Cosa sono l’Ordine dei Chimici e il Consiglio Nazionale dei Chimici?

 

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

 

a cura di Fabrizio Demattè* e Andreas Verde*


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Fabrizio Demattè

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Andreas Verde

A questo quesito non è facile rispondere perché si tratta di descrivere delle istituzioni, che, con quasi 90 anni di vita, per gli attuali iscritti sono sempre esistite, mentre per chi non è iscritto possono sembrare cosa astrusa o uno strumento di coltivazione di privilegi.

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Andreas, Claudio, Fabrizio, Massimo, chimici a Trento

Per raccontare queste istituzioni è necessario andare indietro nel tempo fino al lontano 1928, anno in cui lo Stato italiano a mezzo di un Regio Decreto (R.D. del 1° marzo 1928, n. 842) ha inteso di “ordinare” alcune professioni cosiddette “protette”. Protette da chi?

Nel citato Regio Decreto veniva stabilito che le professioni dovevano esser organizzate per proteggere tutta l’utenza da prestatori d’opera senza preparazione e dare ai professionisti con i titoli un codice etico-deontologico da rispettare.

Da qui il concetto di “professione protetta” nel senso che protegge i cittadini utenti da persone che millantano titoli o che interpretano l’etica in maniera personale.

Dai primi decenni del novecento, quindi, la necessità di costituire, da una parte, un Ordine per tenere “in Ordine” le persone che intendono fare il chimico (sono gli attuali Ordini Territoriali); dall’altra, il relativo organismo di rappresentanza istituzionale nazionale che è il Consiglio Nazionale.

Al tempo della costituzione degli Ordini e quindi della figura del Chimico, risultava chiaro che una persona poco preparata non poteva produrre prestazioni professionali come un Chimico. Risultava chiaro che una determinazione analitica errata poteva portare ripercussioni negative su molte persone. Risultava chiaro, al tempo, che un giudizio di conformità ad una norma poteva portare effetti rilevanti sia economici che sociali anche vasti. Oggi, questo rischio è meno evidente e non si associa automaticamente l’attività del chimico alla tutela della salute umana se non quando vi sono degli errori o delle frodi e che queste ultime portano ad accadimenti negativi.

Lo scopo preventivo dell’ordinamento e dell’autoregolamentazione etica svilisce mediaticamente alla luce di questi accadimenti.

L’ordinamento di questi professionisti parte a livello territoriale. Lo Stato demanda attraverso il Ministero di Giustizia il mandato ad un organismo di “autogoverno” costituito a livello territoriale da soli iscritti, che si chiama Ordine dei Chimici territoriale; a volte su base provinciale, altre volte su base interprovinciale, altre ancora su base regionale.

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Il Chimico quindi da quel Regio Decreto è solo chi: laureato in chimica (o equipollenti), abilitato dall’esame di Stato, sia iscritto e sia pubblicato nell’ Albo professionale. Solo questi professionisti si possono chiamare “Chimici” come analogamente solo i laureati in medicina, abilitati con Esame di Stato e regolarmente iscritti all’Ordine dei Medici si possono chiamare “medici”.

Ogni Ordine territoriale dei Chimici è presidiato da un Consiglio Direttivo, che è costituito da Chimici del territorio votati dall’assemblea degli iscritti; nel gergo corrente si individua sommariamente l’Ordine territoriale con il Consiglio Direttivo dell’Ordine territoriale.

Gli Ordini territoriali hanno, dalla loro costituzione, come attività primaria quella di disciplinare la professione tra gli iscritti fungendo da organo di giudizio e sanzionatorio esterno al Tribunale ed autonomo. Inoltre una attività importante e parallela era ed è quella di vigilare le persone non iscritte che abusivamente praticano la professione di Chimico.

Molte altre funzioni ed attività si sono sovrapposte anche per dare concretezza e applicazione ai principi della riforma delle professioni in particolare nell’ultimi anni, trasparenza, formazione, privacy, PEC, assicurazioni, disciplina, firma digitale, per citarne alcune.

Da qualche anno soltanto lo Stato italiano, nella recente riforma delle professioni, ha ritenuto fondamentale distaccare il Consiglio di Disciplina dal Consiglio Direttivo. Il Consiglio di Disciplina ora è, infatti, un soggetto autonomo, che viene nominato dal Tribunale di riferimento territoriale su indicazione dell’Ordine Territoriale.

L’indipendenza dei due organi è garanzia di maggior libertà nel verso di una disciplina più libera e legata esclusivamente al codice deontologico. Tra qualche anno si potrà porsi a verifica di questo nuovo assetto per appurare se la riforma avrà prodotto gli effetti attesi.

Non è quindi possibile parlare dell’Ordine dei Chimici e del Consiglio Nazionale dei Chimici senza parlare dei processi disciplinari. Infatti il Consiglio Territoriale, informa, deferisce, invia al Consiglio di Disciplina, il quale, sulla base del Codice Deontologico, giudica e impartisce sanzioni disciplinari o archivia, mentre il Consiglio Nazionale è il secondo grado di giudizio, per gli eventuali ricorsi di iscritti sanzionati.

Il senso di questa norma sta nel fatto che solo i Chimici hanno le competenze tecnico scientifiche per giudicare l’operato di altri Chimici, un Giudice della magistratura ordinaria dovrebbe avvalersi comunque di una commissione di Chimici.

L’Ordine territoriale gestisce anche l’Albo, cioè l’elenco pubblico dei professionisti abilitati. Da qualche anno, per via di una razionalizzazione di propulsione europea, questo “elenco” è unico e nazionale. Anche se ogni Ordine Territoriale cura la propria lista, l’elenco unico si può vedere pubblicamente sul sito www.Chimici.org. Ogni chimico abilitato grazie a questo elenco unico si può trovare sull’elenco delle PEC https://www.inipec.gov.it/cerca-pec.

L’Ordine Territoriale inoltre, si cura di promuovere eventi formativi per ottemperare all’obbligo di formazione continua.

L’obbligo che più di tutti incombe sul Ordine Territoriale dei Chimici è quello di vigilanza, tra gli iscritti e verso quelli che esercitano abusivamente la professione. Vigilare sulla condotta si declina con la vigilanza sulla formazione, sull’assicurazione, sull’uso del sigillo professionale, sul mantenimento di comportamenti corretti come scritti nel Codice Deontologico che ogni iscritto accetta di rispettare all’atto dell’iscrizione.

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Il Consiglio Nazionale dei Chimici è l’anello di congiunzione tra le decine di Ordini territoriali e l’unico Ministero della Giustizia dello Stato Italia. Esso è per legge un Ente pubblico non economico.

Composto da 15 consiglieri, il Consiglio ha il compito di contrastare l’uso abusivo del titolo di chimico e l’esercizio non autorizzato della professione. Esso è quindi l’organo istituzionale che garantisce alla comunità professionisti qualificati: Chimici in possesso delle conoscenze e delle competenze riconosciute alla legge, che rispondono a norme di deontologia pubblicamente dichiarate e verificate nella loro applicazione.

Il Consiglio ha funzione giurisdizionale rispetto a ricorsi e reclami degli iscritti nei confronti degli Ordini territoriali; esprime inoltre pareri, su richiesta dei Ministeri, in merito a proposte di legge e regolamenti riguardanti la professione, oltre ad avere la funzione di referente del Governo in materia di tariffa professionale.

Il Consiglio Nazionale dei Chimici, inoltre, ha la potestà di fornire parere al Ministero vigilante in caso di scioglimento dei singoli Consigli degli Ordini, quando essi non siano in grado di funzionare regolarmente (art. 8 D.Lgs.Lgt. 382/1944). Il Consiglio Nazionale dei Chimici è chiamato in causa anche direttamente dai Chimici qualora il livello territoriale non rispondesse alle norme deontologiche.

Tra gli obiettivi primari che il Consiglio si propone c’è la volontà di rafforzare il peso della figura professionale del chimico nella società italiana.

La varietà territoriale dell’Italia conferisce al Consiglio Nazionale anche una funzione di uniformazione nazionale della gestione di una professione a carattere nazionale.

Il Consiglio Nazionale dei Chimici può prendersi carico, come dimostrato negli ultimi anni, di incombenze amministrative che spettano agli Ordini territoriali su scala nazionale; attuando economie di scala particolarmente rilevanti come nella creazione di software gestionali, nella convenzione per le PEC, nella convenzione per la firma digitale, per il portale della formazione, nella gestione dell’ INI, per le assicurazioni, ecc.

Il Consiglio Nazionale dei Chimici è luogo di confronto con gli Ordini territoriali e dovrebbe essere sede di raccolta delle istanze verso livelli superiori dello Stato o con omologi di altre professioni.

Ecco quindi che il Chimico diventa è soggetto a 2 figure istituzionali con ruoli e responsabilità diverse che vivono in continuo interscambio e ne disciplinano l’etica e la deontologia. Il Consiglio Nazionale dei Chimici Infatti può rivedere il Codice deontologico senza necessità che gli Ordini lo recepiscano diventando cogente per tutti i Chimici, ma altresì vero che il CNC è composto con i voti degli Ordini Territoriali.

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Gli Ordini sono istituzioni strane, perché pur avendo poteri attribuitigli dallo Stato sono governati dagli stessi iscritti in base ad un meccanismo democratico di rappresentanza ed autogoverno. Anche il Consiglio Nazionale dei Chimici è eletto dagli Ordini territoriali. Ogni Ordine ha un numero di voti proporzionali agli iscritti rappresentati. Il prossimo 5 febbraio 2016, i consigli degli Ordini Territoriali dei Chimici si riuniranno contemporaneamente, ciascuno nella propria sede, per esprimere le preferenze tra i candidati.

Primo cambio al Consiglio Nazionale dopo il varo della riforma delle professioni, che ha visto forti cambiamenti ed innovazioni con un generale rafforzamento delle tutele del cliente-utente.

Molti attuali consiglieri non potranno ricandidarsi, proprio a causa della riforma, ma alcuni consiglieri potranno esser da ponte verso un nuovo consiglio.

Un’altra particolarità è l’aspetto economico, infatti pur essendo enti non economici dello Stato, amministrano le quote di iscrizione, che per legge gli iscritti devono versare a livello locale e a livello nazionale rispettivamente. Pur esercitando un servizio pubblico gli O.T. e il C.N.C. non ricevono denaro pubblico, se non per specifiche iniziative.

Sono considerati enti pubblici non economici che li distingue quindi da associazioni o sindacati, che hanno altre finalità.

A titolo indicativo il bilancio di esercizio dell’Ordine territoriale di circa 100 iscritti prevede entrate da iscrizioni per ca. € 18.000, mentre il bilancio di esercizio del Consiglio Nazionale dei Chimici prevede entrate da iscrizioni per ca. € 700.000.

Questi due organismi quindi lavorano prevalentemente tra i Chimici per elevare la credibilità e l’autorevolezza della figura del Chimico, in particolare nell’attuazione della riforma delle professioni voluta dallo Stato. Questo lavoro per trasparenza, formazione, assicurazioni, verifiche ecc. che ha impegnato gran parte degli ultimi 3 anni, sconta un ritardo di iniziative dei decenni precedenti, ma sperabilmente porterà un miglior servizio ai cittadini.

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Certamente la società italiana ha avuto una evoluzione notevole dal 1928 al 2016 ed alcune istituzioni rischiano di diventare inutili se non addirittura dannose se non si ripensano in base ai mutati bisogni della società stessa. Ecco quindi che alla vigilia del rinnovo del Consiglio Nazionale dei Chimici l’augurio che questo sappia interpretare le mutate esigenze della società che sta “proteggendo” e che si sappia evolvere fino a prevedere i bisogni che la società avrà tra qualche anno.

Va fatto un momento di autocritica importante. Per la cittadinanza è chiaro cosa sia esclusivo di un ingegnere edile, oppure cosa sia di esclusivo dominio del medico, poco o per nulla è chiaro alla massa quali siano le attività esclusive del Chimico. Gran parte del lavoro degli Organi Territoriali e del Consiglio Nazionale è stato quello di tutelare un “area di esclusività”, che è andata via via assottigliandosi anche per forti invasioni da parte di altre professioni anche non avendone le competenze. Assottigliamento dell’area di competenza non tanto giuridico quanto invece nel senso pratico e nell’immaginario collettivo.

L’intenso lavoro istituzionale di “difesa” ed il forte lavoro interno non ha permesso di rivedere i confini del “area di attività esclusive” per un ampiamento ed estensione. E’ anacronistico relegare l’ambito esclusivo dei Chimici alla mera azione analitica e sarebbe opportuno trovare nuovi spazi di esclusività. Nuovi spazi di esercizio della professione come le “valutazioni del rischio chimico” a cui i lavoratori sono esposti, le Schede dati di sicurezza e le normative europee sugli Agenti Chimici e sui trasporti di Agenti Chimici pericolosi, solo per fare alcuni esempi. Vi sono molti ambiti professionali dove si sviluppano nuove attività chimiche troppo spesso esercitate da altri professionisti senza cognizione alcuna delle certezze chimiche e senza “Ordine”.

Al nuovo costituendo Consiglio si affida la speranza di pensare in grande e non solo un pensiero difensivo, ci sono intere generazioni di giovani Chimici, che attendono pazientemente di ritagliarsi un posto dignitoso nella società ed al servizio della stessa.

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chimica x nS futuro.inddNuovi territori professionali dove tornerebbero ad aver senso i principi fondativi di protezione, quasi urgente necessità della difesa della salute del cittadino con autoregolamentazione dei professionisti che esercitano in tali settori.

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Ecco quindi che le strutture di ordinamento dei Chimici potrebbero esser maggiormente di servizio ai Chimici allargando le possibilità di esclusività professionale e di aumento in visibilità ed autorevolezza nei confronti della società. Anche questo è un buon auspicio da affidare al nuovo Consiglio Nazionale.

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  • Fabrizio Demattè e Andreas Verde, chimici professionisti, sono rispettivamente membro del consiglio e presidente dell’Ordine dei Chimici del Trentino Alto Adige – Sud Tirol (TAA-ST) e da poco sono anche membri della neosezione TAA-ST della Società Chimica Italiana; Andreas è anche presidente protempore della nuova sezione.

Oggi 27 gennaio.

Oggi 27 gennaio 2016, Giorno della Memoria; in tutto il mondo si ricordano gli eventi della Shoah, l’Olocausto; non è stato purtroppo l’unico massacro di massa nella storia dell’Umanità. E’ stata preceduta e, purtroppo, seguita da altri eventi che hanno avuto lo stesso tragico carattere di uccisioni di massa.

Tuttavia la Shoah ha dei caratteri che la rendono, se non unica nella storia, tale da rappresentare un evento da non dimenticare mai.

Si stima che circa 15 milioni di persone tra cui 6 milioni di ebrei e vari milioni di altre “categorie” indesiderate furono uccise in appositi campi di sterminio organizzati dalle autorità tedesche naziste del tempo che esprimevano la dittatura del terzo Reich: fra gli altri i prigionieri di guerra sovietici, polacchi non ebrei, slavi, Rom e Sinti, disabili, omosessuali, pentecostali, testimoni di Geova, massoni, dissidenti politici.

I chimici devono ricordare queste cose: chimico fu uno dei metodi scelto per la distruzione di massa: Zyklon B; un agente fumigante a base di acido cianidrico, prodotto da due società Degesh e Tesch, allora parte della IG Farben; al campo di Auschwitz furono fornite fra il 42 e il 44 quasi otto tonnellate di Zyklon B.

Un chimico, Primo Levi, ha raccontato quel che ha visto e vissuto nel campo di Auschwitz ed è diventato nel tempo uno dei più famosi narratori di quegli avvenimenti:

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

KZ Auschwitz, Einfahrt

Primo Levi oggi è per noi il simbolo di chi ha vissuto e ha resistito a quegli eventi, abbastanza da raccontarceli; e con la sua tragica morte ci testimonia anche che sono avvenimenti che lasciano il segno.

Per sempre.

Ma Primo Levi rappresenta anche la forza di reagire ad avvenimenti che si ripropongono nella storia, attorno a noi, quando meno ce lo aspettiamo; e di reagire proprio attraverso un uso diverso della nostra mente e del nostro cuore.

“La nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e quindi il Sistema Periodico di Mendeleev […] era una poesia.”

(Il sistema periodico, Ferro, Primo Levi)

PrimoLevi

Levi è dunque un uomo, che ha conosciuto sulla sua pelle le due cose più importanti scoperte dall’uomo e che le simbolizza: la violenza e il suo rifiuto, e la bellezza della Natura scoperta dalla scienza; e questo comprende anche il rifiuto di usare la scienza per fare violenza.

La scienza deve essere per tutti gli uomini un mezzo di liberazione non di violenza; in questo senso la tavola periodica è di tutti!

E’ anche per questo che abbiamo raccolto l’invito di Philip Ball a dare il nome di Levio ad uno dei nuovi elementi superpesanti, per ricordare per sempre queste due cose, attraverso il nome di chi ha vissuto e raccontato quel che ancora è successo e può succedere.

Per non dimenticare, oggi, 27 gennaio 2016 giorno della Memoria.

(cdv)

Polietilene tereftalato nell’industria alimentare.

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Il Polietilene Tereftalato (PET) è diventato negli ultimi anni il materiale polimerico maggiormente impiegato nel confezionamento degli alimenti. Le caratteristiche di resistenza, leggerezza, trasparenza, lavorabilità, bassa permeabilità all’ossigeno, bassi costi di produzione e riciclabilità hanno permesso al PET di sostituire il vetro nell’imbottigliamento di bevande gassate, olii ed acque minerali.

Parallelamente al crescente impiego, in generale, è aumentata l’attenzione verso il rischio tossicologico connesso al consumo di alimenti posti a contatto con materiali polimerici. In ambito CEE e nei singoli Stati sono state attivate delle procedure legislative a tutela del consumatore partendo dal presupposto che l’involucro, con tutti i suoi costituenti, rappresenta una potenziale fonte di contaminazione degli alimenti in seguito a migrazione. Le direttive CEE 82/711, 90/128, 85/572 stabiliscono le norme relative all’autorizzazione ed al controllo dell’idoneità di contenitori per alimenti descrivendo i metodi di esecuzione dei test di migrazione ed indicandone i relativi valori limite. Anche se la cessione rientra nei limiti di legge, esiste la fondata preoccupazione che le diverse condizioni di conservazione dei prodotti, insieme con il prolungato tempo di contatto con l’alimento, possano influenzare in maniera significativa l’identità, la quantità e il profilo tossicologico delle specie migranti. In particolare l’attenzione del mondo scientifico si è focalizzata sugli effetti che la radiazione solare ed il calore possono esercitare sui contenitori di PET e il conseguente rilascio di specie pericolose per la salute umana, soprattutto in seguito ad esposizione cronica. L’uso crescente e diffuso di acque minerali imbottigliate in contenitori di PET, peraltro spesso lasciati per tempi prolungati alla luce del sole e al calore, e la carenza di informazioni sull’identità e sulla tossicità di alcune specie migranti, espone la popolazione ad un rischio mutageno-cancerogeno che richiede un’attenta valutazione.

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La maggior parte degli studi sul fenomeno del rilascio hanno avuto come oggetto acque minerali e i risultati mostrano, oltre a quelle note, la presenza di sostanze la cui natura chimica deve ancora essere confermata. Il progressivo decadimento organolettico delle acque potabili, legato principalmente ai trattamenti di potabilizzazione, e agli episodi, divenuti sempre più frequenti, di inquinamento o contaminazione, hanno determinato una crescita esponenziale nel consumo di acque minerali. L’Italia è uno dei paesi della CEE con maggior consumo pro-capite di acque minerali : si è passati in pochi anni da 150 litri a quasi 200; nel 2001, nel 77 % dei casi queste sono imbottigliate in contenitori di plastica, nel restante 23 % in bottiglie di vetro. Appare chiaro che le acque minerali imbottigliate in contenitori di plastica costituiscono un’elevata percentuale del consumo idrico giornaliero della popolazione. I metodi analitici classici (HPLC, GC-MS, HS-GC), impiegati nel monitoraggio delle specie migranti, non si sono rivelati esaustivi poiché caratterizzati da limiti di rivelabilità spesso inadeguati a quelli tossicologici. Una qualunque sostanza ad una concentrazione non rivelabile da un metodo analitico non è detto che sia priva di effetti sulla salute umana. Pertanto le determinazioni analitiche sono state affiancate da test biologici che permettono di valutare meglio il rischio globale generato dalla presenza di sostanze note o sconosciute rilasciate dai contenitori di PET. Tra le indicazioni obbligatorie stabilite dal DLGS 27/01/97 n.109 e riportate sulle etichette delle acque minerali ci sono il termine minimo e le modalità di conservazione. In particolare si legge sull’etichetta: ”Conservare al riparo dalla luce solare e dal calore, in luogo fresco e asciutto“. Negli spazi retrostanti i grandi centri di distribuzione alimentare e per le vie cittadine su autocarri a vista, le modalità di conservazione delle bottiglie (che tutti i produttori riportano sulle etichette) spesso non vengono rispettate. E così non è raro imbattersi in alte cataste di bottiglie di plastica contenenti acqua (ma anche altre bevande) lasciate per lungo tempo direttamente esposte al sole. Tenere esposte le bottiglie di plastica direttamente alla luce solare e al calore può creare alterazioni chimico-fisiche al contenitore con liberazione di specie in grado di provocare danni alla salute dell’uomo. L’inosservanza delle modalità di conservazione delle bevande quindi, oltre che non legale, risulta a rischio per la salute pubblica.

Il polimero termoplastico Polietilene Tereftalato è un materiale da imballaggio caratterizzato da elevata inerzia chimica. L’inerzia è data dalla quantità di sostanze in grado di migrare e dipende dalla natura chimica del materiale e dell’alimento in esso contenuto. Nel 1941 Whinfield e Dickson, della British Company Calico Printers, prepararono e brevettarono il polietilene tereftalato:

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Nel 1966 il PET fu utilizzato per la produzione di oggetti estrusi e stampati per iniezione. La vertiginosa crescita nella produzione del PET, quale materiale per contenitori, si ebbe quando Nat Wyeth, ingegnere capo della Du Pont, mise a punto il metodo di soffiaggio con orientamento biassiale per la produzione di bottiglie più resistenti di quelle fino allora ottenute. Il PET è un poliestere ottenuto mediante reazione di policondensazione. Le materie di partenza, dimetiltereftalato o acido tereftalico e glicole etilenico, si ottengono dal petrolio.

La Legge Italiana stabilisce le norme relative all’autorizzazione ed al controllo dell’idoneità degli oggetti preparati con materiali diversi e destinati a venire in contatto con sostanze alimentari o sostanze d’uso personale.

Verificata la condizione relativa ai costituenti ammessi, l’idoneità dei contenitori a venire a contatto con alimenti è subordinata alla valutazione della migrazione globale e qualora indicato per i singoli costituenti, della migrazione specifica, misurate con le modalità indicate dalla legge stessa ed in rapporto alla classificazione convenzionale degli alimenti. Le prove di cessione, nel caso di recipienti contenenti alimenti acquosi, vengono eseguite riempiendoli con il solvente di prova, coprendo con vetro da orologio, e lasciandoli in termostato per un tempo ed una temperatura che sono stabiliti in base alle condizioni reali di utilizzo.

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La determinazione della migrazione globale viene eseguita evaporando il liquido proveniente dalla prova fino a un volume molto piccolo, travasandolo quindi in capsula portata a costanza di peso nella quale si completa l’evaporazione del solvente a bagnomaria fino all’ottenimento del residuo. Le ultime tracce di solvente vengono eliminate in stufa, a 105 °C, fino a peso costante. Si raffredda in essiccatore e si pesa il residuo. Parallelamente si esegue una prova in bianco con un volume uguale di solvente e si sottrae il peso di questo residuo per correggere il valore precedente.

Considerazioni teoriche.

Il trasferimento di massa di sostanze mobili, in particolare composti a basso peso molecolare, dal materiale plastico all’alimento in esso contenuto, è conseguenza di processi di diffusione e può essere descritto dalla prima e seconda legge di Fick. La superficie di contatto alimento-contenitore è pertanto la regione di origine del fenomeno di migrazione.

Il potenziale di migrazione di un materiale polimerico rappresenta la quantità totale di sostanze in grado di migrare dal contenitore all’alimento. Esso dipende da diversi parametri, in particolare dalla concentrazione iniziale di composti mobili nel materiale che è proporzionale alla quantità di sostanze migranti. Quindi le proprietà chimiche e fisiche del polimero e dei componenti mobili sono di fondamentale importanza.

Il potenziale di migrazione può inoltre essere influenzato dalla tecnica di produzione dei contenitori e da proprietà morfologiche come cristallinità, porosità superficiale e spessore delle pareti. Infine, la natura chimica dell’alimento, il tempo di contatto e le condizioni di temperatura di conservazione sono fattori determinanti sulla migrazione.

Le specie migranti da contenitori di PET sono caratterizzate da tre distinte situazioni termodinamiche:

  • specie “liberamente diffusibili”, che si disciolgono nella regione amorfa della matrice polimerica;
  • specie “assorbite” o “legate” in siti attivi o fori della matrice polimerica;
  • specie “completamente legate” o “immobilizzate” che non sono diffusibili nella matrice ed in cui l’energia di legame è considerevolmente maggiore dell’energia di attivazione richiesta per la diffusione.

Le possibili sostanze migranti da contenitori di PET vergine possono facilmente essere determinate in maniera routinaria poiché sono specie ben definite e ristrette ai monomeri impiegati nella produzione del materiale polimerico.

Per il test di migrazione da PET vergine, i contenitori vengono riempiti con liquidi simulanti i diversi alimenti come acqua, acido acetico al 3%, metanolo al 10%, olio di oliva, in modo da valutare la conformità con i limiti di migrazione in diverse condizioni d’uso stabiliti dalle normative vigenti e riportati in precedenza.

Non solo i monomeri ma anche gli oligomeri, gli stabilizzanti, i coloranti, i plastificanti o i prodotti di degradazione, formati nel processo produttivo o durante il periodo di conservazione, sono potenzialmente in grado di migrare nei cibi. Nonostante ciò il PET è tra le plastiche destinate a contenere alimenti quella che presenta la più elevata inerzia, misurata come quantità totale di sostanze migranti. Per questo motivo l’uso del PET si è diffuso in maniera vertiginosa non solo nell’imbottigliamento di acque minerali e di bevande gassate, ma anche di vini, birre, liquori, e nella produzione di vassoi per forni convenzionali o microonde. Le condizioni in cui il PET viene impiegato al giorno d’oggi, sono estremamente varie e vanno considerate nella valutazione della migrazione di sostanze negli alimenti. Nel passato, numerosi studi di ricerca sono stati condotti per determinare i potenziali migranti da PET commerciali. Nel 1987 Kim e Gilbert, mediante estrazione con Soxhlet dal polimero commerciale, hanno isolato ed identificato un totale di sette potenziali specie migranti come monomeri residui, prodotti di degradazione e plastificanti:

  • Glicole etilenico
  • Bis (2-etilesil) adipato
  • Dietil Tereftalato
  • Bis (2-idrossietil) tereftalato

ed inoltre acido palmitico, acido oleico e stearico, comunemente usati come lubrificanti nel processo di produzione delle bottiglie.

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Journal of the Brazilian Chemical Society J. Braz. Chem. Soc. vol.25 no.4 São Paulo Apr. 2014 http://dx.doi.org/10.5935/0103-5053.20140016 Migration of residual nonvolatile and inorganic compounds from recycled post-consumer PET and HDPE Camila DutraI; Maria Teresa de A. FreireII; Cristina NerínIII; Karim BentayebIII; Angel Rodriguez-LafuenteIII; Margarita AznarIII; Felix G. R. ReyesI,

Le quantità ottenute mediante estrazione con Soxhlet rappresentano il potenziale di migrazione del PET che corrisponde a situazioni estreme di stoccaggi lunghissimi. Mediante HPLC con rivelazione UV è stata investigata la migrazione di alcuni composti dai contenitori in PET per acque minerali esposti alla luce diretta del sole.

In seguito, mediante GC-MS, sono stati identificati l’erucamide, un lubrificante impiegato nella produzione dei contenitori, e due oligomeri ciclici a basso peso molecolare che si formano in fase di polimerizzazione. Questa ricerca ha evidenziato che l’esposizione alla luce diretta del sole provoca in generale un aumento della quantità di sostanze rilasciate dai contenitori.

Ulteriori studi sulla migrazione del Glicole Etilenico (EG) nel simulante costituito da acido acetico al 3%, in un periodo di 6 mesi, hanno evidenziato livelli di circa 0,1 mg/Kg che sono insignificanti in relazione al valore massimo di 30 mg/Kg stabilito dalla Comunità Europea. L’acido tereftalico, determinato come monomero residuo, ha mostrato valori di concentrazione compresi fra 1,5 mg/Kg e 1,7 mg/Kg.

Ashby ha esaminato la migrazione dal PET in diverse condizioni d’uso. Ha dimostrato che la migrazione specifica di costituenti del PET, come monomeri, catalizzatori, prodotti di degradazione ed additivi, ha valori molto bassi in diversi tipi di simulanti se valutata in condizioni d’uso realistiche.

La seguente tabella mostra alcuni valori ottenuti in questo studio per le bottiglie di PET:

Migrante Simulante Esposizione Risultato
Acetaldeide acqua 10 gg, 40°C <15 ppb
Antimonio acqua, 3% acido acetico, 10% etanolo, olio d’oliva 10 gg, 40°C nd<10 ppb
Cobalto acqua, 3% acido acetico, 10% etanolo, olio d’oliva 10 gg, 40°C nd< 3ppb
Coloranti acqua, 3% acido acetico, 50% etanolo, n-eptano 21gg, 49,5°C nd<50 ppb
Glicole Etilenico 15 % etanolo, 55% etanolo 10 gg, 40°C nd<15ppm
Migrazione Globale acqua, 3% acido acetico, 50 % etanolo, olio d’oliva 10 gg, 40°C 0,33-0,70 mg/dm2

Gli oligomeri del PET rappresentano la più grande frazione potenzialmente migrante dal polimero durante l’immagazzinamento o l’uso. Il livello di oligomeri estraibili varia da 0,06 a 1,0% (p/p) in funzione del tipo di PET. Gli oligomeri sono costituiti principalmente da trimeri ciclici sebbene siano presenti anche percentuali apprezzabili di pentameri ed eptameri.

Studi recenti infine hanno focalizzato l’attenzione sulla migrazione di plastificanti, additivi utilizzati per conferire flessibilità e lavorabilità al materiale plastico. Queste sostanze, costituite generalmente da esteri dell’acido ftalico ed adipico, non sono legate chimicamente alla matrice polimerica e possono conseguentemente migrare negli alimenti. Dato il loro massiccio impiego sono diventati degli inquinanti diffusi a livello globale.

D.Balafas ha testato la presenza di sei esteri ftalici in un numero notevole di materiali polimerici a contatto con i cibi. Tra questi il Bis (2-etilesil) ftalato (DEHP) risulta il plastificante maggiormente impiegato in contenitori di PET destinati all’imbottigliamento di acque minerali, succhi di frutta e latte con picchi di concentrazione di 3375 µg/g di materiale. Non si sa molto sui possibili effetti di queste sostanze nell’ambiente e sulla salute umana ma alcuni studi hanno dimostrato che esse possiedono proprietà cancerogene e attività sul sistema riproduttivo. In particolare il Bis (2-etilesil) ftalato viene classificato dalla IARC nella lista dei sospetti cancerogeni per l’uomo, pertanto il Comitato Scientifico per l’Alimentazione della Comunità Europea ha stimato in 5 mg/Kg di peso corporeo l’assunzione tollerabile giornaliera di tale composto (TDI = tolerable daily intake).

Da quanto esposto appare chiaro come le possibili sostanze migranti siano molteplici e dipendenti dal metodo di produzione e dalle modalità di conservazione dei contenitori. Inoltre ci sono da considerare i possibili effetti di antagonismo o sinergia ed eventuali fenomeni di degradazione che possano dare origine a sostanze completamente diverse dal punto di vista chimico e tossicologico da quelle originali e di esse più o meno pericolose.

Considerazioni tossicologiche sulle sostanze migranti.

In relazione a quanto sopra detto è’andata crescendo in questi ultimi anni la preoccupazione per l’eventuale effetto biologico di sostanze rilasciate o formate durante il processo produttivo o degradativo del materiale.

Le prime ricerche tossicologiche, condotte sui precursori del PET, come il dimetiltereftalato (DMT), l’acido tereftalico (TPA), e l’acido isoftalico (IPA), sono progredite negli ultimi anni ed hanno dimostrato che il dimetiltereftalato (DMT) induce micronuclei in vivo in cellule somatiche di ratto. La valutazione tossicologica dei singoli monomeri e degli altri precursori ha il limite di non considerare gli effetti di sinergia o antagonismo delle sostanze migranti. Il potenziale tossicologico e gli effetti tossici generati dall’ingestione da parte dell’uomo possono essere meglio valutati studiando e caratterizzando non il contenitore ma il contenuto. Tracce di acetaldeide, prodotto della degradazione termica durante la policondensazione e il processo di fusione, sono state trovate in acque minerali contenute in bottiglie di PET ai livelli di ppb. Nonostante l’accertata mutagenicità di questa sostanza, le concentrazioni rivelate sono generalmente al di sotto del limite stabilito dalla CEE, per l’assunzione tollerabile giornaliera (TDI = tolerable daily intake) di 0.1 mg/kg. Inoltre, data la bassa temperatura di ebollizione (21°C), l’acetaldeide ha la tendenza a passare facilmente nella fase gassosa essendo dispersa in aria all’apertura della bottiglia ed influenzando quindi esclusivamente le caratteristiche organolettiche dell’acqua. Il test di Ames è un test batterico di mutagenicità a breve termine largamente utilizzato in studi di monitoraggio ambientale e alimentare. Consiste nell’osservazione di mutazioni in ceppi di Salmonella Tiphimurium provocate dalla presenza di sostanze tossiche. L’aggiunta di un mutageno in una piastra di Petri, contenente circa 109 batteri, provoca molte nuove mutazioni, una piccola porzione delle quali vengono riparate. Questi mutanti revertanti si moltiplicano e compaiono sotto forma di colonie distinte dopo che la piastra è stata incubata a 37°C per due giorni. Il risultato del test viene espresso come “ rapporto di mutagenicità” ossia il numero di colonie revertanti indotte dal tossico rispetto al numero di colonie revertanti indotte da un riferimento.

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Alcuni autori hanno rivelato la presenza di sostanze a carattere mutageno eseguendo test di Ames sulle acque contenute in bottiglie di PET dopo stoccaggi di 1, 3, 6 mesi in diverse condizioni, dimostrando che l’esposizione alla luce aumenta l’attività mutagenica su ceppi di Salmonella Tiphimurium TA98.

Gli stessi autori hanno in seguito identificato con la GC-MS le specie migranti analizzando i residui ottenuti dai test di migrazione. Tra le specie identificate ci sono l’acetaldeide (AA), sostanza mutagena in vitro, il dimetiltereftalato (DMT) e l’acido tereftalico (TPA), sostanze genotossiche in vivo.

Per la valutazione della presenza di sostanze mutagene in acque minerali confezionate in bottiglie di PET è stato utilizzato il Test di Kado, una versione più sensibile del test di Ames nel quale si utilizzano ceppi di Salmonella Tiphimurium geneticamente modificati che rilevano le mutazioni puntiformi. Oltre al test di Kado è stato applicato un saggio adatto per il monitoraggio in situ di varie matrici ambientali, il Tradescantia micronuclei (Trad-MCN) test, che, a differenza del test di Ames, rileva rotture cromosomiche nelle cellule germinali di piante del genere Tradescantia evidenziabili sotto forma di micronuclei visibili nelle “tetradi polliniche”. E’ un test complementare a quello di Ames perché rileva danni cromosomici ed inoltre permette di evidenziare la genotossicità anche delle sostanze volatili immergendo le infiorescenze di Tradescantia direttamente nelle bottiglie e chiudendo ermeticamente i contenitori. Il test di Kado ha dato sempre risultati negativi mentre quello della Tradescantia micronuclei ha evidenziato un’elevata attività genotossica soprattutto delle acque stoccate a 40°C per 10 giorni (test di cessione CEE).

L’Allium cepa test, introdotto da Levan nel 1938, è un test di indagine citogenetica a breve termine che rappresenta un valido strumento per valutare il rischio genotossico di sostanze chimiche conosciute e di matrici complesse come acque naturali o di scarichi industriali o urbani.

Questo test permette la valutazione della tossicità di campioni acquosi attraverso due parametri citologici, forma delle radici e restrizioni della crescita, osservabili a livello macroscopico, ed aberrazioni cromosomiche sulle estremità delle radici, osservabili a livello microscopico. Utilizzando questo test alcuni autori hanno evidenziato segni di tossicità, rispetto alle condizioni di conservazione delle bottiglie di PET, osservando aberrazioni cromosomiche particolarmente vistose soprattutto in seguito ad esposizione prolungata alla luce diretta del sole. Il significato per la salute umana dell’esposizione di milioni di individui a tali composti rimane ancora ignoto, anche se è ampiamente accettata l’assenza di una dose-soglia per i cancerogeni genotossici presenti nell’acqua potabile o negli alimenti, poiché per tali sostanze il rischio di patologie per i soggetti esposti si annulla solo se la dose è nulla.

Fra tante notizie che possono preoccupare due certamente confortanti:in tutti gli studi i valori di concentrazione a seguito di rilascio dal contenitore sono sempre risultati inferiori ai limiti stabilite dalle varie associazioni mondiali per la protezione del consumatore.Una seconda buona notizia riguarda il fatto che il rilascio si è mostrato crescente, ma con andamento asintotico: si raggiunge cioè un suo valore massimo oltre il quale esso non procede.

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Svante Arrhenius: dall’elettrochimica alla chimica ambientale. (Parte 2)

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

la prima parte di questo post è qui

Dopo la generale accettazione della teoria della dissociazione elettrolitica Arrhenius si dedicò allo studio di altri problemi scientifici non strettamente chimici ma che la chimica avrebbe potuto contribuire a definire e possibilmente risolvere, in fisiologia, in geologia, in astronomia, cosmologia fisica e astrofisica.

Qui ci interesseremo in particolare del suo fondamentale contributo al fenomeno dell’aumento dell’effetto serra[1] dovuto a immissioni antropiche di anidride carbonica. Come sua consuetudine egli iniziò questo studio analizzando il lavoro di altri ricercatori, ad esempio quelli del famosissimo matematico e fisico francese Joseph Fourier (1768-1830) considerato lo scopritore dell’effetto serra, ma anche quelli del fisico francese Claude Pouillet (1790-1868) a cui è dovuta la prima misura quantitativa della costante solare e del fisico irlandese John Tyndall (1820-1893) che studiò l’azione dell’energia radiante sui componenti dell’aria. Arrhenius usò le osservazioni infrarosse della luna effettuate all’osservatorio astronomico Allegheny dell’Università di Pittsburgh (Pennsylvania) dai due ricercatori Very e Langley per calcolare l’assorbimento della radiazione infrarossa dell’anidride carbonica e del vapore acqueo contenuti nell’atmosfera. Giunse infine alla formulazione matematica di un’equazione che metteva in relazione la concentrazione relativa di anidride carbonica con la differenza di energia radiante, nota come legge dell’effetto serra di Arrhenius. Combinando questa equazione con la legge di Stefan-Boltzmann ricavò poi l’aumento di temperatura dovuto all’aumento di concentrazione della CO2.

Svante_Arrhenius_01Arrhenius espose i risultati della sua ricerca in una relazione tenuta l’11 dicembre 1895 all’Accademia Reale Svedese delle Scienze, un ampio estratto del suo intervento venne pubblicato in inglese nella rivista britannica Philosophycal Magazine nell’aprile 1896 [3][2]. Contrariamente a quanto si ritiene comunemente, in questo lavoro Arrhenius non suggerisce esplicitamente che l’uso massiccio dei combustibili fossili causa il riscaldamento globale, anche se è chiaro che egli è consapevole del fatto che i combustibili fossili sono una fonte potenzialmente significativa di anidride carbonica [3, p. 270].

svante2L’equazione matematica della legge di Arrhenius sull’aumento dell’effetto serra è: ΔF = αln(C/Co) dove C è la concentrazione di anidride carbonica misurata in ppmv, Co è quella naturalmente contenuta nell’aria, ΔF è la variazione di energia radiante misurata in watts per m2 e α è una costante alla quale fu attribuito un valore fra 5 e 7 [4]. In parole la legge di Arrhenius dell’effetto serra combinata con la Stefan-Boltzmann dice che: se la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera incrementa in progressione geometrica, la temperatura al suolo aumenterà in progressione quasi aritmetica.

L’Astronomical Society of the Pacific ripubblicò nel 1897 l’articolo comparso su Philosophical Magazine, con una nota redazionale iniziale in cui viene detto che il lavoro è importante principalmente perché offre una spiegazione semplice della questione irrisolta relativa alla temperatura della Terra nell’epoca preistorica e della causa dell’Era Glaciale[3].

Non v’è comunque dubbio che Arrhenius fu il primo a prevedere che le emissioni di CO2 prodotte dalla combustione dei fossili o da altri processi che producono anidride carbonica avrebbero potuto condurre al riscaldamento globale. Questa previsione fu criticata da Angstrom[4] che, nel 1900, pubblicò risultati sperimentali che sembravano dimostrare che l’assorbimento della radiazione infrarossa del gas in atmosfera era già “saturo” in modo che ulteriori aggiunte non farebbero più alcuna differenza. Arrhenius replicò duramente nel 1901 e 1903 e soprattutto nel 1907 con il libro Worlds in the Making [5], largamente divulgativo, in cui afferma che in base a nuovi calcoli:

“Se la quantità di acido carbonico nell’aria dovesse scendere verso la metà della sua percentuale presente, la temperatura scenderà di circa 4 °, una diminuzione di un quarto ridurrebbe la temperatura di 8 ° D’altra parte, qualsiasi raddoppio della percentuale di anidride carbonica nell’aria potrebbe aumentare la temperatura della superficie terrestre del 4 °, e se l’anidride carbonica fosse quadruplicato, la temperatura aumenterà di 8 ° “. [5, p.53]

Nel libro Worlds in the Making viene descritta in termini comprensibili da tutti la teoria della “serra” (hot-house), oggi “effetto serra”.

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Alcune note finali

Arrhenius è stato indubbiamente un personaggio di multiforme ingegno e di multiformi interessi non solo scientifici. E’ stato membro del consiglio della Sweden Society for Racial Hygiene, che approvò le teorie di Mendel nel 1909 e, intorno al 1910 contribuì alla discussione sulla contraccezione (vietata in Svezia fino al 1938). Per le sue idee progressiste fu accusato di ateismo. Negli ultimi anni della sua vita scrisse libri popolari, cercando di sottolineare la necessità di insistere sui temi dell’uguaglianza delle razze e sui contraccettivi.

Bibliografia

[1] Arrhenius S., Proceedings of the Royal Institution, 1904. [i]http://atom.uwaterloo.ca/CHEM/History/arrhenius-lecture.pdf

[2] De Berg, K.C., The Development of the Theory of Electrolitic Dissociation. A Case Study of a Scientific Controversy and the Changing Nature of Chemistry, Science & Education, 2003, 12, 397-419.

[3] Arrhenius, S. On the Influence of Carbonic Acid in the Air upon the Temperature of the Ground, Phil. Mag. Series 5, 1896, 41, 237-276.

[4] Walter, E.M., Earthquakes and Weatherquakes: Mathematics and Climate Change, Notices of the American Mathematical Society, 2010, 57, 1278-1284.

[5] Arrhenius S., Worlds in the Making: the evolution of the universe, Harper, 1908, pp.229. La versione in svedese è del 1806, quella in tedesco è del 1807.

Note.

[1] Notare che ho scritto aumento dell’effetto serra e non semplicemente effetto serra. Infatti, l’effetto serra in condizioni normali è un fenomeno atmosferico-climatico che permette di trattenere nell’atmosfera parte dell’energia solare. Se non ci fosse l’effetto serra saremmo da tempo tutti statue di ghiaccio, il problema sta quindi in un eccessivo aumento di questo effetto che conduce al riscaldamento globale del pianeta.

[2] In tutta la citazione [3] Arrhenius si riferisce al diossido di carbonio come “acido carbonico”, in accordo alla nomenclatura dell’epoca.

[3] Anche questo problema fu studiato da Arrhenius.

[4] Knut Johan Angstrom (1857-1910), fisico svedese, fu il primo a registrare lo spettro infrarosso completo della CO2.

*La traduzione italiana dei brani tratti dalla lecture è dell’autore della presente nota.

Svante Arrhenius: dall’elettrochimica alla chimica ambientale. (Parte 1)

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Svante_Arrhenius_01Svante Arrhenius (Wik Castle, Uppsala, 1859 – Stoccolma, 1927) ottenne il Premio Nobel per la chimica nel 1903 con la seguente motivazione:

in riconoscimento dei servizi straordinari resi per il progresso della chimica con la sua teoria sulla dissociazione elettrolitica

Ci occuperemo qui della lezione magistrale (Nobel lecture) che tenne il giorno 11 dicembre 1903 in occasione del conferimento del Premio Nobel, intitolata Development of the theory of electrolytic Dissociation, pubblicata in inglese l’anno successivo nei Proceedings of the Royal Institution [1]*.

Nella lecture, Arrhenius ripercorre inizialmente le tappe della teoria mostrando così che le grandi intuizioni non nascono solo per caso ma sono il frutto di un esame critico di tutto quanto è stato fatto nello specifico campo di ricerca.

svantegiovaneCome egli ricorda, espose la teoria nella sua tesi di dottorato (150 pagine) del 1884 all’Università di Uppsala che non impressionò affatto la commissione giudicante, infatti gli venne assegnato un punteggio scarso, poi leggermente modificato dopo una serie di chiarimenti forniti dal candidato.

La dissertazione conteneva 56 proposizioni, quasi tutte sarebbero oggi accettate inalterate o con pochissime modifiche.

Arrhenius inizia la sua lecture con una brillante sintesi sullo sviluppo storico della teoria atomica e molecolare dagli antichi filosofi greci a Cannizzaro [1, pp.45-46]. Rivolge poi l’attenzione allo studio dei prodotti della dissociazione termica di composti come NH4Cl, illustrando l’apparecchiatura con la quale Von Pebal e Von Than dimostrarono fra il 1862 e il 1864 che tali prodotti sono ammoniaca e acido cloridrico[1]. A tale proposito Arrhenius ricorda che questi lavori si basavano sulla teoria dell’equilibrio di Henri Sainte-Claire Deville[2] e dei suoi allievi che studiarono la dissociazione termica del vapor d’acqua e del carbonato di calcio già nel 1857. Scrive Arrhenius:

Egli [Deville] ha constatato che la stessa legge si applica alla pressione di diossido di carbonio sul calcare e alla pressione di vapore dell’acqua nell’evaporazione di acqua liquida a diverse temperature. Questi studi fondamentali sono alla base della teoria della dissociazione che da allora ha svolto un ruolo sempre più importante in chimica e, per così dire ha costruito un ampio ponte fra […] fisica e chimica. [1 pp. 46-47]

Per arrivare alla sua idea (poi teoria) della dissociazione elettrolitica, Arrhenius ricorda gli studi di Clausius[3] sulla conducibilità elettrica:

[…]possiamo trovare nel lavoro di Clausius sulla conduttività elettrica di soluzioni saline il primo accenno dell’idea che i sali e gli altri elettroliti possono essere parzialmente dissociati quando sciolti in acqua. [1 p. 47]

Va ricordato che la pila di Volta (1800) aveva subito cominciato a essere usata per diverse ricerche in chimica. Nel 1808 il chimico tedesco Theodor von Grotthus (1875-1822) aveva scoperto l’elettrolisi dell’acqua e ne aveva formulato una prima interpretazione[4]. Scrive Arrhenius:

Secondo la concezione di Grotthus….la corrente elettrica passa attraverso una soluzione in modo tale che le molecole del conduttore, ad esempio cloruro di potassio (KCl)…. si dispongono con i loro ioni positivi K rivolti verso il polo negativo (B) e i loro ioni negativi Cl verso il polo positivo (A). Successivamente uno ione cloro viene liberato in A e uno ione potassio in B, gli ioni rimasti si combinano di nuovo, lo ione K nella prima molecola cattura lo ione Cl nella seconda molecola, e così via. Le molecole…tornano sotto l’influenza della forza elettrica [differenza di potenziale] e la suddivisione può avvenire di nuovo… [1, pp. 47-48]

Il modello di Grotthus, presuppone quindi l’orientamento delle due parti elettricamente di carica opposta delle molecole verso gli elettrodi di opposto segno[5].

Arrhenius ricorda poi gli esperimenti sulla conducibilità dei sali in soluzione da lui effettuati nelle ricerche per la tesi di dottorato, mettendo in evidenza, come esempio, che la conducibilità di una soluzione di ZnSO4 aumenta all’aumentare della diluizione fino a un valore limite, mostrando inoltre i dati più recenti ottenuti da Kohrausch[6] su una serie di sali confermanti il fenomeno. Pertanto, dice Arrhenius:

Con il continuo aumentare della diluizione, la conduttanza molale si avvicina sempre di più al valore limite che è il punto in cui tutte le molecole conducono l’elettricità. La parte conduttrice delle molecole è denominata la parte attiva. [1, p. 50]

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E continua:

Se questo concetto fosse stato applicabile soltanto all’interpretazione del il fenomeno della conducibilità elettrica, il suo valore non sarebbe stato particolarmente notevole. [Tuttavia]

Un esame dei valori numerici riportati da Kohlrausch … per la conducibilità elettrica di acidi e basi confrontati con le misure delle loro forze relative in base ai loro effetti chimici mi ha mostrato che gli acidi e le basi con elevata conducibilità sono anche i più forti. Sono stato così portato all’assunzione che le molecole elettricamente attive sono anche chimicamente attive e che al contrario le molecole elettricamente inattive sono anche chimicamente inattive…. L’acido cloridrico concentrato, privo di acqua, non ha alcun effetto su ossidi o carbonati e non è praticamente in grado di condurre la corrente elettrica considerando invece che le sue soluzioni acquose hanno una buona conducibilità. Quindi l’acido cloridrico puro non contiene molecole attive, o ne contiene estremamente poche…. Allo stesso modo si può spiegare il fatto che l’acido solforico concentrato può essere mantenuto in un recipiente di ferro senza danni a quest’ultimo, ma ciò è impossibile con l’acido diluito. [1, p. 51]

Una conclusione inaspettata può essere tratta da questi fatti. Poiché tutti gli elettroliti in soluzione estremamente diluita sono completamente attivi, gli acidi deboli devono aumentare in forza quando sono diluiti e questo comportamento li avvicina agli acidi più forti…. questa conclusione ha mostrato di essere in accordo con gli esperimenti effettuati poco dopo da Ostwald. [1, p.51]

Gli scienziati norvegesi Guldberg e Waage svilupparono una teoria secondo la quale la forza dei diversi acidi potrebbe essere misurata attraverso la loro capacità di spostare, in soluzione, un altro acido come pure per la loro capacità di aumentare la velocità di alcune reazioni chimiche. In conformità con questo possiamo supporre che la velocità di una reazione prodotta da un acido è proporzionale al numero di molecole attive in esso…Nel 1884 [lo stesso anno della dissertazione] Ostwald[7] ha pubblicato un gran numero di osservazioni che hanno confermato la correttezza di questa conclusione.[1, p. 51]

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Infine:

Il principale successo del concetto di molecole attive è stata la spiegazione del calore di neutralizzazione. Poichè è molto più semplice capire questo effetto mediante la teoria della dissociazione elettrolitica, farò un esempio specifico. Secondo questa teoria, acidi e basi forti, come pure sali in soluzione diluita sono quasi completamente dissociati nei loro ioni, cioè HCl in H+ e Cl-, NaOH in Na+ e OH-, e NaCl in Na+ e Cl-. Invece, l’acqua è difficilmente dissociata. La reazione di neutralizzazione di un acido forte con una base forte, ad es. HCl con NaOH, entrambi molto diluiti può essere espresso dalla seguente equazione:

(H+Cl-) + (Na+ OH – )= (Na+ Cl- ) + HOH

H+ + OH- = HOH

Quest’ultima equazione è equivalente alla formazione di acqua dai suoi due ioni,+ H e OH-, ed evidentemente è indipendente dalla natura dell’acido forte e della base forte. Lo sviluppo di calore in qualsiasi reazione di questo tipo deve pertanto essere sempre lo stesso per quantitativi equivalenti di qualsiasi acido e base forti. In effetti, è stato trovato che in ogni caso è 13.600 calorie (a 18 °C).[1, pp. 51-52]

A questo punto Arrhenius riporta altri due successi della teoria della dissociazione elettrolitica: l’interpretazione dei valori “anomali” delle proprietà colligative delle soluzioni elettrolitiche e degli spettri di assorbimento delle soluzioni saline di acidi deboli rispetto a quelle degli acidi non salificati. Riguardo al primo Arrhenius scrive:

Van ‘t Hoff[8] aveva dimostrato… che le molecole in soluzioni diluite obbediscono alle leggi che si applicano al quelle in stato gassoso semplicemente sostituendo alla pressione di vapore…la pressione osmotica…. la pressione osmotica di un soluto può essere facilmente determinata misurando il punto di congelamento della sua soluzione. [Tuttavia… mentre la soluzione di un grammo-molecola (mole) di alcool etilico, C2H5OH = 46 grammi in un litro di acqua dà un punto di congelamento di – 1,85°C… una soluzione di una mole di cloruro di sodio NaCl = 58,5 grammi in un litro di acqua dà un punto di congelamento di – 3,26 C. Questo fatto potrebbe essere spiegato …supponendo una dissociazione parziale – fino al 75% – delle molecole di cloruro di sodio[9]. In base a ciò la soluzione contiene pertanto 0,25 moli di NaCl, 0,75 moli di Cl- e 0,75 moli di Na+, per un totale di 1,75 moli, e quindi un effetto sull’abbassamento del punto di congelamento di (-1.75 x 1,85) = -3,26 °C. [1, p. 52]

Come ricorda Arrhenius nella sua lecture, la teoria della dissociazione elettrolitica non fu accettata subito da tutti i chimici fu invece oggetto di un’aspra controversia fra i sostenitori (Van ‘t Hoff, Ostwald) e gli oppositori (Armstrong, Fitzgerald, Pickering). Questa controversia è ben illustrata in un articolo di Kevin C. Deberg [2].

Nell’ultima parte della lecture Arrhenius ricorda le applicazioni della sua teoria nel campo della cinetica in particolare la catalisi acida e basica.

(continua)

Bibliografia.

[1] Arrhenius S., Proceedings of the Royal Institution, 1904. [i]http://atom.uwaterloo.ca/CHEM/History/arrhenius-lecture.pdf

[2] De Berg, K.C., The Development of the Theory of Electrolitic Dissociation. A Case Study of a Scientific Controversy and the Changing Nature of Chemistry, Science & Education, 2003, 12, 397-419.

*La traduzione italiana dei brani tratti dalla lecture è dell’autore della presente nota.

NOTE.

[1] Leopold Von Pebal, chimico austriaco (1826-1888), Carl Von Than, chimico ungherese (1834-1908) effettuarono questi esperimenti fra il 1862 e il 1864.

[2] Henri Sainte-Claire Deville (1818-1881), chimico e chimico industriale francese.

[3] Rudolf Julius Emanuel Clausius (1822-1888) famosissimo fisico tedesco è noto soprattutto per i suoi lavori di termodinamica e teoria cinetica dei gas. Tuttavia, come riporta una sua biografia Clausius si è occupato di molte altre ricerche. http://scienzapertutti.lnf.infn.it/index.php?option=com_content&view=article&id=580:rudolf-clausius&catid=671&Itemid=661

[4] L’elettrolisi fu poi studiata in dettaglio da Michael Faraday (1791-1867) che enunciò le leggi quantitative che regolano il fenomeno elettrochimico, pubblicate nel 1834. A lui si deve la popolarizzazione dei termini elettrodo, catodo, anodo, ione, ecc.

[5] Questa interpretazione non è priva di importanza: permetterà a Faraday di introdurre il concetto di campo elettrico e di linee di forza, egli cita infatti molte volte Grotthus nei suoi lavori di elettrochimica. Come noto il concetto fu ripreso, precisato, allargato e formalizzato successivamente da James Clerk Maxwell (1831-1879).

[6] Friedrich Kohlrausch, (1840-1910), fisico tedesco si occupò, fra l’altro, della conducibilità elettrica delle soluzioni saline inventando uno strumento di misura (ponte di Kohlrausch) per la sua misura, giungendo all’enunciazione della legge della mobilità indipendente degli ioni fra il 1874 e il 1879.

[7] Fiedrich Wilhelm Ostwald (1853-1932) chimico originario del Baltico, mise in relazione la conducibilità di un elettrolita debole con la sua costante di equilibrio di dissociazione. Premio Nobel per la chimica 1909.

[8] Jacobus Henricus Van’t Hoff (1852-1911) chimico olandese vinse il primo Nobel per la chimica nel 1901, proprio per la sua interpretazione delle proprietà colligative.

[9] La dissociazione al 75% della soluzione di NaCl in base alle misure di conducibilità, si trova un grado di dissociazione esattamente 0.75.

Chiediamo alla IUPAC di assegnare il nome Levio (Levium) ad uno dei 4 nuovi elementi.

a cura di Claudio Della Volpe

Pochi giorni fa Philip Ball, già editor di Nature, ha scritto un bel fondo (http://www.nature.com/polopoly_fs/1.19145!/menu/main/topColumns/topLeftColumn/pdf/529129a.pdf) sulla rivista in cui analizza la recente conferma della scoperta di 4 nuovi elementi chimici da parte di IUPAC, la Unione internazionale di Chimica Pura ed Applicata, un fatto di cui abbiamo parlato anche noi sul blog(http://wp.me/p2TDDv-27o).

Ball è famoso per le sue posizioni spesso originali ed acute; è un chimico con un PhD in fisica; è quindi competente di ciò di cui discute, che è poi il ruolo della Chimica oggi.

La scoperta dei nuovi 4 elementi e la risonanza che ha avuto sui media, dice Ball, potrebbero rafforzare l’idea che la scienza sia in fondo in fondo l’aggiornamento della lista delle nostre conoscenze; ma non è così.

mozione1

La tavola periodica è la parte più famosa, significativa e conosciuta della Chimica, quasi un simbolo della nostra disciplina e quindi essa deve essere non solo la lista degli elementi ma qualcosa di più.

Il grande pubblico guarda alla tavola periodica in un modo diverso da quello con cui ci guarda il chimico professionista; non è la chimica solo la lista degli elementi o la loro ricerca; la chimica è molto di più; la tavola è soprattutto un modo di guardare alla Natura, di dire che siamo in grado di guardarci dentro. Ma dopo tutto l’obiettivo della Chimica non è tanto quello di scoprire nuovi elementi (anche perchè ormai questa scoperta o sintesi è diventata appannaggio di pochissimi laboratori e sempre più gioca al confine fra Chimica nucleare e Fisica delle alte energie) ma di esplorare lo spazio chimico, il chemical space, (http://wp.me/p2TDDv-1Xo) che per il grande pubblico è ancora sconosciuto, ossia l’enorme quasi infinito set delle combinazioni fra gli atomi per costruire nuove molecole, nuovi materiali, una strada che abbamo percorso solo per piccolo tratto ma che ci ha regalato oltre 100 milioni di molecole diverse che abbiamo appena cominciato ad usare ed il cui uso (spesso disattento) ha già creato grandi opportunità e grandi problemi.

ChemicalSpace

E questo è il punto essenziale.

Dice Ball: il sistema periodico, che come in altri settori della scienza appassiona il pubblico per la sua natura di lista, semplice da accettare e concepire, maschera, come in altri settori, una molto più complessa ed articolata realtà della ricerca e della Natura; sia esso ancor più un simbolo di come la scienza non è uno strumento per pochi ma per tutti.

La tavola periodica è di tutti.

Ball conclude in modo inaspettato ma condivisibile:

PrimoLevi

Mi piacerebbe molto vedere un elemento chiamato Levio, dal nome del chimico e scrittore Primo Levi. Il suo “La tavola periodica” (Einaudi, 1975) rimane il miglior libro mai scritto sulla chimica, e soddisferebbe il mio senso dell’ironia vedere un elemento superpesante chiamato con un nome che può essere interpretato come un riferimento alla leggerezza.

In effetti non si tratta proprio di leggerezza. Il racconto di Levi sulla sua vita ad Auschwitz, “Se questo è un uomo”, scritto nel 1947 è uno dei più profondi ed umani testi del secolo, un testamento del fatto che la scienza può essere una forza di liberazione e salvezza universali, senza però disconoscere la sua possibilità di essere abusata in modi terribili. Levio signficherebbe che la tabella periodica è per tutta l’Umanità.

Abbiamo condiviso come redazione del blog immediatamente l’idea di Ball e lanciamo quindi usando queste sue frasi tradotte anche in altre lingue la proposta su uno dei principali contenitori internazonali di petizioni change.org.

Perchè anche in altre lingue? Perchè, come dice Ball, non è questione di scegliere nomi degli elementi per piantare una bandiera di uno scienziato, una città, una nazione o di un continente; qua si tratta di riconoscere che la Scienza è, deve essere, per tutti, altrimenti diventa strumento di oppressione, di morte e di violenza; Levi non è solo un bravissimo scrittore italiano, il più letto e conosciuto raccontatore del sistema periodico, ma è il simbolo con la sua vita dolorosa e con la sua morte di una umanità sofferente che intravede però nella scienza la sua possibile ancora di salvezza a patto di usarla per tutti.

Levium come nome di uno degli elementi superpesanti per significare da una parte la doppia natura di vita e di morte della scienza; dall’altra per indicare ironicamente la negazione, la rivolta contro una scienza per pochi, per un solo paese, per un solo continente, per il profitto di pochi; la scienza o è per tutti o non è strumento di liberazione ma di morte.

Scienza e democrazia, scienza e libertà, una accoppiata ineliminabile.

Levium significherebbe questo.

La redazione del blog (sotto elencata) vi chiede di aderire a questa richiesta che è rivolta a IUPAC, che è l’organismo internazionale che decide i nomi degli elementi; firmate con noi, auspicando che la SCI, che è membro istituzionale dello IUPAC, faccia poi propria questa richiesta !

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements?recruiter=1564008&utm_source=share_for_starters&utm_medium=copyLink

Ringraziamo Karin Krieg, Sylvie Coyaud e Daniela Della Volpe per averci aiutato nella traduzione del testo.

La redazione del blog della SCI (in ordine alfabetico)

Vincenzo Balzani

Luigi Campanella

Claudio Della Volpe

Mauro Icardi

Annarosa Luzzatto

Giorgio Nebbia

Margherita Venturi

Metodo scientifico o strategia della ricerca scientifica?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Ezio Roletto*

Per spiegare come vengono prodotte le leggi e le teorie scientifiche, si sostiene abitualmente che i ricercatori applicano, un metodo che permette di arrivare a conclusioni inconfutabili attraverso le osservazioni sperimentali, perché le verità della scienza per essere oggettive e indiscutibili devono essere acquisite in maniera rigorosa.

galileoCiò sarebbe possibile per mezzo del metodo scientifico introdotto da Galileo Galilei che comprenderebbe cinque tappe:

  • l’osservazione e la raccolta dei dati
  • La formulazione di un’ipotesi che potrebbe spiegare l’andamento del fenomeno.

Queste due tappe costituirebbero la fase induttiva del procedimento.

  • La progettazione e l’esecuzione dell’esperimento al fine di verificare se l’ipotesi è adeguata alla realtà.
  • L’interpretazione dei risultati.
  • La conferma o la smentita dell’ipotesi di partenza. In caso di conferma, verrà costruita una teoria di validità generale.

Queste tre tappe costituirebbero la fase deduttiva del procedimento.

Il termine “metodo” denota un processo che, quale che sia la sua complessità, è sempre di tipo meccanico, in quanto basato sulla ripetizione delle stesse fasi. Secondo tale concezione, l’ipotesi sarebbe la conseguenza immediata dell’osservazione e non sarebbe possibile in assenza di questa: è l’osservazione che la suggerisce al ricercatore. È sufficiente pensare alla teoria della relatività di Einstein per rendersi conto che questa non gli fu suggerita da osservazioni sistematiche ma che fu una sua invenzione: «I concetti della fisica sono libere creazioni dello spirito umano, e non sono, nonostante le apparenze, determinati unicamente dal mondo esterno».

Gli epistemologi contemporanei sono giunti alla conclusione che il metodo scientifico di stampo positivista, inteso come processo che procede dall’osservazione alla teoria, è insostenibile: «In realtà, definire il metodo scientifico con rigore e coerenza è estremamente difficile. […] I filosofi della scienza non sono riusciti a delineare i tratti salienti di un metodo scientifico che fornisca una formula o delle ricette sul modo di elaborare saperi scientifici.[…] Nessun singolo metodo può catturare il processo della scienza. Non esiste un’entità che sia il metodo scientifico» (Lewis Wolpert); 330px-Karl_PopperEcco cosa scrive Karl Popper a questo proposito: “La convinzione che la scienza proceda dall’osservazione alla teoria è così diffusa e così radicata che il negarla suscita incredulità… Tuttavia, l’idea che sia possibile partire unicamente da osservazioni, senza che intervenga niente di simile a una teoria, è davvero assurda[…]

Popper non nega che l’osservazione entri in gioco nel processo di produzione del sapere scientifico, ma mette in risalto che l’osservazione è significativa soltanto alla luce di un quadro teorico di riferimento preesistente che permette di costruire una rappresentazione del mondo, ossia di modellizzare la realtà.

Gli epistemologi contemporanei ritengono che il sapere scientifico non sia il risultato dell’applicazione di un metodo scientifico schematico e rigoroso, valido per tutti i tempi e per tutte le scienze. Un’interpretazione meno schematica, più vaga ma più adeguata dell’operato degli scienziati sostiene che essi adottano una strategia della ricerca scientifica, ricorrendo a svariati modi di procedere non vincolati a regole rigide, ma mutabili secondo le circostanze e i tempi. Esistono quindi differenti procedimenti caratterizzati tutti da due attività specifiche della ricerca scientifica: la modellizzazione del reale e la messa alla prova del modello.

  1. La modellizzazione – I modelli sono prodotti dell’attività di ricerca che permettono agli scienziati di andare oltre la semplice descrizione dei fatti, mettendo la percezione dei fenomeni in relazione con i formalismi delle teorie. I modelli costituiscono uno strumento privilegiato per favorire la circolazione delle idee scientifiche tra i ricercatori e per descrivere, interpretare e prevedere i fenomeni.
  2. La messa alla prova del modello ossia il controllo dell’affidabilità del modello –Dopo un certo numero di controlli con esito positivo, si può ritenere che il modello sia affidabile, ma non si potrà mai sostenere che è “vero”. Come scrive Carlo Bernardini, «Nelle scienze della natura, ogni affermazione non è in genere vera, ma solo più o meno plausibile. La parola verità è sempre un’astrazione molto lontana dalla realtà».

Tenendo conto della natura complessa del processo di costruzione del sapere nelle scienze sperimentali, lo schema del metodo scientifico (osservazione-ipotesi-esperimento) risulta inadeguato per interpretare il lavoro degli scienziati. I sostenitori del metodo scientifico insistono molto sull’importanza della fase induttiva costituita dall’osservazione indispensabile per accrescere il patrimonio di conoscenza dal quale poi ricavare nella fase deduttiva leggi e teorie.

Però i fatti non si impongono come dati naturali e immediati, ma sono il risultato di un’interrogazione della realtà in funzione di un problema; un fatto acquista un senso o diventa un problema per l’osservatore soltanto se quest’ultimo lo analizza alla luce di una teoria pertinente. La conoscenza scientifica consiste sempre: (1) nel costruire rappresentazioni mentali, ossia concetti e modelli, di ciò che è oggetto di esperienza empirica; (2) nell’esplicitare, per mezzo della logica e della matematica, le relazioni tra i concetti e le proprietà dei modelli, in modo da dedurne proprietà che corrispondano a proprietà empiriche osservabili. Infine, la progettazione di un esperimento e la sua esecuzione sono possibili solo in riferimento a un quadro teorico iniziale. È facile rendersi conto che questa posizione si differenzia nettamente da quelle dell’empirismo classico e del positivismo che collocano i fatti all’inizio del sapere scientifico.

La concezione del metodo scientifico come procedura eterna e universale per produrre conoscenza partendo dai fatti risale ai positivisti, ossia ai primi decenni del 1800. Da allora la scienza ha fatto progressi enormi e gli epistemologi contemporanei hanno interpretato il modo di lavorare degli scienziati in modo meno schematico, dando una grande importanza al ruolo dei modelli scientifici e sottolineando l’aspetto creativo del ragionamento scientifico il quale dipende molto dall’immaginazione, dalla creatività, dalle opinioni personali e dalle preferenze individuali degli scienziati. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei libri di scienze della scuola secondaria si insegna agli allievi il metodo scientifico di stampo positivista basato sulla triade: osservazione, ipotesi, esperimento. Tale situazione non contribuisce certo alla formazione culturale degli allievi per i quali l’educazione alle scienze dovrebbe significare:

1) Apprendere la scienza, ossia imparare e usare concetti, leggi, modelli e teorie delle scienze.

2) Apprendere a proposito della scienza, ossia apprendere come vengono prodotti i saperi condivisi dagli scienziati e cosa ha di particolare questa forma di conoscenza del mondo.

3) Fare scienza, essere in condizione di affrontare problemi, proporre soluzioni e valutarne l’efficacia con controlli sperimentali da essi concepiti, progettati ed eseguiti.

isaac-asimovUna formazione inadeguata sulla natura della scienza può avere conseguenze sociali negative come sottolineava Isaac Asimov: «Un pubblico che non comprenda come funziona la scienza può facilmente cadere preda di quegli ignoranti che mettono in ridicolo ciò che non capiscono, o di quegli inventori di slogan che affermano che gli scienziati sono i mercenari di oggi, strumenti del potere o dei militari. La differenza tra comprensione e non comprensione è la stessa che c’è tra rispetto e ammirazione, da un lato, e paura e odio dall’altro».

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*Ezio Roletto è professore associato di Chimica Analitica presso la Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e natuali dell’Università di Torino e insegna presso la SISS dell’Università di Torino. È stato membro del Consiglio Direttivo dell’IRRSAE e dell’IRRE Piemonte per nomina ministeriale. Da anni coordina il gruppo IriDiS (Innovazione e Ricerca per la Didattica delle Scienze) dell’Università di Torino e svolge attività di formazione e aggiornamento per l’insegnamento delle scienze a tutti i livelli di scolarità, dalla materna alle superiori. Insieme con Alberto Regis ha scritto molti documenti ed articoli sul tema del metodo scientifico e dell’insegnamento delle scienze.

Un antidepressivo come elisir di giovinezza?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Annarosa Luzzatto

Da sempre l’uomo è alla ricerca di un elisir di lunga vita, un modo perché l’esistenza umana possa prolungarsi al di là dei limiti che finora la biologia ci ha concesso. Ultimamente questa ricerca è giunta ad estremi estremi poco scientifici, come la promessa di immortalità o quasi da parte del geniale informatico e futurologo Ray Kurtzeweil (1) o le continue proposte, più o meno fantasiose, delle più varie sostanze ritenute in grado di prolungare la vita (2).

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Mianserina, Lantanon, antidepressivo tetraciclico

In questo clima non stupisce la risonanza sulla stampa (3) della pubblicazione di un articolo scientifico sugli effetti di un comune antidepressivo come la mianserina (commercializzato come Lantanon) sulla durata della vita del verme Coenorhabditis elegans usato come animale modello (4) da parte di ricercatori appartenenti ad una celebre istituzione scientifica come lo Scripps Research Institute, da anni in prima linea nella ricerca biomedica (5). Ma gli articoli del gruppo di Michael Petrascheck sui fattori che influenzano la longevità di C. elegans (6) meritano davvero una così ampia risonanza, o forse gli articoli sui giornali non riconoscono sino in fondo la reale portata delle loro scoperte?

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“Old age ain’t no place for sissies.” Henry Louis Mencken

Old age is accompanied by a deterioration of tissues and organs, increased susceptibility to disease, and an exponential increase in mortality. The last years have seen great progress in unraveling the mechanisms underlying aging. It has become clear that aging is regulated by various genetic pathways which when properly manipulated  can lead to an increase in lifespan.  These findings raise the exciting possibility that age related diseases could be treated by targeting aging pathways instead of the disease itself.

To investigate this possibility we have screened for small molecules that extend lifespan in C.elegans. The power of the small molecule approach lies in its enormous flexibility. Small molecules can be tested in cell lines, various model organisms, different models of age related disease, in combination with each other, or in combination with mutations known to affect aging and lifespan. Using life-extending small molecules as probes we can now start to investigate the molecular connection between aging and age-related diseases.

Ecco il logo di “Benvenuto” dello staff del Dr. Petraschech, il suo staff e (sotto) lui stesso, con la presentazione delle sue ricerche sull’invecchiamento.

(http://www.scripps.edu/petrascheck/ )

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Che mangiare meno, con moderazione, possa consentire una vita più sana e più lunga è raccomandato già dalla Scuola Medica Salernitana quasi mille anni fa (7), ed ormai è un ritornello che risuona ovunque; ben più complesso è studiare quali siano i meccanismi implicati nel processo di invecchiamento. Si tratta di un fenomeno molto complesso di cui solo da pochi decenni si cominciano a comprendere i meccanismi profondi, sia genetici che epigenetici. Solo dopo aver cominciato a comprendere alcuni dei meccanismi fondamentali che regolano lo sviluppo di tutti gli animali, si è cominciato ad affrontarne seriamente lo studio, e su questa strada lenta e difficile si collocano i lavori di Petrascheck e colleghi, i cui primi risultati il professor Peter Roy dell’Università di Toronto descrive come “Procedere strisciando verso la fonte dell’eterna giovinezza” (8).

Forse ai chimici di questo blog piacerà la presentazione del laboratorio del prof. Roy all’Università di Toronto (http://roylab.ccbr.utoronto.ca/ ).

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Il gruppo di Petrascheck pubblica il primo dicembre del 2015, sulla giovanissima rivista eLife (9) un lavoro di ampio respiro in cui descrive un nuovo meccanismo riguardante la regolazione della trascrizione genica che potrebbe rappresentare il primo fenomeno di invecchiamento animale (4). Questo fenomeno, da loro chiamato “trascriptional drift” (deriva trascrizionale) si verificherebbe nel “giovane adulto” (3-10 giorni di età del C. elegans, circa 40-60 anni nell’uomo) e porterebbe ad una perdita di equilibrio stechiometrico degli RNA messaggeri per la sintesi di proteine di uno stesso gruppo funzionale (GO), come quelli della reazione allo stress ossidativo(4), la cui efficienza decresce con l’età (10). Questo risultato è frutto di un lungo lavoro, a partire dall’osservazione che la mianserina è in grado di allungare la durata della vita del C. elegans di circa il 33 %, effetto che non si ottiene nei ceppi mutati per recettori della serotonina, e non prolunga ulteriormente la vita ai nematodi sottoposti a restrizione calorica, come mostrato nella fig. 1 qui riportata (11).

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(11) Figure 1. Extension of C. elegans lifespan by mianserin. Survival curves show the percentage of animals alive at different ages. Mianserin-treated animals are shown in red (thick line) and untreated control animals are shown in blue (thin line). Mianserin increased the lifespan of wild-type (N2) and ser-1 mutant animals (A) but not ser-3 or ser-4 mutant animals (B). The drug did not further increase the lifespan of animals subjected to DR, and it had no effect on the lifespan of wild-type nematodes when it was given beginning at adult day 5 (N2/d5) (C). (In color in Annals online.)

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Il meccanismo di azione della mianserina SEMBRA dunque coinvolgere i recettori di un importante mediatore del sistema nervoso come la serotonina, e probabilmente questo stesso meccanismo di azione viene coinvolto anche quando la vita viene prolungata mediante la restrizione calorica (12, 13) come mostrato nelle fig. 5 (12).

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(12) Figure 5. A neural basis for longevity induced by dietary restriction (DR). DR longevity is mediated by energy-sensitive central neurons in worms, flies and possibly mammals. The ASI neurons mediate DR longevity in worms, and they signal non-cellautonomously during DR to cause increased respiration in peripheral tissues and long life. Unidentified olfactory neurons mediate DR longevity in flies. The hypothalamus may mediate DR longevity in mammals (see main text for details).

La durata della vita e l’invecchiamento sono correlati, in quanto quest’ultimo provoca effetti degenerativi di organi e tessuti che aumentano la mortalità, ma alcuni processi degenerativi legati all’età iniziano a manifestarsi già nei giovani adulti, come la perdita dell’omeostasi delle proteine (14) o l’incapacità di reagire allo shock termico (15). Gli autori (4) ipotizzano quindi che alcuni processi degenerativi che avvengono solo durante lo stadio di giovani adulti possano contribuire alla mortalità; infatti i livelli di espressione di alcuni geni della detossificazione dei superossidi erano più elevati in animali trattati con la mianserina (16). Nel complesso, la mianserina pare attenuare le variazioni dovute all’età di geni legati a funzioni regolate dalla serotonina, consentendo così il prolungamento della vita (4).

L’allungamento della vita umana veniva in genere interpretato come un rallentamento generale dell’invecchiamento, correlato all’attenuazione di alcuni fattori di rischio che agiscono durante tutta la vita (17, 18); la scoperta della possibilità di ritardare la “trascriptional drift” suggerirebbe che sia possibile ridurre una causa di mortalità nei giovani adulti che potrebbe ripercuotersi sulla successiva durata della vita, consentendo non solo una maggiore longevità, ma anche il prolungarsi delle buone condizioni di salute dell’età adulta con un rinvio del decadimento tipico della senescenza. E chissà che non si verifichi ciò che preconizza l’articolo del prof. John Roy (8), e che con una lenta progressione, grazie ad un piccolo vermetto ed al meticoloso ed instancabile progresso della scienza umana, ci si avvicini ad una fonte di giovinezza, certo non eterna, ma almeno significativamente prolungata. Inoltre la scoperta della “trascriptional drift” avrà certo rilevanti ripercussioni sullo studio dei meccanismi di regolazione della trascrizione in generale.

BIBLIOGRAFIA

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Raymond_Kurzweil
  2. http://www.corriere.it/salute/15_febbraio_08/se-premi-nobel-promuovono-l-elisir-lunga-vita-8438ed96-af6f-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml – Mario Pappagallo: “Se i premi Nobel promuovono l’elisir di lunga vita”. Corriere della Sera, 15 feb. 2008.
  3. http://www.corriere.it/salute/15_febbraio_08/se-premi-nobel-promuovono-l-elisir-lunga-vita-8438ed96-af6f-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml – Simone Valesini: “L’elisir della giovinezza. Che però non allunga la vita”. Repubblica, 24 dic. 2015.
  4. http://elifesciences.org/content/4/e08833S. Rangaraju et al.: “Suppression of transcriptional drift extends C. elegans lifespan by postponing the onset of mortality”. eLife, 1 dic. 2015.
  1. https://www.scripps.edu/
  2. http://www.scripps.edu/petrascheck/Publications2.html
  3. https://it.wikipedia.org/wiki/Regimen_Sanitatis_Salernitanum
  4. http://www.nature.com/nchembio/journal/v4/n2/full/nchembio0208-88.html – P. Roy: “Worming our way to the fountain of youth”, Nature Chemical Biology4, 88 – 89 (2008)
  5. https://en.wikipedia.org/wiki/ELife

10.http://www.pnas.org/content/112/3/E277?ijkey=f5aafddc912491596da691cfdb1a44e6382d5b12&keytype2=tf_ipsecsha – A. Bensal et al: “Uncoupling lifespan and healthspan in Caenorhabditis eleganslongevity mutants”, Proc. Nat. Acad. Sci. USA, vol. 112, 2015.

11.http://www.science20.com/news_articles/transcriptional_drift_of_youth_antidepressant_keeps_worms_in_young_adulthood_longer-160966 – Michael Petrascheck et al, “An antidepressant that extends lifespan in adult Caenorhabditis elegans”, Letter, Nature 450, 553-556 (22 November 2007)

12.https://www.researchgate.net/publication/5934610_Bishop_N_A_Guarente_L_Genetic_links_between_diet_and_lifespan_shared_mechanisms_from_yeast_to_humans_Nature_Rev_Genet_8_835-844 – Nicholas A. Bishop, & Leonard Guarente: “Genetic links between diet and lifespan: shared mechanisms from yeast to humans”, Nature Reviews Genetics, Review,  8, 835-844 (November 2007)

  1. http://www.eurekaselect.com/130545/articleA Bartke: “Early life events can shape aging and longevity”, Current Aging Science, 8, 11-13, 2015
  1. http://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev-biochem-060614-033955 – J. Labbadiaand R. Morimoto: ”The Biology of Proteostasis in Aging and Disease”, Ann. Rev. Biochem, Vol. 84, 2015
  1. http://www.cell.com/molecular-cell/abstract/S1097-2765(15)00499-2?_returnURL=http%3A%2F%2Flinkinghub.elsevier.com%2Fretrieve%2Fpii%2FS1097276515004992%3Fshowall%3Dtrue – J. Labbadia and R. Morimoto: “Repression of the Heat Shock Response Is a Programmed Event at the Onset of Reproduction”, Mol. Cell, vol. 59, 2015
  1. http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/acel.12379/abstract;jsessionid=D6BDB852A5102A32316320415549B256.f02t01 – S. Rangaraju et al.: “Atypical antidepressants extend lifespan ofCaenorhabditis elegansby activation of a non-cell-autonomous stress response”. Aging Cell, vol. 14, 2016
  1. http://www.nature.com/nature/journal/v464/n7288/full/nature08984.html – JH.W. Vaupel: “Biodemography of human ageing”, Nature, 464, 2010
  1. http://journals.cambridge.org/action/displayAbstract?fromPage=online&aid=8681524&fileId=S2040174412000281 – H. Beltrán-Sánchez:  “Early cohort mortality predicts the rate of aging in the cohort: a historical analysis”. J. Developm. Origins of Health and Disease, Vol. 3, 2012

Noterelle di economia circolare.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

L’economia circolare è un nome recente per indicare le operazioni di riciclo dei rifiuti con produzione di materie o merci utili e vendibili. Espressione fortunata che ha già dato vita a libri, saggi, congressi, interviste televisive, gli ingredienti del successo; definizione e descrizione “ufficiali” sono state pubblicate come “Pacchetto sull’economia circolare: domande e risposte” a cura della Commissione Europea http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-15-6204_it.htm.

Economia-circolare

Sta di fatto che qualsiasi società ha sempre cercato di guardare i propri rifiuti per vedere se poteva ricavarne qualcosa di utile; anzi lo sguardo ad alcuni eventi del passato aiuta a comprendere l’ingegnosità di chi ci ha preceduto, i progressi che la ricerca di un riciclo dei rifiuti ha portato anche ad altri campi, e a stimolare nuove imprese. Episodi di economia circolare si sono moltiplicati soprattutto nel corso della rivoluzione industriale, a partire dal Settecento, nel campo della metallurgia, della chimica, delle attività minerarie, dell’industria tessile e della carta, delle attività agricole e alimentari, praticamente dovunque.

Prendiamo il processo inventato dello sfortunato (morì suicida) chimico francese Nicholas Leblanc (1742-1806) per la fabbricazione del carbonato di sodio artificiale, in alternativa a quello ricavato dalle ceneri di alghe e di piante; esso consisteva, come è ben noto, nel trattamento del cloruro di sodio con acido solforico e nella scomposizione del solfato di sodio per reazione con calcare e carbone ad alta temperatura. La lisciviazione della miscela risultante e la successiva concentrazione del liquido così ottenuto fornivano carbonato di sodio con 10 molecole di acqua di cristallizzazione. Il primo passaggio del processo liberava acido cloridrico che dapprima veniva immesso nell’atmosfera e il secondo lasciava come residuo fangoso del solfuro di calcio che all’aria si decomponeva liberando l’inquinante e nocivo idrogeno solforato. https://www.academia.edu/20040414/Il_peggiore_di_tutti

220px-NicholasLeblanc

350px-Leblanc_process_fluxogramLa produzione del carbonato di sodio col processo Leblanc ha dato vita alle prime proteste contro l’inquinamento atmosferico industriale da parte sia degli agricoltori, sia degli abitanti delle zone vicino alle fabbriche. In Inghilterra la protesta è finita in Parlamento ed ha indotto il governo a emanare le prime leggi antinquinamento, l’Alkali Act del 1863. Gli industriali dapprima raccolsero l’acido cloridrico in acqua, scaricando poi le acque acide nei fiumi. L’Alkali Act del 1874 li spinse ad adottare dei metodi di trattamento dell’acido cloridrico. Negli anni 1869-1870 il chimico inglese Walter Weldon (1832-1885) aveva inventato un ingegnoso processo basato sulla reazione dell’acido cloridrico con biossido di manganese; si formavano cloro e cloruro di manganese che poteva essere rigenerato per reazione con calce e aria, col che si completava il recupero del cloro.

Il processo Weldon si può considerare il primo importante esempio di economia circolare e il cloro si può considerare la prima merce ottenuta dai rifiuti. Il cloro trovò ben presto impiego nel campo della depurazione delle acque usate e nella sbianca dei tessuti e della carta, fino ad iniziare un controverso cammino nel campo della chimica organica.

Un secondo caso di economia circolare si ebbe con i processi di lotta all’inquinamento dovuto all’idrogeno solforato liberato dalla scomposizione all’aria dei fanghi di solfuro di calcio. Agli inizi dell’Ottocento l’acido solforico, la materia prima per il processo Leblanc, diffuso in Francia e Inghilterra, era ottenuto partendo dallo zolfo importato dalla Sicilia che ne deteneva praticamente il monopolio.

Il prezzo dello zolfo siciliano subiva bizzarri aumenti, per l’avidità e la miopia sia dei proprietari delle miniere sia del governo del Regno delle Due Sicilie che applicava un pesante dazio sulle esportazioni, con grave disturbo per gli importatori inglesi. Come reazione il potente James Muspratt (1783-1886), che aveva cominciato a produrre la soda col processo Leblanc nel 1823, l’anno in cui il governo inglese aveva eliminato l’imposta sul sale industriale, a partire dal 1834-35 acquistò in Spagna delle miniere di piriti; per arrostimento delle piriti si otteneva anidride solforosa da ossidare poi ad acido solforico nel processo delle camere di piombo. Intanto il chimico Carl Claus (1827-1900), nato in Germania ma immigrato in Inghilterra nel 1882, aveva inventato un processo per trasformare l’idrogeno solforato in zolfo, originariamente per la depurazione del gas illuminante. L’ingegnoso processo consisteva nell’ossidazione di parte dell’idrogeno solforato con ossigeno e nel successivo trattamento dell’anidride solforosa così formata con il restante idrogeno solforato in modo da ottenere zolfo (brevetti inglesi numero 3608 del 1882 e 5958 nel 1883).

Di recente due bravi studiosi tedeschi, Ralf Steudel e Lorraine West, hanno raccontato la storia di questo personaggio e della sua scoperta:

https://www.researchgate.net/publication/270958109_Vita_of_Carl_Friedrich_Claus_inventor_of_the_Claus_Process

Claus_Sulfur_RecoveryClaus descrisse il suo processo nel Journal of the Society of Chemical Industry del 29 aprile 1883.

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Alexander Macomb Chance 1844-1917

Dopo aver letto questo articolo Alexander Chance (1844-1917) volle visitare l’officina in cui era utilizzato, ne ottenne la licenza nel 1883 e si dedicò a perfezionarlo e ad applicarlo all’idrogeno solforato liberato dal solfuro di calcio. Tali perfezionamenti sono descritti nel brevetto inglese numero 8666 del 1887, “Improvements in treating alkali waste to obtain sulphuretted hydrogen and in apparatus employed therein”, che può essere consultato in:

http://discovery.nationalarchives.gov.uk/details/rd/598359c8-6c79-411f-8be6-4b4f84a46db2. Il processo fu descritto da Chance anche in un articolo pubblicato nel Journal of the Society of Chemical Industry del 1888, l’anno in cui fu applicato industrialmente. Il processo è più complicato di quanto si possa dire in poche sbrigative parole, come mostra il seguente articolo:

http://www.topsoe.com/sites/default/files/clark.pdf

Il processo di recupero dello zolfo dal solfuro di calcio del processo Leblanc ebbe successo sia per le pressioni delle norme contro l’inquinamento da idrogeno solforato delle discariche dei fanghi, sia per l’aumento del prezzo non solo dello zolfo siciliano ma anche delle piriti spagnole.

Con i processi Weldon e Claus-Chance fu possibile migliorare il ciclo del processo Leblanc che riuscì a sopravvivere per un’altra ventina di anni prima di essere definitivamente soppiantato dal processo di produzione del carbonato di sodio anidro per trattamento con ammoniaca, inventato dai fratelli Ernest e Alfred Solvay nel 1861 ma applicato con successo soltanto alla fine dell’Ottocento.

Il processo Claus-Chance ebbe gravi conseguenze sull’economia siciliana; nonostante l’invenzione, nel 1880, dei forni inventati da Roberto Gill che permettevano il recupero di parte dell’anidride solforosa inquinante liberata dai calcaroni e miglioravano la resa di zolfo dal minerale (altro esempio di economia circolare), lo zolfo siciliano fu definitivamente messo in crisi delle importazioni in Europa dello zolfo nativo ottenuto negli Stati Uniti col processo Frasch. Qualche notizia su questa interessante pagina della storia economica nel blog:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/10/24/storia-moderna-dello-zolfo/.

Le miniere siciliane sopravvissero malamente fino alla seconda guerra mondiale grazie alle protezioni governative e poi fasciste; sulle “infernali”, come le descrisse l’americano Booker T.Washington nel 1910, condizioni di lavoro in tali miniere si può vedere il bel blog di Icardi: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/10/14/questanno-sono-zolfo/

Claus ottenne anche un brevetto tedesco numero 23763 del 1883 (riprodotto nel lavoro citato di Steudel e West), per un processo per eliminare l’anidride carbonica dal gas illuminante per assorbimento con ammoniaca, variante di un pezzo del processo Solvay. Il processo Claus continuò ad essere utilizzato ogni volta che si trattava di recuperare zolfo da solfuri ma ebbe una vigorosa resurrezione “grazie” all’ecologia. Molti petroli contengono composti solforati che in parte finivano nei prodotti raffinati ed erano fonte di inquinamento atmosferico e di piogge acide. I governi sono stati costretti così a emanare leggi che stabilivano dei limiti massimi dello zolfo nei prodotti raffinati e gli industriali sono stati costretti a eliminare i gas solforati e hanno trovato conveniente almeno recuperare dello zolfo da vendere. Il processo Claus ha avuto ancora più successo quando si è trattato di eliminare l’idrogeno solforato dai gas naturali acidi e così anche gli impianti di estrazione del gas naturale sono affiancati da fabbriche di zolfo molto puro e a basso prezzo.

Questa applicazione del processo Claus ha portato alla crisi dell’estrazione dello zolfo da giacimenti di zolfo nativo e anzi ad un eccesso (milioni di tonnellate all’anno) di zolfo invenduto per cui gli imprenditori cercano qualche sbocco commerciale. Qualcuno ha qualche idea ?

(Nota del blogmaster: incredibilmente non c’è una foto di Carl Claus in tutto il web; qualcuno ne conosce una? Attenzione alle omonimie. Non c’è nemmeno nella sua biografia scritta da Steudel https://www.researchgate.net/publication/280730168_The_Life_of_Carl_Friedrich_Claus_A_German-British_Success_Story)

Ciclo dell’azoto nei depuratori biologici

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

maurobondNella depurazione delle acque reflue la fase più critica e delicata è quella della rimozione dell’azoto.

Nei sistemi di depurazione l’azoto organico e/o ammoniacale in arrivo subisce due processi successivi:

1) in ambiente aerobico viene ossidato biologicamente a nitrato (nitrificazione)

2) successivamente in ambiente anossico viene convertito in azoto gassoso (denitrificazione).

I liquami domestici contengono azoto in forma ridotta, cioè come composto organico oppure come ammoniaca.

Il processo è dovuto a batteri nitrificanti Nitrosomonas e Nitrobacter.

Lo schema di reazione è questo:

2NH3 + 3O2 → 2NO2 + 2H+ + 2H2O (reazione di ossidazione dell’ammoniaca a nitrito). In questa fase sono i Nitrosomonas ad ossidare parzialmente l’ammoniaca a ione nitrito.

I batteri nitrificanti completano l’ossidazione del nitrito a nitrato con questa reazione.

2NO2 + O2 → ​2NO3

 nitro1

 Questa è la prima fase del processo. Come sempre sulla carta tutto funziona perfettamente.

Ma come si suol dire tra il dire e il fare le cose possono cambiare. Il chimico che si occupa di gestire il processo deve occuparsi di fare vari controlli. Il reattore biologico su cui opera (la vasca di ossidazione) è quella dove si svolge questa reazione. Considerando che la vasca è un manufatto che si trova all’aperto si deve considerare un primo fattore limitante,cioè la temperatura. Al di sotto di 15 ° C la velocità di reazione può rallentare anche sensibilmente. Il processo di nitrificazione produce ioni H+. Di solito il potere tamponante dei liquami è sufficiente ad evitare uno spostamento del pH in campo troppo acido. In questo caso si può dosare carbonato di calcio per riportarlo a valori ottimali (8-8,4).

L’ossigeno disciolto in vasca di ossidazione deve essere mantenuto intorno ai 2mg/l. Valori superiori sono di fatto inutili e rappresentano un’inutile spreco di energia elettrica se l’ossigeno viene fornito con aeratori classici (turbine superficiali o piattelli sommersi).

In caso di fornitura di ossigeno puro con impianti appositi si può verificare una maggior pressione parziale di CO2 che si accumula nel reattore non essendo velocemente allontanata. In questo caso è necessario verificare con più attenzione il valore del pH in quanto può essere maggiormente alterato l’equilibrio carbonati-bicarbonati. L’utilizzo di ossigeno puro fornito con impianti di evaporazione di ossigeno liquido è normalmente effettuato per situazioni di emergenza, o per far fronte ad aumenti di carico in ingresso.

Altri parametri di controllo sono di carattere prettamente impiantistico.

Considerando che i batteri nitrificanti sono presenti nel “fango attivo” qualsiasi perdita di fango ne riduce la quantità.   La quantità di batteri nitrificanti che si sintetizza nel fango è circa il 4% quindi una quantità piuttosto bassa rispetto a quelli che operano la demolizione della sostanza organica carboniosa.

Per avere una quantità sufficiente di questi batteri “spazzini” come spesso vengono chiamati si deve avere una permanenza per un tempo adatto. Il parametro nella terminologia tecnica è chiamato età del fango.

In sostanza si regola l’estrazione del fango di spurgo in modo da non ridurre ulteriormente la quantità di batteri necessari.

nitro2

Batteri nitrificanti in sezione di fiocco di fango.

 

In pratica si effettua una regolazione mirata dell’estrazione dei fanghi di spurgo per permettere ai nitrificanti di effettuare l’operazione di ossidazione dell’ammoniaca a nitrato.

Terminata questa fase il liquame viene trasferito in vasche di denitrificazione agitate ma non areate. Chiedo scusa per la digressione ma la frase mi ricorda “l’agitato non mescolato” dei vodka martini di James Bond.

agitatononmescolato

La spia che mi amava: Barbara Bach interpreta il maggiore Anya Amasova (agente tripla X) e pronuncia la frase famosa rivolta a Roger Moore (in effetti fu Sean Connery il primo a pronunciarla in Goldfinger)

 

 

 

 

Torniamo seri. La denitrificazione consiste nella conversione dei nitrati in azoto gassoso.

Queste le reazioni che avvengono:

2 HNO3 + 4H+ +4e–         → 2HNO2 + 2H2O

2 HNO2 + 2H+ +2e–         → 2 NO     + 2H2O

2 NO   + 2H+ +2e–           →  N2O   + H2O

   N2O + 2H+ + 2e–             → N2             + H2O

La fase di denitrificazione deve avvenire in ambiente anossico. Il fango attivo deve rimanere in sospensione ma non si deve avere un valore di ossigeno disciolto in vasca superiore a 0,5 mg/lt perché in tal caso tornerebbero attivi i batteri nitrificanti che andrebbero a competere con i denitrificanti che invece utilizzano l’ossigeno presente nella molecola di nitrato per il loro metabolismo. Il processo avviene in più fasi attraverso reazioni enzimatiche catalizzate da due enzimi, (nitrato riduttasi A,e ossido nitroso riduttasi) I batteri denitrificanti appartengono al genere Pseudomonas. Questi batteri denitrificanti necessitano di sostanza organica per effettuare questa conversione, quindi il fango deve contenere una quantità adeguata di carbonio organico. In caso di carenza si può sopperire con dosaggio di una fonte di carbonio esterna (generalmente metanolo).

Al temine del processo combinato nitro/ denitro si è ottenuta la riduzione dell’azoto totale che è, insieme al fosforo ,uno dei principali responsabili dell’eutrofizzazione.

Inizialmente impianti di questo tipo erano progettati e costruiti in zone lacustri dove era maggiore il rischio di eutrofizzazione. Ma con il tempo e con i limiti maggiormente restrittivi imposti sulle aree sensibili (tra le quali il bacino fluviale del Po), e in seguito all’emanazione del nuovo codice ambientale (Dlgs 152/2006) i nuovi impianti sono stati totalmente progettati e costruiti con schemi di questo tipo. Quelli esistenti e non provvisti di sezione di denitrificazione dovranno nel tempo essere dismessi o dotati di questa sezione.

Una considerazione finale che parlando di ciclo dell’azoto si lega a quanto è stato detto qui. L’alterazione del ciclo dell’azoto è da farsi risalire al processo Haber –Bosch di sintesi dell’ammoniaca.

Da quel momento la produzione di forme reattive di azoto da convertire in fertilizzante è cresciuta più velocemente della popolazione mondiale.

La quantità di azoto immessa nella biosfera è maggiore di quella che può essere rimossa attraverso questi processi nitro/denitro nei depuratori biologici.

Credo occorra riflettere su alcune cose: l’assorbimento di azoto nel corpo umano è una percentuale dell’ 1%. Il resto viene espulso come rifiuto e finisce in fognatura (circa il 99% di azoto ).

E’ necessario incrementare la percentuale di impianti che effettuano il trattamento nitro-denitro e in generale rivedere tutto il sistema della depurazione in Italia. Che mostra ancora situazioni molto differenziate, passando da realtà di eccellenza ad altre con criticità che devono essere affrontate. L’ultima considerazione riguarda la necessità di pensare ad un riciclo dei composti azotati evitando che siano destinati a diventare rifiuti. Ovviamente utilizzando le migliori tecniche disponibili e rispettando l’ambiente. Le tecniche esistono. Occorre passare ad una mentalità che valorizzi la cosiddetta “materia seconda”.

Per informazioni sullo stato della depurazione in Italia.

http://www.arpat.toscana.it/notizie/arpatnews/2014/170-14/istat-il-punto-sulla-situazione-della-depurazione