ma anche di ogni persona acculturata oggi.

CO2 atmosferica

I dati di Mauna Loa, raccolti in una atmosfera ben mescolata e lontani da sorgenti antropogeniche provano  l’aumento continuo della CO2 da quando la misuriamo, nel 1956, il primo anno geofisico internazionale.

A più alta risoluzione si nota la struttura annuale e semestrale della oscillazione (il secondo ciclo sfasato di sei mesi) , il respiro della terra, il minimo assoluto di ogni ciclo corrisponde all’inizio della stagione fredda nell’emisfero Nord; durante le stagioni più calde il carbonio viene assorbito per la fotosintesi; poi viene riceduto all’atmosfera. La parte Nord del pianeta gioca il ruolo maggiore perché le terre emerse sono maggiormente presenti. Al momento l’incremento annuo è di 2ppm ogni anno.

Metano

Dietro l’enorme incremento di metano ci sono gli incendi e le perdite da estrazione.

pH oceano

L’asse verticale di questo grafico è LOGARITMICO e dunque la riduzione è enorme su scala percentuale.

Il grafico di quella che definisco la pistola fumante; la riduzione di isotopo 13C si accompagna all’aumento della CO2 atmosferica e questo prova in modo inequivocabile che il carbonio viene dalla combustione dei fossili.

L’ossigeno in atmosfera.

La concentrazione di ossigeno in atmosfera diminuisce di circa 4ppm all’anno. I dati sono raccolti in numerose stazioni mondiali gestite dallo Scripps institute. Secondo Keeling per ogni mole di C bruciata si consumano 1.4 moli di O2 (tenete presente che ogni unità CH2 consumerebbe teoricamente 1.5 moli di O2).

La riduzione di ossigeno in atmosfera corrisponde ad una riduzione ancora più marcata nell’oceano a causa dell’aumento della temperatura oceanica e dell’ingresso della CO2, ma anche a causa dell’arricchimento fosfatico che contribuisce all’espansione delle cosiddette zone morte, la cui superficie è aumentata da 4 a 10 volte dal 1950.

La anomalia termica della superficie terrestre

La anomalia termica NON è la temperatura media, ma l’aumento della temperatura mediato su tutta le stazioni meteo della Terra e rispetto ad un periodo di riferimento (1951-1980). Esso si ripartisce diversamente sulla superficie e sul mare (che hanno due diverse capacità termiche) e varia fortemente con la latitudine (più grande verso nord).

Misurare le emissioni di metano è importante per ridurle

Rinaldo Cervellati

Il titolo del post è il titolo con cui Jamie Durrani ha scritto un bell’articolo su Chemistry World il 21 marzo scorso [1]. Qui ne riportiamo una versione tradotta e adattata da chi scrive.

Alla conferenza sul clima Cop26 dello scorso anno a Glasgow più di 100 paesi hanno firmato il “Global Methane Pledge”, l‘intenzione di ridurre le emissioni mondiali di metano del 30% entro il 2030. Si stima che il metano (figura 1), che ha un potenziale di riscaldamento globale più di 80 volte quello dell’anidride carbonica in un periodo di 20 anni, sia responsabile di un quarto degli aumenti di temperatura che si osservano oggi.

Figura 1. Formula di struttura del metano (a sinistra), immagine stick and balls (a destra).

Ma c’è un problema con cui le autorità devono confrontarsi quando stabiliscono obiettivi per ridurre queste emissioni: la maggior parte dei paesi in realtà non sa quanto metano rilascia nell’atmosfera. I firmatari dell’accordo di Parigi del 2015 devono riportare regolarmente un inventario nazionale delle emissioni di gas serra, incluso il metano, alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Ma queste stime variano e nella maggior parte dei casi non richiedono che siano verificate da misurazioni quantitative.

Negli ultimi anni numerosi studi indipendenti di monitoraggio del metano hanno evidenziato grandi discrepanze tra le quantità misurate di gas naturale immesso nell’atmosfera e quanto registrato negli inventari nazionali. In particolare, le perdite dalle infrastrutture del petrolio e del gas sembrano spiegare quantità allarmanti di emissioni di metano non dichiarate.

Thomas Lauvaux, uno scienziato atmosferico dell’Università di Parigi- Saclay (Francia), afferma: “Capire perché le emissioni riportate non sembrano corrispondere ai dati atmosferici raccolti è fondamentale per le politiche climatiche a lungo termine”.

Si tratta essenzialmente dell’approccio “dal basso verso l’alto” mediante il quale vengono compilati gli inventari. Nella maggior parte dei casi un’azienda è tenuta a valutare le potenziali fonti di emissioni di cui è responsabile: quante miglia di gasdotto e il numero di serbatoi di stoccaggio, vecchi pozzi, valvole, pompe e così via. Quindi moltiplica questi numeri per i fattori di emissione: stime di quanto metano perderà da ciascuna fonte.

Beh, sappiamo che questi numeri sono sbagliati“, dice Lauvaux (fig. 2) “Sono di parte. Non tengono conto di tutta la complessità dei sistemi operativi reali.

Figura 2. Thomas Lauvaux.

Esistono tre diversi livelli di segnalazione utilizzati negli inventari nazionali di metano, che l’UNFCCC chiama livelli uno, due e tre. Il livello tre rappresenta i protocolli più rigorosi, con stime più dettagliate che sono suffragate da un grado di monitoraggio a livello di sorgente. I rapporti di primo livello utilizzano fattori di emissione molto generici e generalmente forniscono i dati meno accurati.

Jasmin Cooper (fig. 3) dell’Imperial College di Londra (Regno Unito), la cui ricerca verte sull’analisi quantitativa delle emissioni delle strutture petrolifere e del gas, osserva: “Purtroppo, sono i più comunemente usati perché molti paesi semplicemente non hanno i dati. È perché il metano non è stato davvero una priorità fino a dopo l’accordo di Parigi, quella è stata la prima volta in cui si è effettivamente enfatizzato che il metano e altri inquinanti climatici sono importanti per affrontare il cambiamento climatico”.

Figura 3. Jasmin Cooper.

Uno dei principali problemi con il modo in cui gli inventari sono attualmente compilati è che non possono tenere conto di “incidenti” che contribuiscono con grandi quantità di metano all’atmosfera. Nel febbraio di quest’anno, il gruppo di Lauvaux ha pubblicato i dati raccolti dal Tropospheric Monitoring Instrument (Tropomi), un sistema di rilevamento del metano a bordo del satellite Sentinel 5-P dell’Agenzia spaziale europea. I dati di Tropomi rivelano l’entità sorprendente delle emissioni di metano associate a eventi “ultra-emittenti” in tutto il mondo (fig. 4).

Figura 4. Immagine di un evento “ultra-emittente”.

Quando abbiamo aggregato tutti questi numeri, abbiamo scoperto che c’erano centinaia di queste perdite “, afferma Lauvaux. “E sto parlando di perdite giganti, più di 20 tonnellate di metano l’ora, che equivale circa a un gasdotto aperto“.

Nel corso di due anni, dal 2019 al 2020, Tropomi ha rilevato circa 1200 eventi di ultra-emissioni associati alle infrastrutture del petrolio e del gas, con punti critici notevoli in Turkmenistan, Russia, Stati Uniti, Medio Oriente e Algeria. Il gruppo di Lauvaux calcola che queste perdite rappresentano circa 8 milioni di tonnellate di metano perse nell’atmosfera all’anno, circa il 10% delle emissioni totali associate alla produzione di petrolio e gas.

Egli afferma: “E stiamo guardando solo la punta dell’iceberg: sappiamo che ci sono molte più perdite al di sotto della soglia di rilevamento. Quindi per la prima volta abbiamo stabilito che queste perdite giganti si verificano più spesso di quanto pensassimo e rappresentano una quantità significativa di metano.  Se queste perdite fossero riparate, le emissioni si ridurrebbero del 10 o 20%.

Sebbene le misurazioni satellitari abbiano il potenziale per migliorare il monitoraggio, questi strumenti sono costosi e sono attualmente ostacolati dalla bassa risoluzione e dalle condizioni meteorologiche, che le rendono più difficili specialmente nelle regioni più umide. Possono, tuttavia, essere integrate da una tecnologia di misurazione più localizzata montata su torri, furgoni e aeroplani.

Molte delle più grandi compagnie petrolifere e del gas utilizzano già queste tecniche in una certa misura per rilevare le perdite: infatti, per l’industria energetica una perdita di gas significa perdita di profitto. Secondo la Oil and Gas Methane Partnership (OGMP)[1], solo nel 2021 sono stati sprecati 19 miliardi di dollari di metano a livello globale.

Cooper, che non è stata coinvolta nel progetto Tropomi, osserva che con i sistemi di monitoraggio satellitare sta “diventando più difficile nascondere le emissioni. Una scoperta interessante dello studio è che la manutenzione è una grande fonte di emissioni, poiché non è qualcosa che viene segnalato dalle aziende. Ci sono linee guida su come prevenire lo sfiato durante la manutenzione, ma dipende dalle pratiche del singolo operatore.”

Lauvaux ritiene che il set di dati del suo gruppo potrebbe aiutare i funzionari a cercare di capire perché alcune regioni sembrano avere prestazioni migliori di altre nella prevenzione di eventi di ultra-emissione. Dice: “Per me, ora c’è più un aspetto politico. Sulla base di quanto riportato, vorrei che i responsabili politici esaminassero la questione con più attenzione e dicessero: Ok, chi sta facendo un ottimo lavoro? Perché stanno facendo un ottimo lavoro? E cosa si potrebbe implementare in modo che domani diminuiscano le emissioni dagli Stati Uniti, dal Turkmenistan e dalla Russia.

Dal 2014 la OGMP ha visitato più di 70 aziende, che rappresentano metà della produzione mondiale di petrolio e gas. Alla fine del 2020, ha pubblicato nuove proposte con l’obiettivo di ridurre del 45% le emissioni di metano del settore entro il 2025 e del 60-75% entro il 2030. La chiave della proposta è giungere a “un quadro completo di segnalazione di tutte le fuoriuscite di metano basato su misurazioni” che, secondo OGMP, “sarà in grado di rendere più facile per i funzionari monitorare e confrontare accuratamente le prestazioni di tutte le società in modi che prima non erano possibili”.

Spiega Cooper: “Se aderisci al progetto OGMP in pratica stai riconoscendo che la tua azienda prende molto sul serio il monitoraggio delle emissioni di metano. Quindi avrai una serie molto rigorosa di standard su ciò che stai (o non stai) facendo “.

Il quadro di riferimento di OGMP consente alle aziende di segnalare le emissioni di ciascuna delle loro operazioni a uno dei cinque livelli, con l’obbligo di portare tutti i rapporti al livello cinque (il più rigoroso) entro tre anni.

Ora spetta ai responsabili politici cercare di incoraggiare più aziende a utilizzare la migliore tecnologia disponibile per raggiungere questo obiettivo. A dicembre, la Commissione europea è diventata la prima firmataria dell’impegno a raggiungere gli obiettivi per le emissioni, con una nuova enfasi posta sul monitoraggio delle perdite di metano. La commissione vuole utilizzare il progetto OGMP come modello per migliorare l’accuratezza dei rapporti sull’inventario. Vuole inoltre che l’Osservatorio internazionale delle emissioni di metano fornisca un controllo aggiuntivo degli inventari delle emissioni, incrociandoli con “altre fonti come l’imaging satellitare“.

Maria Olczak, esperta di politica del metano, (Florence School of Regulation, Istituto universitario europeo in Italia), osserva: “Questo è un punto piuttosto interessante, perché è la prima volta che la Commissione europea dà importanza a un organismo internazionale che parteciperà al modo in cui viene attuato il regolamento”. Tuttavia, Olczak avverte che queste disposizioni potrebbero suscitare resistenza da parte degli operatori. Afferma: “Le aziende più piccole non sono favorevoli a fare campagne di rilevamento e riparazione ogni tre mesi. Secondo la mia esperienza, le aziende più grandi lo fanno una volta all’anno e per molte di loro non è nemmeno sull’intera struttura“.

Figura 5. Maria Olczak.

Il piano della commissione include anche nuovi meccanismi di trasparenza sulle importazioni di combustibili fossili. “La Commissione europea ha suggerito di creare due banche dati. Il primo sarà il database delle emissioni di metano relativo ai combustibili fossili importati nell’Unione Europea. Quindi, gli importatori dovranno divulgare informazioni esatte sulla provenienza dei diversi combustibili fossili, se tali paesi sono parti dell’accordo di Parigi, come segnalano le emissioni, e altro”, spiega Olczak. “Il secondo è lo strumento di monitoraggio globale del metano che utilizza le osservazioni satellitari: qui, penso, la commissione si concentrerà principalmente sul rilevamento dei super-emettitori“. Tuttavia, Olczak osserva che la commissione ha riconosciuto che l’attuale mancanza di dati di alta qualità sul metano renderebbe difficile l’attuazione di nuove tariffe sulle emissioni importate. Aggiunge quindi: “La Commissione europea ha anche menzionato in una delle disposizioni che rivedrà il suo approccio alle emissioni importate e proporrà alcune misure aggiuntive entro il 2025”.

Prima che possano essere trasformate in legge, le proposte della Commissione saranno esaminate dal Consiglio e dal Parlamento europeo in un processo che richiederà almeno un anno. Olczak sottolinea che, mentre è sempre probabile che le politiche vengano attenuate, è possibile che la crisi energetica in Europa faccia diminuire le misure che aumentano il prezzo del gas.

Bibliografia

[1] Measuring methane emissions is crucial to cutting them, Jamie Durrani, Chemistry World, 21 marzo, 2022.

Sul metano il blog ha pubblicato una serie di articoli, ad es:


[1] OGMP è un’iniziativa multi-stakeholder lanciata dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e dalla Coalizione per il clima e l’aria pulita e sostenuta dalla Commissione europea.

Gas serra. Il metano.

Rinaldo Cervellati

* tratto e adattato da “Methane cuts could slow extreme climate change” (Katherine Bourzac, pubblicato il 24/10/2021 su C&N online) Il metano: la falsa soluzione per la transizione energetica, Ancler®

Molti scienziati concordano sul fatto che la riduzione delle emissioni di anidride carbonica (CO2) sia urgente e necessaria per rallentare i cambiamenti climatici (innalzamento del livello dei mari di oltre 3mm, siccità, caldo, incendi o tempeste senza precedenti, ecc.). Ma la CO2 che abbiamo già emesso rimarrà nell’atmosfera per centinaia di anni, quindi ci vorrà del tempo affinché la sua mitigazione mostri dei benefici sui cambiamenti climatici.

Le notizie non sono tutte disastrose, sostengono alcuni scienziati. Essi ritengono che si potrebbe rallentare il riscaldamento globale rivolgendo l’attenzione alla riduzione delle emissioni del secondo gas serra più importante, il metano.

Il metano è stato in qualche modo trascurato nelle discussioni sui cambiamenti climatici, ma ultimamente sta ricevendo maggiore attenzione, anche nel più recente rapporto scientifico dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU. Rob Jackson, scienziato del sistema terrestre nella Stanford University e presidente del Global Carbon Project[1], afferma che: “Per quanto sia difficile ridurre la CO2, non raggiungeremo i nostri target di temperatura affrontando solamente questo problema”.

Le emissioni di metano crescono ogni anno. Secondo il Global Carbon Project, alla fine del 2019, la concentrazione di metano nell’atmosfera era di 1.875 ppb, oltre 2,5 volte quella dell’epoca preindustriale. La figura 1 mostra un grafico dell’andamento delle medie mensili delle concentrazioni globali di metano nell’atmosfera dal 1980 al 2020.

Figura 1. Fonte: National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), agenzia federale statunitense che si interessa di oceanografia, meteorologia e climatologia.

Parte del metano proviene da fonti naturali, in particolare dalle zone umide, dove i batteri si nutrono di carbonio organico ed emettono gas serra. Ma circa il 60% delle emissioni di metano proviene da fonti umane. L’industria dei combustibili fossili e l’agricoltura sono le due maggiori fonti antropogeniche di emissioni; la gestione dei rifiuti e altre attività fanno il resto (figura 2).

Figura 2. Le emissioni si basano sui numeri del 2017 compilati dal Global Carbon Project e convertiti in percentuali. Fonti: Global Carbon Project; ambiente. Res. Lett. 2020, [1]

La temperatura media globale è aumentata di circa 1,07 °C dal periodo 1850-1900 al periodo 2010-2019, secondo l’IPCC. Prima che venga sottratto l’effetto di raffreddamento di altre emissioni umane, come gli aerosol, le emissioni di metano da sole sono responsabili di circa mezzo grado di tale riscaldamento.

Un grado o mezzo grado potrebbe non sembrare molto, ma piccoli aumenti della temperatura globale media hanno grandi effetti sul clima, producendo eventi estremi come inondazioni e siccità più frequenti e più intensi. Ad esempio, secondo l’IPCC, un aumento della temperatura di 1 °C ha modificato la frequenza di fenomeni estremi come l’innalzamento delle temperature massime, portandoli da 1 a 2,8 volte ogni decennio. Se si aggiunge un altro mezzo grado di riscaldamento, questi eventi si verificheranno probabilmente 4,1 volte ogni decennio.

Implementando misure per ridurre le emissioni di metano, “possiamo rallentare il tasso di riscaldamento globale del 30%” nei prossimi decenni, afferma Ilissa Ocko, climatologo senior presso l’Environmental Defense Fund, un gruppo di ricerca e difesa ambientale senza scopo di lucro. “Questa è un’opportunità straordinaria. Stiamo cercando di sensibilizzare le persone sull’esistenza di questa possibilità”. La ricerca di Ocko suggerisce che adottare tutte le misure possibili per ridurre le emissioni di metano avrebbe un grande impatto: se fossero messe in atto oggi, il tasso medio di riscaldamento per decennio potrebbe essere rallentato del 30% nei prossimi decenni. E il pianeta eviterebbe un riscaldamento di 0,25 °C entro la fine di questo secolo [2].

La riduzione delle emissioni di metano apporterebbe un vantaggio immediato grazie alla chimica di questo gas. Il metano ha una forte influenza sul clima: ha 84 volte l’effetto riscaldante della CO2 nei primi 20 anni dopo l’emissione. E non dura a lungo: la sua vita media è di 12 anni. Nel tempo, si ossida per formare CO2 e acqua, oppure può partecipare a reazioni che generano ozono a livello del suolo. Poiché il metano è sia potente sia di breve durata, se le emissioni diminuiscono, l’attuale metano atmosferico può decomporsi e ridurre la pressione sul clima.

L’analisi di Ocko si è concentrata su strategie di mitigazione convenienti e attualmente disponibili senza fare affidamento su politiche come la tassa sul carbonio o cambiamenti comportamentali di massa, come le persone che passano a diete vegane.

Lena Höglund-Isaksson, economista ambientale presso l’International Institute for Applied Systems Analysis[2], concorda sul fatto che il settore dei combustibili fossili sia il luogo più conveniente per affrontare il problema del metano. Ha analizzato quanto diverse misure di mitigazione potrebbero ridurre le emissioni di metano entro il 2050. I programmi per rilevare e riparare le perdite dei gasdotti e maggiori sforzi per catturare le perdite di gas ridurrebbero le emissioni di metano associate alla produzione di petrolio del 92% [3].

Quindi, perché le aziende non eseguono queste semplici riparazioni che farebbero risparmiare denaro catturando il metano? Afferma Höglund-Isaksson: “I margini di profitto per petrolio e gas sono molto alti ed è più redditizio estendere la produzione e perforare nuovi pozzi piuttosto che contenere le perdite. Quello che manca sono gli incentivi politici”.

I responsabili politici hanno prestato maggiore attenzione al metano negli ultimi mesi. Il 17 settembre, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano di un terzo rispetto ai livelli del 2020 nel prossimo decennio. Altri sette paesi si sono uniti all’impegno, ma i maggiori emettitori di metano del mondo, Cina, India, Russia e Brasile, non l’hanno firmato.

Le attività antropiche causano circa il 60% delle emissioni di metano, le fonti naturali, in particolare le zone umide, forniscono il resto. Nel 2017, le emissioni totali di metano sono state di circa 596 milioni di tonnellate, di cui 364 milioni di tonnellate da emissioni umane (figura 2).

Individuare le perdite, anche quelle enormi chiamate “superemettitori”, non è così semplice come sembra. Da settembre a novembre 2019, il gruppo di Riley Duren e Daniel Cusworth, scienziati statunitensi, ha pilotato un aereo dotato di uno spettrometro a immagini sul bacino del Permiano, una zona comprendente il Texas e alcuni stati limitrofi, che è la regione produttrice di gas e petrolio più grande e in più rapida crescita negli USA. Lo studio dei ricercatori ha mostrato che, come in altre regioni petrolifere, molte sorgenti puntiformi a forte emissione del gas sono intermittenti, quindi se si guarda nel momento sbagliato queste non vengono rilevate [2].

I satelliti sono adatti a raccogliere questi dati, rilevando ogni giorno letture sensibili su vaste aree di terra. Una società privata chiamata GHGSat vende misurazioni satellitari delle emissioni di metano ai clienti, in particolare nel settore petrolifero, ma i suoi dati sono riservati. I satelliti del governo attualmente in orbita possono anche rilevare pennacchi di metano, ma solo se particolarmente grandi, e hanno una scarsa risoluzione spaziale.

Due nuovi progetti satellitari per il monitoraggio del metano mirano a fornire dati a risoluzione più elevata e a renderli disponibili al pubblico. Gli ingegneri che si occupano di questi progetti sperano che i loro sforzi incoraggino le compagnie petrolifere e del gas a riparare queste perdite.

I dati, resi disponibili al pubblico, potrebbero anche portare le compagnie petrolifere e del gas ad affrontare la pressione del mercato sulla base delle loro emissioni di metano. I clienti e gli azionisti delle utility del gas sono sempre più preoccupati per il cambiamento climatico. I servizi pubblici potrebbero esaminare un’azienda in base alle sue emissioni di metano prima di decidere di acquistare gas naturale da essa;  i governi potrebbero anche vietare le importazioni di gas naturale da fornitori con registrazioni di perdite.

Chiudere le perdite di metano nelle infrastrutture dei combustibili servirà per mitigare il riscaldamento globale a breve termine. Ma altre fonti di emissioni di metano devono ancora essere affrontate e non hanno soluzioni semplici come sigillare un tubo che perde. L’agricoltura, che rappresenta il 40% delle emissioni di metano di origine antropica, presenta una complessa sfida alla mitigazione. Il bestiame è un grande colpevole delle emissioni di metano. I bovini, come quelli mostrati in figura 3, sono una delle maggiori fonti di emissioni di metano e una delle più difficili da mitigare.

Figura 3. I bovini, come quelli di questo allevamento (98.000 animali) sono una fonte di emissioni di metano.

Euan Nisbet, uno scienziato della Terra presso l’Università di Londra, chiama il bestiame e altri ruminanti “zone umide che camminano” perché i batteri che vivono nelle viscere degli animali producono metano mentre digeriscono il cibo. Gli agricoltori potrebbero allevare bovini che producono carne e latte in modo più efficiente, così che il mondo possa ottenere la stessa quantità di cibo con meno animali che producono metano.

Per gli alimenti a base vegetale, la principale fonte di metano è il riso, afferma Atul K. Jain, scienziato dell’atmosfera presso l’Università dell’Illinois. I batteri che producono metano prosperano nelle risaie perennemente allagate. Afferma che l’adozione dell’irrigazione intermittente, in cui gli agricoltori drenano i loro campi tra le stagioni di crescita per eliminare le condizioni simili alle zone umide e uccidere quei batteri, potrebbe aiutare. Purtroppo le risaie che vengono periodicamente prosciugate devono essere trattate con  erbicidi, per avere un compromesso ambientale.

Ma alcune delle emissioni mondiali di metano semplicemente non sono sotto il diretto controllo umano.

Nisbet ha analizzato i rapporti degli isotopi di carbonio nel metano e ha riscontrato uno spostamento negli ultimi anni dal 13C più pesante, associato a fonti geologiche come i combustibili fossili, al 12C più leggero, associato a quelli biologici. Sospetta che questo mutamento sia dovuto al cambiamento climatico che alimenta la crescita delle zone umide ai tropici. Man mano che questa regione si riscalda e diventa più umida, fioriscono i batteri che producono metano.

E poi c’è la minaccia incombente contenuta nel permafrost artico. Sciogliendosi a causa del cambiamento climatico, e fornendo un ambiente umido e ricco di carbonio, potrebbe diventare sede di un gran numero di batteri che emettono metano. Gli scienziati non sono sicuri di quando ciò potrebbe accadere, ma Jackson del Global Carbon Project vorrebbe avere una polizza assicurativa contro questo rischio, proponendo di ridurre il più possibile le emissioni di metano di origine umana. Jackson propone un progetto controintuitivo: catturare il metano atmosferico e convertirlo in CO2, rilasciando nell’aria il gas serra più longevo ma meno potente. Questa ossidazione di massa del metano ridurrebbe di un sesto il potenziale di riscaldamento climatico dei gas dell’atmosfera [4]. I chimici ambientali riconoscono che la tecnologia per rimuovere il metano dall’atmosfera (tecnologia delle emissioni negative), è un obiettivo importante, ma vi sono ostacoli di base per farla funzionare. Infatti, finora, nessuno ha realizzato e testato un materiale in grado di catturare e ossidare il metano atmosferico, sebbene i calcoli teorici suggeriscano che sia possibile.

Matteo Cargnello, ingegnere chimico della Stanford University e coautore del lavoro di Jackson, afferma: “catturare il metano è una sfida più grande che catturare la CO2 a causa della sua chimica: in questo momento non esiste alcun materiale che sarebbe in grado di farlo.”

Il primo ostacolo è la concentrazione relativamente bassa, circa 2 ppm, di metano nell’atmosfera. È sufficiente per riscaldare in modo significativo il pianeta, ma abbastanza scarso per renderlo facilmente catturabile. Cargnello sostiene che invece di iniziare dall’aria aperta, le tecnologie di cattura del metano potrebbero funzionare in luoghi in cui il gas è più abbondante, come nelle stalle, nelle miniere di carbone e nelle infrastrutture dei combustibili fossili come le prese d’aria.

Ma non è ancora chiaro cosa bisogna usare per “catturare” il metano: è inerte, non polare e simmetrico, limitando i tipi di molecole che potrebbero legarsi o assorbire il gas.

Cargnello e Jackson hanno esplorato la letteratura scientifica alla ricerca di candidati che ossidano il metano e hanno determinato che le zeoliti con rame catalitico o ferro sono i materiali più promettenti. Le zeoliti sono materiali alluminosilicati porosi che possono contenere siti catalitici attivi. Ma un chimico delle zeoliti dice che non è sicuro che la termodinamica per ossidare il metano con le zeoliti funzionerà. Un tale materiale dovrebbe essere idrofobo, altrimenti l’acqua ostruirebbe tutti i siti per il metano. E tutte le zeoliti idrofobiche esistenti richiedono un grande apporto di energia per assorbire il gas serra. L’altro ostacolo è l’energia della reazione di ossidazione, ci vuole molta energia per avviarla. Mantenere basse le temperature durante la reazione di ossidazione sarebbe fondamentale, afferma un ingegnere chimico del California Institute of Technology.  In caso contrario si potrebbero generare accidentalmente ossidi di azoto, un inquinante atmosferico che può stimolare la formazione di smog e ozono.

Esistono zeoliti che possono eseguire la fase di ossidazione del metano a basse temperature, ma attivare i siti attivi catalitici contenenti rame o ferro prima che il trattamento del metano richieda temperature elevate è difficile. Inoltre, queste zeoliti tendono anche ad avere pochi siti attivi per unità di massa, il che condannerebbe il processo all’inefficienza.

Cargnello riassume il consenso chimico sull’approccio: la tecnologia delle emissioni negative per il metano è “potenzialmente incredibilmente impattante, ma le sfide sono chiare”. Queste sfide, e altre coinvolte nella mitigazione delle emissioni di metano, sono quelle che il mondo deve affrontare, sostiene Jackson. Non c’è modo di ridurre le emissioni di CO2. Ma il mondo deve fare i conti con altri gas serra per combattere il cambiamento climatico, non solo metano ma anche protossido di azoto, tra gli altri. E afferma: “Un approccio su un singolo gas non servirà a fermare i cambiamenti climatici”.

La prima settimana della 26a Conference of Parties (COP26) ha sorpreso molti osservatori di lunga data. Molti grandi nomi hanno fatto grandi annunci nei primi due giorni, a differenza degli anni precedenti, in cui le figure di più alto profilo sono arrivate verso la fine dell’incontro per fare una dichiarazione concordata. Questa volta, le promesse sono arrivate velocemente, come quella riguardante un accordo internazionale per contenere le emissioni di metano, guidato da Stati Uniti e Unione Europea, e rafforzato dalle nuove regole sul metano negli Stati Uniti [5] .

È un buon inizio, afferma il climatologo Tim Lenton: “È una leva in più che potrebbe davvero aiutarci a limitare il riscaldamento globale”.

Questa idea sta iniziando a prendere piede nei circoli politici e scientifici, sostiene Jackson: “Sono entusiasta di vedere più attenzione sul metano”.

Bibliografia

[1] R.B. Jackson et al. Increasing anthropogenic methane emissions arise equally from agricultural and fossil fuel sources., Environ. Res. Lett. 2020, 15, DOI: 10.1088/1748-9326/ab9ed2

[2] I. B. Ocko et al. Acting rapidly to deploy readily available methane mitigation measures by sector can immediately slow global warming. Environ. Res. Lett. 2021,16,

DOI: 10.1021/acs.estlett.1c00173

[3] L. Höglund-Isaksson et al. Technical potentials and costs for reducing global anthropogenic

methane emissions in the 2050 timeframe –results from the GAINS model., Environ. Res. Commun. 2020, 2, DOI: 10.1088/2515-7620/ab7457

[4] R.B. Jackson et al. Methane removal and atmospheric restoration., Nat. Sustain. 2019 2,436–438.

[5] E. Masood, J. Tollefson, COP26 climate pledges: What scientists think so far., Nature news, 5 November, 2021


[1] Il Global Carbon Project è un progetto di ricerca di Future Earth e un partner del World Climate Research Program. È stato formato per lavorare con la comunità scientifica internazionale al fine di stabilire una base di conoscenza comune e concordata per sostenere il dibattito politico e l’azione per rallentare e infine fermare l’aumento dei gas serra nell’atmosfera.

[2] l’International Institute for Applied Systems Analysis (IIASA) è un istituto di ricerca internazionale indipendente situato vicino a Vienna (Austria). Attraverso i suoi programmi e iniziative di ricerca, l’istituto conduce studi interdisciplinari orientati alla politica su questioni troppo grandi o complesse per essere risolte da un singolo paese come il cambiamento climatico, la sicurezza energetica e lo sviluppo sostenibile. I risultati delle ricerche IIASA sono messi a disposizione nei paesi di tutto il globo per aiutare a produrre politiche efficaci e basate sulla scienza che consentano di affrontare queste sfide.

Il futuro non aspetta e allora la scuola lo affida a ENI!

Margherita Venturi

e-mail: margherita.venturi@unibo.it

Sono la Presidente della Divisione di Didattica della SCI e faccio parte della redazione di questo blog; quindi, sono sensibile a tutti i temi che riguardano il rapporto della chimica con la società in senso lato (formazione insegnanti e studenti; rispetto per l’ambiente e l’umanità, sostenibilità, economia circolare, ecc.). In questo momento, presa dall’emergenza della didattica a distanza all’interno della ben più drammatica emergenza sanitaria, mi sono persa una notizia che ho visto solo qualche giorno fa e, in merito alla quale, vorrei esprimere il mio sconfortato parere condividendolo con i lettori di questo blog.

In un articolo apparso, su “La Repubblica” il 24 febbraio di quest’anno dal titolo roboante “Il futuro non aspetta”, si annuncia una serie di seminari per la formazione sulla sostenibilità e l’ambiente organizzata congiuntamente da ENI e dall’Associazione Nazionale Presidi (ANP). Ora, non sono contraria a seminari sulla sostenibilità, anzi sostengo a spada tratta che una formazione in quest’ambito, perfettamente in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030, sia importantissima per i nostri studenti, che saranno i cittadini del futuro, ma mi domando: perché ENI, dal momento che esistono tante persone esperte di sostenibilità e “moralmente pulite” alle quali l’ANP si sarebbe potuta rivolgere? E mi domando ancora: che concetto/idea/messaggio di sostenibilità può veicolare ENI?

Screenshot_2020-05-02 IL FUTURO NON ASPETTA LA FORMAZIONE ANP-DIRSCUOLA-ENI SOSTENIBILITÀ E AMBIENTE ALL’INTERNO DELL’EDUCA[...](1)

Mi pongo queste domande perché l’ENI, a mio parere, non ha l’onestà intellettuale (non mi esprimo sulla competenza scientifica) necessaria per tenere dei corsi di educazione ambientale per la scuola “seri e formativi”; sono sufficienti queste poche considerazioni (ce ne sarebbero altre) per capirlo.

  • L’ENI è uno dei maggiori gruppi al mondo che appoggia ancora oggi l’impiego di fonti energetiche fossili con un sempre più massiccio contributo alla produzione di gas serra e, se questo non bastasse, sta avviando anche nell’Artico la perforazione di pozzi per la ricerca di petrolio e gas.
  • In un’intervista rilasciata a “La Repubblica” (29/02/20) Descalzi spaccia come rivoluzionario il fatto di abbandonare l’estrazione del petrolio entro il 2050 e di ricorrere al gas naturale (“il metano ti dà una mano”); peccato che Descalzi dimentica di dire che l’uso del metano produce CO2; certo, un po’ meno rispetto agli altri combustibili fossili, ma non risolve sicuramente il problema del riscaldamento globale. Non lo risolve anche perché il metano è un potente gas serra e perdite nei gasdotti sono inevitabili. In poche parole, la rivoluzione energetica di ENI altro non è che la transizione dai combustibili fossili (petrolio) … ai combustibili fossili (metano).
  • L’ENI ha tentato di promuovere il suo biodiesel, ottenuto dall’olio di palma, come carburante “green” compiendo un palese falso e, infatti, è stata sanzionata dall’Antitrust con una multa da 5 milioni di Euro per “pubblicità ingannevole”.

Date queste premesse, mi sembra che da un punto di vista formativo ci sia poco da sperare da un Ente come ENI.

Screenshot_2020-05-02 Pubblicità ingannevole Il green diesel fa male a clima e ambiente Antitrust multa ENI per 5 milioni d[...]

https://valori.it/diesel-green-eni-multa-milionaria-antitrust/

Aggiungo anche che, a volte, ho l’impressione che l’educazione ambientale venga sentita come un qualcosa capitato sulla testa della scuola: non si sa perché e neanche dove inserirla nel curriculum scolastico. Allora basta fare poche e veloci azioni di facciata che impegnino il meno possibile.

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2019/08/23/il-metano-rema-contro/

Nulla è più sbagliato, perché sui concetti di sostenibilità e di economia circolare si dovrà basare lo sviluppo futuro, se vogliamo che l’umanità abbia qualche speranza di sopravvivere. Anche la pandemia del corona virus, che stiamo faticosamente combattendo, ha messo a nudo tutti i limiti e le distorsioni del nostro attuale modo di vivere. Allora è estremamente importante fare educazione ambientale a scuola, per impartire i giusti insegnamenti scientifici, etici e sociali agli studenti nelle mani dei quali lasceremo il pianeta. Come e a chi affidare questo fondamentale compito? Secondo me e in accordo con quanto aveva previsto l’ex ministro Fioramonti, instituendo insegnamenti ad hoc, affidati all’intero corpo docente. Per affrontare un tema così complesso come quello dell’educazione ambientale, c’è infatti bisogno di competenze e conoscenze che riguardano tutti i campi del sapere e che vanno, quindi, dall’ambito scientifico e quello umanistico. Ovviamente, il corpo docente deve essere formato bene e seriamente.

https://www.facebook.com/divisionedidatticachimica/

Screenshot_2020-05-02 Home didattica Società Chimica ItalianaLa Divisione di Didattica della Chimica, con i suoi iscritti, è pronta a dare una mano: se la scuola chiama, noi rispondiamo. Ad esempio, in questo momento di emergenza didattica, per supportare i docenti che si sono dovuti attrezzare dalla sera alla mattina per fare lezioni a distanza, la Divisione di Didattica ha istituito un Tavolo Tecnico dal titolo “Insegnare durante l’emergenza Covid-19: una grande sfida per i docenti”. L’obiettivo di questo tavolo è quello di raccogliere materiale in grado di aiutare i docenti di chimica (e in genere di discipline scientifiche) che, oltre al problema di fare lezioni on-line efficaci, hanno anche quello di far entrare, ora purtroppo solo virtualmente, gli studenti in laboratorio.

Quindi la Divisione c’è e la scuola, invece di rivolgersi per le sue necessità ad enti esterni spesso inadeguati, basta che mi contatti.

ENI e dintorni

Vincenzo Balzani, Nicola Armaroli e Claudio Della Volpe

Un amico ci ha segnalato l’articolo intitolato ENI e il boomerang delle rinnovabili per l’Italia, pubblicato il 2 gennaio scorso su ilSussidiario.net. L’articolo inizia criticando chi sostiene che il modello di business di ENI, basato su esplorazione e sviluppo di pozzi di gas e petrolio, sia ormai sorpassato. Poi aggiunge che, se ENI abbandonasse la propria storia (fossile) per dedicarsi alle energie rinnovabili, sarebbe un suicidio non solo per l’industria nazionale, ma per il sistema Paese. Noi sosteniamo esattamente il contrario: se ENI non cambia radicalmente il proprio modello di business e non si converte alle energie rinnovabili si autocondanna al fallimento, purtroppo con conseguenze molto gravi per i suoi azionisti e per l’intera economia italiana.

ilSussidiario.net ha come obiettivo “tenere costantemente legati tra loro fatti e approfondimenti: le notizie, che danno un resoconto dei fatti accaduti, sono il punto di partenza per gli approfondimenti che, viceversa, non possono essere slegati dalle cose che accadono“. Siamo perfettamente d’accordo con questa “filosofia” giornalistica. Non ci pare, però, che l’articolo e, più in generale, il modo in cui ENI comunica con gli italiani attraverso le sue numerose e costosissime campagne pubblicitarie espongano e approfondiscano i fatti correttamente.

L’articolo non è corretto perché non parte da fatti, numeri e circostanze, ma da pregiudizi e luoghi comuni privi di fondamento tecnico ed economico. Ci limitiamo a segnalarne alcuni. L’autore scrive: “Facciamo finta di non sapere che gli italiani pagano più di 10 miliardi di euro all’anno per incentivi alle rinnovabili che rimangono più costose di quelle tradizionali.” Evidentemente non ha letto il Piano Nazionale Integrato per Energia e Clima (PNIEC) pubblicato dal governo il 31 dicembre 2018, nel quale viene riportato (pagina 209) che un’indagine del Ministero dell’Ambiente ha individuato 57 sussidi vigenti nel settore energetico che hanno un impatto complessivo di 30,6 miliardi di €. Di questi, 16,9 miliardi sono costituiti da sovvenzioni ai combustibili fossili, mentre i sussidi per fonti a basso impatto ambientale ammontano a 13,7 miliardi (ibidem, p. 215). Dunque, l’uso dei combustibili fossili, responsabili del cambiamento climatico e di pesanti danni alla salute umana, è ancora oggi incentivato in Italia più delle energie rinnovabili, che possono invece salvarci da queste sciagure. Giova ricordare che ENI ha sempre esercitato una fortissima influenza nella definizione della politica energetica italiana e forse non è un caso che gran parte del PNIEC sembra scritto sotto dettatura di portatori di interesse del settore Oil & Gas. Vale anche la pena di ricordare che ENI è, dopo tutto, dal 1992 un’azienda privata, quotata in borsa sul mercato internazionale, e che il 30% delle azioni è detenuto dalla Cassa Depositi e Prestiti con una clausola denominata “golden” che dovrebbe permettere di controllare le operazioni della società.

L’articolo continua con una serie di banalità: “Gli eventi atmosferici estremi e inusuali non sono ben tollerati dalle pale eoliche perché venti troppo forti obbligano il loro spegnimento”. Avrebbe dovuto premettere che gli eventi atmosferici estremi, che (rarissimamente) costringono il blocco di pale eoliche, sono spesso causati dal cambiamento climatico derivante primariamente dall’uso dei combustibili fossili. L’autore prosegue dicendo che il tabù che bisognerebbe rompere è quello del nucleare, che produce energia pulita e facilmente scalabile. “Peccato”, aggiunge “che nessuno vuol sentire parlare di nucleare, tanto più se vicino a casa o nella propria regione”. Farebbe bene a chiedersi perché la Svizzera ha avviato la chiusura definitiva dei suoi impianti due mesi fa e ha deciso di abbandonare per sempre questa opzione. L’autore scrive inoltre che “lo stato dell’arte attuale delle rinnovabili non è neanche lontanamente compatibile con le esigenze di un sistema industriale”. Forse non sa che la fabbrica di batterie della Tesla in Nevada utilizza in gran parte energie rinnovabili e che la gigantesca sede della Apple in California usa l’energia dei pannelli fotovoltaici che ne ricoprono i tetti. L’autore scade nell’imbarazzante quando si scaglia contro il fotovoltaico affermando che “Il problema dello smaltimento di vecchi pannelli solari e vecchie batterie oggi è “risolto” con navi dirette verso l’Africa e caricate di roba che verrà sotterrata senza che il consumatore europeo venga disturbato”. Forse non sa che per questo tipo di rifiuti vale la cosiddetta “responsabilità estesa del produttore” per cui, al termine della loro lunghissima vita, dovranno essere presi in carico dai fabbricanti stessi. Giova poi rimarcare che i pannelli fotovoltaici possono essere quasi totalmente riciclati, così come le batterie agli ioni di litio. Alla fine insiste: “Le rinnovabili non sono una soluzione dell’oggi e nemmeno del domani, soprattutto senza nucleare”. Forse bisognerebbe informarlo che nel 2019 gli impianti fotovoltaici ed eolici nel mondo hanno prodotto una quantità di elettricità pari a quella di 300 centrali nucleari da 1000 MW, che Germania, Svizzera, Belgio e la stessa Francia stanno pianificando l’uscita dal nucleare e che una delle ragioni principali del fallimento del nucleare civile è proprio la difficoltà (o, meglio, l’impossibilità) di mettere in sicurezza le scorie nucleari. Ricordiamo anche che i danni economici del disastro di Fukushima ammontano attualmente ad almeno 300 miliardi di dollari, una cifra che implicherebbe il fallimento economico di quasi tutte le nazioni del mondo. Non vi è nessuno stato democratico che possa assumersi un rischio di questo tipo in caso di incidente ad un solo impianto industriale. Di fatto, il nucleare giapponese è in liquidazione.

L’autore dell’articolo parla anche della “storica e luminosa storia di ENI”. Aspettiamo che in un prossimo articolo ci racconti non la storia, ma l’attualità di ENI. In particolare, la campagna pubblicitaria di ENI che spesso è incomprensibile e a volte ingannevole e come tale condannata e multata dall’Antitrust.

Pubblicità ingannevole per Eni Diesel +, i Consumatori: no al greenwashing

Nei messaggi pubblicitari ENI ha utilizzato in maniera suggestiva la denominazione “Green Diesel”, le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri slogan di tutela dell’ambiente (“aiuta a proteggere l’ambiente; “usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”), per un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato “green”, verde.

La martellante pubblicità di ENI sui giornali e anche in TV continua a meravigliare, non credo solo noi. Dopo averci assicurato che il carburante in Italia si otterrà anche dalle bucce delle mele (Corriere della Sera, 13 maggio 2017), ENI ci informa che ”trasforma gli oli esausti di frittura in componente per produrre biocarburanti avanzati” (La Repubblica, 22 ottobre 2019). Aspettiamo di sapere quante mele dovremo sbucciare e quanti pesci dovremo friggere. Poi ENI (La Repubblica, 16 novembre 2019) ha puntato sull’Idrogeno, ”… il tutto fare di un futuro più sostenibile. Anche se è presente in abbondanza in natura, l’idrogeno è sempre combinato con altre sostanze (a meno di andare a prenderlo sul Sole o sulle stelle). Per utilizzarlo occorre quindi estrarlo da qualcos’altro, dall’acqua o dal metano, dai residui organici o dall’aria”. Parole testuali. In attesa di sapere da ENI come ottenere idrogeno dall’aria, dove è presente con percentuale di 0.5 ppmv, vorremmo sottolineare che ottenere idrogeno dall’acqua per elettrolisi usando energia elettrica rinnovabile (pannelli fotovoltaici, pale eoliche) non è affatto la stessa cosa che ottenerlo dal metano. Ma forse quello che interessa a ENI è proprio estrarre idrogeno dal metano, un’opzione tecnicamente obsoleta e ecologicamente insostenibile.

Dopo i consensi raccolti fra i giovani da Greta Thunberg, ENI è scesa in campo anche in questa direzione. Ed ecco pagine e pagine pubblicitarie dove compaiono belle figure di giovani: mentre ENI “trasforma gli oli esausti di frittura in componente per produrre biocarburanti avanzati”, “Chiara, usa l’auto il meno possibile (La Repubblica, 28 luglio 2019), e mentre “Silvia è sempre attenta a non sprecare acqua” (La Repubblica, 25 luglio 2019), “ENI vuole trasformare il moto ondoso in energia elettrica”. Quest’ultima iniziativa è interessante da approfondire; si tratta di un brevetto sviluppato insieme a polito denominato ISWEC, un dispositivo galleggiante che trasforma il moto alternativo ed oscillante dell’onda in una rotazione; l’efficienza è bassa ma anche la manutenzione; fin qui tutto bene; tuttavia ENI lo usa o vorrebbe usarlo per fornire energia alle zone di estrazione marina per il metano; ossia usare le rinnovabili per estrarre più fossili! Che cosa è questo se non green washing?

Un’altra lunga serie delle pubblicità ENI esalta i benefici della sua presenza in Pakistan (La Repubblica, 13 agosto 2017), Congo (La Repubblica, 10 settembre 2017), Angola (La Repubblica, 8 giugno 2019), Nigeria (La Repubblica, 22 giugno 2019), Mozambico (La Repubblica, 21 settembre 2019), e Ghana (La Repubblica, 4 gennaio 2020). In tutti questi paesi ENI continua a trivellare pozzi di petrolio e di gas e allo stesso tempo si vanta di aiutare la popolazione costruendo strade e scuole. Ma la realtà dei fatti sembra purtroppo molto diversa dalle belle parole presenti sul suo sito. l’ENI è stata più volte accusata dalla comunità nigeriana per aver contribuito all’inquinamento nel Delta del Niger, ma è riuscita a uscire quasi sempre indenne anche grazie agli accordi con il personale amministrativo del Paese. Dal verbale dell’Assemblea Ordinaria del 14 maggio 2019, risulta che dirigenti di ENI siano stati accusati da alcuni azionisti di corruzione e transazioni poco chiare, di società fittizie e compravendite di maxi giacimenti in varie parti dell’Africa, in particolare in Nigeria e in Congo-Brazzaville.

Una intera pagina di pubblicità apparsa sui giornali il 18 gennaio scorso (ad esempio, La Repubblica) intitolata “Le strade della ricostruzione” riporta questo testo: “Due cicloni di enorme potenza hanno colpito il Mozambico in meno di due mesi, seguiti da settimane di pioggia torrenziale. Un bilancio incalcolabile in vite umane, migliaia di case abbattute, infrastrutture distrutte in 7 diverse province, oltre 700.000 ettari di coltivazioni danneggiate. La strada costiera, che dall’aeroporto di Pemba porta al centro della città e al porto, era totalmente distrutta, racconta uno degli Operations manager di ENI, che a Pemba ha una base logistica. Un danno che bloccava l’economia della cittadina, rendeva difficile la vita quotidiana dei suoi abitanti e impossibile ogni attività portuale e commerciale […]”.

E, come accade in tutte le pagine pubblicitarie di ENI, il discorso è interrotto con […] e c’è l’esplicito invito ad andare sul sito eniday.com per legger la continuazione, per saperne di più. Ma che bisogno c’è di saperne di più? La descrizione che ENI ha pubblicato sui giornali e che abbiamo riportato integralmente sopra è esattamente quello che sta succedendo e che succederà sempre più a causa dell’uso e abuso di quei combustibili fossili che ENI si ostina a cercare, anche nello stesso Mozambico. Secondo gli scienziati le emissioni totali di CO2 dal 2011 al 2050 non devono superare 1100 Gt. Questo equivale a dire che devono rimanere sottoterra, inutilizzate (stranded), il 30% delle riserve di petrolio, metà di quelle di gas e l’80% di quelle di carbone.

Quindi ENI si comporta in modo difforme dagli accordi di Parigi, non facilita i deboli tentativi del governo di mettere in atto la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, non si preoccupa dell’amara costatazione del segretario dell’ONU (il mondo è fuori rotta) e dei severi moniti degli scienziati riguardo il cambiamento climatico. È proprio vero quello che ha scritto la Stampa il 25 novembre 2019: Energia: il nuovo è già presente, ma il passato non vuole passare”.

Ma c’è anche una buona notizia che forse l’autore dell’articolo su ilsussidiario.net non conosce: BlackRock, il fund manager più grande del mondo (7 mila miliardi di dollari), avendo perso 90 miliardi negli ultimi 10 anni in investimenti sulle fonti fossili, si è unito a Climate Action 100+, il gruppo di oltre 370 investitori globali che attrae investimenti nel settore delle tecnologie energetiche rinnovabili. Non sarà che chi investe nei fossili incomincia a sentire odore di bruciato? In Italia vogliamo davvero continuare a far finta di nulla?

Il metano rema contro.

Claudio Della Volpe

Questo post esce in contemporanea sul blog di ASPO-Italia

Abbiamo ripetutamente discusso la questione se il metano sia o meno un vero aiuto per la transizione energetica a causa dei problemi climatici, ossia se tenuto conto di tutto il ciclo produttivo la sostituzione del metano a petrolio e carbone possa considerarsi un oggettivo passo avanti nella direzione della riduzione dell’effetto serra di origine antropica.

Vi ricordo qui alcuni post che ne parlavano:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/06/09/la-pubblicita-di-eni-il-metano-ci-da-una-mano-o-no/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2019/03/15/commenti-alla-proposta-di-piano-nazionale-integrato-per-lenergia-e-il-clima/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2019/03/04/lambiente-al-portico-della-pace/

Ed abbiamo concluso che le cose non stanno così o almeno non in modo semplice ed automatico in quanto dato che il metano è di per se un gas serra molto più potente del diossido di carbonio specie su tempi brevi (oltre 80 volte nei primi 20 anni dalla dispersione) e dato che il ciclo produttivo complessivo si calcola ne perda in atmosfera il 2% (nella media mondiale), la sostituzione del metano al petrolio o perfino al carbone può rivelarsi inutile o controproducente; ha molto più senso sostituire direttamente alla generazione fossile una generazione rinnovabile dotata di accumulo.

Finora tuttavia mancava una analisi diretta degli effetti climatici della corsa verso il metano che si è scatenata da alcuni anni a questa parte, specie con il fracking, ossia con lo sfruttamento di quei giacimenti non tradizionali ma diffusi in alcune parti del mondo e che sono localizzati in modo tale che occorre rompere le rocce per estrarre il metano.

Un recente lavoro di R. Howarth pubblicato su Biogeosciences, una delle riviste internazionali più quotate (Biogeosciences, 16, 3033–3046, 2019 https://doi.org/10.5194/bg-16-3033-2019
) chiarisce la questione dell’effetto del metano derivante da attività estrattiva e più in generale dal ciclo produttivo globale, con conclusioni molto pesanti per questo tipo di attività.

Il lavoro è scaricabile da https://www.biogeosciences.net/16/3033/2019/

Come vedremo l’interesse nasce dalle conclusioni ma anche dai metodi sperimentali usati, legati alla analisi isotopica e dunque dalla individuazione dell’origine del metano un problema questo di cui ci siamo occupati altre volte.

Prima di tutto partiamo dai dati sperimentali, che erano già conosciuti da qualche anno e di cui si era tentata una analisi varie volte; sono riportati nel grafico qui sotto ed erano stati publicati in Schaefer, H., Mikaloff-Fletcher, S. E., Veidt, C., Lassey, K. R., Brailsford, G. W., Bromley, T. M., Dlubokencky, E. J., Michel, S. E., Miller, J. B., Levin, I., Lowe, D. C., Martin, R. J., Vaugn, B. H., and White, J. W. C.: A 21st century shift from fossil-fuel to biogenic methane emissions indicated by 13 CH4 , Science, 352, 80–84, https://doi.org/10.1126/science.aad2705, 2016.

(non scaricabile gratuitamente)

Nell’immagine qui sopra i dati di partenza; nel primo grafico la variazione della concentrazione atmosferica del metano che come si vede negli ultimi 35 anni è costantemente aumentata sia pure con un plateau fra 2000 e 2005. Tuttavia la cosa interessante e di cui parleremo oggi è il contrasto con la variazione della composizione isotopica del metano espressa dal secondo grafico nel medesimo periodo. Il grafico riposta in ordinata una quantità denominata δ13C che è definita come segue:

Ossia essa è il rapporto dei rapporti fra le moli dei due isotopi stabili del carbonio nel campione e in un campione standard, meno 1 e moltiplicata per 1000.

Il campione standard è quello di Belemnitella estratto da una specifica formazione geologica, scelto per la sua composizione estremamente ricca in 13C; questo standard si è consumato nel tempo ed è stato poi sostituito da altri ma conservando la continuità di misura.

Il rapporto a sinistra sarà di solito inferiore ad 1 ed avremo dunque di solito dei valori negativi, dell’ordine delle decine, che diventeranno meno negativi quando la frazione dell’isotopo 13 aumenterà rispetto al 12. Se testate un campione di Belemnitella ovviamente avrete numeratore e denominatore uguali con risultato zero. Dunque più negativo vuol dire più lontano dalla Belemnitella, ossia con meno 13C, mentre un valore positivo significherebbe con più 13C dello standard.

I due isotopi sono entrambi stabili (a differenza del 14C) e la differenza di composizione dipende da quello che i chimici chiamano effetto isotopico, ossia dato che i due atomi hanno masse atomiche diverse, il più leggero è anche il più veloce nelle reazioni; la differenza è di circa l’8% ed è dunque significativa.

Per esempio come già notato (in un commento) le piante C3 e C4 ossia le normali e le grasse hanno una composizione isotopica diversa con diverso δ13C. Il grafico seguente mostra il δ13C per diversi tipi di carbonio.

http://wwwchem.uwimona.edu.jm/courses/CHEM2402/Crime/GC_IRMS.html

Nel caso della CO2 il δ13C varia regolarmente durante l’anno come mostrato nel grafico seguente che rappresenta i dati raccolti a Mauna Loa.

I combustibili fossili aggiungono all’atmosfera CO2 che contiene meno 13C. Questa aggiunta è maggiore della quantità di CO2 rimossa dalla biosfera. Il risultato è che il δ13C scende piano piano in corrispondenza dell’aumento di concentrazione della CO2.

L’analisi condotta sui dati del metano è sostanzialmente parallela, ma i valori sono più bassi ancora perché partono già da valori più bassi.

I dati del metano riportati nel grafico di Schaefer prima crescono con la quantità di metano, dunque il metano mentre aumenta in quantità si arricchisce dell’isotopo 13, poi invece dopo il plateau del 2000-2005 mentre il metano continua ad aumentare la quota di 13C diminuisce. Come mai?

I dati sono stati analizzati da almeno due lavori importanti nel 2016 uno pubblicato su Nature e l’altro su Science; quello su Nature è

Schwietzke, S., Sherwood, O. A., Bruhwiler, L. M. P., Miller, J. B., Etiiope, G., Dlugokencky, E. J., Michel, S. E., Arling, V. A., Vaughn, B. H., White, J. W. C., and Tans, P. P.: Upward revision of global fossil fuel methane emissions based on isotope database, Nature, 538, 88–91, https://doi.org/10.1038/nature19797, 2016.

mentre quello su Science lo abbiamo già citato prima.

Entrambi hanno concluso con riguardo al metano che “fossil- fuel emissions have likely decreased during this century and that biogenic emissions are the probable cause of any recent increase in global methane emissions.

Per comprendere bene la frase occorre rifarsi alla definizione delle tre principali componenti di metano emesso:

Biogenico: zone umide, risaie, mucche, discariche

Termogenico: derivante da componenti spontanee dei depositi di combustibili fossili oppure da esplorazione, produzione e attività di miniera.

Pirogenico: risultato di combustione incompleta di combustibili sia naturali che fossili e anche di biocombustibili.

Come si vede c’è un certo intreccio del ruolo antropogenico nelle varie componenti. Dunque la frase del lavoro citato NON esclude l’attività umana; tuttavia tutti e due i lavori non comprendono una analisi dettagliata delle componenti fossili che derivano dalle forme più recenti di estrazione, ossia lo shale gas e lo shale oil; definibili come quelle sorgenti fossili non tradizionali, che invece di essere intrappolate da una zona non pervia ma in ambiti porosi in cui fluiscono liberamente, sono intrappolate DENTRO la roccia e dunque occorre fratturare la roccia per estrarre sia il gas che il petrolio. In assenza di commenti sulla questione shale essi attribuiscono la riduzione dell’isotopo 13 a fonti biogeniche.

Howarth ha invece modellato esplicitamente il contributo del metano provenente dallo shale considerando la letteratura tecnica a riguardo ed inserendo in un modello più completo l’analisi delle emissioni.

Dalla tabella soprastante si vede che i δ13C dei fossili sono simili ma non identici (la punta indica la media). Un modello che consideri le quantità estratte di shale che hanno consentito all’industria estrattiva di superare i valori totali del passato consentono anche di calcolare il contributo a questa grandezza isotopica. E questo è il contenuto di calcolo modellistico del lavoro. Su questa base la conclusione è radicalmente diversa dagli altri due lavori:

We conclude that increased methane emissions from fossil fuels likely exceed those from biogenic sources over the past decade (since 2007). The increase in emissions from shale gas (perhaps in combination with those from shale oil) makes up more than half of the total increased fossil-fuel emissions. That is, the commercialization of shale gas and oil in the 21st century has dramatically increased global methane emissions.

Dunque Howarth dice: attenzione se includiamo le sorgenti shale e il loro contributo con ipotesi semplici ed essenziali la valutazione si rovescia: sono i nuovi fossili a far ridurre la concentrazione di isotopo 13.

Ci sono due considerazioni tecniche che si possono fare a partire da questa conclusione:

1) si parla spesso di “perdite” ma in realtà tali presunte perdite non sono fuggitive, ma rappresentano un modo di funzionare dell’industria estrattiva, di trasporto e di trattamento che sottovaluta questo problema e ci sarebbero in effetti le possibilità tecniche di modificare la situazione, ovviamente con un congruo aggravio dei costi che farebbero così evidenziare come in effetti l’EROEI di tali risorse è molto inferiore a quello stimato senza tali considerazioni. Perfino il semplice deposito di gas naturale può rivelarsi pericoloso climaticamente, come è avvenuto nel caso californiano di Aliso Canyon di cui abbiamo parlato sul blog.

2) nell’ottobre 2018 l’IPCC ha pubblicato un report legato alle conclusioni della COP21 di Parigi nel quale ha fra l’altro notato che il sistema climatico appare reagire più prontamente a riduzioni della componente metano rispetto alla componente CO2, e che tale fenomeno offre dunque la possibilità di avere effetti climatici più rapidi in entrambe le direzioni.

Sulla base dei calcoli di Howarth si può concludere che l’uso del metano non solo NON rappresenta quello che alcuni (compresa l’ENI e parecchi ambienti “ambientalisti”) ritengono, ossia un ponte verso le vere rinnovabili; al contrario l’uso del metano è un rischio ormai chiaro di peggiorare le cose e deve essere evitato con tutte le forze; ovviamente a partire dalla costruzione di inutili infrastrutture relative sia alla sua estrazione che al suo trasporto (come è il caso della TAP).

Due lettere a LaRepubblica

Vincenzo Balzani

Con il permesso del’autore riproduciamo qui due lettere inviate recentemente a La Repubblica da Vincenzo Balzani; gli argomenti sono quelli tipici del nostro blog: energia, ambiente, il nostro rapporto con queste cose, il ruolo della Chimica. Non sono state pubblicate e così rimediamo noi nel nostro piccolo.

Eni e noi, abitanti della Terra

Caro Direttore,

ho letto su Repubblica del 16 giugno l’appello sulla Rivoluzione Energetica dell’A.D. di ENI Claudio Descalzi. Quanto è scritto nella prima parte dell’articolo è completamente condivisibile: “Clima ed energia sono i fattori su cui si gioca il futuro, …. la transizione energetica deve essere guidata dalla protezione dell’ambiente, … siamo lontani dal contenere l’aumento delle temperature al di sotto del limite dei 2°C fissato dalla Cop21 di Parigi”.

Da queste premesse si dovrebbe trarre, come scrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, la conclusione che “I combustibili fossili devono essere sostituiti senza indugio …”. Descalzi si guarda bene dal dirlo, confermando così quanto affermato dal papa stesso: ”… ma la politica e l’industria rispondono con lentezza, lontane dall’essere all’altezza delle sfide” (165)”.

Descalzi informa che Eni ha abbattuto la componente carbonica della sua attività, ma non dice che si tratta di una goccia nel mare di CO2 che Eni direttamente o indirettamente genera con i quasi due milioni di barili di petrolio prodotti al giorno! Qua e là Descalzi cita le energie rinnovabili, ma come ha affermato in molte altre occasioni reputa che non siano “mature” e sostiene che l’unica via per salvare il clima è utilizzare il metano come fonte energetica “ponte”. In realtà l’energia elettrica prodotta dalle energie rinnovabili è già oggi competitiva sul piano economico, anche senza considerare i problemi sanitari e climatici creati dai combustibili fossili. Le energie rinnovabili, insomma, sono già disponibili e pronte all’uso: quello che manca è la volontà di utilizzarle, a causa degli enormi interessi economici e di potere che ne verrebbero colpiti.

Non serve ricorrere al metano come energia “ponte”, anche perché il metano non è affatto innocente riguardo i cambiamenti clmatici. Descalzi dovrebbe saperlo, ma non lo dice. E’ vero, infatti, che a parità di energia prodotta la quantità di CO2 generata dal metano è inferiore di circa il 25% di quella generata dal petrolio, ma è anche vero che il metano rilasciato in atmosfera è un gas serra 72 volte più potente di CO2 quando l’effetto è misurato su un arco di 20 anni (25 volte più potente quando misurato su 100 anni). Poiché nella lunga filiera del metano si stima ci siano perdite di almeno il 3% rispetto alla quantità di gas usato, è chiaro che estendendo l’uso del metano non si combatte affatto il cambiamento climatico.

Nel campo dei trasporti, oltre che sul metano Eni fa molto affidamento sui biocombustibili, in netta contraddizione con la realtà dei fatti. Studi scientifici dimostrano che l’efficienza di conversione dei fotoni del sole in energia meccanica delle ruote di un’automobile (sun-to-wheels efficiency) è almeno 50 volte superiore per la filiera che dal fotovoltaico porta alle auto elettriche rispetto alla filiera che dalle biomasse porta alle auto alimentate da biocombusibili. In effetti, quello che gli esperti prevedono non è una sostituzione significativa dei combustibili fossili con biocombustibili, ma una rapida, dirompente diffusione delle auto elettriche. La cosa non meraviglia perché i motori elettrici non inquinano, non producono CO2, sono quattro volte più efficienti dei motori a combustione interna e sono molto più facili da riparare e da mantenere.

In Italia, quindi, non servono altre bioraffinerie alimentate da olio di palma proveniente dalla Malesia, ma fabbriche di pannelli fotovoltaici, batterie, auto elettriche e colonnine per la ricarica.

Infine, Descalzi lega lo sviluppo dell’Africa, oltre che all’enorme potenziale di energia solare ed eolica, anche alla presenza, in quel continente, di enormi riserve di combustibili fossili, molte delle quali scoperte da Eni, che ha anche l’obiettivo di scoprire altri 2 miliardi di barili di combustibili fossili perforando 115 pozzi in 25 paesi. In base all’accordo di Parigi, però, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili già note dovrà rimanere nel sottosuolo. Se quell’accordo sarà osservato, Eni avrà problemi economici. Se invece la politica permetterà di usare tutte le riserve, i problemi, purtroppo, li avremo noi, abitanti della Terra.

Vincenzo Balzani, Professore Emerito, Università di Bologna

 

Lettera a Repubblica 26 giugno 2018

Egregio direttore Calabresi,

Apprendo da Repubblica di oggi che nel “pacchetto formazione” concesso agli operai della Lamborghini in orario di lavoro retribuito sono state inserite Lezioni sulla Costituzione. E’ certamente un’ottima iniziativa.

Credo però che sarebbe necessario ricordare a tutti, cominciando dai politici che hanno salutato con entusiasmo la produzione del nuovo SUV Urus come straordinario esempio di innovazione che:

  • nei motori a scoppio, usati da più di un secolo, non c’é più nulla da innovare; se si vuol fare

innovazione nel campo delle automobili, oggi la si può fare solo sulle auto elettriche.

  • con la sua mostruosa potenza di 600 CV e gli alti consumi di combustibili fossili, il SUV Lamborghini è un emblema del consumismo dal quale le vere innovazioni dovrebbero farci uscire;
  • col suo prezzo di 250.000 euro, Urus è l’icona delle disuguaglianze che, a parole, tutti dicono di voler abbattere.

Non sarebbe male, allora, inserire nel “pacchetto formazione” anche, un paio di frasi dell’enclica di Papa Francesco:

  • Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le capacità del pianeta; lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi”.
  • Ci dovrebbero indignare le enormi disuguaglianze che esistono tra di Non ci accorgiamo più che alcuni si trascinano in una miseria degradante, mentre altri non sanno nemmeno che farsene di ciò che possiedono”.

Cordiali saluti,

Vincenzo Balzani, Professore emerito, Università di Bologna

 

La Metanogenesi catalitica sui pianeti rocciosi

Diego Tesauro.

La maggior parte dell’opinione pubblica conosce il metano come fonte energetica, ma nell’universo sicuramente ha una funzione ancora più importante.

E’ infatti il più semplice composto organico sul quale sono basate diverse ipotesi di meccanismi di reazione per la formazione di molecole organiche complesse e delle biomolecole.

Inoltre Il metano è uno dei composti più diffusi dell’universo, come intuitivamente è logico supporre, considerando che la maggior parte dell’universo è costituito da idrogeno (attualmente circa il 74%) ed il carbonio, prodotto nei nuclei delle stelle giganti rosse per fusione sintetica di 3 nuclei di elio, è il quarto elemento per abbondanza (4.6 %) dopo elio ed ossigeno.

Si forma nelle zone periferiche dei sistemi planetari e infatti lo ritroviamo nei giganti gassosi del sistema solare da Giove a Saturno, ma è particolarmente abbondante nelle atmosfere di Urano e Nettuno. Non è presente invece nelle atmosfere dei pianeti terrestri per la loro vicinanza al sole in quanto la radiazione solare, nelle prime fasi dell’evoluzione del sistema planetario, ha energia sufficiente per rompere i legami chimici come il legame C-H. Allora dove e perché lo ritroviamo nelle zone interne del nostro sistema planetario?

Cratere Gale dove opera il rover Curiosity dal 2012

Sulla Terra attualmente il metano ha pressoché totale origine biologica derivando da processi di digestione anaerobica delle sostanze organiche da parte dei batteri. Ma sugli altri pianeti rocciosi e in particolare su Marte, attualmente c’è metano? Recenti misurazioni in situ di CH4 su Marte nel cratere Gale1 da parte del rover della NASA Curiosity ne ha rilevato una concentrazione di fondo di ~ 0,7 parti per miliardo (ppb) ma ha anche riportato variazioni significative nella sua concentrazione, con picchi dieci volte superiori rilevati in quattro occasioni per un periodo di due mesi legata alla stagionalità (Marte a causa dell’inclinazione dell’asse di rotazione sul piano orbitale di 25° presenta l’alternanza delle stagioni nei due emisferi come la Terra).

Questa scoperta induce ad ipotizzare una possibile sintesi abiotica di CH4 come gas riducente in un’atmosfera ricca di CO2 naturale, come è l’attuale atmosfera marziana e come lo era la Terra in passato. Quindi processi attualmente in corso su Marte potrebbero essere stati attivi sulla Terra primordiale.

Entrambi i pianeti hanno la possibilità di utilizzare acqua come fonte di idrogeno e furono esposti nelle prime fasi ad un significativo flusso di radiazione ultravioletta. Basandosi su modelli fotochimici e sull’attuale comprensione della composizione dell’atmosfera marziana, il metano ha una vita chimica di 300-600 anni, che è, su scala geologica, un periodo molto, ma molto breve. Ciò implica che ci deve essere una fonte attualmente attiva su Marte. Hu et al.2 hanno formulato tre ipotesi sull’origine del metano su Marte:

  • La regolite nel cratere Gale assorbe CH4 quando è secca e rilascia CH4 nella deliquescenza durante l’inverno.
  • I microrganismi convertono la materia organica nel terreno in CH4. Tuttavia, questo scenario suppone l’esistenza di una vita esistente su Marte, e fino ad oggi non è stata trovato alcun indizio.
  • Le falde acquifere sotterranee profonde generano emissioni esplosive di CH4.

A queste ipotesi si è aggiunta una quarta formulata da Shkrob et al. 3 basata su una complessa chimica del carbonio governata dalla radiazione ultravioletta che porta alla formazione di metano e monossido di carbonio dalla riduzione del biossido di carbonio. Questa ipotesi è stata ulteriormente sviluppata recentemente in un articolo pubblicato su Nature Astronomy4 mediante esperimenti condotti in laboratorio simulando condizioni presenti su Marte o sulla Terra primordiale.

Il rover Curiosity su Marte. Lanciato da Cape Canaveral il 26 novembre 2011 è « ammartato » il 6 agosto 2012

Pertanto Marte potrebbe essere contemporaneamente un “fotoreattore” di dimensioni planetarie che decompone molecole di materia prima carbossilata che producono CH4 e un pianeta “fotosintetico”, in cui il metano viene generato dal biossido di carbonio su superfici catalitiche.
La sintesi di CH4 da CO2 è influenzata dalle quantità di H2O e di CO2 adsorbite sulle superficie fotocataliche del catalizzatore minerale in presenza di una sufficiente insolazione. Questo modello può essere valido anche per la Terra primordiale, per Titano, il più grande satellite di Saturno ed unico ad essere dotato di un’atmosfera ampiamente costituita da metano (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/01/25/chimica-da-titano/ed per altri pianeti di tipo roccioso presenti nell’universo.

Marte infatti attualmente non è schermato come la Terra contro la radiazione ultravioletta (come è noto il nostro pianeta possiede lo schermo dello strato dell’ozono, non presente su Marte) e quindi può essere considerato un laboratorio per questo tipo di reazioni. Questi studi hanno permesso di stabilire due importanti aspetti: il ruolo catalitico del minerale anatasio (un minerale costituito da TiO2) e della montmorillonite (un silicato di formula (Na,Ca)0,33(Al,Mg)2(Si4O10)(OH)2.n H2O), entrambi presenti su Marte, anche se al momento non è stata ancora determinata la loro quantità, ma anche sulla Terra. In particolare il biossido di titanio presente nell’anatasio svolge il ruolo di fotocatalizzatore ed un meccanismo di reazione attraverso il gliossale dimostrerebbe la contemporanea formazione in uguale quantità di CO e CH4 mentre per l’altro catalizzatore, non riscontrando la stessa quantità dei due gas, potrebbe intervenire un diverso meccanismo o un effetto dei radicali ossidrilici provenienti nell’acqua intrinsecamente in esso contenuta oppure una fotolisi del metano sulla sua superficie.

La montmorillonite è un minerale, un fillosilicato di alluminio e magnesio. Il nome deriva dalla località di Montmorillon, dipartimento della Vienne, in Francia, dove fu per la prima volta identificato.

Ma anche l’adsorbimento dell’acqua gioca un ruolo decisivo e spiegherebbe la stagionalità delle emissioni di metano che aumentano dalla primavera marziana fino alla fine dell’autunno. Altro aspetto fondamentale per questa ipotesi sintetica è il pH. In ambiente basico o neutro sulla superficie del minerale vengono legati degli ioni ossidrili (OH), mentre l’ambiente acido è in grado piuttosto di permettere l’adesione del biossido di carbonio e dell’acqua per cui la riduzione catalitica dei due minerali è indotta dall’acido cloridrico. L’acido cloridrico è effettivamente presente su Marte sul quale è attivo attualmente un ciclo del cloro proposto di recente da Catling et al. e confermato dalla presenza di ione perclorato5.

Questo modello pertanto oltre a spiegare l’attuale presenza di metano co-generato con il monossido di carbonio su Marte osservata da Curiosity, ha il pregio di interpretare la sua stagionalità. Inoltre può essere anche adattato alle condizioni iniziali della Terra. In questo caso è possibile anche dimostrare la formazione a partire da un’atmosfera riducente di CO2, N2, CH4 e CO di HCN, da cui, a seguito della sua polimerizzazione indotta dal bombardamento meteorico simulato dai laser, la formazioni delle nucleobasi del RNA (adenina, guanina, citosina e uracile) e del più semplice degli amminoacidi la glicina.

  • Webster, C. R. et al. Mars methane detection and variability at Gale crater. Science 347, 415–417 (2015).
  • Hu, R., Bloom, A. A., Gao, P., Miller, C. E. & Yung, Y. L. Hypotheses for near-surface exchange of methane on Mars. Astrobiology 16, 539–550 (2016).
  • Shkrob, I. A., et al. Photocatalytic decomposition of carboxylated molecules on light-exposed Martian regolith and its relation to methane production on Mars. Astrobiology 10, 425–436 (2010).
  • Civiš S. et al. The origin of methane and biomolecules from a CO2 cycle on terrestrial planets Nature Astronomy 1 721–726 (2017).
  • Catling, D. C. et al. Atmospheric origins of perchlorate on Mars and in the Atacama. Geophys. Res. Planets 115, E00E11 (2010).

Un tema emergente: depuratori come bioraffinerie.

Mauro Icardi

Con una certa ricorrente periodicità si leggono sui giornali notizie che parlano in maniera molto generica del potenziale energetico della FORSU, ovverosia della frazione umida dei rifiuti solidi urbani, e più in generale dei reflui fognari. Ho seguito, a livello di esperienze in scala di laboratorio questo tipo di sperimentazioni, e posso dire che funzionano. Ma occorre fare immediatamente alcune considerazioni e sgombrare il campo da possibili obiezioni o fraintendimenti. Questo tipo di tecnica, cioè la codigestione di frazione umida dei rifiuti, o di diverse tipologie di residui di origine organica, di sottoprodotti di lavorazioni agroindustriali insieme ai fanghi originati dalla depurazione a fanghi attivi tradizionale, non è da confondersi con la produzione di biogas da biomasse eventualmente coltivate o importate esclusivamente a questo scopo.

Si tratta di una possibilità diversa. La digestione anaerobica è circondata troppo spesso dalla solita confusione che si fa quando si parla di questioni tecniche. I fanghi di risulta dei depuratori vengono mandati al trattamento di digestione anaerobica sostanzialmente per ridurne il potenziale di putrescibilità e per essere parzialmente igienizzati. La riduzione della percentuale di sostanza organica permette successivamente un trattamento più agevole dei fanghi destinati ad essere resi palabili e smaltibili con un trattamento di disidratazione meccanica.

La possibilità di trattare insieme ai fanghi la frazione umida dei rifiuti solidi aumenta considerevolmente la produzione di metano. Il principio della codigestione si adatta al trattamento anaerobico della FORSU; infatti, la combinazione di biomasse eterogenee permette di ottenere una matrice da digerire che risponda meglio alle caratteristiche chimico-fisiche desiderate. Ad esempio, una corretta ed attenta miscelazione di matrici differenti può aiutare a risolvere problemi relativi al pH e al corretto rapporto acidi volatili/alcalinità.

La codigestione è pratica standard in diversi paesi europei, quali Francia e Norvegia.

Le matrici attualmente più utilizzate nella codigestione sono gli effluenti zootecnici, gli scarti organici agroindustriali e le colture energetiche. Gli scarti organici da utilizzare come co-substrati provengono dalle più svariate fonti e possiedono quindi forti differenze nella composizione chimica e nella biodegradibiltà. Alcune sostanze (quali percolati, acque reflue, fanghi, oli, grassi e siero) sono facilmente degradabili mediante digestione anaerobica senza richiedere particolari pretrattamenti, mentre altre (scarti di macellazione e altre biomasse ad elevato tenore proteico) necessitano di essere fortemente diluite con il substrato base, in quanto possono formare metaboliti inibitori del processo (ad esempio l’ammoniaca). Una vasta gamma di matrici richiede step vari di pretrattamento quali, ad esempio, il rifiuto organico da raccolta differenziata, gli alimenti avanzati e/o scaduti, gli scarti mercatali, i residui agricoli e gli scarti di macellazione. La codigestione, se gestita correttamente, è una buona pratica per migliorare la gestione e le rese di un impianto di digestione anaerobica.

Le modifiche impiantistiche dei digestori esistenti potrebbero riguardare la realizzazione di agitatori interni al comparto di digestione, e nel caso del trattamento di frazioni organiche solide di trituratori e coclee per il caricamento dei reflui nel comparto di digestione.

Oltre a problemi di tipo impiantistico e di gestione di processo occorre anche citare problemi di carattere autorizzativo e burocratico. Che permettano di agevolare l’eventuale uso di residui che da rifiuti si trasformino in materie prime secondarie.

Un ultima considerazione. Mediamente la produzione specifica di biogas dai soli fanghi di depurazione desunta da dati di letteratura e sperimentali è di circa sui 10 m3/t. Quella della FORSU raggiunge i 140 m3/t.

La sinergia è quindi ampiamente auspicabile.

Questo filmato mostra una prova di infiammabilità eseguita insieme a studenti dell’Università di Varese durante una delle sperimentazioni lab scale di codigestione.

Una piccola dedica ed un ricordo di anni proficui sia professionalmente che umanamente. Una piccola dedica ai ragazzi che ho seguito con affetto e passione.

Fatta questa lunga premessa, in questi giorni ho notato che la pubblicità di una nota industria petrolifera parla di sperimentazioni volte ad ottenere “tramite lo studio della decomposizione anaerobica dei primi organismi viventi” lo sviluppo di un processo che permette “di ottenere un bio olio da impiegare direttamente come combustibile o da inviare successivamente ad un secondo stadio di raffinazione per ottenere biocarburante da usare nelle nostre automobili”.

Questa affermazione mi lascia sinceramente perplesso. Il tema dell’ottenimento di petrolio dai rifiuti ricorda la vicenda ormai nota della Petrol Dragon.

E’ noto che per convertire sostanza organica in idrocarburi si debba lavorare ad alte pressioni e temperature. Uno studio sperimentale per convertire alghe in biocarburante identifica i parametri di processo in una temperatura di 350°C e pressione di 3000 psi.

Questo il link dello studio.

http://www.smithsonianmag.com/innovation/scientists-turn-algae-into-crude-oil-in-less-than-an-hour-180948282/?no-ist

Questo processo convertirebbe dal 50 al 70% della mistura di acqua e alghe in “una specie di petrolio greggio in meno di un’ora” .

Da quel che si deduce fino ad ora lo studio è fermo alla fase di realizzazione in scala impianto pilota.

Allo stesso modo un processo che volesse ottenere combustibili liquidi utilizzando come materia prima la FORSU e che dovrebbe subire lo stesso tipo di trattamento, da adito a diverse perplessità, vista l’eterogeneità del materiale di partenza.

La FORSU che sappiamo essere facilmente gassificabile dovrebbe produrre biogas che si dovrebbe convertire in gas di sintesi, se la quantità di metano fosse sufficientemente elevata, e successivamente tramite reazioni quali quella di Fischer Trops in carburante sintetico. Probabilmente troppi passaggi. E visto il prezzo ancora relativamente basso del petrolio probabilmente anche antieconomico.

Intercalazione e altre storie.4.

Claudio Della Volpe

Aliso canyon è una valle a nord di Los Angeles, non lontana dai posti mitici della costa ovest degli USA: Santa Monica, Beverly Hills, etc.

Nel 1938 fu scoperto colà un deposito petrolifero che fu sfruttato fino al 1970 quando si esaurì (come forse sapete il petrolio ha questo difettuccio). Dopo un incidente la zona fu venduta ad una compagnia che distribuiva gas che la usò come deposito del proprio gas a partire dal 1972.

La Aliso Canyon natural gas storage facility è costituita da 115 pozzi con un contenuto totale di oltre 86 miliardi di piedi cubici di gas naturale, per la distribuzione a tutti i residenti del bacino di L.A. e costituisce, come dimensioni, il secondo deposito degli USA, detenuto dalla SoCalGas (Southern California Gas Company).

Il 23 ottobre 2015 fu ivi scoperta la più grande fuga di gas da un bacino artificiale di questo tipo nella storia americana; in effetti il fenomeno probabilmente era iniziato qualche giorno prima, segnalato da malori da parte di residenti della zona ed alcuni osservatori si sono riferiti ad esso chiamandolo non “leak” ma “blowout” e dunque considerandolo non un piccola perdita, ma un vero e proprio scoppio, un grande incidente; comunque sia il fenomeno, che trovate illustrato su wikipedia è continuato per un lungo periodo, poichè è stato complicato risolverne la causa, una rottura nel sistema di tubazioni che giaceva migliaia di metri sotto terra e che è stata acuita dalla scarsa ed inopportuna manutenzione della grandi valvole usate per regolare il sistema.

Esiste un video che verosimilmente rappresenta, fa comprendere le dimensioni del fenomeno, registrato con una telecamera IR.

I lavori per risolvere il fenomeno, contro il quale non esistevano piani di risposta adeguati, sono durati a lungo e la fuga di gas è stata eliminata ufficialmente solo il 18 febbraio 2016 (quattro mesi dopo). Nel frattempo si è stimato che sono entrate in atmosfera quasi 100.000 ton di metano, una quantità veramente enorme, pari ad 1/6 delle perdite normalmente stimate per tutto il consumo italiano di un anno. Gli effetti locali hanno obbligato migliaia di famiglie a spostarsi dalla zona e sono costati alla SoCalGas milioni di dollari; inoltre l’inquinamento dovuto alle piccole quantità di benzene e di tiocomposti presenti nel metano si è diffuso su una vasta area, anche esterna alla Aliso Canyon.

Ma la reazione che ci interessa sottolineare qui ha riguardato l’effetto sulla generazione di elettricità.

Il metano è usato fra l’altro dalle molte centrali elettriche che giocano un ruolo di equilibrio complessivo nel funzionamento della rete elettrica. La indisponibilità prolungata della sorgente di metano principale dell’area di L.A. ha obbligato a correre ai ripari con la costruzione di una struttura alternativa e basata sulle batterie al litio e le energie rinnovabili.

Nel numero di febbraio 2017 la rivista Qualenergia ha segnalato l’entrata in funzione di una capacità di accumulo elettrochimico pari al 15% di tutta quella esistente a livello mondiale e basata su batterie al litio, stimolata proprio dall’episodio di Aliso Canyon.

Dice Qualenergia:

Tesla, Greensmith Energy e AES Energy Storage hanno infatti inaugurato tre enormi accumuli agli ioni di litio, due da 20 MW (e 80 MWh) e uno da 30 MW (e 120 MWh), per un totale di 70 MW. Tutto questo nel giro di 6 mesi dall’avvio del progetto, con Tesla che ha completato il suo impianto addirittura in 3 mesi.

Le installazioni assorbiranno l’energia in eccesso nei picchi di offerta – ad esempio la produzione del fotovoltaico durante le ore centrali del giorno – e la restituiranno nei picchi di domanda, ad esempio in quello serale, rimpiazzando in parte il ruolo di impianti flessibili come i cicli combinati a gas.

La stima numerica viene da Bloomberg, un gruppo di informazione finanziaria, ben informato sul tema e a cui si fa spesso riferimento per le statistiche aggiornate del FV. Sappiamo quindi indirettamente che a livello mondiale abbiamo una capacità di accumulo elettrochimico pari a circa 7 volte questa, 1.4GWh, tutto sommato una quantità modesta se la paragoniamo ai consumi di energia elettrica e che dà il senso di quanto rimane da fare in questo settore. Per paragonare i valori rileggetevi alcuni dei dati pubblicati negli articoli precedenti di questa serie (qui, qui e qui).

Il lavoro da fare è enorme e per questo prima si parte e prima si arriva; e ancor più dunque rimangono iniziative sostanzialmente stupide e nocive quelle intraprese dal nostro beneamato governo che insiste ad agire a favore delle energie fossili e degli interessi petroliferi, gasieri e carbonieri in Italia. Contravvenendo alle proprie promesse politiche all’indomani del referendum sulle trivelle il nostro governo ha deciso di favorire ancora una volta le estrazioni entro le 12 miglia marine:

http://www.huffingtonpost.it/2017/04/05/petrolio-dora-in-poi-nuove-trivellazioni-entro-le-12-miglia_a_22026817/

Il testo del decreto testè approvato non lascia dubbi;

“”Nel 2011 il Consiglio di Stato ha stabilito che le concessioni esistenti possono continuare a estrarre entro le 12 miglia fino a esaurimento della capacità del bacino del petrolifero o fino a quando lo considerano produttivo. Ma sempre nel rispetto del progetto originariamente autorizzato”, spiega il costituzionalista Enzo Di Salvatore, autore dei quesiti ‘No Triv’ sottoposti a referendum lo scorso anno e invalidati dal mancato raggiungimento del quorum.

Esempio: “Se hai una concessione con tre piattaforme e 7 pozzi ma finora ne hai realizzati solo 5, ne puoi fare altre due”. Cosa cambia con il nuovo decreto? “Puoi modificare il programma inizialmente autorizzato, in corso d’opera. Dunque se ho bisogno di ulteriori pozzi rispetto alla concessione data, posso farlo. E’ un decreto che contraddice la ratio del divieto stabilito da Monti”.

Stupido è chi lo stupido fa” (Forrest Gump). Speriamo che regioni e associazioni ambientaliste ricorrano contro questo decreto. Come chimici abbiamo già detto cosa pensiamo: le risorse fossili sono inquinanti, climalteranti e finite, occorre cambiare strada nella produzione e nell’uso dell’energia, rivolgendosi alle varie forme di rinnovabile e costruendo una adeguata infrastruttura di supporto e stoccaggio. Altro che trivelle!