Riflessioni e spunti da “accadueo”

Mauro Icardi

Lo scorso 18 Ottobre, dopo qualche anno di mancata frequentazione di fiere di settore, son voluto andare a Bologna per la manifestazione “accadueo”. Devo dire di avere fatto una scelta azzeccata. Ho potuto verificare di persona quelle che sono le nuove tendenze per la gestione in particolare delle reti idriche, e le nuove tecnologie disponibili a questo scopo. La parte più interessante è stata però il corso di formazione, seguito nel pomeriggio, e dedicato all’ottimizzazione funzionale ed energetica degli impianti di depurazione. Il depuratore del futuro è destinato a diventare qualcosa di profondamente diverso da come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.

Tendenzialmente deve diminuire il consumo unitario di energia per m3 di acqua trattata. Questo risultato però è ottenibile solo con un’operazione accurata e precisa di verifica delle funzionalità reali delle varie sezioni di impianto. Successivamente si possono programmare interventi mirati per il miglioramento del rendimento delle varie sezioni di trattamento. Occorre quindi conoscere con molta precisione il funzionamento reale dell’impianto. Tutto questo non può prescindere dal creare delle sinergie reali e positive, tra i gestori degli impianti di depurazione, che sono quelli che ne hanno la conoscenza gestionale e pratica, gli enti di ricerca, le università. Un modello di questo tipo è ormai usuale nei paesi del nord Europa, quali Danimarca e soprattutto Olanda. E non è casuale che proprio l’Olanda adottando una politica idrica di questo genere stia producendo ed esportando brevetti di nuove applicazioni dedicate alla gestione del ciclo idrico. Questa è un idea che sostengo da molto tempo, e di cui ho spesso scritto sulle pagine di questo blog. Per esperienza personale so purtroppo che in Italia la gestione e la realizzazione concreta di progetti innovativi, o di gestioni diverse del ciclo idrico incontrano molte resistenze, della natura più varia. I progetti di tesi di laurea sostenuti dagli studenti dell’Università di Varese che ho seguito come tutor, e che si occupavano della codigestione di matrici biodegradabili da trattare insieme al fango prodotto dagli impianti di depurazione municipali, hanno purtroppo subito uno stop, e non si è riusciti a trasformarli in progetti di ricerca. La sperimentazione sia pure molto positiva in scala di prova di laboratorio, si sarebbe dovuta proseguire a livello di prova su impianto pilota. Questo personalmente mi è dispiaciuto molto, visto che la codigestione sarebbe uno dei modi con i quali si può ridurre il consumo energetico dei depuratori, nonché migliorare la stabilizzazione della materia organica dei fanghi prodotti.

Purtroppo, come per esempio la vicenda della gestione dei fanghi di depurazione sta dimostrando, intorno a queste questioni si sta facendo troppa inutile confusione. Basta fare una normale ricerca in rete, per potersene rendere conto. Non esistono solo comitati che giustamente pretendono attenzione e chiarezza sulla gestione e disciplina dell’utilizzo dei fanghi di depurazione, ma anche decine di comitati contro la digestione anaerobica, cosa che invece lascia qualche perplessità in più. Inutile ribadire quanto è già stato detto qui su questo blog. La digestione anaerobica è una delle tecniche per il trattamento dei fanghi. E’ cosa diversa dalla digestione anaerobica degli effluenti zootecnici su cui molte persone storcono il naso. Per altro la codigestione di reflui e fanghi è normalmente praticata nei soliti paesi nord europei, ed era stata anche suggerita dall’Agenzia Europea di protezione ambientale nel 2011.

http://www.eea.europa.eu/highlights/big-potential-of-cutting-greenhouse?&utm_campaign=big-potential-of-cutting-greenhouse&utm_medium=email&utm_source=EEASubscriptions

Utilizzandola in combinazione con una gestione oculata della fase di ossidazione biologica può contribuire a diminuire il consumo energetico per m3 di acqua trattata da valori di 1kWh fino a circa 0,2.

La gestione corretta della fase di ossidazione biologica può consentire risparmi ulteriori. Una manutenzione efficiente e continuativa dei sistemi di diffusione di aria nelle vasche di ossidazione, consente risparmi che in un periodo di tre anni possono arrivare a 180.000 euro. Di energia non sprecata inutilmente nel comparto di ossidazione, che da solo è responsabile del 60% circa dei consumi energetici di un impianto di depurazione.

Se i piattelli si intasano e producono bolle d’aria troppo grandi l’efficacia di areazione diminuisce drasticamente. L’importanza di un sistema di aerazione che risparmi energia negli impianti di trattamento dei liquami si è rivelata molto presto. Le riduzioni di consumi energetici si devono trasformare in costi inferiori per il trattamento dell’acqua e la fornitura di acqua al cittadino.

La questione fanghi è aleggiata come un fantasma nella giornata trascorsa a Bologna. Qui ne abbiamo scritto, e abbiamo cercato di spiegarla. Da queste pagine mi sento di lanciare un invito ad un ulteriore sinergia. Quella con i medici ambientali, che si stanno occupando della questione dal punto di vista dei possibili impatti sulla salute.

http://www.gonews.it/2017/01/21/parere-medico-sullo-spandimento-dei-fanghi-depurazione-agricoltura/

Molte delle richieste che questi medici fanno sono condivisibili. Si rifanno ad un giusto principio di precauzione. Ma credo che anch’essi dovrebbero conoscere quello che sarebbe l’effetto di un eventuale blocco degli smaltimenti del fango, sulle condizioni di funzionamento (e di lavoro degli addetti). Se tutta la vicenda dei fanghi avrà come conclusione l’avvio di sinergie, il superamento delle decretazioni d’urgenza, e l’avvio di una sorta di “new deal” idrico, sarà certamente una cosa molto positiva.

Purtroppo però, devo constatare almeno alcune cose. Tanta demagogia, in un paese che è arrivato al 95% di partecipazione al referendum per l’acqua pubblica, ma continua a bere in maniera consistente quella in bottiglia (magari “griffata” da una bella fanciulla…) Poi un’altra situazione incresciosa. Quella in cui sono incappato infilandomi in una discussione che avrei dovuto evitare, visto che i social non sono il luogo migliore per approfondimenti tematici o tecnici. Molte persone hanno la radicata convinzione che gli addetti del ciclo idrico siano al servizio delle aziende e non dei cittadini. Con dubbi sulla corretta esecuzione delle analisi e dei risultati delle stesse. Bene, da queste pagine vorrei smentire questa vulgata. Io e molti altri colleghi siamo vincolati non solo dalla deontologia professionale, se iscritti ai rispettivi ordini professionali, ma anche dalla propria deontologia personale. Questa osservazione mi deve essere consentita. Sono piuttosto avvilito e stanco di vedere non solo pressapochismo e superficialità nel trattare questi temi, ma anche di vedere trasmissioni televisive dove spesso il tema è approfondito male, o trattato altrettanto superficialmente con l’arma di un’ironia che può fare più male che bene. L’acqua pubblica non significa acqua gratis. Significa averne la comprensione, l’educazione a gestirla, la doverosa rendicontazione di spese e investimenti. La corretta e puntuale pubblicazione di dati e analisi sui siti istituzionali e delle stesse aziende di gestione. A disposizione dei cittadini che sono i soggetti a cui questo servizio si rivolge. Che però dovrebbero fare almeno un minimo sforzo di comprensione e di approfondimento. Quella educazione idrica di cui ho parlato su queste pagine. Non è immediato per chi non è del settore capire per esempio che non ci sono solo inquinanti emergenti provenienti da lavorazioni industriali, ma anche residui di inquinanti legati ai nostri personali stili di vita (residui di farmaci, droghe d’abuso e cosmetici ne sono un chiaro esempio). La divulgazione è necessaria, ma deve anche essere accolta senza preclusioni o remore dalle persone a cui si rivolge. Perché se vince il pensiero magico o la preclusione ostinata non si ottiene nessun risultato.

La “catena di montaggio” aggiornata.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La catena di montaggio è nata nel 1913 inventata da Henry Ford che la introdusse nella sua fabbrica di automobili. Sostanzialmente parcellizzava il lavoro scomponendolo in piccole isole o singole mansioni, finalizzando il tutto ad un aumento della produttività. In effetti però il fordismo aveva avuto un precedente nel Taylorismo di Frederick Taylor un ingegnere che aveva individuato già alcuni anni prima il sistema di organizzazione scientifica del lavoro.

Nasce da queste due impostazioni l’era moderna perché dinnanzi alla protesta degli operai per questa innovazione organizzativa Ford rispose raddoppiando gli stipendi e quindi aumentando le capacità di spesa e consumo degli operai, di fatto dando l’avvio al capitalismo moderno. La stessa geografia industriale, europea e mondiale, si modifica profondamente: l’Inghilterra viene superata, alcuni paesi centro-orientali europei fanno la loro comparsa al livello delle economie significative.

La seconda rivoluzione industriale si concretizza: dopo la prima, quella del cotone, del ferro, del carbone, della macchina a vapore abbiamo quella del motore a combustione interna, dell’elettricità, dell’acciaio, della chimica, i cui progressi lanciano la chimica per il tessile, la produzione del sapone e della carta su grande scala, il settore della chimica organica, in particolare dei derivati della cellulosa. La Germania doppia l’Inghilterra per la produzione di acciaio, si costruiscono in Europa 70 mila chilometri di ferrovia, gli Stati Uniti pongono le premesse per quel cambio di leadership dell’economia mondiale che si concretizzerà dopo la seconda guerra mondiale.

A causa di questo eccezionale sviluppo industriale erano a disposizione di quasi tutte le nazione europee grandissime quantità di armi micidiali e di flotte militari sempre più agguerrite. Francia e Inghilterra volevano bloccare l’espansionismo tedesco e la sua crescente, inarrestabile egemonia industriale e scientifica: erano i prodromi della prima guerra mondiale. Processi così rapidi e sconvolgenti non possono passare tranquillamente: quattro anni dopo in Russia si compie la rivoluzione bolscevica e due anni più in avanti in Italia Mussolini crea i fasci di combattimento. La catena di montaggio è però andata avanti sia pure con soluzioni diverse come l’isola di montaggio, la cella di montaggio, la cella di assemblaggio introdotte allo scopo di conciliare i vantaggi della standardizzazione con stazioni di lavoro non più affidate ad una sola persona, con una visione del lavoro meno alienante e più sociale.

In più la robotizzazione industriale, a cui la chimica ha dato impulso e motivo, contribuisce significativamente a questa visione più morale e rispettosa del lavoratore ed è oggi uno dei punti di forza di Industria 4.0 e Chimica 3.0. Per il lavoratore nasce però un nuovo timore, quello di essere progressivamente sostituito dalla macchina, lo stesso timore che provarono i lavoratori tessili prima ricordati e che li spinse a sabotare le macchine che li avevano sostituiti. Chi contrasta questa tesi si appoggia, in fondo, al processo che abbiamo vissuto e che ricordavo all’inizio di questa nota: automazione vuol dire aumento della produttività, quindi dell’economia e del reddito che genererà domanda di nuovi prodotti e servizi e quindi di nuovi posti di lavoro. Si tratta di stabilire con che intensità questo processo si svilupperà rispetto all’altro, la caduta di posti di lavoro maturi e tradizionali a causa della competitività delle macchine. Nei prossimi decenni l’avanzamento tecnologico con la realizzazione di macchine applicate ad attività che richiedono capacità cognitive che non molto tempo fa erano viste come dominio degli essere umani comporteranno uno sconvolgimento guidato da nuove ondate di automazione centrata sulla cognizione artificiale, sulla sensoristica di routine, sulle nuove interfacce utente/macchina, sull’intelligenza distribuita.

Nasce una nuova “catena di montaggio” il cui filone è la comunicazione ed il cui traguardo è la conoscenza. C’è da chiedersi-e di conseguenza sperare- se la mutate condizioni generali ci preserveranno dagli inconvenienti e dalle sciagure che seguirono al primo lancio della catena di montaggio. Sta di fatto che ci sono anche altre condizioni che rendono difficoltosa una transizione di questo tipo: global warming, inquinamento diffuso, limiti delle risorse minerali e rinnovabili.

Scienziate che avrebbero potuto aspirare al Premio Nobel: Ida Smedley McLean (1877-1944)

Rinaldo Cervellati

Nel post su Martha Whiteley abbiamo accennato a Ida Smedley McLean, biochimico, prima donna a essere ammessa alla Royal Chemical Society, anche essa attivista per le pari opportunità delle donne nelle Facoltà di Chimica. Vale la pena fornirne dunque una sua appropriata nota biografica.

Nata a Birmingham il 14 giugno 1877, seconda figlia di William T. Smedley, uomo d’affari e di Annie Elizabeth Duckworth, figlia di un commerciante di caffè di Liverpool, una famiglia colta e progressista, ricevette l’istruzione primaria da sua madre fino all’età di nove anni.

Dal 1886 al 1896 frequentò la King Edward VI High School for Girls a Birmingham. Ottenne una borsa di studio con la quale entrò al Newnham College di Cambridge, iscrivendosi al Progetto Tripos di Scienze Naturali[1] nel 1896. Si piazzò al primo posto nella prima parte del progetto (1898) al secondo nella seconda parte (1899), studiando chimica e fisiologia. Dopo due anni di interruzione Ida ottenne nel 1901 una borsa di studio per fare ricerca post diploma al Central Technical College di Londra sotto la guida di H. E. Armstrong[2]. Ha insegnato come dimostratore di chimica nei laboratori didattici del Newnham College nel 1903 e nel 1904 ed è stata ricercatrice presso il laboratorio Davy-Faraday della Royal Institution dal 1904 al 1906. Conseguì il dottorato presso l’Università di Londra nel 1905.

Ida Smedley

Nel 1906 Smedley fu nominata assistente nel Dipartimento di Chimica dell’Università di Manchester, la prima donna a ricoprire un incarico in quel dipartimento. Rimase a Manchester per quattro anni, durante i quali condusse e pubblicò ricerche in chimica organica, in particolare sulle proprietà ottiche dei composti organici. Oltre a un primo lavoro del 1905, probabilmente riguardante la ricerca per il dottorato, altri sei articoli a suo solo nome furono pubblicati sul Journal of the Chemical Society Transactions fino al 1911.

Nel 1910 tornò a Londra e iniziò il suo lavoro in biochimica, che avrebbe continuato per il resto della vita. Ottenne una delle prime borse di ricerca Beit[3] (1910), lavorando presso il Lister Institute of Preventive Medicine diretto da Arthur Harden[4].

Menu di una cena dei vincitori di Borse Beit (la firma di Smedley è la quarta dal fondo)

Nel 1912 pubblicò una ricerca originale sugli acidi grassi contenuti nel burro [1] dimostrando, contrariamente a quanto si pensava, che sono costituiti da catene non ramificate, e la presenza di altri acidi insaturi accanto al già ben caratterizzato acido oleico. Il lavoro confermò anche la presenza soltanto di acidi grassi con un numero pari di atomi di carbonio. Successivamente pubblicò una prima analisi sui percorsi attraverso cui gli acidi grassi potevano essere biosintetizzati [2], facendo l’ipotesi che l’acido piruvico derivato dalla demolizione dei carboidrati fosse il precursore e che esso potesse perdere una molecola di anidride carbonica per generare un frammento con due atomi di carbonio (chiamato acetaldeide attiva) che avrebbe potuto essere usato per estendere una catena di acidi grassi in crescita attraverso una serie di reazioni di condensazione, disidratazione e riduzione[5].

Nel 1913, ricevette il premio Ellen Richards, un premio bandito dall’American Association of University Women per una ricerca originale di una scienziata donna. Nello stesso anno sposò Hugh Maclean (1879-1957), in seguito professore di medicina all’Università di Londra e all’ospedale di St Thomas, col quale ebbe un figlio e una figlia.

Durante la prima guerra mondiale, Smedley Maclean lavorò all’Ammiragliato su vari progetti di importanza nazionale, compresa la produzione su larga scala di acetone dall’amido per fermentazione.

Continuò le ricerche sugli acidi grassi che inclusero la loro sintesi dai carboidrati, la loro funzione e metabolismo negli animali. Fra il 1920 e il 1941 pubblicò più di 40 articoli su questi temi, parte in collaborazione, nel Biochemical Journal [3].

Divenne membro dello staff del Lister Institute nel 1932.

Lo staff del Lister Institute nel 1933. Nel riquadro Ida Smedley Mclean

La sua monografia The Metabolism of Fat, pubblicata nel 1943 come prima delle Monografie Methuen in Biochimica, riassumeva le sue opinioni sul campo, in cui era ormai un’autorità riconosciuta.

Ida Smedley Maclean è stata determinante nel promuovere lo status professionale delle donne nelle università. È stata una delle fondatrici della British Federation of University Women, da cui è nata la International Federation of University Women. Dall’inizio del movimento nel 1907, ricoprì incarichi di vertice e successivamente fu presidente della Federazione dal 1929 al 1935. Attualmente, la federazione amministra una borsa di ricerca post dottorato a suo nome, destinata a donne che intendono proseguire nel lavoro di ricerca.

E’ stata anche una leader nella lunga lotta per l’ammissione delle donne nella Chemical Society, che riuscì a vincere nel 1920. Fu quindi la prima donna ad essere formalmente accettata nella Chemical Society e fu membro del suo consiglio dal 1931-1934. Dal 1941 al 1944 è stata membro del comitato per le accettazioni delle donne all’Università di Cambridge.

Ida Smedley Maclean morì il 2 marzo 1944 presso l’University College Hospital di Londra e fu cremata a Golders Green.

Ida è stata una donna straordinaria riuscendo a gestire con successo e equilibrio i tre aspetti della sua vita: ricerca scientifica, impegno sociale e famiglia.

Bibliografia

[1] I. Smedley, The Fatty Acids of Butter, Biochemical Journal., 1912, 6, 451-461.

[2] I. Smedley, E. Lubrzynska, The Biochemical Synthesis of Fatty Acids, Biochemical Journal, 1913, 7, 364-74.

[3] http://www.biochemj.org/search/ida%252Bsmedley

Opere consultate

Mary M.S. Creese, Maclean Ida Smedley (1877-1944), Oxford Dictionary of National Biography, Oxford University Press, DOI: 10.1093/ref:odnb/37720.

Catherine M. C. Haines, (2001). International Women in Science: a Biographical Dictionary to 1950

  1. James, Ida Smedley was the first female member of the Chemical Society, and a vociferous campaigner for equality.

http://www.rsc.org/diversity/175-faces/all-faces/dr-ida-smedley/ https://warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/research/current/early_women_biochem/ida_smedley

[1] Il Progetto Tripos per le Scienze Naturali (NatSci) è tuttora vigente all’Università di Cambridge. NatSci è un corso ampio e flessibile; si inizia studiando quattro materie nel primo anno, almeno una delle quali deve essere matematica. È flessibile nel senso che uno studente può ad es. iniziare il percorso con l’intenzione di diventare un fisico e finirlo come biologo molecolare o vice versa. Ovviamente ai tempi di McLean la scansione temporale era diversa ma la “filosofia” del Tripos è rimasta inalterata. Per entrare, condizione necessaria è aver ottenuto il massimo dei voti in matematica, fisica, chimica e biologia agli esami finali della High School.

[2] Henry Edward Armstrong (1848-1937) chimico britannico. Sebbene Armstrong sia stato attivo in molte aree della ricerca scientifica, in particolare la chimica dei derivati del naftalene, è ricordato oggi soprattutto per le sue idee e il suo lavoro sull’insegnamento della scienza.

[3] Beit Memorial Research Fellowships, una delle borse di studio più prestigiose e competitive per la ricerca post-dottorato in medicina nel Regno Unito. Sono state istituite nel 1909 da Sir Otto Beit, un finanziere britannico di origine tedesca, filantropo e conoscitore d’arte, in memoria del fratello Alfred Beit.

[4]Sir Arthur Harden (1865–1940) biochimico britannico. Condivise il premio Nobel per la chimica nel 1929 con Hans Karl August Simon von Euler-Chelpin per le loro indagini sulla fermentazione degli enzimi zuccherini.

[5]Oggi sappiamo che questo schema è sostanzialmente valido e che l’acetaldeide attiva è l’acetil-coenzima A.

Recensione. Luca Mercalli “Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali”

Mauro Icardi

Luca Mercalli “Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali”. Ed Einaudi pag. 262. Euro 15.30

Recensione.

Il libro del noto climatologo è appena stato pubblicato per la collana “Passaggi” di Einaudi.

Libro che ho letto praticamente tutto d’un fiato. E lo rileggerò, come tutti i libri che trattano di temi che ritengo fondamentali da affrontare e da capire. Troverà il suo posto d’onore insieme a tanti altri che sono i più frequentemente consultati della mia libreria, partendo dall’edizione 1972 de “I limiti dello sviluppo”. Il libro è il compendio di vent’anni di riflessioni e articoli, che affrontano i temi più importanti, e allo stesso tempo ignorati in maniera superficiale o colpevole, del nostro tempo. La crisi ambientale, lo sfruttamento vorace ed insensato delle risorse naturali, il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modifica dei cicli biogeochimici. Prende spunto nella prima parte, dall’opera di Primo Levi e alle sue riflessioni di vita e di comprensione della realtà. Creando un collegamento tra il chimico militante che era Levi, con il climatologo militante che è Mercalli . Militante per la sua incessante attività di divulgatore, ma anche per gli esempi concreti di come si possa vivere diminuendo il proprio impatto sulle risorse del pianeta. Una parte del libro è dedicata proprio ai buoni consigli che altro non sono che accorgimenti quali, tra i tanti, l’uso consapevole e attento dell’acqua, la coltivazione dell’orto.

L’invito a non considerare tutto questo come una fatica impossibile o un sacrificio gravoso. Una doverosa consapevolezza ambientale, unita anche ad un impegno sostanziale. Non un’ecologia naif, ma anche un’ecologia della mente, che ci renda meno soggetti alle lusinghe di moda e frivolezze, più consapevoli di tutti i limiti che pensiamo di poter oltrepassare, con il ricorso a una sorta di post verità di comodo. Il pensiero magico diffuso. Tutte cose che l’autore non solo suggerisce, ma concretamente pratica. Oltre a questo anche la necessità di riportare il tema ambientale nelle agende dei governi del pianeta, cercando di rendere questo impegno condiviso a livello internazionale, come auspicava Aurelio Peccei. Perché la nostra casa, cioè il nostro pianeta è uno solo.

La recensione di un libro è un po’ come quella di un film, non è opportuno svelare troppe cose. Il libro va letto. E apprezzato. Ma ci sono certamente cose che da lettore mi hanno molto colpito, e di cui devo dar conto. Nella seconda parte del libro “Una lettera dal pianeta terra” è un piccolo gioiello.

L’ammonimento del pianeta agli esseri umani a non sfruttare le risorse che essa ha messo loro a disposizione, e di cui stanno facendo un uso sconsiderato. Perché gli esseri umani, quando vogliono sanno essere anime nobili, che producono bellezze come la musica e la pittura. Ma che se non rispetteranno le leggi naturali, saranno da esse stesse eliminati. La terra guarirà così dalle ferite che le sono state provocate, ma con dispiacere e nostalgia.

Nella prima parte il collegamento con l’opera di Primo Levi cerca di aiutarci a capire i meccanismi inconsci di rimozione delle scomode verità, che preferiamo non affrontare, sia a livello di governi, che di singoli cittadini. Delle azioni concrete che tendiamo a rimandare. Mercalli cerca una spiegazione, con un paragone che considera ardito, ma che invece a mio parere è molto adatto.

Così come si sono create realtà di comodo e consolatorie negli anni dell’ascesa delle dittature nazista e fascista, così oggi ci creiamo delle verità comode, delle zone di conforto, come le definisce la psicologia, per evitare di sottoporci all’unica cosa che dovremmo fare da subito. Rientrare nei limiti fisici del pianeta, prima che il pianeta tramite le immutabili ed inarrestabili leggi fisiche e naturali, provveda a ristabilire un equilibrio che farà a meno di noi.

Una delle citazioni dell’opera di Levi nel libro, e che da conto dell’inazione di allora, della cecità volontaria di ieri come di oggi, è questa tratta da “Potassio” del Sistema periodico:

ricacciavamo tutte le minacce nel limbo delle cose percepite o subito dimenticate , ne’ in noi, né più in generale nella nostra generazione, “ariani” o ebrei che fossimo, si era ancora fatta strada l’idea che resistere al fascismo si doveva e si poteva. La nostra resistenza di allora era passiva, e si limitava al rifiuto, all’isolamento, al non lasciarsi contaminare

Non è un libro scritto da un catastrofista, termine ormai abusato, e a cui l’autore credo si sia ormai abituato. E’ un libro che ci vuole aiutare a osservare lo stato del pianeta con un ottimismo consapevole. Che dispensa consigli di ecologia domestica, e ci ricorda anche alcuni nostri comportamenti da correggere.

Una piccola considerazione personale

Ho sorriso leggendo nella terza parte una considerazione sui ciclisti, competitivi o contemplativi. Io appartengo alla seconda categoria. Vado in bicicletta per godere del paesaggio e della natura. Tutte cose che se si tiene la testa piegata solo a guardare il manubrio non si notano. Mi sento soddisfatto quando annoto la CO2 che non emetto (94.4 g per ogni chilometro percorso in bici, invece che in auto). E ogni giorno i 23 km del tragitto casa lavoro diventano il mio piccolo contributo (2.17kg in meno), insieme ad altri accorgimenti, per diminuire impatto ed emissioni. Non ho smanie competitive, o feticismi tecnologici. E anche l’inconveniente del mio incidente, ormai risolto, è un ricordo. E ho ripreso a pedalare. Quindi il messaggio è che la resilienza, e la capacità di godere di bellezza e natura, sono doti che si possono coltivare. Con pazienza e perseveranza. Ed è anche questo messaggio che il libro trasmette e suggerisce.

Ma il tempo davvero sta scadendo, e quindi usiamolo al meglio. E’ la nostra sfida più grande. Soprattutto per chi verrà dopo di noi. Quindi facciamo nostro questo impegno etico e indifferibile.

Saperi Pubblici, Bologna, piazza Verdi, 2 ottobre 2018

Pubblichiamo, con il permesso dell’autore, un intervento tenuto da Vincenzo Balzani il 2 ottobre us a Bologna.

Vincenzo Balzani

Buona sera. Grazie Margherita, poi un grande grazie alle due studentesse che con i loro interventi pubblici hanno portato a questa iniziativa; grazie anche a Federico Condello e a tutti coloro che hanno contribuito ad organizzare questo incontro, e a voi che ci ascoltate.

Siamo qui questa sera per esprimere il nostro disaccordo nei confronti delle decisioni e anche degli atteggiamenti dei capi di questo governo. Siamo qui per criticare. Non è la prima volta che mi capita. Il gruppo di scienziati che ho l’onore di coordinare ha criticato, pubblicamente, il governo Berlusconi quando voleva farci tornare al nucleare, Il governo Renzi quando col decreto Sblocca Italia ha liberalizzato le trivellazioni, il Governo Gentiloni quando ha pubblicato la Strategia Energetica Nazionale imperniata sul metano, sostanzialmente dettata da ENI.

Siamo qui per criticare e qualcuno dirà che criticare è facile; ma noi cha lavoriamo nel settore scientifico sappiamo che criticare è utile e anche necessario. Noi ricercatori siamo abituati sia a criticare che ad essere criticati. Ogni nostro lavoro è sottoposto al vaglio critico di colleghi e spesso tocca anche a ciascuno noi di dover leggere e criticare i lavori di altri. E’ il metodo chiamato peer review. Le critiche che facciamo e che subiamo fanno progredire la scienza perché correggono sviste o anche errori gravi nostri o di nostri colleghi e in certi casi bloccano pubblicazioni che non rispondono a due dei criteri basilare della scienza, che sono oggettività e competenza. Altri pilastri della scienza, oltre a oggettività e competenza, sono la collaborazione, lo scambio di idee, il mantenere vivo il dubbio, il non ritenersi superiori agli altri. Se uno ci pensa bene, si accorge che i pilastri della scienza sono anche i pilastri della democrazia. Ecco perché difendere la scienza significa anche difendere la democrazia.

I filosofi, in particolare Edgar Morin, ci insegnano che i problemi importanti sono sempre complessi e spesso sono pieni di contraddizioni. Nella scienza sappiamo che non esistono scorciatoie per risolvere i problemi complessi, sappiamo che bisogna affrontarli con competenza, con saperi diversi che debbono interagire fra loro, che bisogna affrontarli senza presunzione e senza pregiudizi. Noi siamo qui questa sera per chiedere a chi ci governa di riconoscere la complessità dei problemi che abbiamo di fronte e di non pretendere di risolverli con scorciatoie basate su pregiudizi, ma di attingere a quel deposito di sapienza che è la nostra Costituzione.

Il primo e più grave pregiudizio di alcuni dei nostri attuali governanti è pretendere di avere in tasca la verità, di essere migliori degli altri e quindi di non avere bisogno di nulla e di nessuno. Quindi dicono che si può fare a meno dell’Europa, si può fare a meno della Costituzione, si può fare a meno del Presidente della Repubblica, si può fare a meno della magistratura, si può fare a meno del ragioniere generale dello Stato … Dicono che se ne può fare a meno, perché sono solo ostacoli al “cambiamento”: “sappiamo noi cosa si deve fare e come si deve fare”. In realtà non dicono “si può fare a meno”, ma spesso usano il “me ne frego ” di derivazione fascista. A noi invece don Milani ha insegnato I care, il prendersi cura delle persone e delle cose.

In questi giorni mentre cercavo del materiale per una ricerca sulla sostenibilità ecologica e sociale mi sono imbattuto in un articolo scritto nel 1870 da James Freeman Clarke, un teologo e scrittore americano. Mi ha colpito il titolo dell’articolo: Wanted a Statesman, cioè vogliamo, cerchiamo una statista. Nulla di più attuale, ho pensato. Quindi me lo sono letto tutto. Se a qualcuno interessa, posso fornire il link. Questo Wanted a statesman dice molte cose interessanti. La prima è che uomini politici si nasce, e ce ne sono molti, ma statisti si diventa, e ce ne sono pochi in giro. Clarke fa l’esempio di Abramo Lincoln, il 16mo presidente USA assassinato nel 1865, che aveva iniziato come politico mediocre e poi diventò un grande presidente.

Nel suo articolo Wanted a Statesman Clarke dice che diventano statisti gli uomini politici che, anche a costo di divenire impopolari e di rimetterci la carriera, cambiano, maturano il loro modo di pensare.

Clarke discute in dettaglio questi cambiamenti con vari esempi; io per ragioni di tempo posso solo riassumere cosa, secondo lui, distingue un politico da uno statista. Alcune di queste differenze sono ben note e spesso anche citate. Clarke fa un elenco di sei punti:

  • l’uomo politico si preoccupa delle prossime elezioni, lo statista delle prossime generazioni.
  • L’uomo politico agisce per il successo del suo partito, lo statista opera per il bene del suo paese.
  • L’uomo politico si lascia spingere dal mutevole vento delle opinioni di altri (oggi, potremmo dire, dei sondaggi), lo statista guida il paese lungo una rotta studiata con cura.
  • L’uomo politico mette in atto questa o quella misura specifica, lo statista agisce sulla base di principi incorporati nelle istituzioni.
  • L’uomo politico è prigioniero delle sue idee, lo statista guarda sempre al futuro.
  • L’uomo politico promette che sistemerà tutto in pochi mesi, lo statista sa e dice di avere un compito difficile.

In base a quanto è accaduto in passato e accade tuttora in Italia, potremmo aggiungere che il politico fa annunci mirabolanti (come, ad esempio: abbiamo abolito la povertà) e dopo l’annuncio va sul balcone per farsi acclamare dalla folla entusiasta. Questa “politica del balcone” non mi piace, anche perché suscita brutti ricordi. Lo statista invece parla poco finché non ha conseguito il risultato che si era prefisso.

L’articolo di Clarke, Wanted a statesman, conclude con un concetto molto importante.

Finché saremo soddisfatti di essere governati da politici, ce li terremo. Ma se cercheremo con forza di avere qualcosa di meglio, cioè di essere governati da statisti, la nostra stessa ricerca li farà nascere. Le cose bisogna volerle, conquistarle con impegno. Ecco perché è importante fare manifestazioni come questa, che ci richiama ad un impegno quotidiano. E per mantenere accesa la speranza di far nascere fra noi qualche statista, proporrei di ripeterle, queste giornate, di rivederci nei primi giorni di ottobre del prossimo anno; o anche prima, se ce ne sarà bisogno.

Per finire, vorrei dire che ho letto il contratto di governo Lega-5 Stelle e ho cercato di vedere se da qualche parte è menzionata una parola che mi preme molto: PACE. Mi aspettavo di trovarla nella parte dedicata alla politica estera, abbiamo tanto bisogno di pace mentre, come sapete, continuiamo a vendere armi. Ebbene, sì, ho trovato la parola pace, ma solo nella sezione in cui si parla di tasse: lì c’è la pace fiscale.

 

I 50 anni del Club di Roma

Giorgio Nebbia

Gli anni sessanta del Novecento sono stati un periodo tempestoso della storia: la tensione fra le due potenze nucleari, Stati Uniti e Unione Sovietica, si era aggravata anche per la guerra del Vietnam; si moltiplicavano gli incidenti industriali e gli inquinamenti dei mari e dell’aria; l’uso indiscriminato dei pesticidi persistenti avvelenava il cibo e le acque. Aurelio Peccei, un intellettuale attento alla “difficile situazione” dell’umanità, pensò che gli uomini importanti dei vari paesi avrebbero dovuto collaborare per cercare delle soluzioni; ne riunì alcuni a Roma nel 1968 e nacque così un gruppo, chiamato il Club di Roma.

Con la collaborazione di alcuni studiosi americani il Club di Roma curò la pubblicazione, nel 1972, di un “Rapporto” intitolato “The Limits to growth”, tradotto in tutto il mondo; in Italia col titolo “I limiti dello sviluppo”, fuorviante perché lo sviluppo umano è diverso dalla crescita economica.

Il libro sosteneva che soltanto fermando o almeno rallentando la crescita della popolazione mondiale e della produzione agricola e industriale sarebbe stato possibile far diminuire gli inquinamenti e rallentare il consumo e lo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili: minerali, petrolio, fertilità dei suoli.

Il libro del Club di Roma suscitò una tempesta. Gli economisti si scatenarono sostenendo che soltanto con la crescita economica e con innovazioni tecniche il mondo avrebbe potuto superare le crisi ambientali.

I comunisti, che allora c’erano ancora, sostennero che i guasti erano dovuti alla maniera capitalistica di produrre e consumare e che in una società pianificata i principali problemi potevano essere risolti. I cattolici contestarono la proposta di rallentare la crescita della popolazione con metodi contraccettivi.

Un economista americano, Georgescu Roegen, scrisse che neanche una società stazionaria, con popolazione e consumi costanti, avrebbe potuto durare a lungo a causa dell’inevitabile impoverimento delle risorse naturali limitate in un pianeta, come la Terra, di dimensioni limitate.

Il dibattito fu vivacissimo anche in Italia, come ha scritto lo storico Luigi Piccioni in un saggio pubblicato nella rivista altronovecento (n. 20, 2012).

Col passare del tempo gli avvertimenti del Club di Roma furono accantonati. Il Club di Roma continuò il suo lavoro, anche dopo la morte di Peccei avvenuta nel 1984; il 17 e 18 ottobre si celebre a Roma il 50° anniversario della sua fondazione con la pubblicazione di un nuovo rapporto che suggerisce vari possibili rimedi come l’uso di energia solare, il riciclo dei prodotti usati, la progettazione di prodotti a vita lunga, in modo da far durare di più le risorse naturali scarse.

Le proposte di limiti alla crescita sono accantonate: la popolazione umana, rispetto a 50 anni fa è raddoppiata nei paesi in via di sviluppo i cui abitanti premono alle porte dei paesi industrializzati, porte che restano egoisticamente chiuse benché la loro popolazione stia diminuendo e aumentino gli anziani.

La differenza fra ricchi e poveri è aumentata; le montagne dei crescenti rifiuti della società dei consumi avvelenano i campi, esplodono le città sovraffollate, i rumori di guerra si moltiplicano e cresce il commercio delle armi, al punto da spingere il papa Francesco a scrivere una enciclica “ecologica” e ad avvertire continuamente che il mondo, specie quello dei ricchi, deve cambiare.

Gli eventi stanno dimostrando che i pur sgradevoli avvertimenti del libro sui “Limiti” alla crescita” erano fondati e ha fatto bene la casa editrice Lu::ce di Massa, a ristamparlo nella versione originale italiana del 1972.Si può comprarlo per 12 euro bene spesi perché vi si parla di fenomeni che sono sotto i nostri occhi. Con i suoi grafici il libro mostra che se cresce la popolazione mondiale (oggi cresce in ragione di 80 milioni di persone all’anno), cresce la richiesta e la produzione di beni agricoli e industriali. Di conseguenza diminuisce la fertilità dei suoli e cresce la produzione di rifiuti che non si sa più dove mettere e come smaltire e cresce un inquinamento che non si può fermare e che non si riesce neanche a rallentare; lo prova il crescente riscaldamento globale dovuto alla crescente immissione nell’atmosfera dei “gas serra”, come l’anidride carbonica e il metano, che trattengono all’interno dell’atmosfera ogni anno una crescente quantità di energia. Il conseguente riscaldamento del pianeta porta all’alterazione degli ecosistemi terrestri e marini, a sempre più frequenti e devastanti tempeste, all’avanzata, altrove, della siccità.

Le promesse di edificazione di una società ”sostenibile” e di innovazioni tecnologiche si sono rivelate finora vane; per far fronte ad una società mondiale insostenibile non sono gran che efficaci le proposte di resilienza, di adattamento agli eventi negativi, le proposte di alzare barriere per frenare l’aumento del livello dei mari o di macchine che spazzino via i residui plastici che galleggiano negli oceani o le promesse di colonizzare Marte.

La rilettura, a mezzo secolo di distanza, del libro ora ristampato dovrebbe indurre le autorità mondiali a ripensare al ritornello che si sente ripetere, che occorre incrementare “la crescita” per far aumentare l’occupazione e il benessere. Quando invece davvero il benessere dei paesi ricchi aumenterebbe impegnando l’occupazione in opere di difesa del suolo, di prevenzione degli inquinamenti, di bonifica delle terre contaminate dalle scorie di una crescita industriale sconsiderata; le condizioni di vita dei paesi poveri migliorerebbero se fossero valorizzate e destinate agli abitanti le ricchezze dei loro campi e del loro sottosuolo.

Un ripensamento, insomma, delle regole economiche e dei sistemi politici attuali. Come aveva scritto Peccei nel 1972, la “situazione dell’umanità è difficile” e può migliorare con coraggio e lungimiranza. Chi sa che qualche uomo politico, magari di sinistra, leggendo il libro sui “Limiti” non sia indotto a interrogarsi su un progetto di sviluppo umano piuttosto che di “crescita” di beni materiali e di soldi ?

L’art.41 del decreto “Genova” è un imbroglio o un ragionevole compromesso?

Claudio Della Volpe

Da pochi giorni su tutti i giornali è esploso il problema degli idrocarburi nei fanghi, a causa del fatto che nel cosiddetto decreto Genova uno degli articoli è dedicato a risolvere il problema dell’uso dei fanghi in agricoltura, una delle emergenze che si è sommata negli ultimi giorni a tutto il resto.

L’art. 41 recita:

Disposizioni urgenti sulla gestione dei fanghi di depurazione

  1. Al fine di superare situazioni di criticita’ nella gestione dei fanghi di depurazione, nelle more di una revisione organica della normativa di settore, continuano a valere, ai fini dell’utilizzo in agricoltura dei fanghi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, i limiti dell’Allegato IB del predetto decreto, fatta eccezione per gli idrocarburi (C10-C40), per i quali il limite e’: ≤ 1.000 (mg/kg tal quale). Ai fini della presente disposizione, per il parametro idrocarburi C10-C40, il limite di 1000 mg/kg tal quale si intende comunque rispettato se la ricerca dei marker di cancerogenicita’ fornisce valori inferiori a quelli definiti ai sensi della nota L, contenuta nell’allegato VI del regolamento (CE) n. 1272/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, richiamata nella decisione 955/2014/UE della Commissione del 16 dicembre 2008.

Non sto a pronunciarmi sul fatto che il decreto denominato “Genova” dai giornali contenga altre norme; questo è un fatto che è successo tante volte nella decretazione di urgenza del nostro paese e non ne farei un problema, ma c’entra poco col resto.

Come era la situazione del riuso dei fanghi in agricoltura? Complessa, con un recente intervento del TAR che ha di fatto bloccato il tutto in attesa di un pronunciamento del Governo e del Parlamento. La situazione precedente era ben riassunta da un documento di ISPRA il 228 del 2015 che riporta una dettagliata analisi in ben 115 pagine con i dati riguardanti le regioni che fanno più uso di questo procedimento: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Anche da una rapida scorsa si può vedere che i limiti consentiti di idrocarburi nella sostanza secca del fango raggiungevano in alcune regioni come l’Emilia i 10g/kg sostanza secca, un valore cioè nettamente superiore a quanto stabilito dall’art.41 (1g/kg tal quale, la quota di acqua nel fango arriva all’80%, dunque moltiplicate questo numero per 5 sulla sostanza secca, 5g/kg di sostanza secca).

Quando leggete che la normativa attuale limita a 50mg/kg il valore degli idrocarburi nei fanghi sversabili sul terreno sappiate che si tratta non di una norma nazionale decisa con una legge ma di una una sentenza emanata dal TAR Lombardia il 20 luglio scorso sulla base di un ricorso di alcuni comuni lombardi. La sentenza ha annullato alcune parti della delibera regionale (n.7076/2017), che definivano i parametri di alcuni componenti contenuti nei fanghi per il loro utilizzo in agricoltura. Fino ad allora valevano le decisioni regionali riportate nel documento ISPRA.

Nella sentenza si spiega la ratio della decisione che vi sintetizzo con questa frase:

In proposito si deve anzitutto osservare che, come eccepito dai ricorrenti (che a suffragio delle loro conclusioni hanno prodotto una controperizia) – a differenza di quanto accade per altri materiali (le parti resistenti portano l’esempio di alcuni prodotti alimentari) – i fanghi da depurazione sono destinati ad essere mescolati ad ampie porzioni di terreno e a divenire, quindi, un tutt’uno con esso; appare pertanto logico che il fango rispetti i limiti previsti per la matrice ambientale a cui dovrà essere assimilato.

Se si volesse seguire questo criterio “logico” alla lettera non si potrebbe aggiungere al terreno nulla con una diversa composizione, né un concime, nemmeno naturale né qualunque altro ammendante; perfino il letame non rispetta i limiti della matrice ambientale.

Se voleste seguire questo criterio quando vi prendete un farmaco o un integratore o perfino quando mangiate, la concentrazione del quid nella pillola o nella fiala o nel piatto non dovrebbe superare quella nel vostro corpo!!! E’ un criterio del tutto cervellotico.

Comunque da questo nasce la regola invocata che il tasso di idrocarburi nei fanghi non debba essere superiore a quello dei terreni in cui riversarli; si consideri che nei terreni c’è un tasso naturale di idrocarburi “biogenici” che dipende dal tipo di terreno e di vegetazione e dal livello di inquinamento.

Aggiungo una ultima osservazione; nel suolo ci sono idrocarburi di varia origine, idrocarburi sono le cere vegetali che noi non digeriamo e ricoprono varie specie di foglie e di tessuti vegetali e che finiscono nei fanghi, ma ci sono anche idrocarburi (in questo caso insaturi) dagli splendidi colori, come il licopene del pomodoro o il beta carotene.

Se occorre costruire l’economia circolare e se occorre chiudere il ciclo della produzione il caso agricolo è fondamentale; il cibo produce rifiuti prima di tutto attraverso il nostro corpo e le nostre deiezioni (e quelle degli animali asserviti, ma ce ne sarebbero comunque, tenete presente) ed esse devono essere riciclate e reimmesse in circolo recuperandone l’apporto minerale ed organico.

Questo processo non può essere eliminato e non potrà mai essere eliminato; molti dei problemi che viviamo vengono dal fatto che lo facciamo troppo poco: nitrati e fosfati vengono immessi in circolo in quantità troppo maggiori della bisogna, a partire da aria e minerali, distruggendo i depositi minerali o estraendo azoto atmosferico e accumulando l’eccesso nelle zone morte che stanno crescendo negli oceani del pianeta, nei laghi e nei fiumi. Molto meno da origini naturali, come le deiezioni animali e ancor meno da deiezioni umane (dai depuratori si può recuperare il fosforo per via elettrochimica).

Dunque non ci sono alternative: dobbiamo riciclare i nostri rifiuti organici più e meglio di quanto facciamo ora.

Allora, se le cose stanno così, il riciclo dei fanghi civili, provenienti dalla depurazione dell’acqua delle nostre città costituisce il modo principale di realizzare questo fine.

Stiamo solamente facendo quello che già Liebig chiedeva quasi 200 anni fa:

“But how infinitely inferior is the agriculture of Europe to that of China! The Chinese are the most admirable gardeners and trainers of plants…the agriculture of their country is the most perfect in the world.” Perfect because the Chinese understood the importance of the “most important of all manures,” human excrement. …..“Indeed so much value is attached to the influence of human excrements by these people, that laws of the state forbid that any of them should be thrown away, and reservoirs are placed in every house, in which they are collected with the greatest care.” (Agricultural Chemistry, pp 65-66.)

Non solo azoto e fosforo ci sono nelle nostre feci e in quelle degli animali, ma anche carbonio, organico, organicato, preziosissimo, che occorre evitare si ritrasformi in CO2 e contribuisca all’effetto serra e rimanga invece nel suolo.

Torniamo all’art.41 che analizzo in dettaglio.

Anzitutto l’articolo stabilisce che la legge da seguire sul tema è l’

articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99,

che recita:

Art. 2.

                             Definizioni

  1. Ai sensi del presente decreto, si intendono per:
  2. a) Fanghi: i residui derivanti dai processi di depurazione:

   1) delle acque reflue provenienti esclusivamente da insediamenti

civili come definiti dalla lettera b), art. 1-quater, legge 8 ottobre

1976, n. 670;

   2) delle acque reflue provenienti da insediamenti civili e

produttivi:   tali   fanghi   devono   possedere   caratteristiche

sostanzialmente non diverse da quelle possedute dai fanghi di cui al

punto a.1.;

   3) delle acque reflue provenienti esclusivamente da insediamenti

produttivi, come definiti   dalla   legge   319/76   e   successive

modificazioni ed integrazioni; tali fanghi devono essere assimilabili

per qualita’ a quelli di cui al punto a.1. sulla base di quanto

disposto nel successivo articolo 3.1.

  1. b) Fanghi trattati: i fanghi sottoposti a trattamento biologico,

chimico o termico, a deposito a lungo termine ovvero ad altro

opportuno procedimento, in modo da ridurre in maniera rilevante il

loro potere fermentiscibile e gli inconvenienti sanitari della loro

utilizzazione.

  1. c) Agricoltura: qualsiasi tipo di coltivazione a scopo commerciale

e alimentare, nonche’ zootecnico;

  1. d) Utilizzazione: il recupero dei fanghi previsti al punto a)

mediante il loro spandimento sul suolo o qualsiasi altra applicazione

sul suolo e nel suolo.

Questo articolo è in vigore da quasi 20 anni. In sostanza si chiarisce che NON si possono usare fanghi da insediamenti produttivi diversi nella sostanza da quelli civili.

I limiti delle varie sostanze sono stabiliti nell’allegato IB

Anche la nota L rimane in vigore:

Nota L:

La classificazione come cancerogeno non è necessaria se si può dimostrare che la sostanza contiene meno del 3 % di estratto di Dmso secondo la misurazione IP 346 «Determinazione dei policiclici aromatici negli oli di base inutilizzati lubrificanti e nelle frazioni di petrolio senza asfaltene — estrazione di dimetile sulfosside», Institute of Petroleum, Londra. La presente nota si applica soltanto a talune sostanze composte derivate dal petrolio contenute nella parte 3.

Dunque cominciamo col dire che chi sta gridando e sostenendo che i fanghi si potranno usare senza verificare la loro origine o il loro contenuto in cancerogeni e metalli pesanti e altro dice una sciocchezza.

Nessun valore viene modificato eccetto quello relativo agli idrocarburi la cui catena sia compresa nell’intervallo 10-40, dunque si eccettuano i leggeri e i molto pesanti.

Per questi che costituiscono un elemento rivelatore di qualità, ma alcuni dei quali sono anche di origine naturale si dice:

fatta eccezione per gli idrocarburi (C10-C40), per i quali il limite e’: ≤ 1.000 (mg/kg tal quale).

Cominciamo col dire che non c’era un limite precedente NAZIONALE NEI FANGHI; c’era nei suoli, che era quello a cui si attaccano oggi i critici (50mg/kg peso secco), ma scusate cosa c’entra il limite nei fanghi e quello nei suoli? Anzi diciamo che questa è una regola nazionale che prima non c’era.

Il limite scelto è la metà di quelli usati dalle regioni secondo i dati del documento ISPRA; infatti dato che la tipica composizione del fango è acqua per circa l’80% quel 1000 viene moltiplicato per 5 circa, siamo dunque ad un valore limite dei C10-C40 nel fango di circa 5000mg/kg di peso secco. Questa è comunque una scelta che può creare ambiguità e raggiri, tornerei alla definizione in peso secco.

Il limite europeo nei suoli è di C10-C40 50mg/kg di suolo, misurato in un modo analitico. Quando mettete alcune tonnellate di fanghi per ettaro, tipicamente 5 per ettaro, con una densità del secco che è pari a quello del suolo attorno a 2ton/m3, state distribuendo un volume dell’ordine di 2.5m3 su 10.000m2. Questo corrisponde a 0.25mm di spessore su un suolo che poi le operazioni di aratura, erpicatura, vangatura smuoveranno e mescoleranno per almeno 30cm, ossia 300mm; potrei usare il valore di 40cm come in alcune proposte di legge, ma dato che sono conservativo uso 30. Dunque i vostri 5000mg/kg di fango diventeranno 5000mg/(300/0.25)=4.16mg/kg di suolo. Il suolo finale avrà un incremento di circa 4mg/kg di suolo negli idrocarburi C10-C40, questa sarebbe la variazione nella composizione della matrice.

Ho letto allarmi perchè in tre anni si sverserebbero 75kg/ettaro di idrocarburi; allora calcoliamo quanti ce ne possono stare; il limite è 50mg/kg di terra; i primi 30cm di un ettaro pesano in media 10.000*0.3*2=6000 ton ossia 6.000.000kg che corrispondono a un limite di 300kg di idrocarburi “preesistenti” per ettaro a cui se ne aggiungerebbero 25 all’anno, circa l’ 8%; questa è l’alterazione della matrice.

E’ vero che c’è un limite di 500mg/kg di peso secco per gli idrocarburi di questa fascia nei materiali da portare in discarica, ma con due note: a) si tratta di olio minerale, la tabella lo dice esplicitamente, valutato attraverso questo dato, in sostanza si tratta di fanghi che possono venire anche dall’industria mentre in questo caso la cosa è vietata dal richiamo contenuto nell’articolo e b) inoltre le discariche di cui si parla sono di INERTI; ma l’uso nel terreno non può essere assimilato a quello di una discarica di inerti, il terreno è vivo, in grado di metabolizzare le cose.

A riprova di ciò noto che nella legge che impone la composizione dei rifiuti da scaricare nelle discariche di inerti anche i metalli pesanti sono meno concentrati; le discariche di inerti non sono il suolo.

(in tutti questi calcoli grossolani non sto tenendo conto dell’acqua nel terreno; l’acqua nel terreno insaturo sta al massimo al 20-30% del totale a secondo se è argiloso o sabbioso, dunque i conti possono variare ma l’ordine di grandezza rimane questo che dico).

Ancora non ho capito di cosa si stanno lamentando i Verdi e mi spiace perché di solito condivido le loro critiche. Mi sembra una critica strumentale.

Certo non è una soluzione definitiva, né completa del problema; sarebbe meglio riferirsi ad una legge organica che integrasse e superasse la legge 99; ma è meglio che rimanere con impianti di riciclo e produzioni agricole bloccate.

Certo sarebbe meglio che si dicesse ancora una volta e CHIARAMENTE che i reflui industriali, i fanghi industriali NON possono essere usati nei campi (quasi mai, solo per certe industrie alimentari) specificando i vari casi, chiarendo in dettaglio quali IPA e quali concentrazioni oltre i valori GIA’ stabiliti.

Ma nelle more di una revisione organica della normativa di settore ci sta; l’art. 41 non è una soluzione finale, ma un compromesso ragionevole e TEMPORANEO, non un imbroglio, conserva le regole base contro l’inquinamento da metalli pesanti e cancerogeni e varia solo la componente C10-C40.

La condizione è che:

  • ci sia in futuro, prima possibile, una legge dedicata chiara e completa; questa legge dovrebbe porre limiti differenti per suoli differenti, i suoli argillosi o sabbiosi o con pH diversi non sono da trattare al medesimo modo;
  • che in questa legge si dica che i depuratori devono operare per ridurre i fanghi, cosa che si può fare se si usano accorgimenti opportuni, così si evita il problema alla radice; occorre anche investire nella ricerca di questo settore; per esempio nelle celle MFC (microbial fuel cell) non si generano fanghi;
  • ci siano controlli SEVERI e continui sull’uso dei fanghi, per evitare l’ingresso o contrastare od eliminare l’attività della malavita che cerca continuamente di entrare in ogni lucroso mercato e che sicuramente ha le mani in pasta in questo (come ce l’ha in quello dei rifiuti, fate caso al numero crescente di incendi nei depositi di plastica di cui abbiamo parlato).
  • Sarebbe utile modificare l’articolo 41 sostituendo al termine tal quale e al valore 1000 la dizione equivalente 5000mg/kg s.s.

Pregherei inoltre la TV la prossima volta che fa una trasmissione sui fanghi di chiedere la consulenza di qualche chimico e di non sparare a zero nel mucchio spaventando e senza informare adeguatamente.

Mi spiace per Bonelli e i Verdi e anche per Cianciullo; dovrebbero rifare l’esame di chimica.

Si veda anche:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/03/28/chimica-e-agricoltura-una-risposta-a-carlo-gessa/

https://www.lanuovaecologia.it/un-codicillo-infangato/?fbclid=IwAR111r1Rzi2UxaavFJO_L8X68wVgSrwgAODqIKrOl_-Rl8zeADJY5k8Dd1A

 

Una scienziata affermata scomparsa prematuramente: Phyllis Tookey Kerridge (1901-1940)

Rinaldo Cervellati

Come ricordato in un precedente post, Phyllis Margaret Tookey Kerridge, chimico e fisiologo inglese ideò il microelettrodo a vetro per la misura del pH del sangue e di altri fluidi corporei ed è considerata la fondatrice della moderna audiometria.

Phyllis nacque nel 1901, unica figlia di William Tookey, un noto ingegnere di Broomley, nel Kent. Completò gli studi preuniversitari nella City of London School for Girls, distinguendosi in particolare nelle materie scientifiche. La sua carriera universitaria è descritta come “brillante”[1], ma la sua ricostruzione è complicata in quanto elencata sia come membro dello staff dell’University College London (lettore dal 1923) che come studente (dal 1919 – fino al completamento degli studi in medicina 14 anni dopo). Conseguì il B.Sc. in Chimica e Fisica nel 1923, il M.Sc. in Chimica nel 1924 e completò il dottorato di ricerca nel 1927. Tuttavia, nel frattempo continuò gli studi di medicina diventando membro del Royal College of Surgeons e ammessa al Royal College of Physicians nel 1933 (membro RCP a tutti gli effetti nel 1937)1.

Phyllis M. Tookey Kerridge

Phyllis visse in famiglia fino al 1926, quando si sposò con William Kerridge, prendendo residenza a Londra in St Petersburgh Place . Del marito si sa poco, ma l’insistenza di Phyllis a mantenere il suo nome da nubile anche dopo il matrimonio (da allora in poi Phyllis Tookey Kerridge) è certamente un’indicazione delle sue idee sul ruolo delle donne nella società e il suo sostegno alle istanze femministe. Nel periodo studentesco fu registrata come membro del comitato della Women’s Union Society.

Il suo interesse per lo sviluppo di un elettrodo a vetro in miniatura nacque dalle ricerche per il suo dottorato in chimica. Phyllis Tookey conosceva bene la chimica fisica e questo le permise di progettare elettrodi a vetro in grado di fare misure su piccole quantità di campioni o che fossero inseribili nei tessuti dei viventi. A quest’ultimo scopo molte fonti[2] riportano che Tookey risolse il problema cercando di massimizzare l’area della superficie dell’elettrodo, senza aumentare le dimensioni del contenitore esterno. Trattò il filo di platino con cloruro di platino scaldando poi fino al calor rosso ottenendo un’area di superficie efficace per la misura del potenziale.

Tuttavia nei due articoli che Phyllis Tookey pubblicò prima della discussione della dissertazione scritta [1,2] non è menzionata questa procedura, è invece descritta la preparazione di un recipiente miniaturizzato di vetro sottile.

Nel suo importante articolo del 1925, Tookey, dopo aver discusso le difficoltà tecniche nella miniaturizzazione, nonchè lo schema dell’intero circuito utilizzato per le misure, riporta la seguente figura della parte elettrochimica dell’apparato:

Figura 1 Apparato di P. Tookey Kerridge: a sinistra l’elettrodo di misura (vetro + calomelano), a destra l’elettrodo di riferimento a calomelano (dall’originale [1])

A proposito dell’elettrodo a vetro, Tookey scrive [1]:

A form of electrode found very convenient for biological purposes is illustrated in Fig. 2. The membrane in this case is in the shape of a deep spoon sucked inside a bulb of thicker glas. This is very easily glass-blown after a little practice. The solution of known pH may be filled into the outer bulb by turning the electrode on its side and putting the tube A under the jet of a pipette or burette, the air in the bulb escaping through B. The other solution, that of unknown pH for example, is put into the spoon. The advantages of this form are self-evident. Filling, washing and emptying the inside solution are simple operations. The membrane blown in this way seems to be under less strain than when blown at the end of a tube, and does not break so easily, and the quantity of liquid required for the spoon is very small. The total capacity of the spoon is about 1 cc. and it need never be more than half-full. A smaller quantity than 0,5 cc. may be used if necessary. If the liquid under experiment is liable to air oxidation or to loss of CO2 it may be covered with liquid paraffin without affecting the E.M.F.

[traduzione]

Una forma di elettrodo trovata molto conveniente per scopi biologici è illustrata in Fig. 2. La membrana in questo caso ha la forma di un cucchiaio profondo aspirato all’interno di un bulbo di vetro più spesso. Ciò si ottiene facilmente dopo un poco di pratica. Il bulbo esterno viene riempito con la soluzione a pH noto ruotando l’elettrodo su un lato, attraverso il tubo A con l’aiuto di una pipetta o di una buretta, l’aria fuoriesce attraverso B. L’altra soluzione, quella a pH sconosciuto viene posta nel cucchiaio. I vantaggi di questa forma sono evidenti. Riempire, lavare e svuotare la soluzione interna sono operazioni semplici. La membrana soffiata in questo modo sembra essere meno sollecitata di quando viene soffiata all’estremità di un tubo, e non si rompe così facilmente, e la quantità di liquido richiesta per il cucchiaio è molto piccola. La capacità totale del cucchiaio è di circa 1 cc. e non deve mai essere più che mezzo pieno. Una quantità inferiore a 0,5 cc. può essere usato se necessario. Se il liquido in esame è suscettibile all’ossidazione dell’aria o alla perdita di CO2, può essere coperto con paraffina liquida senza influenzare la f.e.m.

 

Niente filo di platino, la sua funzione è assicurata dalla giunzione con l’elettrodo a calomelano. Lo stesso assemblaggio è descritto nel successivo lavoro del 1926 [2]. Potrebbe essere che il discorso sul platino sia contenuto nella tesi discussa nel 1927, che non sono riuscito a ritrovare (molti archivi di quegli anni sono andati distrutti durante la 2a guerra mondiale).

Di platino non ne parla nemmeno nell’articolo sugli effetti di vari additivi sul pH del sangue, scritto in collaborazione con Robert Havard [3]. Quest’ultimo sembra essere il termine delle ricerche di Tookey Kerridge a carattere principalmente chimico.

Dopo essersi diplomata in medicina all’inizio degli anni ’30, Kerridge fu raccomandata dal Dr. Edward Poulton al costruttore di strumenti scientifici Robert W. Paul, che stava cercando una persona per condurre rigorosi test fisiologici su un respiratore chiamato “pulsatore” creato da William Henry Bragg[3]. I test di Tookey Kerridge fornirono numerose misurazioni fisiologiche utili per migliorare l’efficienza del dispositivo. Suggerì anche miglioramenti al design per ridurne complessità e ingombro. Oltre a ciò Tookey Kerridge svolse anche un ruolo attivo nel pubblicizzare l’apparecchio. Scattò molte fotografie dei suoi assistenti di laboratorio con il dispositivo, consigliò a Bragg e Paul di pubblicare l’apparato nei Proceedings of the Royal Society of Medicine e lei stessa ne scrisse su Lancet [4].

Respiratore di Bragg-Paul-Tookey Kerridge

Nella seconda metà degli anni ’30, Tookey Kerridge lavorò al Royal Ear Hospital e sviluppò standard audiometrici per i test dell’udito. Svolse anche un ruolo significativo nella costruzione di apparecchi acustici per i non udenti. Il suo vivo interesse per la musica le ispirò simpatia per coloro che hanno perso l’udito. Il suo lavoro si incentrò quindi in particolare sull’incidenza della sordità nei bambini. Incoraggiò i suoi studenti ad accompagnarla durante le visite ai sobborghi di Londra per stabilire potenziali fattori socio-economico-ambientali nell’eziologia della sordità in bambini in età scolare. Per questa ricerca ottenne nel 1936 un finanziamento dal Medical Research Council di Londra. Gli esperimenti audiometrici furono effettuati nella ‘stanza del silenzio’, un’enorme stanza insonorizzata nel seminterrato dell’University College Hospital a Londra, la prima istituzione britannica a possedere un audiometro elettrico che utilizzava test a toni puri piuttosto che a registrazione vocale.

La ‘stanza del silenzio’

L’esperienza di Kerridge nella tecnologia degli apparecchi acustici fu utilizzata dalle Poste e Telefoni Britannici. Inizialmente erano interessati al miglioramento della qualità del suono nelle linee telefoniche. Tuttavia, Tookey Kerridge ha collaborato con l’ufficio postale in modo più approfondito quando iniziò a testare l’udito dei telefonisti con il suo audiometro. Nel 1937 fece installare negli uffici postali i telefoni amplificati progettati per le persone con problemi di udito.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Tookey Kerridge stava lavorando all’University College Hospital. È stata distaccata al servizio medico di emergenza dell’ospedale di St Margaret, a Epping. Lì, Kerridge e i suoi colleghi attrezzarono un laboratorio improvvisato per trasfusioni di sangue e indagini patologiche.

Omaggio a Phyllis Tookey Kerridge

Colta da una improvvisa rara malattia, Phyllis Margaret Tookey Kerridge morì il 22 giugno 1940 all’età di 38 anni. Scienziata già affermata e nota, oltre alla rivista Nature, anche il quotidiano The Times ne pubblicò un necrologio il 26 giugno 1940.

Bibliografia

[1] P. Tookey Kerridge, The Use of the Glass Electrode in Biochemistry., Biochemical Journal, 1925, 19, 611-617.

[2] P. M. Tookey Kerridge, The Use of Glass Electrodes., Rev. Sci. Instr., 1926, 3, 404-409.

[3] R. E. Havard, P. Tookey Kerridge, An Immediate Acid Change in Shed Blood., Biochemical Journal, 1929, 23, 600-607.

[4] P.M. Tookey Kerridge, Artificial respiration for two years., The Lancet1934, 223, 786–788.

[1] University College London Annual Report for 1940, http://www.inventricity.com/phyllis-kerridge

[2] Oltre al sito della nota precedente v. http://www.inventricity.com/phyllis-kerridge-chemist-inventor

[3] Sir William Henry Bragg (1862-1942), britannico, fisico, chimico e matematico, condivise il premio Nobel per la Fisica 1915 con il figlio Lawrence Bragg, “per le loro ricerche sull’analisi della struttura cristallina mediante raggi X”.

Un chimico alla prova dell’emozione.

Mauro Icardi

Terminata la mia breve presentazione alla cerimonia di premiazione dei vincitori della selezione regionale lombarda dei giochi della chimica 2018, scrivo questo breve post, che è sostanzialmente un ringraziamento.

Certamente rivolto agli organizzatori, che hanno voluto la mia presenza, per una breve conferenza che ho intitolato “Spirito di osservazione e sensibilità chimica: due doti del chimico”. Ho cercato di trasmettere alcune sensazioni personali. Di identificare in qualche modo quel qualcosa che unisce chi si occupa di chimica. La sensibilità nella pratica di una scienza che, a fronte di tanti che ancora banalmente denigrano considerandola con leggerezza la dispensatrice di ogni male, invece suscita ancora fascino ed entusiasmo.

Ho aggiunto anche qualche argomento legato al mio ormai quasi trentennale lavoro di chimico del ciclo idrico. Ma devo dire, e lo dico con molta emozione, che ho certamente ricevuto più di quanto ho dato nella mia conferenza.

Ho visto negli occhi dei ragazzi che sono stati premiati molta comprensibile emozione, ma tanto entusiasmo per le meraviglie che la chimica può suscitare. E come sempre mi accade ho ricevuto davvero ottime sensazioni. Gli interventi di alcuni ragazzi premiati che hanno parlato della loro esperienza di studio e di conoscenza della chimica, sono stati un grande segno di positività. In primo luogo per il giusto ringraziamento ai loro insegnanti, capaci di instaurare con loro un corretto e proficuo rapporto docente-studente. Fondamentale per migliorare l’apprendimento ed il percorso scolastico, ma anche per la crescita personale dei ragazzi. Come sempre, gli alberi che cadono (mi riferisco a fatti di cronaca che riportano notizie di insegnanti insultati o addirittura percossi e minacciati) sovrastano nell’immaginario le foreste che crescono. E c’è un gran bisogno che queste diventino rigogliose.

I ragazzi spiegando cos’è per loro la chimica mi hanno fornito molti spunti. La chimica come linguaggio, in riferimento alla tavola periodica ( e quindi come non collegare immediatamente il pensiero a Levi che la definì “La più alta e più solenne di tutte le poesie”.) La chimica come chiave di lettura del mondo, di come esso funziona ed evolve. La chimica “Bella e potente”.

Mi ha contagiato il loro entusiasmo giovanile. Le discussioni di chimica che i ragazzi hanno citato, passando dalla cristallizzazione dell’acqua nei gelati, fino alle discussioni fino all’alba sul riconoscimento degli spettri IR. Ho provato le ben note sensazioni di arricchimento reciproco. Non sono un insegnante o un docente universitario. Quindi potrei difettare di conoscenze pedagogiche. Ma ho dedicato negli anni ad altri studenti un poco del mio tempo, e li ho ascoltati e incoraggiati quando sono venuti a svolgere i loro stages o a completare il loro percorso di tesi, in campo, nel luogo dove lavoro ormai da quasi trent’anni. Un depuratore di acque reflue. E questo ha aiutato anche me a crescere. Lasciando ricordi indelebili.

L’auspicio è che questi ragazzi possano trovare la loro realizzazione professionale. La chimica può e deve fare tanto, ad esempio per il disinquinamento. Ci sono dei problemi che aspettano una soluzione, penso agli inquinanti emergenti. Alla sintesi di nuove molecole e prodotti che possano essere rimessi in circolo senza perturbare l’ambiente. Il loro entusiasmo, la loro passione, la loro futura preparazione e professionalità meritano di essere riconosciute e premiate.

Ringrazio il comitato organizzatore nelle persone di Domenico Albanese (Presidente della sezione regionale Lombardia della Società Chimica Italiana),Mariano Calatozzolo, Carmen Capellini, Donatella Nepgen, Paolo Tenca.

Estendo il ringraziamento alla redazione del blog. L’invito che mi è giunto gradito ed inaspettato arriva dopo anni di lavoro con una redazione dove si lavora davvero bene. Quindi ringrazio Claudio Della Volpe, Margherita Venturi, Vincenzo Balzani, Rinaldo Cervellati, Giorgio Nebbia, Luigi Campanella, Silvana Saiello e Annarosa Luzzatto.

Un ringraziamento va anche a Valentina Furlan, la collega con la quale lavoro ormai da sedici anni. Per l’incoraggiamento a vincere l’emozione prima della conferenza, e per aver documentato con qualche foto il ricordo di questa giornata.

E ringrazio ancora i ragazzi. Quelli premiati, e quelli che si sono cimentati nei giochi.

E vorrei chiudere questo post con questo brano di Francesco Muzzarelli tratto dal libro “Studio dunque sono”

Il proprio sistema di apprendimento plasma la visione del mondo e determina le nostre opportunità.

Saper imparare, non smettere mai di imparare, significa dare un orientamento consapevole e responsabile alla propria evoluzione

Glifosato e api da miele

Rinaldo Cervellati

Il discusso erbicida glifosato (di cui abbiamo parlato diffusamente nel blog, cercate glifosato in alto a destra e anche nella rubrica La Chimica allo specchio di C&I) potrebbe incrementare la mortalità delle api da miele come ritiene uno studio riportato da M. Satyanarayana nell’ultimo numero di settembre di Chemistry & Engineering newsletter on-line.

Struttura molecolare del glifosato

Lo studio, effettuato da un gruppo di ricercatori in Texas, ha evidenziato che l’erbicida, commercializzato col nome RoundupÒ, potrebbe danneggiare le api indirettamente perturbando la flora batterica del loro intestino. (E.V.S. Motta et al. Glyphosate perturbs the gut microbiota of honey bees., Proc. Nat. Acad. Sci. USA., 2018, DOI: 10.1073/pnas.1803880115). Gli scienziati pensano che i risultati potrebbero aiutare a spiegare il declino delle api da miele osservato negli ultimi anni.

Il gruppo, coordinato da Nancy Moran, esperta in biologia delle api alla Texas University di Austin, ha esposto centinaia di api operaie al glifosato a concentrazioni uguali a quelle che avrebbero potuto incontrare nei pressi di campi agricoli trattati con l’erbicida.

Nancy Moran

Questo gruppo di api è stato poi reintrodotto nel proprio alveare. Dopo tre giorni la flora batterica dell’intestino di queste api è stata analizzata e confrontata con quella di un gruppo di api non trattato col glifosato. I ricercatori hanno scoperto che l’abbondanza di alcune delle otto specie predominanti di battèri intestinali era significativamente diminuita nelle api trattate rispetto a quelle non trattate, suggerendo che l’esposizione al glifosato aveva modificato la composizione della flora batterica intestinale nel gruppo di api trattato. I due gruppi sono stati poi esposti a un comune agente patogeno delle api. E’ risultato che le api operaie esposte al glifosato sono decedute a velocità più elevate rispetto alle api non esposte, portando alla conclusione che la diminuzione di alcuni battèri della flora intestinale aveva reso gli insetti trattati più vulnerabili degli altri.

Queste conclusioni corrispondono a quelle riportate in precedenza che hanno dimostrato che le api da miele con flora intestinale compromessa sono malnutrite e suscettibili alle infezioni. Moran sostiene che questi risultati, insieme ai dati che mostrano che il glifosato può influenzare i battèri del suolo e che si accumulano nelle api, suggeriscono ai ricercatori di valutare se i possibili effetti indesiderati del popolare erbicida abbiano avuto un ruolo nel declino delle api.

Continua Moran: “Circa 10 anni fa, ci fu un preoccupante declino nelle popolazioni di api da miele, in seguito chiamato colony collapse disorder. I tassi di mortalità hanno continuato ad essere alti, ma i decessi non sono stati così improvvisi.”

Fred Gould, entomologo, patologo ed ecologista, professore distinto della North Carolina State University, fa notare che ricercatori hanno esaminato il ruolo di diversi pesticidi e fungicidi nel declino e nell’infezione delle colonie di api, ma il glifosato non era mai stato preso in considerazione. La ricerca di possibili effetti trascurati, come quelli descritti nel nuovo studio è un sintomo che questo settore di indagine è in netto miglioramento rispetto al passato.

Fred Gould

Come quasi tutti gli erbicidi, il glifosato agisce bloccando un enzima chiamato EPSP sintasi nelle piante, necessario per la biosintesi di amminoacidi aromatici come la fenilalanina, la tirosina e il triptofano, impedendo così la crescita delle piante[1]. Il glifosato non uccide i battèri, ma impedisce loro di crescere, e la maggior parte dei batteri trovati nell’intestino delle api portano il gene che codifica l’enzima.

Ma mentre alcune specie di battèri che abitano nell’intestino delle api sono sensibili al glifosato, altre lo sono meno, perché portano un gene per una forma di EPSP resistente al glifosato, o per altri meccanismi sconosciuti, dice Moran. Il suo gruppo ha in programma di ripetere i loro esperimenti su alveari interi e di esplorare i meccanismi di nonresistenza degli EPSP.

Colonia di api da miele

L’impatto ambientale e gli effetti sulla salute del glifosato sono una questione ancora controversa dice Gould, quindi studi sull’ intero alveare potrebbero far luce sugli effetti dell’ erbicida su una specie critica per l’agricoltura.

Questi studi potrebbero anche aiutare a evitare possibili effetti negativi del glifosato sulle api. Il risultato probabile sarà una sorta di miglior pratica su quando e dove spruzzare il glifosato, dice Juliana Rangel, entomologa della Texas A & M University.

Juliana Rangel

L’impollinazione attraverso le api è un’industria di circa 15 miliardi di dollari l’anno, dice, e “molte volte, tragedie come il colony collapse disorder possono essere evitate con una migliore comprensione dell’ecosistema”.

[1] A differenza di molti altri erbicidi che risultano efficaci contro alcune specie, cioè selettivi, il glifosato è un erbicida totale il che ne spiega l’uso generalizzato.