Roba da chimici

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

“L’incredibile adulterazione del pane, specialmente a Londra, venne rivelata per la prima volta dal Comitato della Camera bassa sull’adulterazione dei cibi (1855-56) e dallo scritto del dott. Hassall: ‘Adulteration detected’. Conseguenza di queste rivelazioni fu la legge del 6 agosto 1860 ‘for preventing the adulteration of articles of food and drink’; legge inefficace, poiché naturalmente mostra la massima delicatezza verso ogni freetrader che intraprende ‘to turn an honest penny’ — di guadagnarsi qualche meritato soldo — attraverso la compravendita di merci sofisticate. Il Comitato stesso aveva formulato, in maniera più o meno ingenua, la convinzione che il libero commercio significa in sostanza commercio di materiali adulterati o, come dice spiritosamente l’inglese, ‘materiali sofisticati’. E infatti questa specie di ‘sofistica’ sa far nero del bianco e bianco del nero, meglio di Protagora e sa dimostrare ad oculos che ogni realtà è pura apparenza, meglio degli Eleati”.

Questa frase mi è tornata in mente in questa estate in cui le frodi alimentari sono tornate ad occupare le pagine dei giornali. Non ricordo chi l’ha scritta, ma ricordo bene il nostro collega chimico e medico inglese Arthur Hill Hassall (1817-1894) che un secolo e mezzo fa scrisse il libro, prima citato, sui metodi analitici per svelare le frodi alimentari. Questo libro, e l’altro scritto, alcuni anni prima, da un altro chimico Frederick Accum (1769-1838), “A treatise on adulteration of food and culinary poisons”, sollecitarono anche allora, in Inghilterra, una vivace campagna di stampa

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“Signore – dice la bambina – la mamma la prega di darmi un etto di te’ della migliore qualità, per uccidere i topi, e mezzo etto di cioccolata per sterminare gli scarafaggi”.

che indusse il Parlamento inglese a emanare nuove leggi per la difesa della salubrità degli alimenti.

In questo secolo e mezzo i frodatori dovunque, e anche in Italia, sono stati instancabili nel mettere in commercio alimenti adulterati o dannosi per guadagnare “qualche soldo”. Le frodi sono possibili perché le leggi stabiliscono delle precise qualità chimiche e fisiche per le materie prime (sfarinati, grassi, latte, carni, frutta, verdure, eccetera) messe in commercio e per i loro prodotti di trasformazione che arrivano negli scaffali dei negozi: pane e pasta, carni conservate, burro e formaggi, oli e grassi confezionati, maionesi, marmellate, dolciumi, eccetera. Ogni tanto, come avvenne alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, l’aggiornamento delle norme di controllo è sollecitato da qualche inchiesta giornalistica che fa scoppiare lo scandalo delle frodi alimentari (*).

Il prezzo delle materie prime e dei prodotti finali dipende da qualità fissate per legge: un solo esempio: la legge (DPR n. 41 del 5 marzo 2013) prescrive che in Italia la pasta alimentare sia prodotta con sfarinati di grano duro (semola) che sono più costosi di quelli di grano tenero: ecco che una pastaio che produce pasta usando sfarinati di grano tenero guadagna perché il compratore la paga un maggior prezzo ritenendola pasta genuina.

Le frodi alimentari riguardano moltissimi prodotti alimentari; ho scelto il caso della pasta perché è banale, facilmente svelabile e abbastanza raro.

Più redditizie sono le frodi nel campo degli oli e grassi. La legge stabilisce che l’olio di oliva possa essere messo in commercio in diverse qualità, con diverso prezzo e diverse denominazioni, ciascuna con rigorose caratteristiche chimiche ben specificate nel regolamento UE 1348/2013: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:338:0031:0067:IT:PDF

Tale regolamento indica, per gli oli di oliva delle differenti qualità, i limiti minimi e massimi previsti per le varie componenti come ”cere” (esteri di alcool alifatico monovalente superiore con un acido grasso ad alto peso molecolare), steroli, esteri metilici ed etilici degli acidi grassi, e inoltre limiti dell’assorbimento alle lunghezze d’onda di 232 nanometri (attribuito alla presenza di doppi legami coniugati –C=C–C=C–), e a 270 nanometri (attribuito a legami –C=C–C=C–C=C– che compaiono soltanto negli oli raffinati). Il regolamento contiene anche i dettagli dei metodi analitici da utilizzare, un vero trattatello di chimica analitica applicata, in una norma di legge valida per tutti i paesi della Unione Europea. Di tali metodi parlò il prof. Campanella in un post quando scoppiò lo scandalo degli oli poco “vergini”: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/01/31/riverginare-lolio-extravergine/.

Le leggi sulla genuinità degli oli di oliva hanno il fine di assicurare un giusto reddito agli agricoltori bravi che, con faticoso lavoro e cura, producono olive di buona qualità e ai produttori che con faticoso lavoro e cure estraggono dalle olive olio di buona qualità. Gli acquirenti sono così disposti a pagare un prezzo maggiore per gli oli conformi alle leggi sia per premiare tale lavoro italiano sia anche perché spesso la qualità di tali olio è più gradita.

Come i chimici ben sanno, in natura esistono molti oli (di nocciole, di mandorle, di semi di te, i chimici dei frodatori sono instancabili nella loro ricerca), acquistabili sui mercati internazionali a prezzo inferiore a quelli dei vari oli di oliva, che possiedono caratteristiche chimiche e fisiche abbastanza simili a quelle degli oli di oliva genuini. I frodatori acquistano tali oli, falsificano le fatture e i documenti di trasporto e fanno arrivare i falsi oli di oliva a compiacenti miscelatori che li mettono in commercio come oli di oliva genuini, guadagnandoci in tutti i diversi passaggi. La globalizzazione oggi consente di comprare prodotti adatti alle frodi in qualsiasi mercato grazie ad accordi commerciali internazionali

Altri frodatori miscelano oli di oliva genuini con oli di scarto, o residui di lavorazione, opportunamente miscelati con clorofilla e altri agenti, in modo da far rientrare le caratteristiche chimiche entro i limiti di quei parametri che vengono più frequentemente analizzati. La frode potrebbe essere svelata con quelle più delicate, complesse, lunghe e costose analisi prescritte dal regolamento europeo prima citato. I frodatori ancora più spregiudicati fanno passare gli oli sofisticati come oli “biologici”, di maggior pregio e costo, ottenendo dichiarazioni che li certificano come controllati nell’intera filiera produttiva, come dovrebbe essere per i veri alimenti “biologici”.

Fortunatamente spesso gli organi statali di controllo con le appropriate analisi chimiche riescono a scoprire le frodi che si annidano in moltissimi alimenti commerciali, a denunciarle e a far punire i frodatori. E’ una continua corsa fra i frodatori sempre più abili e i chimici che, nell’interesse dei cittadini, elaborano metodi di analisi sempre più raffinati e li fanno diventare obbligatori per legge, un lavoro da chimici, svolto da centinaia di nostri colleghi dei laboratori periferici o centrali di varie amministrazioni, dalla sanità, alle dogane, all’agricoltura, all’industria e anche in laboratori privati. Un lavoro, anzi, da chimici bravi, come ha messo bene in evidenza il prof. Campanella in un post precedente, https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/09/27/chimica-analitica-del-xxi-secolo/.

Mi rendo conto che studiare la chimica di paste e formaggi e carne in scatola può non essere accademicamente utile e fruttuoso, ma chi ci si dedica trova un premio nella soluzione di problemi scientifici spesso molto raffinati e nella consapevolezza di rendere un servizio alla salute e all’economia dei propri concittadini e di combattere un sottile ma estremamente forte e altrettanto raffinato settore della criminalità.

(*) Per una piccola storia delle frodi alimentari cfr,: http://notiziario-di-merceologia.blogspot.it/2011/03/breve-storia-delle-frodi.html

Noterelle sull’energia elettrica (parte 2)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Abbiamo visto nella prima parte che la struttura produttiva dell’energia elettrica in Italia è ampiamente surdimensionata. O almeno lo è stata e lo è rispetto alla situazione tecnica effettiva del sistema industriale e alle richieste di mercato.

Per un paese che ha avuto al massimo bisogno di una potenza di 57GW (qualche ora del 2007) e che di solito non supera la richiesta di 50 GW (solo per poco più di 100 ore nel 2013), avere un set di impianti che al momento garantiscono oltre 80GW nel solo settore termoelettrico, oltre 45GW nel settore rinnovabili (includendo qui idro, geotermico, eolico e FV) è una dimensione del tutto assurda; ricordiamo inoltre che a causa delle condizioni di prezzo del mercato europeo l’Italia trova conveniente importare quasi un sesto delle sue necessità dall’idro soprattutto ma anche dal nucleare di Svizzera e Francia, per 50TWh all’anno.

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Dati Terna 2013.

Per il nucleare i prezzi bassi dipendono dal fatto che le centrali nucleari sono un sistema di produzione rigido, poco elastico, e, data una bassa efficienza termodinamica dell’ordine del 30%, devono funzionare sempre nelle condizioni corrispondenti; ma anche chi usa il nucleare di notte, come tutti, ha meno necessità di energia elettrica e cosa se ne fa di un eccesso di produzione? Lo accumula se può o lo vende a qualcuno che lo accumula: e questo avviene anche con i nostri vicini che hanno fatto questa scelta; a proposito, se l’avessimo fatta pure noi cosa ce ne faremmo di notte? Bah? (a parte gli altri problemi). Per l’idro si presenta in certe condizioni una situazione analoga di eccesso di potenziale produttivo, in pratica occorre vuotare i proprii serbatoi (chessò si prevede che pioverà intensamente o si scioglieranno le nevi) e quindi i prezzi scendono diventando concorrenziali e consentendo il riempimento di serbatoi oltrefrontiera: l’acqua scende da una parte e risale dall’altra per poi ridiscendere definitivamente al momento dell’uso; ogni volta c’è una significativa dissipazione, ma si sa il mercato se ne frega della termodinamica (o è viceversa!?).

Anche tenendo conto dei problemi di dissipazione sulla rete, di manutenzione e di malfunzionamento che riducono la potenza efficace istantanea si tratta di una potenza installata assolutamente sovradimensionata e che ha portato ad una situazione paradossale: troppi impianti, ma costosi, il grosso usa gas, ma lo paga troppo, da un monopolista di mercato come ENI (rileggetevi la dichiarazione di Ortis nel post precedente), gli altri usano come combustibile materiali che dovrebbero andare in discarica ma invece vengono considerati “assimilati” alle rinnovabili. Il risultato è che abbiamo pagato per tanti anni e continuiamo a pagare molto per una energia ambientalmente sporca.

Solo negli ultimi 5 anni la situazione è cambiata, ma con molte luci e ombre, con la massiccia introduzione di un settore eolico e FV di tipo moderno.

Ma come si è arrivati a questa situazione? Un ruolo centrale lo ha svolto uno dei primi provvedimenti di “liberalizzazione del mercato” iniziato nel 1992 e denominato comunemente CIP6.

In base a questo badate provedimento amministrativo (non legge, altrimenti sarebbe andata in controllo all’occhiuta UE che su queste cose è duretta), i benefici della legge 9/92 a favore di energie rinnovabili vennero regolamentati e definite le energie assimilate.

L’amico Leonardo Libero, classe 1927, da sempre innamorato delle rinnovabili così racconta nel suo blog:

“Il “Cip6” ha avuto anche conseguenze oltreconfine. Esso ha infatti violato una direttiva comunitaria che esclude dalle fonti rinnovabili ciò che non è biodegradabile. Il governo furbetto dell’aprile 1992 (NdA:Andreotti!!!) lo aveva perciò emanato come atto amministrativo, perchè non ne venisse a conoscenza – non subito, almeno – l’Unione Europea, alla quale i Paesi membri devono notificare soltanto le nuove Leggi. Uno scopo raggiunto non per sempre, com’era prevedibile: l’UE lo ha saputo sì solo 11 anni dopo, ma su quel tema ci ha poi inflitto ben 4 procedure di infrazione ed una lettera di messa in mora.”*

Il Comitato Interministeriale Prezzi (CIP) adotta il 29 aprile 1992, un provvedimento amministrativo che applicando i principi della legge 9 deciderà di fatto il mercato dell’energia elettrica e la strategia energetica del nostro paese per quasi 30 anni; esso stabilisce prezzi incentivati per l’energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e assimilate. Sono considerati impianti alimentati da fonti assimilate:

– gli impianti in cogenerazione

– gli impianti che utilizzano calore di risulta, fumi di scarico e altre forme di energia recuperabile in processi e impianti

– gli impianti che usano gli scarti di lavorazione e/o di processi industriali

– gli impianti che utilizzano fonti fossili prodotte solo da giacimenti minori isolati.

In pratica bruciare immondizia, oli pesanti e perfino comuni fossili da fonti “isolate” è equivalente a metter su un impianto di energia rinnovabile. Non vi meraviglierà sapere che in media il 70-75% della spesa CIP6 è stata fatta per le assimilate, mica per le vere rinnovabili, cosicchè oggi ci troviamo a dover fare un recupero, a rincorrere, invece di essere all’avanguardia in Europa.

Si tratta, ad esempio, del tar, detto ‘olio combustibile pesante’ e che si ottiene come scarto della raffinazione del petrolio. Il tar invece di essere utilizzato per fare bitume diventa combustibile per produrre energia elettrica.

Il CIP 6/92 promuoveva lo sfruttamento delle Fonti Energetiche Rinnovabili (FER) o assimilate da parte di impianti entrati in funzione dopo il 30 gennaio 1991 e garantiva l’acquisto dell’energia da parte di ENEL a prezzi incentivati, lasciando libera in questo modo la quantità offerta. Il prezzo della cessione di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili veniva stabilito da due componenti:

– componente di costo evitato: costo dell’impianto, di esercizio, di manutenzione e acquisto combustibile;

– componente di incentivazione: basata sulla stima dei costi aggiuntivi per ogni singola tecnologia.

Negli anni successivi queste componenti sono state rivalutate ma quasi mai in senso favorevole al consumatore finale.

Ora la cosa strana o forse la cosa non-strana è che le informazioni sul Cip6 sono molto carenti nel primo periodo di funzionamento, una decina di anni che va dal 1992 al 2001. Per quel periodo nemmeno una inchiesta parlamentare è riuscita ad appurare quanti soldi sono andati nel Cip6(-i)nza fondo (i.e.:Cip senza fondo!!!).

Analisi occhiute le trovate solo dopo e da parte di critici feroci del provvedimento che ormai mostrava la sua vera faccia. Vi potrei consigliare tre documenti, l’inchiesta parlamentare, il libro di Mucchetti Licenziare i padroni? e infine il documento di Confartigianato “Oneri corrono sul filo” (vedi link alle fine di questo testo).

Mettendo insieme le varie fonti ufficiali ed ufficiose, ho costruito una stima dell’energia acquistata con CIP6 di 80 miliardi di euro dal 1992 al 2021, quando avranno termine gli effetti del CIP6, di cui più del 70-75% speso in assimilate che sono stati usati così: invece del costo per portare in discarica i “combustibili” assimilati i beneficiari hanno costruito un impianto; ci hanno bruciato il materiale, ne hanno ricavato energia che l’ente addetto, acquirente unico, ha comprato al prezzo incentivato CIP6, tale energia è stata messa sul mercato dove i medesimi produttori avrebbero (e hanno) potuto riacquistarlo (ma non si sa in che percentuale esatta) a prezzo ridotto se erano grandi utenti, lucrandoci ulteriormente; in definitiva un vantaggio multiplo, il cui totale va ben al di là del costo di acquisto che corrisponderebbe a 12 miliardi di euro equivalenti fino al 2001 e successivamente a dati ufficiali rintracciabili qui ad altri 68 miliardi di euro: percentuale per le sole assimilate 56 miliardi di euro.

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Il grafico è costruito con i dati veri tra 2001 e 2010 dalla pagina del GSE, con le previsioni ufficiali GSE e Terna tra 2011 e 2021; per i primi anni la stima di 12 miliardi fatta da Confartigianato e da altri è distribuita con una ipotesi di crescita lineare.

E chi sono stati i beneficiari di questo incredibile provvedimento amministrativo che ha pesato e pesa ancora sulla nostra bolletta energetica? Leggiamo dalla relazione di Confartigianato:

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I maggiori beneficiari dei contributi CIP6 su fonti assimilate sono il gruppo Edison, la Sarlux del gruppo Saras (Moratti) e il gruppo Erg (Garrone) che, insieme, vendono al GRTN-GSE i tre quarti (74,5%) dell’energia elettrica CIP 6 da fonti assimilate.

La natura oligopolistica del mercato dell’energia dominata da pochi grandissimi gruppi sia in produzione che in acquisto garantisce loro la forza politica per chiedere ed ottenere quel che vogliono.

Perchè non è l’unico beneficio il CIP6.

Volete saperne un’altra?

Dopo il blackout del 2003, dovuto lo sappiamo non ad un problema di generazione, ma soprattutto anche se non solo, ad accordi e gestione del mercato internazionale degli scambi, è stata introdotta l’interrompibilità; ossia nei contratti dei grandi acquirenti si è inserita una clausola (valida 3 anni ma poi estesa) che in cambio di una riduzione del prezzo dell’energia consentiva al gestore di rete di interrompere la fornitura; ma chi ha pagato i costi e i danni delle ipotetiche interruzioni?

Gli interrompibili sono 166 grandi utilizzatori che sono stati remunerati con un costo che al momento si aggira su oltre 600 milioni di euro all’anno pagati da tutti sui consumi normali. Quante interruzioni ci sono state?

Ecco qua un grafico:

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Come vedete il numero di interruzioni medie per tutti gli utenti nella parte Nord del paese dove sono concentrati gli apparati industriali è bassa (media italiana sempre inferiore a 4) ed è andato diminuendo nel tempo, per esempio in Lombardia, di gran lunga la regione più industrializzata del paese abbamo avuto nel medesimo periodo meno di due interruzioni all’anno nello stesso periodo; ci sono alcune importanti eccezioni o meglio c’erano (come l’ALCOA della Sardegna che ha chiuso l’impianto). Nonostante i miei sforzi non sono riuscito a trovare informazioni dettagliate sui danni effettivi subiti dai 166 grandi utenti. A chi giova la interrompibilità, una interrompibilità il cui costo medio per grande utente è AUMENTATA nel tempo da 2 a oltre 4 milioni di euro l’anno? Certo qua non stiamo parlando dei produttori ma degli utilizzatori del sistema, ma la questione è sempre la stessa: mercato dominato da pochi grandi player.

Non vi basta? Non siete abbastanza scandalizzati? Volete sapere come funziona il borsino elettrico? Adesso ve lo racconto.

La borsa elettrica è un sistema organizzato di offerte, di vendita e di acquisto di energia elettrica. La borsa elettrica, prevista dal decreto legislativo n. 79/1999 di liberalizzazione del mercato elettrico, è stata istituita in Italia a partire dal 1º aprile 2004 ed è oggi gestita dal Gestore del Mercato Elettrico. La vendita di energia elettrica viene effettuata ogni giorno per il giorno successivo ricorrendo ad una contrattazione su base oraria dove l’incontro tra domanda e offerta viene effettuata attraverso il sistema del prezzo marginale.

Semplificando, tale meccanismo remunera i produttori pagando a tutti il prezzo di equilibrio tra domanda e offerta, che è pari al prezzo dell’offerta più costosa tra quelle accettate per soddisfare la domanda.

Il meccanismo è più chiaro con un esempio: ipotizziamo che la domanda chieda 10 Wh. I produttori sono più di uno, ed il primo offre 5 Wh a 1€, il secondo 4 Wh a 2€ ed il terzo 1 Wh a 3€. Il totale delle unità domandate ed offerte è così pari a 10 Wh, che verranno pagate tutte e 10 a tutti i produttori al prezzo più alto offerto, ovvero 3€, per un totale di 30€. (da Wikipedia)

Nella teoria economica Il costo marginale rappresenta l’aumento del costo totale causato dalla produzione di un’unità ulteriore.

Finchè il costo marginale non uguaglia il prezzo, l’impresa ha convenienza ad aumentare la produzione; quando il MC invece supera il prezzo, l’impresa non ha più convenienza a produrre una quantità extra di prodotto ad un costo superiore al prezzo.

Quindi costo marginale e prezzo marginale sono identici, ma c’è un ma.

Questo avviene solo in regime di concorrenza perfetta, che è una situazione del tutto teorica e ben lontana dalla realtà del mercato elettrico che invece si può definire un mercato oligopolistico, cioè con pochi grandi produttori.

Cosa avviene in tal caso nella teoria marginalista? La stessa teoria arriva a concludere una cosa ben diversa dalla idealità del meccanismo del borsino elettrico.

In concorrenza perfetta l’impresa massimizza i propri profitti quando il prezzo (che in concorrenza perfetta corrisponde al ricavo marginale ottenuto sulla vendita di un’unità addizionale) è uguale al costo marginale di produzione. Questo perché l’impresa considera i prezzi come dati, non avendo alcun potere di mercato.

Invece, in monopolio e oligopolio le imprese hanno potere di mercato e possono scegliere il livello di prezzo o quantità tale da massimizzare i propri profitti. In particolare, sceglieranno la quantità in corrispondenza della quale i ricavi marginali eguaglino i costi marginali. A differenza della concorrenza perfetta, in mercati in cui le imprese hanno potere decisionale, la curva di domanda per la singola impresa non è più piatta, ma inclinata negativamente (nel monopolio, la curva di domanda della singola impresa corrisponde con la domanda di mercato, essendo l’impresa l’unica esistente nel mercato). L’impresa sa che da un lato, vendendo un’unità addizionale, otterrà il prezzo pagato dai consumatori su quella unità, ma sa anche che, per vendere quell’unità, a causa della inclinazione della curva di domanda, è necessario ridurre il prezzo non solo su quell’unità, ma su tutte le unità precedenti (non è prevista la possibilità di discriminare). Dunque, il ricavo marginale si compone di due fattori: uno positivo, il prezzo, e, uno negativo, vale a dire lo sconto che l’impresa dovrà praticare su tutte le unità inframarginali per vendere un’unità addizionale. Di conseguenza, il ricavo marginale è inferiore rispetto al prezzo. Ma poiché l’impresa in monopolio eguaglia il ricavo marginale al costo marginale, ne consegue, per transitività, che il prezzo sarà maggiore del ricavo marginale. La differenza tra prezzo e costo marginale perciò rappresenta un indicatore assoluto del potere di mercato dell’impresa. Maggiore è questa distanza, maggiore sarà il potere dell’impresa all’interno dei mercati.

In pratica il meccanismo del borsino lungi dall’essere “teorico”, (lo sarebbe solo in regime di concorrenza perfetta) favorisce le politiche di cartello ed istituzionalizza che il prezzo marginale è SUPERIORE al costo marginale, e questo non è la cosa migliore per il consumatore. Occorrerebbe penalizzare i produttori inefficienti obbligandoli a vendere ad un prezzo almeno uguale ai loro veri costi, anche perchè di fatto il prezzo da loro proposto contiene comunque un profitto, che se vogliamo che essi abbiano una spinta a migliorare deve essere azzerato o ridotto; di fatto il borsino non ha portato alcun effetto fino a quando non sono arrivati in campo i “nostri”, ossia i produttori di rinnovabili i quali, SI BADI, non sono certo stinchi di santo ma godendo di un vantaggio ineguagliabile, vendendo cioè ad un prezzo nullo sul borsino mettono fuori mercato i peggiori produttori fossili; la cosa ha scatenato l’effetto atteso: i produttori fossili sono andati da chi ha il potere a chiedere un cambiamento delle regole in corso d’opera, dopo che il governo aveva fatto regole scritte valide per vent’anni. Quello che non si potè contro i produttori CIP6, per giunta semplicemente rispettando le norme europee, ossia ridurre i loro assurdi sovrapprofitti si puo’ ora contro i più deboli produttori rinnovabili, ma questa storia ve la racconterò nella terza parte del post.

In conclusione il mercato elettrico italiano è un mercato oligopolistico, fatto di pochi grandi player che lo controllano assolutamente grazie a regole scritte di fatto per loro e non per l’efficienza del sistema complessivo.

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Note

*Dei costi della CIP 6 fanno parte (e credo sarebbe opportuno citare) le sanzioni comminateci dalla UE per le 4 procedure di infrazione (2004/43/46, 2005/50/61, 2005/40/51, 2005/23/29) e per per la lettera di messa in mora, che non devono essere bruscolini, stando a Wikipedia ( http://it.wikipedia.org/wiki/Procedura_di_infrazione ):

“Le sanzioni pecuniarie per l’esecuzione delle sentenze rese al termine di una procedura di infrazione sono state fissate recentemente dalla Commissione con la Comunicazione SEC 2005 n. 1658.[1] La sanzione minima per l’Italia è stata determinata in 9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nel pagamento, a seconda della gravità dell’infrazione a monte.”

Da leggere:

http://leg16.camera.it/561?appro=334#paragrafo1699

http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/AP0028.htm

http://books.google.it/books/about/Licenziare_i_padroni.html?id=HMhHUyAiFscC&redir_esc=y

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Chimica nella Bibbia

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Nel 1943 l’esercito americano, dopo aver sconfitto l’armata di Rommel in Africa, stava invadendo la Sicilia; cadeva il fascismo di Mussolini e l’Italia si arrendeva agli Alleati; una pattuglia di scienziati in una località segreta del Nevada stava costruendo la bomba atomica, ma la nostra collega Mary Weeks (1892-1975); era già nota per una storia della scoperta degli elementi: https://archive.org/details/discoveryoftheel002045mbp), non doveva avere molto da fare a Lawrence, nell’Università del Kansas, se era dedicata a realizzare una mostra delle sostanze chimiche citate nella Bibbia.

Che siate credenti o non credenti, l’Antico e il Nuovo Testamento consentono di gettare uno sguardo su eventi, abitudini di vita e alimentari, materie prime e prodotti chimici noti a, e usati da, una comunità abbastanza ristretta, la ”nazione” degli Israeliti, probabilmente alcune centinaia di migliaia di persone; una comunità abbastanza agitata perché esposta a liti e divisioni anche interne, a migrazioni forzate nei paesi vicini, talvolta in Egitto, talvolta in Mesopotamia, con ritorno in Palestina, una comunità con vasti rapporti commerciali internazionali e che aveva la passione di scrivere e, direi, verbalizzare eventi e informazioni di vita quotidiana. I testi biblici pervenutici si riferiscono ad un periodo di circa 2000 anni, dalla nascita della “nazione” fino all’inizio dell’era che chiamiamo cristiana. I vati “libri” della Bibbia contengono istruzioni relative a comportamenti individuali e collettivi, regole di rituali religiosi, nonché storie personali, resoconti di guerre e avventure, alcune con riscontri storici nei testi di altre società contemporanee, alcune leggendarie o riflessi drammatizzati di eventi reali come la grande alluvione da cui si sarebbe salvato Noè.

Sulla base dei testi della Bibbia sono poi state elaborati gli innumerevoli scritti, nel corso dei successivi 2000 anni, che stabiliscono regole e riti seguiti da alcune comunità ebraiche ancora oggi e che hanno influenzato anche gli scritti dell’Islam.

In tutti i testi biblici si parla di persone che abitavano in edifici, si lavavano, si sposavano che usavano delle “cose” materiali, alimenti, aratri metallici, recipienti di terracotta o di pelle, che coprivano il corpo con tessuti — tutti oggetti nei quali la chimica aveva un ruolo centrale, tanto più che si trattava di una società abbastanza tecnicamente evoluta sia nel campo agricolo sia in quello commerciale. Per i prodotti che non poteva ricavare nel proprio il popolo ebraico cercava di conquistare i paesi vicini con guerre merceologiche come quelle contro le città-stato, fra cui Sodoma e Gomorra, che monopolizzavano il commercio del prezioso sale dei grandi giacimenti sulle rive del Mar Morto.

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L’articolo della Weeks fu pubblicato nel Journal of Chemical Education, 22, 63-70 (February 1943); quasi contemporaneamente un altro chimico, Hugo Zahnd, del Brooklyn College, ha pubblicato due articoli sulle conoscenze chimiche nell’antico e nel nuovo testamento, nello stesso Journal of Chemical Education, rispettivamente, 20, (7), 327-335 (July 1943) e 23, (2), 90-97 (February 1946).

Gli Israeliti conoscevano la lavorazione dei metalli: oro, argento, stagno, rame e loro, leghe, di cui sfruttavano alcune miniere nel Sinai. Quelle che si visitano come “miniere del re Salomone” a Timna nel Sinai erano probabilmente miniere e fonderie sfruttate dai Faraoni qualche centinaio di anni prima dell’”età di Salomone”. Fra le operazioni tecniche viene citata la fusione e la coppellazione dei metalli la cui purezza era verificata con saggi chimici e fisici.

Probabilmente i metalli e minerali citati nella Bibbia provenivano da scambi commerciali con i popoli vicini con i quali Israele era collegato mediante vie carovaniere e che procuravano aromi, spezie e pietre preziose, merci apprezzate dai re e che avevano significato anche rituale. Il vestito del gran sacerdote e il tempio di Gerusalemme erano ornati con “dodici” (il numero dodici aveva speciale significato; dodici erano le tribù di Israele, dodici gli apostoli di Gesù) pietre preziose che vengono ricordate in vari brani: cornalina, topazio, smeraldo, turchese, zaffìro, berillo, giacinto, àgata, ametista, crisòlito, ònice e diaspro. Naturalmente la traduzione dei nomi di queste pietre citate in diversi testi e in diverse lingue ha dato luogo a vivaci discussioni fra gli specialisti, ma anche da questi nomi si ha una idea dell’estensione internazionale dei commerci degli Ebrei. Ai fini rituali erano importanti molte “resine”, come incenso e mirra, quest’ultima usata per la conservazione dei cadaveri.

Nelle zone abitate dagli Israeliti c’erano giacimenti di idrocarburi, probabilmente scisti bituminosi. Il nome Neftali, arrivato fino a noi, probabilmente deriva dalla presenza in qualche luogo di qualcosa da cui è derivato il nostro nome “nafta”. Nel racconto biblico della grande alluvione è raccontato che Noe avrebbe incatramato il fondo della sua nave per renderlo impermeabile con del bitume; del bitume era anche usato come additivo dei materiali da costruzione.

Fra le sostanze inorganiche si è già citato il sale a cui veniva attribuita uno speciale ruolo rituale; insipido è chiamato qualcosa di infedele; ancora nel rito cristiano al battezzando viene posto del sale in bocca. Gli Israeliti conoscevano lo zolfo, usato anche come materiale incendiario, il carbonato sodico, chiamato niter, probabilmente proveniente dai giacimenti egiziani, la calce e il gesso e qualche forma di cemento.

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Un capitolo a parte riguarda la chimica degli alimenti. Il popolo ebraico conosceva la produzione del vino per fermentazione del succo d’uva, conosceva la lievitazione del pane e il nome lievito è indicato spesso come simbolo di qualcosa che fa aumentare il volume e il valore delle cose; fra gli alimenti vegetali si trovano tutti i prodotti dell’area mediterranea; olio, olive, fichi, uva, grano, mandorle, noci, datteri, miele ed è citata l’alimentazione dei maiali con ghiande. L’olio era usato anche nelle lampade. L’uso delle carni era regolato da rigide norme religiose relative alla macellazione, alle carni “permesse” e vietate, norme probabilmente ispirate a motivi igienici e legate a pericoli di putrefazione e di diffusione di infezioni.

Nella ricostruzione della chimica e della merceologia della Bibbia si incontrano grandi difficoltà a causa delle varie lingue in cui ci sono pervenuti i vari testi, principalmente ebraico e aramaico, lingue a loro volta usate diversamente nei vari periodi storici a causa di contaminazione con le lingue dei paesi vicini o in cui gli Israeliti sono stati esiliati. Ciascuno dei prodotti ricordati meriterebbe uno studio a parte a riprova di quanto la chimica sia stata e sia importante in tutte le manifestazioni della vita, a cominciare da quelle quotidiane familiari e sociali.

Chimica della pelle.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Con gli anni la pelle perde progressivamente la capacità di trattenere l’acqua al suo interno. La sostanza deputata a trattenere l’acqua all’interno della pelle è l’acido ialuronico, una grossa molecola igroscopica, fisiologicamente presente nella cute, capace di legare acqua sino a 500/1000 volte l’equivalente del suo peso molecolare. Dal punto di vista chimico l’acido ialuronico viene classificato come un glicosaminoglicano. La molecola è infatti formata dal ripetersi di lunghe sequenze di due zuccheri semplici, l’acido glicuronico e la N-acetilglucosamina. Queste sostanze sono entrambe cariche negativamente e quando si uniscono tra loro la forte repulsione dà origine ad una molecola lineare, flessibile ed estremamente polare. La grande solubilità in ambiente acquoso è importante per garantire l’idratazione dei tessuti proteggendoli al tempo stesso da tensioni e sollecitazioni eccessive. Allo stesso tempo l’elevata affinità con altre molecole di acido ialuronico e con gli altri componenti della matrice extracellulare consente la formazione di una fitta ed intricata rete ad elevato peso molecolare. Con il passare del tempo però la quantità di acido ialuronico diminuisce progressivamente e la pelle perde il suo normale turgore e la sua sofficità, contribuendo all’invecchiamento cutaneo. In estate, in particolare, se il corretto apporto idrico viene a mancare, uno dei primi indicatori è la pelle, che perde elasticità, si secca fino a screpolarsi e diventa più soggetta a rughe e grinze.

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In tema di prodotti cosmetici innovativi una notizia interessante viene dai ricercatori dell’AVON che hanno messo a punto una crema antinvecchiamento contenente come principio base una proteina spesso utilizzata per riparare i danni di un cuore infartato rigenerandone i tessuti colpiti*. Il trasferimento della medicina avanzata alla cosmetica viene realizzata di certo non per la prima volta. La proteina in questione è la timosina. In realtà oggi per timosina s’intende una classe di ormoni del timo (timosina-1, timopoietina, timopentina, timulina fattore timico umorale e IGF-1) che stimolano l’immunocompetenza del sistema immunitario ; nel timo avviene la maturazione di cellule staminali linfoidi in linfociti T: il timo è un po’ la “fabbrica” che modifica le cellule staminali fino a farle diventare linfociti T.

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La linfopoiesi (processo di formazione dei linfociti), avviene solo nel midollo osseo,dove nascono tutti i linfociti di base, quindi anche la classe T nasce nel midollo osseo, ma trova la fine del percorso della maturazione nel timo

* la cosa è dimostrata nell’animale da esperimento, si veda per esempio: Thymosin beta4 activates integrin-linked kinase and promotes cardiac cell migration, survival and cardiac repair

ILDIKO BOCK MARQUETTE, ANKUR SAXENA, MICHAEL D. WHITE, J. MICHAEL DIMAIO & DEEPAK SRIVASTAVA.
Nature 432, 466 – 472 (25 November 2004)

http://www.my-personaltrainer.it/acido-ialuronico.html

https://it.answers.yahoo.com/question/index?qid

http://www.treccani.it/enciclopedia/timosina_%28Dizionario-di-Medicina%29/

L’IR, una scoperta contestata

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Molto si è scritto intorno alla scoperta della radiazione infrarossa. Questo post non ambisce a risolvere alcuna diatriba di tipo storico ma vorrebbe soltanto favorire qualche riflessione sulla dinamica delle scoperte scientifiche e sui rischi connessi alle attribuzioni affrettate.
Tornando un po’ indietro nel tempo, ricordiamo che l’anno 1800 registra un paio di eventi rilevanti per la storia della scienza. Il 20 marzo Alessandro Volta (1745-1827) comunicò a Sir Joseph Banks, presidente della Royal Society di Londra, la notizia dell’invenzione della pila mentre nel giro di alcuni mesi William Herschel (1738-1822) pubblicò sulle Philosophical Transactions gli articoli relativi ai raggi solari e terrestri che originano calore. Herschel era musicista e astronomo. In quest’ultima veste aveva cercato dei filtri adatti per osservare il sole e si era accorto che questi attenuavano in maniera diversa la luce e il calore. Da lì aveva dato il via a una serie di accurate indagini, impiegando essenzialmente prismi e termometri.

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Uno degli esperimenti di Herschel che portarono alla scoperta dell’IR

I tre contributi di Herschel sono quelli che abitualmente vengono associati alla scoperta della radiazione infrarossa, seppure con qualche distinguo. Infatti, la discussione intorno alla domanda se William Herschel abbia o meno scoperto la radiazione infrarossa si è prolungata nel tempo e anche fra gli storici contemporanei c’è chi ha risposto in una maniera che può lasciarci insoddisfatti, ossia : “né sì né no”. Il motivo principale è l’errata interpretazione del fenomeno osservato, fornita dallo stesso Herschel nei lavori successivi al primo.

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William Herschel (1738-1822)

La connessione fra le indagini e l’interpretazione dei dati sperimentali fornita da Herschel rimane tuttora un “puzzle”. Al centro vi sono i cosiddetti spettri “di luce” e di “calore”. In base alle misure di temperatura quello di “calore” esibiva il suo massimo d’intensità oltre il rosso, ossia laddove la luce non aveva più potere illuminante ma si poteva definire invisibile oppure “oscura”. Trascurando alcune questioni di priorità legate al nome di John Hutton (1726-1797) Herschel è messo in discussione soprattutto per quanto riguarda la sua interpretazione dei risultati e l’opinione sulla natura di luce e calore.

L’astronomo era già famoso per la scoperta di Urano (1781) ma quella della luce “invisibile” che scalda fece rumore anche al di fuori dell’ambiente scientifico.

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Il pianeta Urano scoperto da Herschel, in una recente immagine

Tra le lettere dello scrittore e filosofo inglese Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), ve n’è una datata 4 Maggio 1801 e destinata al chimico Humpry Davy (1778-1829) che s’interroga sulla sua importanza. Coleridge chiedeva se lo Spettro Termometrico di Herschel avrebbe portato a una Rivoluzione nella Filosofia Chimica. Aggiungeva alcune considerazioni sulla chimica, da cui si sentiva sempre più attratto, pur dicendosi convinto che mai avrebbe potuto raggiungere lo stesso livello di certezza della matematica. La scoperta dell’infrarosso e la sua utilizzazione come mezzo diagnostico avrebbe contribuito, a partire dall’ultimo ventennio del secolo, a significativi progressi nel campo dell’analisi strutturale.

Qualche riferimento
1. Hasok C., Leonelli S., Stud. Hist. Phil. Sci., 2005, 477
2. White J.R., American Scientist, 2012, 100, 218
3. Hoskin M., Discovery of the Universe – William and Caroline Herschel, Princeton University Press, Princeton New Jersey, 2011

per approfondire la figura di Herschel:http://en.wikipedia.org/wiki/William_Herschel

Notadelpostmaster: William Herschel, fu compositore ed esecutore musicale (compose 24 sinfonie); astronomo autodidatta, costruì numerosi telescopi, fu astronomo del Re in Inghilterra; scoprì Urano, i suoi satelliti, costruì la prima mappa della galassia e contribuì a scoprire la radiazione infrarossa.

Noterelle sull’energia elettrica (parte 1)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di C. Della Volpe

La presentazione su questo blog del documento di alcuni colleghi sul futuro dell’energia in Italia (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/06/21/quale-strategia-energetica-per-litalia/), a favore di uno sviluppo delle rinnovabili e contro la politica di incrementare l’estrazione nazionale di fossili, ha suscitato una certa discussione e denotato anche certe misconoscenze sul tema energia; e quindi è utile tracciare la storia dell’energia elettrica italiana seppure a grandi linee e raccontare la situazione attuale.

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Il grafico che qui vedete, ricostruibile dai dati che si trovano sul sito di Terna, che è la Società che gestisce la rete elettrica italiana (http://www.terna.it/LinkClick.aspx?fileticket=7cNBnermDLQ%3d&tabid=653) ci racconta una storia lunga oltre 140 anni, dal 1883; ho esplicitamente riportato i medesimi dati di produzione dell’energia elettrica lorda (ossia ai morsetti, comprensiva delle dissipazioni) in scala lineare (nero) e logaritmica (rossa); cosa ci raccontano questi dati?

La prima centrale elettrica italiana fu quella di Via S. Radegonda, a fianco al Duomo di Milano, una centrale della mostruosa (per quell’epoca) potenza di 350kW; si trattava di una centrale termoelettrica a carbone, come dimostrato dalla ciminiera di 52 metri a sin. del Duomo, nella foto qui sotto; forniva corrente continua.

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(http://www.storiadimilano.it/citta/milanotecnica/elettricita/radegonda0.htm)

Più tardi, nel 1898, nella Milano di Bava Beccaris, nella medesima sede fu installato un impianto di accumulatori al Piombo che servivano a facilitare il lavoro delle centrali di produzione e di trasformazione locali accumulando l’energia che veniva dalla più grande centrale di Paderno.

Già nel 1926 la centrale fu dismessa. Il mondo era andato avanti, e la chimica aveva giocato insieme alla fisica un ruolo enorme in questo processo di ammodernamento energetico, attraverso le combustioni e l’elettrochimica.

Dal grafico vedete cosa stava succedendo: la crescita della produzione di energia elettrica era veramente impetuosa e non sarebbe stata MAI più così rapida. Ho aggiunto il grafico logaritmico proprio per mostrare come si può dividere la storia della generazione elettrica in 5 fasi, caratterizzate da 5 tendenze esponenziali, ciascuna delle quali nel grafico semilogaritmico che vi sottopongo è ovviamente rettilinea. Integrando i due grafici si possono apprezzare meglio i fenomeni.

La prima fase eroica si stabilizza quasi subito acquisendo una pendenza inferiore che durerà fino alla prima guerra mondiale e alla crisi dei primissimi anni 20; lo sviluppo successivo va fino ai primi anni 40 ed alla seconda guerra mondiale con l’unica vera grande crisi di sviluppo dei consumi elettrici; notate qui che la crisi bellica comporta la riduzione di quasi il 50% della produzione elettrica; la velocità di crescita dei consumi elettrici nel periodo della ricostruzione postbellica è perfino superiore a quella dell’italietta fascista e continua fino alla prima crisi energetica, quella della fine degli anni 70, scatenata dal picco del petrolio americano; la velocità di crescita della produzione elettrica si riduce ulteriormente fino al picco dell’ultima crisi economica; si tenga presente che la riduzione della produzione elettrica indotta dall’ultima crisi è perfino superiore, in assoluto, a quella indotta dalla 2° guerra mondiale, ma ovviamente il suo peso percentuale è di molto inferiore: sulla scala lineare il salto si vede, su quella logaritmica no. Tuttavia ricordiamolo, la riduzione della produzione di energia elettrica dell’ultimo quinquennio è stata in assoluto superiore a quella indotta dall’ultima grande guerra.

potenza

Il secondo grafico che vi mostro (http://www.terna.it/LinkClick.aspx?fileticket=Hdy12hoASmE%3D&tabid=418&mid=2501)copre un periodo molto più breve; parte dal 1963, che coincide con la nazionalizzazione dell’energia elettrica; nell’Italia del boom economico il grosso dell’energia elettrica è prodotto dalle grandi centrali idroelettriche; siamo nell’anno in cui la Edison per cercare di vendere bene la nuova centrale del Vajont provocherà con i suoi metti e togli il crollo del Monte Marcio, il monte “Toc”, nel lago del Vaiont, una tragedia che causò la morte di oltre 2000 persone nel sito di Longarone. Quella nazionalizzazione, darà ai potentati economici italiani i soldi per lanciarsi nella grande avventura della industria chimica, il cui successivo fallimento segnerà poi gli anni 80 e 90.

Questo secondo grafico mostra i grandi trend di crescita delle varie tipologie di generatori; come si vede tale crescita complessiva è stata continua, con un plateau solo nel corso degli anni 80, plateau che si è interrotto con la scelta di riaprire alla produzione privata nazionale e ad un peso crescente della generazione privata. Si tenga presente che mentre la scala del primo grafico è in termini di energia, è quella di centinaia di migliaia di gigawattora (ossia oltre 300TWh), quella del secondo è espressa in potenza, sono al massimo centinaia di Gigawatt; il nostro paese non ha mai avuto bisogno di più di 57 gigawatt, un record toccato in un solo giorno dell’estate del 2007; ma nella realtà (nonostante le varie dissipazioni di cui occorre tener conto:trasmissione in rete, perdite di accumulo, etc) abbiamo sempre avuto un eccesso di produzione elettrica, che tocca oggi in potenza la mostruosa ed inutile cifra di ben 130GW installati (di cui 80 solo termoelettrici), il 228% di quanto sia mai stato chiesto dal mercato interno! E ancor più in effetti, in quanto siamo anche il principale importatore europeo di energia elettrica, un import, che ha superato alcune volte i 50 TWh, che segna la differenza fra i nostri consumi e la nostra produzione, e che equivale ad un altro 20GW di installato equivalente.

Solo negli ultimi anni c’è stato un massiccio aumento delle rinnovabili moderne, eolico e fotovoltaico che consentono alle rinnovabili totali di superare i 43-45 GW di installato.

Quando c’è una sovrabbondanza di produzione in un settore di solito si va incontro ad una crisi da sovraproduzione ma non senza prima aver esperito ogni tentativo per risolvere la mancanza di profitti, cosa che va a braccetto con il tentativo di asservire la politica ai propri scopi, con delle leggi ad hoc.

La interpretazione classica dei nostri manager/travet ci tiene ogni tanto ad affermare che siamo stati in deficit e che abbiamo avuto perfino blackout; ed è vero; peccato che il grande blackout del 2003 sia avvenuto di notte mentre il consumo del paese (in termini di potenza) era inferiore a 28GW, una quisquilia dato che l’installato superava già allora gli 80GW e sia avvenuto per motivi contingenti, occasionali ma sostenuti essenzialmente da fatti strutturali, che non avevano a che fare con la arretratezza della produzione, ma con la arretratezza della rete, non del sistema di generazione e soprattutto con i problemi di scambio del mercato elettrico europeo, come racconta un documento ufficiale del nostro fornitore principale che (attenzione!) è svizzero (Bericht_über_den_Stromausfall_in_Italien_am_28._September_2003_i.pdf); e al quale mi sarà consentito di dare più peso che alle lamentele filosviluppiste del filonuclearista ed ex-ambientalista Chicco Testa sulla pagina di Assoelettrica (Fotovoltaico, i conti sbagliati che hanno ucciso le rinnovabili | Assoelettrica).

Una delle maggiori sciocchezze che viene ripetuta spesso dai grandi manager/travet sperando che diventi verità, è che la nostra elettricità sia cara perchè non abbiamo il nucleare e che nottetempo ne importiamo però da Francia e Slovenia.

Ma come stanno le cose veramente? I dati di Terna sono lì e devono solo essere letti e capiti.

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eleborazione mia su dati Terna

La decisione di introdurre massicciamente le importazioni dall’estero in un paese che aveva nazionalizzato la produzione diventa probabilmente negli anni ’80, nel pieno degli anni della “Milano da bere” del liberismo rampante, un mezzo per sfondare il monopolio statale della produzione in un bene che seguendo le dottrine liberiste, a la Adelmann deve essere liberalizzato (Adelmann è un famoso economista americano, recentemente scomparso, autore del libro “The economics of Petroleum supply”. colui che ha sostenuto sempre che il petrolio è una merce come un’altra. E quindi anche l’elettricità non è un bene strategico ma una merce come un’altra.)

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E’ interessante notare che proprio il blackout del 2003 si sia incaricato di negare questo assunto: la elettricità non è una merce come un’altra, specie in un mercato non ben regolato (e vi rimando ancora al documento svizzero prima citato). Questa scelta sarà la prima di una serie di leggi che lungo gli anni 90 introdurranno massicce dosi di “liberismo” sui generis in questo mercato “protetto”, a partire dal famigerato e “liberissimo” (ma solo per alcuni) CIP6. Vedremo nel prossimo post che il CIP6 tutto è fuorchè un esempio di liberalizzazione del mercato elettrico.

Ora se si entra nel merito delle importazioni si scopre una cosa ben diversa dalla favola del nucleare:

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il nostro principale importatore è la Svizzera NON la Francia e la Svizzera (da cui importiamo il doppio che dalla Francia!!) non produce che un 40% di nucleare contro l’87 della Francia; in pratica se si fanno due conti si vede che negli ultimi 10-20 anni (se si immagina una ripartizione statistica) di energia elettrica da nucleare ne sarebbe entrata per manco la metà dell’importato, attorno al 6% circa, una percentuale che non ha giustificazioni strategiche, avremmo potuto produrla da noi con scelte diverse; ammetto comunque che il discorso è complesso perché l’importazione dalla Svizzera potrebbe essere una importazione “tramite” la Svizzera, in grado di ripulire energia elettrica meno verde, ma questo è veramente complicato da appurare ed è argomento da magistratura.

L’altra cosa che si dice sempre è che la nostra elettricità è cara perché paghiamo le rinnovabili; e qua mi si scatena una reazione da orticaria. Noi paghiamo adesso dopo molti anni effettivamente una parte di contributi per le vere rinnovabili, ma per la maggior parte degli ultimi 25 anni abbiamo pagato (ed ancora fino al 2021 pagheremo) per aiutare le grandi aziende a bruciare rifiuti invece di smaltirli, a bruciare oli pesanti invece di smaltirli, questo sotto il nome in bolletta di CIP6 “assimilate”, per un totale che raggiunge i ¾ della voce Cip6 (stimabile in 60-70 miliardi di euro in 25 anni) una cifra che spiega la spinta assurda alla sovrapproduzione di impianti termoelettrici; e inoltre abbiamo pagato il fio di un monopolista nel settore gas, l’ENI, che ci ha portato a pagare il gas (da cui ricaviamo il grosso dell’energia elettrica di origine termoelettrica, il 50%) parecchio più della media europea: così argomentava nella sua Relazione Annuale sullo Stato dei Servizi e sull’Attività Svolta Alessandro Ortis, Presidente dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas, il 15 Luglio 2010 a Roma:

“Tuttavia, sulla base di informazioni ben note, il gas in Italia è più caro mediamente di 3-4 centesimi di euro/metro cubo, ovvero di oltre il 10% rispetto ai mercati all’ingrosso europei.

Per tale differenza non sussiste una valida motivazione tecnica, salvo quella legata alla già lamentata scarsa concorrenzialità del mercato nazionale, con un operatore, l’ENI, dominante in tutte le fasi della filiera.”

Approfondiremo questi fatti e i loro legami con la Chimica nella prossima puntata del post in cui parleremo di CIP6 e altri contributi statali e di come funziona la Borsa elettrica in Italia.

Nel frattempo possiamo dire:

–       che la produzione di energia elettrica italiana vede un numero di generatori in forte eccesso sulla domanda con un problema di redditività dell’investimento; tale fatto è vero soprattutto nel settore termoelettrico, sviluppatosi a seguito delle cosiddette norme CIP6;

–       che c’è una notevole importazione che avviene soprattutto dalla Svizzera e dalla Francia; non ci sono prove provate dell’importanza determinante del nucleare in questa importazione; tale importazione non è tecnicamente giustificabile in quanto il parco di installato italiano è ben sufficiente; costa probabilmente di meno, ma anche a causa di scelte fatte da noi in passato (CIP6, monopolio ENI del gas);

–       negli ultimi 10 anni si è avuto uno sviluppo di impianti cosidetti “rinnovabili” ossia basati su tecnologie non dipendenti dal fossile, in particolare sole e vento; tali tecnologie insieme con le altre tecnologie rinnovabili più tradizionali come l’idro coprono oggi oltre un terzo (il 38% questo semestre) della produzione totale di energia elettrica ed una analoga fetta della potenza installata, nonostante le ben diverse caratteristiche tecniche (basti pensare che durante l’anno il tempo di funzionamento “equivalente”, cioè considerato alla potenza nominale, dei vari dispositivi è molto diverso, molto più basso per solare ed eolico che per il termoelettrico e l’idro).

 

La Società Chimica Italiana e la formazione dei docenti

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Silvana Saiello, presidente Divisione Didattica della SCI

 Nel panorama politico sociale e culturale odierno la formazione degli insegnanti sta assumendo un ruolo cruciale, ma anche complesso da affrontare da parte delle Università che invece ne hanno, per legge, la responsabilità.

In un recente articolo [http://www.insegnareonline.com/rivista/scuola-cittadinanza/forma] Rosalia Gambatesa mette a fuoco due ambiti del problema che, afferma: “mescolandosi continuamente tra loro alimentano l’impoverimento della Scuola. Da un lato quello, squisitamente politico, di chi affida, esempio unico in Italia, […] la formazione e il reclutamento di una categoria professionale a un’altra categoria professionale che della prima ignora praticamente tutto […] dall’altro, quello dell’ambiguità dell’Accademia che […] si assume tale importante responsabilità facendone anche un piccolo business, e poi ne denuncia i risultati. Questa miscela di equivocità forgia così una categoria professionale di natura incerta che, […] avrà certamente interiorizzato che l’etica della professione è l’ultima delle urgenze di questo Paese”.

A questo va ad aggiungersi quello che potrebbe essere chiamato il problema del Tirocinio Formativo Attivo, il TFA for ever.

Per comprendere meglio a che cosa mi riferisco è utile ricordare che la formazione degli insegnanti prevede una Laurea Magistrale per l’insegnamento (LMI) e un Tirocinio Formativo Attivo (TFA).

Come ricorda in una intervista la prof. Anna Nozzoli, Prorettore alla didattica e ai servizi agli studenti dell’Università di Firenze: “La formazione degli insegnanti ha il fine di qualificare e valorizzare la funzione docente attraverso l’acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative e relazionali. Come abbiamo imparato dall’esperienza di questi ultimi anni, sapere una materia e saperla insegnare sono due cose molto diverse.”

Per raggiungere questi obiettivi la LMI prevede due ambiti formativi specifici la didattica disciplinare, la formazione pedagogica
1. La didattica disciplinare è gestita da professori universitari delle diverse discipline, professori molto competenti nei loro specifici ambiti disciplinari, ma a volte inconsapevoli che l’insegnamento della “Didattica disciplinare” è cosa molto diversa dall’insegnamento della disciplina.

2. La formazione pedagogica, affidata anch’essa a docenti universitari e alle molte pagine di manuali, spesso poco utili a sviluppare una reale capacità pedagogica.

Il TFA, invece, comprende anche il tirocinio nelle scuole ed è affidato a insegnanti di ruolo della Scuola che lavorano insieme con docenti universitari.

Il TFA è stato previsto dal legislatore come atto conclusivo e abilitante del percorso di formazione dei docenti e vi accedono quindi, soggetti che hanno già conseguito una Laurea Magistrale per l’insegnamento. Non mi soffermo sul problema irrisolto delle classi di concorso, mi limito solo a ricordare che le Università, responsabili della formazione dei docenti, si sono trovate ad affrontare una situazione per molti versi paradossale.

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Sta, infatti, per iniziare il terzo ciclo del TFA e per la terza volta gli Atenei dovranno affrontare la realizzazione di un tratto di percorso formativo incompleto, rivolto a destinatari di cui sono poco note le competenze, ma un tratto di percorso che abilita all’insegnamento.

Le Università avranno l’enorme responsabilità di dover individuare i docenti che andranno a formare le nuove generazioni di insegnanti. E lo dovranno fare adattando un tratto di percorso formativo ad esigenze diverse da quelle per cui è stato inizialmente istituito. In definitiva un grande dispendio di energie, con il rischio di ottenere un risultato scadente dal punto di vista culturale e soprattutto non coerente con gli obiettivi generali delle LMI previste dalla legge.

In questo scenario la formazione insegnanti perde completamente il suo valore per diventare solo un strumento di reclutamento professionale inadeguato. E non sono servite le proteste della Associazioni disciplinari, compresa la nostra.

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Per provare a mettere un argine a questa deriva la DD-SCI si è data come obiettivo di migliorare almeno i corsi di Didattica della Chimica attualmente svolti nei TFA. Per questo durante il 2013, ha provato ad organizzare un coordinamento nazionale di tutti i docenti universitari che hanno insegnato Didattica della Chimica nei Tirocini Formativi Attivi. Disponiamo dei nominativi di circa 350 colleghi e auspichiamo che con essi si riesca a discutere delle problematiche connesse con questo insegnamento che sarà erogato anche nelle future LMI, quando saranno attive.

E’ indispensabile che si rafforzi in tutti la consapevolezza che, se è vero che la conoscenza di una disciplina è condizione necessaria per insegnarla, questa condizione non è però sufficiente. Insegnare Didattica di una disciplina richiede, infatti, competenze ulteriori a quelle strettamente disciplinari. Tra l’altro, la capacità di individuare i nodi concettuali e gli ostacoli cognitivi propri della disciplina, lo studio dei possibili modi per rimuoverli, la capacità di cogliere quali sono gli argomenti accessibili al gruppo classe, studiando le modalità per renderli comprensibili, la consapevolezza che l’individuo discente non è qualcuno che deve credere in quello che diciamo ma deve essere messo in condizioni di comprenderlo e metterlo in discussione.

Purtroppo in Italia gli studi nel settore educativo, soprattutto in ambito scientifico, non sono considerati “ricerca” e prevale la convinzione, in particolare nei giovani, che chi sa, sa anche insegnare.

Concludo ricordando che la Società Chimica Italiana con la sua Divisione di Didattica è tra le poche associazioni scientifiche disciplinari che vede i docenti dell’Università i docenti della Scuola lavorare insieme per coltivare e confrontare i risultati della ricerca educativa in ambito chimico, ed è anche soggetto accreditato presso il MIUR per la formazione insegnanti.

Il suo ruolo e le sue responsabilità sono, quindi, grandi.

Per dare efficacia all’impegno che i “militanti” nella Divisione portano avanti con serietà e passione è, però, necessario che all’interno di tutta la Società Chimica Italiana venga acquisita la consapevolezza che la formazione degli insegnanti in ambito chimico deve essere un impegno per tutti, insieme a tutti coloro che hanno ruoli di responsabilità in questo campo comprendendo tra questi anche coloro che si occupano di formazione in Federchimica, nel Consiglio Nazionale dei Chimici, nel CNR e in tutte quelle realtà educative che hanno a cuore anche l’immagine che oggi la Chimica deve e può avere nella nostra società.

Fisica e Chimica creano lavoro.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Una recente notizia assegna alla Fisica una grande capacità di creare posti di lavoro. È questo il risultato di uno studio commissionato alla Società di revisione Deloitte dalla Società Italiana di Fisica, dall’Istituto di Fisica Nucleare, dal CNR, dal Centro Fermi, dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e dall’Istituto di Ricerca Metrologica. E’ una buona notizia che itroduce due elementi di riflessione.

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–       La Fisica non è direttamente collegata ad una definita filiera industriale come, ad esempio, la chimica o l’elettronica, il che conferma che la ricerca di base assai meno polatizzata disciplinarmente della ricerca applicata,esercita un ruolo prioritario rispetto allo sviluppo del mercato e che di conseguenza il carattere applicato che si vuole dare alla ricerca per caratterizzarne la modulazione industriale è sostanzialmente improprio.

–       La chimica è considerata un marker dell’economia; quando l’industria chimica è florida, lo è anche l’economia e viceversa per i periodi di crisi: questo dato accettato universalmente integra il precedente e porta alla conclusione che l’avanzamento tecnologico di cui la fisica e la chimica sono di certo affermati sponsor scientifici è legato alle attività di ricerca di queste due discipline.

C’è poi una differenza: il coinvolgimento della fisica nella attività industriali e più nascosto, meno evidente, quello della chimica molto più palese. La conseguenza è che per i giovani la scelta della Fisica è più legata ad una vocazione rigorosamente scientifica più che industriale. Nel chimico questo aspetto è meno marcato: che i chimici siano indispensabili per l’industria farmaceutica, cosmetica, alimentare, dell’energia, del trattamento rifiuti, dell’acqua è scontato. Questa molteplicità si specchia in una recente statistica.

Per moltissimi giovani la laurea, anziché essere un punto di approdo, è invece un doloroso inizio, fatto di tentativi, colloqui, ricerca di opportunità, stage. La laurea in chimica come scritta nel rapporto Excelsior di Unioncamere è ancora capace di dischiudere con relativa facilità una carriera di successo. I dati parlano da soli. Ad un anno dal conseguimento del titolo lavorano otto giovani su dieci; e il 46% di questi entra subito con un contratto a tempo indeterminato. Il 26% passa per contratti a tempo determinato, che si trasformano però presto in assunzioni stabili. Non solo: in media-secondo l’osservatorio Almalaurea-occorrono 2,6 mesi tra la laurea e la firma del primo contratto. Grazie alle sue pressoché infinite applicazioni alle quali accennavo più sopra, la chimica crea posti di lavoro in moltissimi settori, dagli enti pubblici alle imprese, fino alla più classica industria farmaceutica. Secondo il rapporto Excelsior, le imprese nel 2011 avrebbero inserito quasi 4.000 laureati in indirizzo chimico-farmaceutico, oltre a 2.400 periti chimici (dunque diplomati). E quanto ai 4.000 “dottori”, si calcola che le aziende abbiano faticato a trovare circa un quarto di loro. Il mercato dunque vuole chimici e in molti casi fatica a trovarli. Ecco perché merita un approfondimento una delle professioni più interessanti dell’attuale mondo del lavoro,per l’appunto quella di chimico.con l’intento di fornire indicazioni utili a tutti i giovani che ancora non hanno deciso quale sarà il loro futuro percorso universitario.

Intervista a Maurizio Prato

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano, ex Presidente SCI

  mauriziopratoAbbiamo posto alcune domande a Maurizio Prato e crediamo che le risposte siano di interesse per molti dei nostri lettori. Maurizio Prato è Professore ordinario dal 2000 presso l’Università di Trieste, dopo aver iniziato la carriera di ricercatore a Padova nel 1983 ed essere poi diventato Professore associato a Trieste nel 1992. Ha trascorso anni di studio a Yale (Prof. Danishefsky,1986-87) e in California a Santa Barbara (Prof. Wudl, 1991-92). E’ stato visiting Professor all’Ecole Normale Superieure de Paris (2001) e ll’Università di Namur (2010). Ha ricevuto l’ERC Advanced Research Grant nel 2008 ed è divenuto membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei nel 2010.

1)    A 60 anni compiuti, la sua carriera le ha fatto attraversare varie esperienze in Italia e all’estero. Può riassumere la sua “avventura”?

La carriera di uno scienziato, analogamente a quanto probabilmente succede in      qualsiasi altra attività, si sviluppa attraverso una serie di esperienze, destinate a modellarne il profilo. Nel corso della mia carriera, ho avuto la possibilità di fare molte esperienze costruttive, grazie alle quali oggi posso dire di essere un chimico organico con abilità in scienza dei materiali e in alcuni aspetti della biologia.

Cresciuto in un gruppo molto forte, fra i migliori in Italia, ho potuto vivere e sfruttare alcuni importanti soggiorni negli Stati Uniti, sono stato costretto dagli eventi accademici a spostarmi in una nuova sede di lavoro e formarmi una nuova personalità scientifica: credo che tutte queste esperienze siano state fondamentali e abbiano contribuito a plasmare il grezzo materiale di cui ero fatto.

Sono nato a Lecce, da un professore universitario di letteratura greca e da una professoressa di ginnastica, che abbandonò la scuola per seguire l’educazione dei figli.

Mi spostai a Padova per studiare chimica, dove faticai non poco a ingranare e dove mi laureai nel 1978, con una tesi sui meccanismi di reazione, relatore il Prof. G. Scorrano.

Dopo la laurea, continuai a frequentare il Dipartimento a Padova, ma non esisteva ancora il dottorato di ricerca e non c’erano assegni. Dovetti quindi mantenermi per alcuni anni insegnando matematica nelle scuole medie, un’esperienza che ancora oggi giudico importante e formativa. Mi divertivo con i ragazzini risolvendo equazioni fino alle 13 e lavoravo in laboratorio tutti i pomeriggi fino alle 21-22.

Nel 1983, dopo cinque anni di precariato, riuscii finalmente a diventare ricercatore di ruolo. Nel 1986 ottenni una borsa di studio del CNR per frequentare l’università di Yale, nel laboratorio del professor Danishefsky. Desideravo, infatti, spostarmi dai meccanismi di reazione alla sintesi organica. A Yale il gruppo era formato da circa 40 persone, tutte di straordinario livello; ho potuto così toccare con mano come si lavora nei laboratori più avanzati del mondo.

Rientrato a Padova, cominciai a preparare semplici composti naturali, con l’aiuto di Michele Maggini nel laboratorio di Gianfranco Scorrano. Diventò presto evidente che quel tipo di lavoro (sintesi di composti naturali e metodologie sintetiche) nelle mie mani rendeva poco in termini di risultati, per cui raccolsi volentieri l’invito del prof. Scorrano e del prof. Modena di tornare negli Stati Uniti per imparare a lavorare sui materiali organici, che proprio in quegli anni cominciavano a diventare popolari.

Ebbi la fortuna di essere accettato nel laboratorio del prof. Wudl nella University of California at Santa Barbara, proprio nel momento in cui esplodeva la “chimica dei fullereni”. In quel periodo superai il concorso a professore associato e, non essendoci posti di ruolo a Padova, dovetti spostarmi a Trieste. Questi spostamenti vengono sempre accettati malvolentieri e anche io, all’inizio, pensavo di essere stato maltrattato. A Trieste non avevo un laboratorio, non avevo fondi di ricerca, mi sembrava di essere caduto in un buco nero. Lentamente mi rimboccai le maniche, ricevetti un ottimo finanziamento dall’Università di Trieste, grazie all’intervento dei prof. Graziani e Stefancich, e finalmente cominciai a lavorare a pieno ritmo. Oggi posso affermare che l’essermi spostato a Trieste non è stato un errore, o un’ingiustizia, ma una fortuna. È stato molto faticoso, ma è stato un passaggio necessario sulla strada che volevo percorrere. Credo che allontanarsi dalla sede in cui ci si è formati, per quanto difficile nell’accademia italiana di oggi, è importantissimo per forgiare la propria personalità e per raggiungere la piena indipendenza. Spesso in Italia si preferisce rimanere nello stesso posto e continuare le ricerche del proprio professore, pur di non faticare troppo e di non rinunciare alla quiete familiare e alle amicizie. Invece, lo spostamento di un’altra università aiuta a crescere e a formarsi in maniera autonoma e indipendente. Questo è quello che avviene nei paesi scientificamente più avanzati ed è quello che bisognerebbe introdurre sistematicamente anche in Italia.

     2) Quali sono i più importanti successi ottenuti?

 

       Sono un leader riconosciuto e un punto di riferimento a livello internazionale della funzionalizzazione di nanoforme del carbonio. Il successo è arrivato con lo studio della reattività dei fullereni, ed è cresciuto quando siamo passati a esplorare la reattività dei nanotubi di carbonio. Questo lavoro, di pura chimica organica, ha aperto la strada verso collaborazioni costruttive con chimico-fisici, biologi, medici e ingegneri. Il risultato è stato l’accesso a un’interessante serie di applicazioni in vari settori interdisciplinari, soprattutto dell’energia (splitting dell’acqua, in collaborazione con Marcella Bonchio a Padova) e nella ricrescita tissutale (interazione fra neuroni e nanotubi di carbonio, in collaborazione con Laura Ballerini).

3) Ci sono state strade che avrebbe voluto esplorare?

 

Non so dire se ci sono altre strade che avrei voluto percorrere. Sono consapevole che il lavoro che stiamo esplorando può portare a risultati molto importanti, come ad es., la risoluzione di casi di lesioni di midollo spinale e la produzione di energia pulita. Forse, il vero rimpianto che ho è di essere arrivato a lavorare su questi importanti progetti in età matura, un’età in cui lo studio di argomenti nuovi risulta particolarmente faticoso. Mi piacerebbe avere vent’anni di meno per avere energie e capacità di approfondire con più efficacia queste strade, anche se vorremmo tutti avere molti anni di meno per tantissimi altri motivi.

     4) Cosa pensa che sarebbe da migliorare nel sistema italiano della ricerca?

Molte cose, ne cito solo alcune.

a) I giovani ricercatori non dovrebbero lavorare sempre nello stesso gruppo, soggetti all’autorità di un capo, ma dovrebbero essere messi in grado di mettersi alla prova ed esplorare le proprie idee in completa autonomia. Sono convinto che la creatività, le energie e lo spirito di iniziativa sono al massimo livello quando si hanno trent’anni. Spesso in Italia, i bravi giovani sono considerati proprietà del professore ordinario di riferimento e costretti a lavorare su idee stantie e obsolete.

b) I fondi di ricerca dovrebbero essere assegnati con regolarità e con assoluto rigore scientifico.

c) Dovrebbero esserci incentivi economici concreti per chi si sposta di università, e anche premi per la produttività scientifica. Non è possibile che tutti i professori universitari ricevano lo stesso stipendio basato solo sull’anzianità di servizio, indipendentemente dal loro impegno reale.

d) Dovrebbe esserci minore carico didattico per chi produce di più, viceversa chi produce di meno dovrebbe insegnare un maggior numero di ore.

5) Quale raccomandazione vorrebbe lasciare ai giovani che intraprendono la  carriera della ricerca?

Penso che nel corso dell’intervista si sia capito chiaramente cosa penso su questo argomento. I giovani non devono sottoporsi all’autorità di un capo, ma percorrere strade nuove in maniera completamente autonoma e indipendente, cercando di affrontare problemi importanti, magari partendo da tematiche vicine al loro interesse, piano piano allargando gli orizzonti. Vedo che oggi, per superare questo ostacolo, molti bravi giovani vanno a lavorare all’estero, anche perché, obiettivamente, risulta più facile cominciare la carriera in un paese che ti mette in grado di lavorare. Non sono contrario al fatto che i giovani vadano all’estero a lavorare, ma mi oppongo strenuamente all’emigrazione dei cervelli unita alla non emigrazione dei non cervelli.

prato2

In questi ultimi giorni vi è stata l’occasione di parlare di Maurizio Prato due volte: 1) La Facoltà di Scienze della Seconda Università di Roma ha voluto consegnargli, l’11 giugno 2014, la Laurea honoris causa in Scienze e Tecnologie dei Materiali (vedi foto) e Taddia in un post sul sito web della SCI ha notato che Prato è l’unico chimico italiano che compare nella lista (circa 200) dei chimici più citati al mondo, pubblicata da Thomson Reuters IP & Science il 18 giugno 2014.

Niente chimica, niente articolo.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Può darsi che il titolo di questa notizia suoni un po’ misterioso ma se avrete la pazienza di leggerla per intero sono sicuro che tra poco vi apparirà più chiaro. Parleremo dei prodotti privi di agenti chimici o, come dicono gli inglesi, “chemical free”. Oggi, come tutti sanno, sono piuttosto ricercati, per gli usi più svariati. In quello alimentare e in quello cosmetico, ad esempio, la fanno da padroni.

chemicalfree

Dunque, per cominciare, diciamo subito che la diffidenza, se non il rifiuto, verso i prodotti chimici di sintesi è iniziata con la nascita della moderna industria chimica. Quando il chimico industriale francese Anselme Payen (1795-1871) mise a punto la sintesi industriale del borace ci fu qualche problema a commercializzarlo al posto di quello “naturale”. Fino al 1817 circa, il borace era importato prevalentemente dalla Cina o dall’India e poi veniva raffinato in Europa, con costi elevati. Quello di sintesi costava molto meno ma i consumatori lo rifiutavano perché non era leggermente colorato come quello naturale. Fu necessario, per un certo tempo, colorarlo artificialmente. L’intera storia, se vi interessa la potete leggere qui.
http://www.biblioteca.fci.unibo.it/payen_studi.pdf
Tornando ai giorni nostri, più volte si è discusso, specie tra noi chimici, di quale equivoco si nasconda sotto la dicitura commerciale “privo di agenti chimici” o peggio “senza chimica”. Alcuni di noi suggeriscono che si dovrebbe dire “tutto è chimica” o che la “chimica è dappertutto”. Non è, purtroppo, questione di slogan ma di cultura scientifica di base. Gli italiani, in grande maggioranza, ne sono carenti. Avete mai provato a convincere qualcuno che i composti e gli elementi chimici si trovano dovunque? Non è per niente facile. Il problema però non è soltanto italiano e ci si interroga ovunque, tra chimici, su come risolverlo efficacemente. Anche Alexander Goldberg, chimico del Weizmann Institute of Science, insieme al blogger esperto di chimica Chemjobber, hanno tentato di farlo. Sono partiti con l’intenzione di compilare un elenco di prodotti “chemical free” e, una volta finito il lavoro, l’hanno mandato alla prestigiosa rivista Nature. Questa ha ritenuto di pubblicarlo sul blog online http://blogs.nature.com/thescepticalchymist/
Quella riportata in basso è solo l’intestazione ma se avete fretta di dare un’occhiata all’elenco cliccate direttamente qui:
http://blogs.nature.com/thescepticalchymist/files/2014/06/nchem_-Chemical-Free.pdf
Non è molto lungo da leggere perché, come sapete, l’inchiostro non è “chemical free”.