Chimica e agricoltura: una risposta a Carlo Gessa.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Non è la prima volta che un “nome” della Chimica italiana mi critica e anche duramente; mi è già capitato su C&I e anche su questo blog; il motivo è sempre lo stesso: la reazione è dura quando qualcuno, come me, dall’interno della Chimica cerca di prendere il toro per le corna e dire l’indicibile e cioè che la Chimica ha certe responsabilità, che è stata usata male oppure che noi come chimici non critichiamo in modo sufficiente gli usi negativi della Chimica, oppure ancora che alcune delle glorie, delle verità evidenti di per se, di cui ci beiamo, ci esaltiamo sono come la Chimica stessa (e come ogni altra attività umana beninteso) DUALI, hanno due facce, hanno un lato oscuro. Ma vediamo di che si tratta e fino a che punto il prof. Gessa dice cose difendibili oppure discutibili.

Anzitutto il prof. Gessa mi critica perché sarei stato “banale” nella mia rappresentazione dei processi di alterazione delle rocce; beh può essere, non sono un esperto, a me pareva di aver descritto sia la reazione del “silicate weathering” sia il suo significato in modo sufficiente per il pubblico; nel caso mi farebbe piacere sapere dove è la banalità. In secondo luogo ho citato e commentato un articolo (C.E. Doughty e coll) nel merito traducendone l’abstract e riportandone alcune immagini; non ho nascosto che si tratta di una ipotesi, (in vero alquanto robusta) in base alla quale il ciclo del carbonio sul lungo periodo è stato controllato non solo dalla reazione inorganica del silicate weathering ma anche da quella che potremmo definire di biotic weathering; quindi anche qua, dove è che avrei detto cose inesatte riportando l’articolo? Bah.

E da qui il prof. Gessa infila una dietro l’altra delle affermazioni alquanto “discutibili”:

1)     dice Gessa: Nessuno può negare che le foreste abbiano giocato un importante ruolo “ in stabilizing (CO2)a and climate over the past 45 Myr”( milioni di anni), quando il pianeta era una immensa palla scoppiettante e terribilmente inquieta.

Questa mi giunge nuova, nel senso che da una parte la geologia non considera gli ultimi 45 milioni di anni particolarmente scoppiettanti, la Terra continua ad essere scoppiettante su scala geologica anche adesso, oggi non è sostanzialmente diverso dagli ultimi 45 milioni di anni, che sono poi solo l’1% della vita del nostro pianeta! e dall’altra se è vero che il ruolo delle foreste è stato importante gli autori dell’articolo fanno molto di più: ipotizzano un particolare, UNO SPECIFICO meccanismo di retroazione per le foreste che finora non era stato ipotizzato; il silicate weathering è un meccanismo ben conosciuto ed invocato per spiegare, almeno in parte, le differenze di ciclo del carbonio fra Terra, Marte e Venere per esempio; su Venere il carbonio è intrappolato nell’atmosfera mentre su Marte è intrappolato nella piattaforma carbonatica; le conseguenze sono state nel primo caso un effetto serra micidiale e nell’altro la mancanza di effetto serra significativo; conseguenza la Terra ospita la vita, Venere e Marte no; un recente articolo su Nature ne parla approfonditamente [Sulphide oxidation and carbonate dissolution as a source of CO2 over geological timescales Mark A. Torres, A. Joshua West & Gaojun Li Nature 507, 346–349 (20 March 2014) doi:10.1038/nature13030] eppure non menziona l’importanza del biotic weathering che è appunto una novità ed è per questo che avevo deciso di parlarne. Doughty ipotizza un NUOVO meccanismo di retroazione, non un vecchio mecccanismo.

Un meccanismo di retroazione che SI BADI, funziona sul lungo periodo (si veda anche post su Carrà); il flusso di carbonio relativo al biotic weathering sarebbe una frazione di quello del silicate weathering che a sua volta è una frazione piccola di quello del ciclo del carbonio su breve scala temporale, meno di 1/600 del flusso annuale della fotosintesi (0.03Gton rispetto a 60) e quindi i suoi effetti NON possono essere manifesti su una scala temporale breve, ma cionondimeno ESISTONO e si manifestano sul lungo periodo, su scale temporali dalle migliaia ai milioni di anni.

  fig1chimag da The Earth System (3rd Edition)by Kump, Kasting, Crane – Freeman editor

2)     Scrive il prof. Gessa:

Perché Claudio Della Volpe cita questo lavoro per sostenere che i guai del pianeta sono iniziati con l’uomo agricoltore ( circa 10000 anni fa )? Forse perché ritiene che nei millenni precedenti la terra era un termostato planetario?

Cerchiamo di capire cosa avevo detto io; l’espressione “termostato planetario”, che ho effettivamente usato corrisponde ad immaginare un meccanismo di retroazione su scala planetaria; se il meccanismo ipotizzato da Doughty e collaboratori esiste ed è significativo esso si comporta come un enorme meccanismo di retroazione, che cioè cerca di stabilizzare la temperatura del pianeta; questo non vuol dire che la temperatura non possa variare, ovviamente; perfino usando i perfezionati termostati da laboratorio i nostri sistemi di misura hanno variazioni significative; figuriamoci su scala planetaria; ma è una idea sbagliata la mia? Vedete ho insegnato chimica e fisica del clima per qualche anno usando come libro di testo questo: The Earth System (3rd Edition)by Kump, Kasting, Crane – Freeman editor  e questo libro giunto ormai alla sua terza edizione inizia il suo tragitto nella climatologia terrestre proprio introducendo il concetto di “termostato planetario”, ossia di quei meccanismi di retroazione che consentono ad un sistema come quello del clima terrestre di mantenere una invidiabile omeostasi su periodi di tempo di miliardi di anni, certo con qualche oscillazione; l’idea di un sistema siffatto come modello venne ad un nostro collega, tale James Lovelock, un chimico che avendo inventato un dispositivo usatissimo nella analisi chimica moderna si è dato alla bella vita scientifica inventando due o tre di quei concetti che hanno fatto poi pensare i chimici e altri scienziati per decenni; fra l’altro Daisyworld, il pianeta delle margherite (si veda su internet ipotesi Gaia) mantenuto a temperatura costante dalle sue margherite nonostante il suo astro principale andasse incontro nel tempo a quel riscaldamento cui anche il nostro sole va incontro è diventato un classico della letteratura scientifica (si veda anche: Tellus(1983), 35B, 284-289 Biological homeostasis of the global environment: the parable of Daisyworld di J. Lovelock e Watson)

51CAkieDoKL._SY445_

Insomma l’idea del termostato planetario è ben fondata prof. Gessa e mi spiace per lei che non la conosca o la consideri una mia invenzione. A proposito della citazione di Schneider non c’entra molto con l’idea del termostato planetario per la buona ragione che Schneider parla di variazioni su una scala breve in senso geologico, non quelle del silicate weathering che ci ha appunto aiutato ad uscire anche dalle conseguenze delle oscillazioni di orbita che portano alle glaciazioni in QUESTO periodo della storia del pianeta. Ma passiamo agli aspetti storici delle posizioni di Gessa che sono ancora più interessanti e pieni di significato (discutibili ma di significato); dice il prof. Gessa: E’ stata proprio l’Agricoltura ad aiutare l’uomo nel suo divenire. E più avanti Al periodo di Augusto, l’Italia era un giardino. Con la caduta dell’impero romano, l’uomo abbandona la campagna e la terra ritorna allo stato selvatico. Il paesaggio si modifica, la foresta prende il sopravvento sui campi coltivati, le opere idrauliche ( canali,impianti di irrigazione e drenaggio) vengono demolite, i terreni si impaludano e vastissime aree bonificate diventano pericolosamente insalubri.

Come il prof. Gessa saprà l’agricoltura è venuta fuori circa 10.000 anni fa nella zona definita della “mezzaluna fertile”, fertile crescent in inglese, un arco immaginario che parte dal delta del Nilo e curva verso nord-est arrivando alla zona della Mesopotamia, come in questa immagine:

fig2chimag

e certamente ha avuto delle importanti conseguenze, perché ha aiutato a far crescere le prime organizzazioni umane moderne, i primi stati, il primo impero, quello di Sargon; ma ha avuto anche altre conseguenze, perché se uno esamina la storia di quelle regioni vede un susseguirsi continuo di civiltà diverse con periodi di decadenza; a cosa si può attribuire questo sali e scendi? (si vedano a riguardo i due libri di Diamond (J. Diamond, Collapse) e di Tainter (J. Tainter The collapse of complex societies o il recentissimo articolo in pubblicazione su Ecological economics: Human and Nature Dynamics (HANDY): Modeling Inequality and Use of Resources in the Collapse or Sustainability of Societies di Motesharrei, Rivas e Kalnay )

Beh in un certo senso sempre all’agricoltura; nel senso che fare agricoltura comporta una importante trasformazione del paesaggio naturale e questo è proprio accaduto con l’avvento della irrigazione; la irrigazione intensiva che trasportava grandi quantità di acqua a distanza notevole dai fiumi e consentiva così una forte evaporazione ha avuto una conseguenza inaspettata: la salificazione del terreno; col tempo la percentuale di salinità è aumentata a tal punto da rendere impossibile la coltivazione del grano e lasciando solo l’orzo che tollera meglio la salinità; è un fenomeno che poteva venire frenato solo mediante il maggese, fallowing, ossia lasciare incolto un territorio per un certo periodo, per farlo “depurare” in certo senso (e anche per aspetti opposti per accrescere la quota dei minerali buoni, necessari); col tempo tuttavia la salificazione l’ha vinta anche a causa dell’intensa attività agricola della regione che oggi è una delle più povere del mondo da questo punto di vista. La salificazione è un problema tutte le volte che l’irrigazione è usata in modo intensivo; si pensi a certe zone degli USA, come l’Arizona (http://pubs.usgs.gov/fs/fs-170-98/) dove oggi il problema si pone in modo marcato (l’USGS calcola che in Arizona venga importato tramite irrigazione e tramite tutti gli altri meccanismi l’equivalente di oltre 400kg di sali all’anno per persona che finiscono poi nell’acquifero locale). D’altronde questo effetto è mondiale:

Scrivono Flagella e coll (TOLLERANZA ALLO STRESS SALINO DELLE SPECIE COLTIVATE IN RELAZIONE AGLI ASPETTI FISIOLOGICI, PRODUTTIVI E QUALITATIVI http://www1.inea.it/otris/salinita/flagella_txt.htm):

La salinità è una delle principali cause di stress limitanti la crescita e la produttività delle piante coltivate. Circa il 23% della superficie mondiale coltivata è considerata salina, un altro 37% sodica. E’ stato inoltre stimato che una metà delle superfici irrigue è seriamente interessata da salinità e/o da alcalinità secondaria e che 10 milioni di ettari di terreno coltivato vengono abbandonati annualmente a causa degli effetti avversi della salinizzazione e dell’alcalinizzazione secondaria dovute all’irrigazione (Rhoades e Loveday, 1990; Tanji, 1990).

Insomma l’agricoltura è uno strumento complesso non ha semplicemente “aiutato l’uomo nel suo divenire”.

Quello con l’acqua è uno dei problemi dell’agricoltura e la salificazione è una faccia della medaglia, ma ce n’è un’altra opposta, il consumo eccessivo di acqua; l’aquifero di Ogallala, il più grande degli USA, ricordo dell’acqua ivi accumulata prima di tutto per azione della glaciazione oppure l’acquifero del nord della Libia, sono grandi acquiferi fossili che l’agricoltura ha già consumato o sta consumando a ritmi molto intensi, per Ogallala, alcuni centimetri all’anno. Cosa succederà dopo? Lo sa il prof. Gessa? Nel frattempo in Italia, dove non abbiamo il problema dell’impoverimento della falda abbiamo quello del suo sporcamento da parte prima di tutto dell’agricoltura medesima (si veda l’ultimo rapporto 2013 dell’ISPRA sullo stato delle acque superficiali italiane, inquinate soprattutto di sottoprodotti del ciclo agricolo – http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/rapporti/R_175_2013_rev_finale.pdf)

4) E passiamo all’Italia del tempo di Augusto che il prof. Gessa definisce “un giardino”; iniziamo a dire che all’epoca la penisola ospitava al massimo 10 milioni di persone, quindi molte meno di oggi e che la penisola era coperta di boschi “primigeni”, nel senso mai tagliati da mani umane in proporzione significativa; boschi o foreste di quel tipo sono rimasti dopo in piccola parte del nostro paese; probabilmente l’ultima parte di foresta primigenia italiana era quella che ricopriva la Sila durante la 2 guerra mondiale e che l’esercito alleato saccheggiò come preda di guerra durante la sua vittoriosa risalita; oggi sulla Sila c’è solo un piccolo boschetto di meno di un ettaro di alberi primigeni, immensi, che si chiama “I giganti della Sila”, pallido riflesso di quella copertura vegetale. Il nonno di mia moglie che compro’ un pezzo del fondo valle del Crati nei primi anni del 900 raccontava che gli alberi, enormi, bruciarono per giorni quando elimino’ il bosco fluviale ripario per trasformarlo in campo coltivato.

Ma oltre questo è interessante capire che tipo di agricoltura c’era al tempo dei Romani; abbiamo molte notizie a riguardo dalla letteratura latina, si proprio quella che si studiava a scuola. Le Georgiche e le Bucoliche per esempio, o gli scritti di Catone; Nel suo trattato De agricultura (“Sull’agricoltura”, II secolo a.C.), Catone scrisse che la produzione migliore era il vigneto, seguito da: un giardino irrigato, una piantagione di salici, un uliveto, un pascolo, un campo di grano, alberi da foresta, un vitigno sostenuto da alberi, e infine un bosco di alberi da ghianda. Virgilio dedica un intero libro delle Georgiche , il II, alla vite e all’olivo ed un altro all’apicoltura. Insomma l’agricoltura romana sia pur perfettamente in grado di produrre il grano preferiva importarlo dall’Egitto, che era considerato il granaio dell’Impero e dedicare il territorio italico a colture “permanenti” che oggi chiameremmo permacolture, alberi e piante che non esigevano di rinnovare ogni anno il lavoro di aratura ed erpicatura dei campi e piccola pastorizia o picccolo allevamento. Al tempo dell’Impero ci furono anche grandi diatribe sul fatto se l’importazione di grano dall’Egitto non rappresentasse di fatto una sconfitta delle virtù romane originarie. Ricordo infine che nell’agro Aversano (la famiglia di mio padre era originaria di quella zona) quando ero ragazzo, 50 anni fa, era normale trovare la cosiddetta coltura a 5 livelli, di fatto una permacoltura: alberi di alto fusto, pioppi, per esempio su cui erano tralci di vite, alberi da frutta, piante annue o poliennali e ortaggi, tutte nel medesimo campo, un tipo di agricoltura ben diversa da quella ad alta intensità praticata oggigiorno.

3)     Un ulteriore cruciale punto della critica del prof. Gessa è che mi accusa di attaccare Liebig; senonchè io Liebig non l’ho mai nemmeno nominato!

Non solo prof. Gessa ma mai mi sarei sognato di nominarlo o di attaccarlo, in quanto Liebig per me è come un santino.

Mi spiego; forse avrà notato che le mie posizioni e la presentazione su wordpress, mi dipingono come un comunistaccio; ed è così. E per noi veterocomunisti Liebig, citatissimo da Marx nel Capitale e da Lenin nella Questione agraria è un punto di riferimento; perché mai avrei dovuto criticare un personaggio scientifico che permise a Marx e Lenin di polemizzare aspramente con il capitalismo della loro epoca? Non ne avrei avuto motivo anche perché la descrizione che lei dà di Liebig , mi consenta , è fra il caricaturale e il post-moderno. Lei mette in bocca a Liebig posizioni che sono state di fatto quelle dell’industria chimica e solo dopo la 2 guerra mondiale.

Ai suoi tempi Liebig era famoso per aver difeso due cose importanti che oggi ne farebbero il portabandiera dell’ambientalismo moderno: la necessità di riciclare i nutrienti e quella di conservare il contenuto nutritivo della terra; l’idea che fosse assolutamente e sempre necessario AGGIUNGERE concime inorganico veniva in lui DOPO, SOLO DOPO l’affermazione che i mezzi che il riciclo del materiale offriva erano fondamentali ; anche perché al tempo di Liebig la reazione di Haber non esisteva ancora.

In uno dei suoi passi più famosi Liebig dice:

“But how infinitely inferior is the agriculture of Europe to that of China! The Chinese are the most admirable gardeners and trainers of plants…the agriculture of their country is the most perfect in the world.” Perfect because the Chinese understood the importance of the “most important of all manures,” human excrement. …..“Indeed so much value is attached to the influence of human excrements by these people, that laws of the state forbid that any of them should be thrown away, and reservoirs are placed in every house, in which they are collected with the greatest care.” (Agricultural Chemistry, pp 65-66.)

e ancora nel celeberrimo passo che riguarda il Tamigi (Marald, Erland. “Everything Circulates: Agricultural Chemistry and Recycling Theories in the Second Half of the Nineteenth Century.” Environment and History 8, no. 1 (February 2002): 65–84. http://www.environmentandsociety.org/node/3111.):

In an essay addressed to the Lord Mayor of London, Liebig compared the content of nutrients in common provisions with human excrement, showing that a clear connection existed between the town and the country, or ‘the place of consumption [and] that of production of food’. Thus there was consequently a balance between access to nutrients and access to food, economising the limited quantity of matter. Moreover, sewer water and recycled refuse from the cities comprised an infinite resource in contrast to the imported guano.

Thus it will be easily understood, that if a possibility is offered to the farmer to get back, as sewage, those matters which he has carried to the town in the form of corn, meat, and vegetables, and if he gives his field the same, both in quantity and quality, as he took from it, then its fertility may be assured for an endless number of years.

Forse sono un po’ complottista, ma potrei perfino ipotizzare che dopo la 2 guerra mondiale le grandi industrie chimiche si trovarono con enormi impianti di sintesi per esplosivi a cui non corrispondeva alcun prodotto importante; allora decisero di usare uno degli aspetti della dualità della chimica (vi ricordate il caso del nitrato di ammonio?) : le linee di sintesi dei concimi e degli esplosivi sono molto simili; da quel periodo la quantità di prodotti di sintesi basati sulla reazione di Bosch-Haber è aumentata a dismisura, tanto che Bob Howarth ( Harmful Algae Volume 8, Issue 1, December 2008, Pages 14–20 Coastal nitrogen pollution: A review of sources and trends globally and regionally, Robert W. Howarth) calcola che il 40% degli atomi di azoto che si trovano nei nostri corpi è passato per quella reazione; il problema è che DOPO, al momento dello scarico dell’azoto in ambiente questo enorme eccesso non trova una sufficiente reazione di compensazione; in pratica la grande agricoltura moderna intensiva ed industrializzata ha sconvolto completamente il ciclo dell’azoto e quello del fosforo che ormai non sono più in bilancio e quindi i loro prodotti di scarto si accumulano nell’ecosistema.

fig3chimag

e la conseguenza è ovvia:

fig4chimag

Questa conclusione è vera ancor più per il fosforo, con l’aggravante che in quel caso non solo gli scarichi ma anche le fonti presentano problemi non essendo assicurato il rifornimento di minerali da rocce fosfatiche se non per un massimo dell’ordine del secolo nel caso più favorevole (Science of the Total Environment 461–462 (2013) 799–803 Sustainable use of phosphorus: A finite resource Roland W. Scholz et al.).

Per realizzare questo grandioso piano definito di “rivoluzione verde”, che ha innalzato a valori assurdi il consumo di carne e di proteine animali nei paesi avanzati e che comunque non ha risolto i problemi della fame (circa un miliardo di persone la soffrono) ed ha creato il nuovo problema della iperalimentazione (500 milioni di persone soffrono di iperalimentazione e di conseguente sovrappeso o obesità) si usa una enorme quantità di energia e si distruggono altre superfici forestali; l’agricoltura copre oggi poco meno del 40% delle terre emerse e contribuisce a scaricare in atmosfera (insieme con le altre attività umane ovviamente) circa un sesto del carico di carbonio del ciclo del carbonio; (i prodotti agricoli hanno un contenuto energetico da fossile crescente e significativo e che supera il loro peso nei casi delle proteine di origine animale) ecco perchè ho parlato di una stufa planetaria.

Quindi certo non saremmo stati 7 miliardi senza questo tipo di agricoltura, ma forse potevamo essere ancora di più o mangiare tutti e meglio; quel che è certo è che non potremo continuare a star dietro alla ipotizzata crescita di popolazione con questi medesimi mezzi; ciò è quanto affermano gli studi più recenti (si vedano la relazione FAO 2013 The State of Food and Agriculture 2013 oppure Foley e altri su Nature 478, 337-342 Solutions for a cultivated planet).

A questo punto la conclusione del prof. Gessa mi appare ahimè non solo iperottimistica ma perfino “grammaticalmente” discutibile; egli infatti scrive:

Oggigiorno è in atto una velenosa campagna di demonizzazione della CHIMICA; una sua errata applicazione potrebbe, è vero, avere effetti disastrosi, ma noi tutti siamo fermamente convinti che le scoperte registrate in questi ultimi secoli abbiano reso un eccellente servizio a tutta l’umanità e devono essere utilizzate e “manipolate” con estrema cura. 

(sottolineatura mia)

Beh che sia in atto una campagna velenosa è indubbio, questo blog (che è principalmente e orgogliosamente una mia creatura che ho spinto in tutti i modi possibili) ha come obiettivo proprio di intervenire in quella campagna, recuperando l’autorevolezza dei chimici e della Chimica, e l’indipendenza culturale rispetto a scelte che sono spesso basate sul profitto, non sulla scienza come tale e i cui contenuti diventano “verità evidenti di per se” ma spesso hanno i piedi d’argilla rispetto ad una critica accorta o comunque mostrano evidenti lacune e contraddizioni: la Chimica è duale ricordiamolo, come le altre attività umane e noi dobbiamo porci sempre la domanda : cui prodest?

E dato che gli effetti disastrosi provocati da un suo uso malaccorto sono GIA’ PRESENTI, a partire da un aumento della temperatura media che ragionevolmente sforerà i 2°C entro 20-30 anni (http://www.scientificamerican.com/article/earth-will-cross-the-climate-danger-threshold-by-2036/) con enormi problemi proprio per l’agricoltura forse sarebbe stato il caso di usare l’indicativo perfetto NON il condizionale presente per descrivere i problemi che la Chimica può provocare; è il caso di riconoscere almeno i problemi che già esistono o che si stanno ponendo ORA non di nasconderli sotto il tappeto del condizionale;

voi cosa ne pensate?

Commento a “Chimica e radici”

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Carlo Gessa,  UniBo

Sul blog della Società Chimica Italiana è recentemente comparso un articolo di Claudio Della Volpe “Chimica delle radici ed altre storie”. L’autore, dopo aver richiamato in modo banale alcuni processi di alterazione delle rocce, cita un articolo di Christopher E. Doughty e coll. pubblicato su “Geophysical Research Letters” per  sostenere una tesi, che preferisco non definire, essendo un’estrapolazione discutibile di una ipotesi proposta sulla base dei risultati di una simulazione effettuata  utilizzando un modello di “biological weathering.”

Nel loro lavoro,  C.E Doughty e coll. ipotizzano:

“as global temperatures rise, the soil organic matter layer will shrink, and more roots will grow in the mineral layer, thereby accelerating weathering and reducing atmospheric CO2. We examine this mechanism with a process-based biological weathering MODEL and demostrate that this negative feedback COULD HAVE CONTRIBUTED to moderating long-term global Cenozoic climate during major Cenozoic CO2 changes linked to volcanic degassing and tectonic uplift events.”

Nessuno può negare che le foreste abbiano giocato un importante ruolo “ in stabilizing (CO2)a and climate over the past 45 Myr”( milioni di anni),  quando il pianeta era una immensa palla scoppiettante e terribilmente inquieta.

Il controllo della concentrazione della CO2 nell’atmosfera viene attribuito principalmente  all’attività fotosintetica delle piante, mentre l’azione dell’weathering sia inorganico che biologico è stato sempre sottovalutato. Doughty e coll. cercano di colmare questa lacuna  sostenendo che anche i processi di weathering possono, in qualche misura, aver dato un loro contributo.

Perché Claudio  Della Volpe cita questo lavoro per sostenere che i guai del pianeta sono iniziati con l’uomo agricoltore ( circa 10000 anni fa )? Forse perché ritiene che nei millenni precedenti la terra era un termostato planetario?

A questa idea, contrappongo le parole di Stephen H. Schneider che, nel suo splendido libro “La strategia della genesi, modificazioni climatiche e sopravvivenza globale”, scrive:

Il clima e la geografia terrestri si sono modificati radicalmente nelle varie epoche geologiche. Ma, dal punto di vista dell’esperienza umana, anche il più rilevante di questi cambiamenti sembra scarsamente significativo.Il progredire e il retrocedere delle principali glaciazioni terrestri sono stati sempre separati da decine o centinaia di migliaia di anni. In una tipica registrazione della temperatura, effettuata per gli ultimi 100000 anni , periodo caldi (interglaciali) si alternano spesso a periodi freddi  (ere glaciali) ed è chiaro che noi oggi ci troviamo in un periodo caldo.

Ma il clima varia anche in periodi di tempo molto più brevi e vi sono molte fluttuazioni su piccola scala e a breve termine, che si verificano nell’ambito di un andamento climatico molto più ampio. E’ questo un buon esempio di che cosa la storia del clima possa fondamentalmente insegnare: il clima varia su molte scale del tempo e, anche se le variazioni più lunghe sono spesso le più grandi, le più significative e dannose per l’umanità si possono verificare su tempi molto più brevi.”

Come è possibile prendere seriamente in considerazione la nota di C.D.V. che recita: “Abbiamo distrutto un termostato planetario
e l’abbiamo sostituito con una stufa planetaria anche un po’ sporca”. Il disastro avrebbe avuto inizio “con la sostituzione del ciclo della foresta col ciclo dell’agricoltura” e si sarebbe aggravato con la fertilizzazione minerale delle piante. In pratica, il clima del pianeta sarebbe entrato in crisi 10000 anni fa con la scoperta dell’agricoltura. La crisi sarebbe andata  aggravandosi per colpa di Justus von Liebig che, nel 1840, propose la teoria mineralistica sulla la nutrizione delle piante: i vegetali si nutrono di minerali e non di sostanza organica come sostenevano gli umisti.

E’ stata proprio l’Agricoltura  ad aiutare l’uomo nel suo divenire. A Liebig, un insigne chimico, è giustamente riservata la riconoscenza dell’umanità intera, perché con Lui si è avviata la fertilizzazione minerale delle colture, pratica agronomica che ha decuplicato la produzione agraria. Se non ci fosse stato Liebig, le carestie e la fame avrebbero imperversato anche nel nostro grasso occidente e Maltus avrebbe avuto ragione.

Al periodo di Augusto, l’Italia era un giardino. Con la caduta dell’impero romano, l’uomo abbandona la campagna e la terra ritorna allo stato selvatico. Il paesaggio si modifica, la foresta prende il sopravvento sui campi coltivati, le opere idrauliche ( canali,impianti di irrigazione e drenaggio) vengono demolite, i terreni si impaludano e vastissime aree bonificate diventano pericolosamente insalubri. (oggigiorno si sta verificando una situazione in qualche modo simile: senza  controllo,  cura del territorio e  pulizia dei fiumi etc.,  l’ambiente si degrada velocemente con i disastrosi effetti che conosciamo).  E’ forse questo l’ambiente che l’autore preferisce?

Il paradiso terreste o il mondo di Saturno  esistono solo nella nostra fantasia; la natura è matrigna ed è l’agricoltura che la può migliorare, una agricoltura correttamente intesa, condotta nelle aree pedoclimaticamente vocate, una agricoltura che utilizza in modo razionale tutti i mezzi di produzione, fertilizzanti compresi.

Ciò significa anche il rispetto:

a)     della foresta, in particolare della foresta pluviale tropicale come la foresta amazzonica dove la deforestazione ha disastrose conseguenze. (A. Ehrlich e P. Ehrlich nel loro libro The end of affiance scrivono: “Gli attuali sforzi dei brasiliani renderanno loro semplicemente pochi raccolti in cambio di un’irreversibile distruzione della regione.);

b)    del suolo (solo comparto ambientale di autodepurazione dell’ambiente) e lotta alla speculazione edilizia, alla spinta urbanizzazione e all’insediamenti industriali inquinanti e non sufficientemente garantiti.

Sta agli uomini agire con giudizio onde evitare una agricoltura di rapina.

Dal ragionamento di C.D.V. si deduce che, se l’agricoltura è responsabile di questo disastro planetario, non meno responsabile deve essere considerata la CHIMICA, colpevole di avere sintetizzato i fertilizzanti.

Dalla sintesi dell’ammoniaca, una delle scoperte più importanti per l’umanità, parte la produzione industriale dei fertilizzanti azotati; Fritz Haber e Carl Bosch  dovrebbero essere additati a pubblico ludibrio e dichiarati nemici dell’Uomo e del suo Ambiente?

Oggigiorno è in atto una velenosa campagna di demonizzazione della CHIMICA; una sua errata applicazione potrebbe, è vero, avere effetti disastrosi, ma noi tutti siamo fermamente convinti che le scoperte registrate in questi ultimi secoli abbiano reso un eccellente servizio a tutta l’umanità e devono essere utilizzate e “manipolate” con estrema cura.

La casa della Società Chimica Italiana

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano ex Presidente SCI

Qualche anno fa, quando la Società Chimica Italiana  editava le riviste Gazzetta Chimica Italiana, Annali  e Farmaco, era d’uso inviare i manoscritti alla nostra sede di Roma, in Viale Liegi. Oggi avviene più di rado ma sempre quando abbiamo bisogno di qualcosa dalla SCI ci rivolgiamo, per e-mail o per telefono, alla nostra sede. Ma dov’è Viale Liegi 48C**?

casa1

  casa2 Se dall’uscita posteriore della Università “La Sapienza” di Roma si procede sul Viale Regina Margherita, si passa il Policlinico universitario, si sorpassa Via Nomentana e poi la Salaria, si incontra a metà circa di Viale Liegi il numero 48C  dove si trova la sede della Società Chimica Italiana. Dalla foto in alto a destra si può apprezzare il terzo edificio del complesso, quello della SCI, situato come secondo a sinistra.

La SCI comprò nel 1953 l’appartamento dalla Signora Virginia Cortese, vedova Forges Davanzati, definita nell’atto notorio come gentildonna.

Roberto Forges Davanzati era stato un giornalista di una qualche fama, fondatore e direttore de L’Idea Nazionale (1910), che si fuse poi con La Tribuna (1914-15), importante giornale romano di cui fu anche direttore. Dal 1929 al 1933 fu Presidente della Società Italiana Autori e Editori e dal 1934 fu nominato Senatore (allora le nomine erano a vita ed effettuate dal Re). Fu anche autore e responsabile delle Cronache del Regime, una trasmissione radiofonica molto seguita.

Nel 1936, improvvisamente, morì.

Quando la SCI entrò nella decisione di acquistare un appartamento, aveva la sua sede in Via IV Novembre 154 ed è proprio a questo indirizzo che ricevette l’autorizzazione a procedere all’acquisto di un appartamento per la propria sede da parte del Ministero della Pubblica Istruzione. Dal momento che la Società Chimica è un ente morale (lo era ovviamente anche allora) non può comprare o vendere immobili senza il permesso del ministero di controllo: allora era la Pubblica Istruzione, ora è Il Ministero dei Beni Culturali.

L’appartamento al piano terra, con giardino, di Viale Liegi 48C fu ritenuto dal consiglio centrale adeguato alle necessità della SCI e acquistato: praticamente due appartamenti contigui, più il giardino intorno accessibile solo dall’appartamento, occupati dalla famiglia Flores Davanzati con 6 figli, poteva bene essere utilizzato per la SCI.

casa3

La ristrutturazione dell’appartamento nel 1991-92 ha permesso di recuperare il piano seminterrato: sono state così rese utilizzabili tre stanze. Anche le altre stanze e l’arredo sono state migliorate. Più recentemente, nel 2008, è stato rimodernato il giardino. Tutte queste opere hanno aumentato il valore dell’appartamento e  il confronto con il prezzo d’acquisto come da contratto, certamente sotto stimato, di Lire 12 milioni (sia pure del 1954) non da punti di riferimento per un appartamento in zona Parioli di Roma di 409,7 MQ (11 stanze, due ingressi,  due bagni) con 340 MQ di giardino. Di solito le richieste variano da 5 a 7000 € al MQ.

casa4.

Nel 1992 furono fatte alcune foto dei locali ristrutturati. Naturalmente qualcosa è cambiato. Comunque ad esempio , se non potete venire a Roma a vedere com’è, potete farvi un’idea.

** Nota: per arrivare a viale Liegi basta prendere il 360 a termini e scendere a Viale Liegi, zona ambasciate, una corsa di circa 15 minuti.

Polimeri per tutti

a cura di Marco Taddia

Recensione di C’era una volta un polimero.  Storie di grandi molecole che hanno plasmato il mondo   di Eleonora Polo (Apogeo editore, 2013) p.208 euro 15.

Polimeri_EleoPoloSe si dovesse misurare l’interesse per la chimica dai libri esposti sugli scaffali riservati alle scienze delle maggiori librerie italiane, il risultato sarebbe, a dir poco, deludente. Se poi  si togliessero quelli tradotti dall’inglese ne resterebbero talmente pochi che, forse, non si riuscirebbe a riempire nemmeno un metro di scaffale. Il divario con la biologia, la matematica, l’ecologia ed anche con la fisica appare evidente e, purtroppo, in progressivo aggravamento. Negli ultimi anni sono aumentati quelli dedicati ai temi energetici, al riciclo dei rifiuti e, più in generale, alla sostenibilità ambientale. Le opere a carattere divulgativo dedicate alla chimica, specie di autore italiano, sono una rarità. Tra queste vorrei ricordare quelle del bravo Gianni Fochi, uno dei pochi colleghi che ha l’onore di vedere la sua firma sulle pagine culturali di uno dei più autorevoli quotidiani nazionali.  A lui vorrei aggiungere Adriano Zecchina il quale, con il libro “Alchimie nell’arte. La chimica e l’evoluzione della pittura” (Zanichelli, 2012 Zanichelli) è giunto quest’anno in finale del Premio Galileo per la divulgazione scientifica. Come si ricorderà, esso fu vinto da Armaroli e Balzani (Energia per l’Astronave Terra, Zanichelli, 2008). Speriamo di fare il bis con Zecchina.

A proposito di libri scritti da chimici, verrebbe quindi da dire: pochi (anzi pochissimi) ma buoni.

Ora ne abbiamo uno in più e sono convinto che meriti di essere acquistato e letto.

 eleonorapoloSi tratta di: C’era una volta un polimero (Apogeo, 2013). È a firma di Eleonora Polo, ricercatrice presso l’Istituto per la Sintesi Organica e la Fotoreattività (ISOF) del CNR di Bologna – UOS di Ferrara. Eleonora ha insegnato Chimica Metallorganica a Ferrara, si occupa da tempo e con impegno di divulgazione scientifica ed è responsabile editoriale del giornale dell’AIM (Associazione Italiana della Macromolecole). Il suo libro porta l’eloquente sottotitolo “Storie di grandi molecole che hanno plasmato il mondo”.  Leggendo il prologo “Il primo polimero non si scorda mai”, dove l’autrice rivive la prima polimerizzazione della sua vita effettuata all’Inorganic Chemistry Laboratory di Oxford nel 1994, ho avvertito subito una consonanza elettiva, stavo per dire “affettiva”, con lei. Erano i favolosi anni ’60 e Natta aveva appena vinto il Nobel. Anche noi studenti di chimica degli Istituti Tecnici Industriali eravamo contagiati dall’entusiasmo per questo successo italiano e dall’interesse per il Moplen. La scuola, come al solito, era al traino della vita vera. Nel laboratorio di organica facevamo le solite sintesi, su ricetta. Un giorno decisi che avrei tentato di fare un polimero da solo. Sbrigai in fretta il compito assegnato e dopo aver consultato il libro provai a sintetizzare una resina fenolica, il polimero più facile da ottenere con i mezzi che avevo a disposizione. Non vi racconto il resto ma vi assicuro che ritrovarmi fra le mani quella crosta rosa e scivolosa, parente della celebre bachelite,  che non c’entrava nulla con il Moplen ma che la Natura non sapeva fare, fu come toccare il cielo con un dito.

     Tutto il libro di Eleonora Polo è impregnato della curiosità, della passione e dello stupore che accompagnarono la vicenda cui ho accennato. Sono quindici capitoli, briosi e scorrevoli, da cui tutti possono imparare qualcosa. E’ impostato con metodo ma senza pedanterie e le informazioni non sono riportate alla rinfusa, tanto per far colpo. Comincia con i ferri del mestiere (parole della chimica e dei polimeri) e segue la storia,  con più paragrafi dedicati a Hermann Staudinger.  I diversi capitoli sono raggruppati in due parti. La prima s’intitola: “La via della gomma”. Dopo la vulcanizzazione della gomma, si parla di gomma artificiale, politene e polipropilene, polivinilcloruro, Teflon e silicone. La seconda s’intitola “La via della cellulosa e della seta”. Si parla di nitrocellulosa, celluloide, bachelite, rayon, cellofan, nylon e Kevlar.  Il libro si chiude con una tabella delle sigle “misteriose” per non perdersi nell’odierno ginepraio, un’utile bibliografia e un indice dei nomi.  Lo stile del libro si rivela anche nei particolari.  Basti pensare che la bibliografia è destinata agli “inguaribili curiosi”. Sono sicuro che se appartenete a questa categoria e detestate la boriosità e la noia, il libro è proprio per voi.

 

 

 

22 marzo 2014: L’acqua per un mondo sostenibile ed il ruolo dei chimici

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Francesco Dondi, f.dondi@unife.it  Dipartimento di Scienze Chimiche e Farmaceutiche, Università di Ferrara*

dondiAll’approssimarsi del 22 Marzo, giornata mondiale dell’acqua, volentieri condivido con i colleghi della SCI parte dei risultati del lavoro svolto all’Università di Ferrara sul tema dell’uso sostenibile dell’acqua.

A questo tema ci siamo dedicati assai intensamente grazie a due fortunate opportunità:

l’Ateneo di Ferrara ha fatto proprio il paradigma della Sostenibilità, nominandomi per un triennio responsabile delle politiche della sostenibilità: è stato costruito un apposito portale:

http://sostenibile.unife.it/index.php/it

dove  trovano posto le varie iniziative e problematiche della sostenibilità.  Il tema dell’acqua e dell’educazione al suo  buon uso è stato  poi l’argomento specifico del progetto europeo TESSI: Teaching Sustainability across Slovenia and Italy, coordinato dal Dott. Fabio Tomasi del Consorzio Area di Trieste, i cui risultati sono accessibili al portale:

http://www.tessischool.eu/

Nell’ambito di questo progetto il gruppo di Unife ha redatto  un manuale sul buon uso dell’acqua. I colleghi sloveni hanno prodotto un manuale sui rifiuti.  Questo  ed altro materiale ha visto la luce grazie alla  collaborazione di numerosi docenti  di diverse discipline – scientifiche, tecniche, umanistiche – dell’Università di Ferrara

admin-ajax-93

I risultati di questi progetti sono ora presentati in una mostra multimediale presso il Castello Estense nella prestigiosa sede cinquecentesca dei Camerini del Duca, dimora del duca Alfonso I d’Este. La mostra  rimarrà aperta fino al 13 Aprile 2014. Nel corso della settimana  è riservata a visite gratuite e guidate dal Lunedì al Venerdì (informazioni: <mailto:tessi@unife.it>tessi@unife.it).  Al  Sabato e alla  Domenica è aperta al pubblico (accesso gratuito) dalle 9.30 alle 16.30.

http://sostenibile.unife.it/index.php/it/presentazione-della-mostra

In questo stesso blog potrete trovare i links ad una parte del materiale didattico predisposto: video, manuali e prodotti multimediali.  Nella predisposizione di questo materiale didattico  ci hanno fatto da guida sia gli straordinari principi che stanno alla base dell’etica dell’acqua, ma anche i concetti tipicamente chimici.

Sono infatti convintoche l’alleanza tra le due Culture – scientifica ed umanistica –  sia essenziale per la costruzione di un mondo veramente sostenibile.

L’acqua, come dice Leonardo, è il vetturale della natura.

leonardo

L’acqua guida e regola la natura  grazie  alle straordinarie proprietà chimico-fisiche che tutti conosciamo. Ai chimici spetta quindi  il compito di spiegare come queste straordinarie proprietà siano alla base del tempo meteorologico come lo conosciamo o dei processi di crescita e conservazione dei territori. L’acqua con le sue straordinarie proprietà solventi consente la vita, ma anche la desertificazione, l’inquinamento, i disastri ambientali, così come  le tecnologie di rimedio ai disastri provocati dall’uomo. Vi sono motivi dunque  per parlare alla gente  dell’acqua con un linguaggio chimico accessibile a tutti, spiegando l’importanza della  struttura molecolare dell’acqua,  delle proprietà termodinamiche quali la capillarità, la tensione superficiale, la pressione osmotica, l’equilibrio tra fasi, la stabilità dei colloidi ecc.

La ridotta disponibilità dell’acqua accessibile ed annualmente rinnovabile.

Sappiamo che l’acqua effettivamente disponibile ed annualmente rinnovabile è solo una frazione piccolissima rispetto a tutta l’acqua  esistente sulla terra. E’ come  la scorta di bordo dell’”astronave Terra” e dobbiamo restituirla intatta all’ambiente affinché le generazioni future possano usufruirne: e’ una questione di Giustizia Sociale.

Dobbiamo quindi  far “conoscere” in termini quantitativi di quant’acqua disponiamo  per un mondo sostenibile.

Noi, infatti, non dobbiamo essere i passeggeri distratti di questo mondo, richiamando il concetto di Leonardo. Come dice Tony Allan (1), dobbiamo essere  “disciplinati passeggeri” e questo richiede la diffusione della  conoscenza delle proprietà  dell’acqua. E’ importante quindi far conoscere come solo un corretto uso delle proprietà dell’acqua potrà assicurare un futuro sostenibile per le generazioni future.

Nuovi concetti sono però necessari per un insegnamento aggiornato. Mi riferisco all’importante concetto dell’”acqua virtuale” proposto da Tony Allan e messo in numeri  da Arjen Hoekstra attraverso la  water footprint:

allan-560x200

http://www.waterfootprint.org/?page=files/home

L’”acqua virtuale” è una misura dell’impronta idrica dei beni, dei singoli individui e delle nazioni in termini di risorse idriche. Cominciamo a comprendere, ad esempio, che attraverso l’importazione di beni, come il caffè o la maglietta di cotone, importiamo acqua da regioni lontane e ne determiniamo in definitiva gli eventuali disastri ecologici. Dobbiamo quindi adeguare uso,  produzione e consumi, comprese le nostre diete alimentari:  come dice Tony Allan  ce lo impone non la Scienza o l’Economia, ma la Compassione.

virtualwater

In pratica dovremo ridurre in futuro la nostra impronta idrica del 40%. Come? Attraverso un uso razionale e responsabile dell’acqua, evitando sprechi ogni giorno, non gettando parte degli alimenti…mettendo a punto nuove tecnologie ed insegnando a fare ciò alle giovani generazioni. I due video sull’acqua virtuale qui sotto presentati illustrano questo nuovo strumento per la misura della sostenibiltà delle risorse idriche.

E’ necessario stabilire una cooperazione – alleanza con altre discipline: la geografia, la biologia, l’ingegneria del ciclo urbano dell’acqua, le buone pratiche. Il manuale sull’acqua qui sotto presentato assieme alle diapositive per un corso integrato rivolto agli insegnanti  sono un esempio di  approccio interdisciplinare sul tema della “didattica”  dell’acqua sviluppato in TESSI.

Il tema della sostenibilità della risorsa acqua è ad un tempo terra di nessuno e di tutti. E’ assolutamente importante stabilire collaborazioni con le scienze della comunicazione per creare strumenti multimediali a disposizione dei non esperti e degli studenti per diffondere questi concetti, mettendo tutti in grado di compiere scelte informate.

Dobbiamo infatti affrontare le sfide che la così detta Società del “Rischio” (2) pone soprattutto a quelli che si dedicano alla ricerca scientifica. Questo si puo’ fare,  come dice il sociologo Piet Strydom (3), stabilendo  un collegamento tra rischio,  conoscenza e comunicazione, per  fornire “cognizione” ad una società complessa affinché sappia decidere in modo informato e democratico. Il video sul problema del mercurio nel mare Adriatico tratta  su come “comunicare” situazioni ambientali sfavorevoli e su come si può convivere con esse.

E’ importante quindi stabilire nelle scuole un nuovo spirito positivo e costruttivo partecipando ai corsi di aggiornamento dei docenti, come attuato nell’ambito del  progetto TESSI.

Dobbiamo coinvolgere gli studenti in progetti di sostenibilità operativa per fornire ad essi ambiti di speranza applicata – come dice David Orr (4)- facendoli partecipare a competizioni in grado di risvegliare energie e creatività. Dobbiamo coinvolgerli in progetti operativi di risparmio dell’acqua ai vari livelli della gestione delle strutture, magari premiando le tesi su tali argomenti come istituito all’Università di Ferrara:

http://sostenibile.unife.it/index.php/it/premi-riconoscimenti/ii-edizione-premio-universita-sostenibilita

Riportiamo qui di seguito una serie di links a materiale vario predisposto nell’ambito di TESSI con i colleghi del nostro Ateneo e con i ricercatori e gli assegnisti del centro di Ateneo  se@ di comunicazione diretto dal prof. Frignani, col quale abbiamo sviluppato una straordinaria esperienza di comunicazione e di divulgazione scientifica. Il video sulle “buone pratiche” realizzato assieme ai colleghi ingegneri in collaborazione con SSe@e@ è un esempio di “divulgazione”  tecnico-scientifica di carattere popolare.

Il materiale sviluppato a Ferrara per TESSI è assai esteso, consiste in 17 video per più di due ore di  trasmissione. In questa sede si presenta solo un’anteprima di un progetto più completo sull’acqua, bene comune, rivolto alle scuole superiori, che sarà successivamente reso disponibile in forma completa.

Materiali scaricabili o disponibili per una visione.

Manuale sul Buon uso dell’acqua(ed altri) prodotto dal Gruppo di Docenti di Unife afferenti al progetto TESSI

Diapositive di un corso per insegnanti sull’acqua (il ciclo delle acqua: Dondi; Mistri; Alvisi)

Video – You Tube  tratti dal manuale sul buon uso dell’acqua illustranti i seguenti aspetti:

Acqua Virtuale

L’impronta d’acqua della pizza margherita:

L’ impronta idrica delle nazioni e la Giustizia Sociale:

Convivere con i problemi ambientali: il mercurio nell’adriatico

Il Buon Uso dell’acqua : azioni per un buon uso dell’acqua

http://www.youtube.com/watch?v=bvtgCGgFlKQ

Riferimenti bibliografici

1. Tony Allan, Tony Allan, Virtual Water, tackling the threat to our planet’s most precious resource, I.B. Tauris, 2011.

2. Ulrich Beck, “La Società del Rischio”, Carrocci Editore, Roma, 2000

3. Piet Strydom, “Risk, environment and society”, Open University Press, Buckingham, 2002, Cap. 8

4. David W. Orr, State of the World 2010, Worlwatch Institute, Ed. Italiana, Ed. Ambiente p. 158

__________________________

Attenzione : uno dei prossimi numeri di CNS sarà dedicato all’acqua: https://www.soc.chim.it/divisioni/didattica/cns

_______________

*Prof. Francesco Dondi
Dipartimento di Chimica
Università di Ferrara
Via  Luigi Borsari, 46
44100 Ferrara
email: <mailto:f.dondi@unife.it>f.dondi@unife.it
skype: f.dondi.unife
TEL  +390532 455 154
cell. +39 335 7014246
fax +39 0532 240709

Referenziazione analitica: cosa è?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

320px-Continuous-Flow_Analysator

Negli anni ’70, dopo il boom economico che aveva sacrificato alcuni aspetti della sostenibilità, anche importanti, al prevalente interesse economico, la chimica si assunse una grande responsabilità, ed oggi dobbiamo dire anche un grande merito, rivendicando alle proprie misure in tutti i campi di applicazione il carattere della qualità, in termini di accuratezza e precisione, sulla base di alcuni preliminari accorgimenti. Nacque così il progetto “Referenziazione Analitica”. La misura della stessa concentrazione dello stesso elemento o dello stesso composto, qualunque essi siano, in matrici fra loro talvolta tanto diverse (campioni alimentari, ambientali, biologici) deve tenere conto, per essere affidabile nel risultato, del cosiddetto effetto matrice, il che vuol dire che un metodo per essere gartantito nella correttezza dei risultati deve essere validato su un campione della stessa natura di quello da testare. Nacquero così i materiali di riferimento certificati (CRM), prodotti da aziende specializzate che in breve tempo si diffusero così tanto da giustificare la comparsa di cataloghi ad essi dedicari. Una delle caratteristiche più importanti di un materiale di riferimento è di certo la sua stabilità da cui l’esigenza di test di misura che lo possano valutare affidabilmente. La guida ISO a tale proposito suggerisce test di stabilità a breve durata condotta solo per poche settimane. Ma questo non risponde all’esigenza di valutare anche la stabilità a lungo termine. Per questo anche viene ora proposto un test accelerato che si dimostra anche più idoneo ad evidenziare difetti di stabilità. Il test è condotto a temperature di 200°C più alta di quella di conservazione per tempi variabili fra 1 e 18 mesi, sempre operando in doppio. Nel caso dei test di stabilità a lungo termine la temperatura è quella di conservazione o la durata si dilata fino a 48 mesi. I test a breve termine generalmente si applicano per garantirsi sulla stabilità durante il tempo di trasporto, ma risultano spesso insufficienti rispetto a valutazioni più approfondite. Nel caso di studi di cinetica di degradazione 9 mesi è considerato l’intervallo minimo necessario.

Nucleo_magneticamente_attivo_in_rotazione.jpegPer tutti i test l’NMR è il metodo di analisi consigliato per eccellenza. A proposito di questa tecnica in continuo sviluppo negli ultimi anni l’importanza della quantificazione di sostanze organiche impiegando l’NMR è aumentata notevolmente. Oggi l’NMR quantitativo è usato in una grande varietà di applicazioni sia da parte dell’industria che dei laboratori di ricerca. L’intensità di un segnale NMR è direttamente proporzionale al numero di protoni che producono il segnale. La quantificazione è ottenuta misurando l’area del picco di interesse rispetto ad un segnale prodotto da uno standard interno rappresentato da un materiale di riferimento certificato. Questo materiale deve essere tracciabilmente riferito ad un materiale prodotto dall’Istituto di Standard e Tecnologia (NIST).

chimicaanalitica

L’istituto per i Materiali e le Misure di riferimento è uno dei 7 istituti del Centro di Ricerca Europeo impegnato a supportare le politiche europee sui temi della standardizzazione e dei sistemi e metodi di Riferimento. Uno dei materiali di recente prodotto come riferimento è la tetrametilurea applicato in alcuni test su vini. Il carattere DOC e DOP di alcuni alimenti è un indice di qualità a garanzia del consumatore. Purtroppo le frodi alimentari sempre più contrastano la correttezza di questo approccio. Il test affidabile per valutare l’autenticità o meno di un vino richiede la calibrazione accurata di specifiche misure di rapporti isotopici. Anche la tetrametiurea è stata certificata per il suo rapporto deuterio/idrogeno. E’ questo uno dei rapporti finalizzati comunemente e smascherare frodi ed adulterazioni Gli altri sono il rapporto 13C/12C, 18O/16O e 15N/14N. I valori ottenuti per il vino testato sono confrontati con quelli propri dei vini autentici.
Altri materiali di riferimento di recente prodotti, a dimostrazione della grande variabilità,sono
a) capelli umani certificati per il loro contenuto in As, Cd, Cu, Fe, Hg, Pb, Se e Zn : l’impiego di tale materiale è da collegare all’impiego dei capelli umani per monitorare l’esposizione di una persona a certi metalli
b) grani di cementite dispersi in una matrice di perlite ferrosa con un diametro medio dei grani compreso fra 20 e 50 µ , certificati con il contenuto in carbonio ed applicati allo studio delle proprietà ( come duttibilità e durezza) di alcuni materiali da costruzione, esaminati per il loro contenuto in carbonio tramite la microsonda elettronica.

per approfondire: Ref. A.Rueck, C.Hellriegel,Analyrik,issue 1,7-11 (2014)

http://www.treccani.it/enciclopedia/referenziazione_%28Enciclopedia-Italiana%29/

http://en.wikipedia.org/wiki/Certified_reference_materials

Stanislao Cannizzaro, scienziato e politico multiforme.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Benito Leoci, Università del Salento bleoci@yahoo.it

benitoleoci

Benito Leoci, UniSalento, bleoci@economia.unile.it

La prima volta che incontrai Cannizzaro, o meglio questo nome, fu durante la preparazione per l’esame di Chimica Generale I, così come sarà accaduto a tutti gli studenti dei corsi universitari di chimica. Certamente mi ero imbattuto in questo nome in precedenza, alle scuole medie superiori, ma nella memoria non mi era rimasta alcuna traccia. Fra i libri consigliati allora all’Università di Cagliari, era l’inizio degli anni ’60, vi era “il Bruni”, la cui prima edizione risaliva al 1921. Nella prefazione a questa edizione il Bruni ricordava che nel decidere l’ordine da dare al corso di Chimica Generale (tenere separate o meno la parte teorica da quella descrittiva) si era attenuto all’«esempio e ammaestramento di Cannizzaro e di Ciamician».

bruni

Nella 10° edizione del 1957, da me utilizzata, alle pagine 34-35 viene illustrata la cosiddetta “Regola di Cannizzaro” e cioè il sistema da seguire per determinare il peso atomico degli elementi. Regola che lo stesso Cannizzaro illustra in un suo scritto del 1858 dal titolo “Sunto di un corso di filosofia chimica” (ripubblicato nel 1991 con i tipi della Sellerio editore di Palermo, insieme ad un commento di Luigi Cerruti intitolato “Il luogo del «Sunto»”), che ripete a Karlsruhe due anni dopo, durante un congresso di chimici europei organizzato da Kekulè (lo stesso che durante un sogno immagina come doveva essere la struttura del benzolo: sei scimmie che si tenevano per mano per formare un esagono). Dal Bruni, Cannizzaro viene ricordato anche a proposito di “dismutazioni” o “ossido-riduzioni” e cioè in particolare per la reazione fra l’aldeide benzoica e l’idrossido di potassio, nota anche come la «reazione di Cannizzaro». Tutto qui.

E’ evidente che dalla lettura di queste scarne note, nessuna curiosità poteva nascere sul conto di questo scienziato, né sul conto delle numerose altre menti, pur ricordate dal Bruni e dagli altri testi di chimica, che nel corso del 18° e 19 secolo avevano contribuito allo sviluppo della chimica. Cosa c’era di notevole ed eclatante nel suggerimento di un sistema utile per individuare gli atomi? Poiché non inquadrato nel contesto storico degli avvenimenti, senza l’evidenza dello stato delle conoscenze scientifiche di quel periodo, senza conoscere le teorie circolanti, i dubbi e le perplessità che attanagliavano i chimici dell’epoca, era difficile nutrire qualsiasi curiosità e valutare in pieno l’importanza della regola di Cannizzaro come anche del lavoro svolto dai suoi contemporanei: da Avogadro a Berthelot, da Berzelius a Dumas, a Kekulè, da Mendeleev, a Leblanc, Liebig, Meyer, tanto per citare i primi che vengono in mente.

Non si trattava (e non si tratta) solo di dare maggiore rilievo alla storia della chimica o delle scienze in generale, come fine a se stessa, ma della necessità di penetrare maggiormente nell’evoluzione e nelle necessità della ricerca, sempre caratterizzata da enorme lavoro e dal totale impegno dei ricercatori oltre che dalla loro fortuna e intelligenza.

Il secondo incontro con Cannizzaro fu del tutto imprevedibile e casuale. Nel 1966 mi trovavo a San Pietroburgo (l’antico nome riacquistato da poco tempo) quando fui sollecitato a visitare la locale Università statale in quanto attratto da una curiosa notizia: ospitava la più lunga biblioteca del mondo. Fondata nel 1783 accoglieva ben 7 milioni di volumi. Occorreva dare un’occhiata. La visita però fu deludente. Si trattava di un gran numero di scaffali pieni di libri allineati in un corridoio molto lungo. Non era una vera e propria biblioteca. Percorrendo questo corridoio però notai un etichetta su una porta che recava la scritta “Менделéев музей” (Museo di Mendeleev). Chiesi di poterlo visitare ad una signora che era nei pressi, molto stupita del mio interesse. Probabilmente non era una richiesta frequente, ma Mendeleev era uno dei miei eroi preferiti. Grazie alla sua tavola periodica avevo potuto memorizzare più facilmente molte nozioni del corso di Chimica Generale e Inorganica.

In una delle stanze dove Mendeleev aveva vissuto e lavorato per oltre 30 anni, un tavolino rotondo coperto da una tovaglia bianca colpì la mia attenzione oltre alle numerose bacheche contenenti i manoscritti dello scienziato, pieni dei simboli degli elementi chimici allora conosciuti: erano i muti testimoni degli innumerevoli tentativi condotti per formulare una tavola degli elementi credibile e razionale. La tovaglia era piena di firme apposte dai visitatori di Mendeleev, collezionate dalla moglie, come spiegò la custode.

Fra questi autografi c’era quello di Cannizzaro, unico Italiano della raccolta. Non vi era la data, ma verosimilmente doveva essere stato apposto dopo il congresso di Karlsruhe, quando i due si incontrano accomunati dallo stesso interesse per gli atomi, sia pure per motivi diversi. Il fatto sorprendente è che Mendeleev, al contrario di Cannizzaro, non credeva all’esistenza degli atomi (così come tanti altri del tempo: H. E. Roscoe, W. Ostwald, il grande Dumas, ecc.) nonostante le sue ricerche per ordinarli in una tavola in funzione di alcune loro caratteristiche. Ma chi era dunque questo Cannizzaro, che si era spinto fino alla lontana San Pietroburgo da Palermo o da Napoli o Genova, certamente via mare? E perché il suo intervento a Karlsruhe aveva avuto tanto successo e acceso numerosi dibattiti?

Negli anni ’30 del 19° secolo, nel settore della chimica-fisica, allora indistinguibili, nessuno sapeva come configurare molecole ed atomi, pesi atomici e pesi equivalenti. Lo stesso Dalton, che pure aveva suggerito, sulla scia delle intuizioni di Lavoisier, che esistevano tanti tipi di atomi quanti erano gli elementi, ognuno caratterizzato da un peso atomico, non aveva compreso la differenza fra atomi e molecole, sicchè pensava, che la molecola dell’acqua fosse formata da un atomo di idrogeno legato a uno di ossigeno e che per esempio l’ammoniaca fosse formata da un atomo di azoto legato ad uno di idrogeno. Se invece dei pesi si consideravano i volumi le cose cambiavano. Gay-Lussac aveva appena dimostrato che l’acqua, per esempio, era formata da due volumi di idrogeno e uno di ossigeno. Questa differenza fa pensare a Kekulè che esistevano due tipi di molecole: quelle fisiche e quelle chimiche.

avogadro

Secondo Avogadro, poiché volumi uguali di gas dovevano contenere ugual numero di molecole, derivava che le molecole di idrogeno e di ossigeno erano necessariamente composte da due atomi ciascuno. Dalla loro combinazione si formavano due molecole di acqua composte ciascuna da tre atomi (due di idrogeno e uno di ossigeno). Avogadro quindi aveva dato una soluzione al problema, ma nessuno l’aveva capito, tantomeno Dalton. In definitiva in quei primi decenni del 1800, regnava un gran confusione anche perché molti pesi atomici erano errati e di alcuni composti erano state proposte numerose formule. Se si da un’occhiata a un volume scritto da Kekulè nel 1859 (Lehrbuch der organische Chemie), si scoprono ben 19 formule dell’acido acetico, proposte da 12 diversi studiosi, nell’ambito di 6 teorie suggerite dagli stessi. Si erano dunque accumulati molti dati, formulate varie teorie e acquisite diverse conoscenze che occorreva interpretare e ordinare secondo logiche accettabili.

200px-Heinrich_von_Angeli_-_Friedrich_August_Kekulé_von_Stradonitz

E’ facile quindi comprendere perché Kekulè, nell’autunno del 1859, propone a Karl Weltzien (suo amico e professore di chimica alla “Technische Hochschule” di Karlsruhe) di organizzare un incontro fra i chimici europei per discutere insieme di vari problemi (Definizione delle nozioni chimiche importanti – come quelle che sono espresse dalle parole – atomo, molecola, equivalente, atomo-basico. Esame della questione degli equivalenti e delle formule chimiche. Stabilimento d’una notazione o nomenclatura uniforme). All’iniziativa furono associati Charles Adolphe Wurtz (in quel periodo occupava la cattedra di “Farmacia e chimica organica” all’Università di Parigi) e August Wilhelm Hofmann (professore in quel periodo di “Chimica pratica” a Londra). Piria, uno dei più giovani e brillanti scienziati del momento in Italia (si era laureato in medicina a Napoli e aveva studiato chimica con Dumas a Parigi), riceve l’invito da Wurtz che naturalmente accetta coinvolgendo anche Cannizzaro (firmando al suo posto) ignaro di tutto. Piria lo informa successivamente, scusandosi per l’iniziativa. Viene invitato anche M. F. Malaguti che da più di 30 anni era a Rennes (ove insegnava Chimica generale alla Facoltà di Scienze della locale Università).

445px-Kekule_acetic_acid_formulae

diverse formule dell’acido acetico al tempo del congresso di Karlsruhe, 1860

In definitiva gli Italiani firmatari per accettazione dell’invito erano solo tre su 45, e tutti e tre si consideravano esuli (Piria di origine calabrese viveva a Torino, Cannizzaro di origine siciliana viveva a Genova e Malaguti originario di Pregatto un paese vicino Bologna viveva a Rennes). A Karlsruhe giungono 140 scienziati. Mancano però i vertici della chimica inglese e lo stesso Hofmann. Manca Piria, ma c’è Angelo Pavesi (laureato in giurisprudenza, in seguito professore di Chimica farmaceutica a Pavia). La discussione inizia sulla nozione di molecola e atomo e sono invitati a prendere la parola Kekulè e Cannizzaro. Kekulè insiste sulla sua idea dell’esistenza dei due tipi di molecole prima citate. Cannizzaro la respinge: esistono solo le molecole chimiche ed espone il suo sistema di misurazione dei pesi atomici come derivazione della legge di Avogadro. La distinzione fra molecole ed atomi appare ora chiara alla maggioranza dei presenti. Kekulè e pochi altri restano nel dubbio.

cannizzaro

Alla fine dei lavori Pavesi distribuisce ai presenti una copia del “Sunto”. Il congresso si chiude con la convinzione dei più che il principale problema all’ordine del giorno era stato risolto, grazie all’intervento di questo oscuro scienziato che non era stato nemmeno invitato dagli organizzatori. Al suo rientro a Gent, Kekulè riceve da Lothar Meyer una lettera con l’invito a prendere atto dell’esattezza delle tesi di Cannizzaro. Ritorna la domanda. Chi era questo studioso che si era trovato a discutere al congresso di Karlsruhe con i maggiori scienziati europei, in quanto inviato da Piria che non lo aveva nemmeno interpellato?

Come si legge nei suoi appunti autobiografici, che qui riassumiamo, Cannizzaro nasce a Palermo il 1826, ultimo di 9 figli (si noti che Mendeleev era ultimo di 14 figli). Il padre, Mariano, era al momento Direttore Generale della Polizia di Sicilia; l’anno successivo assume la carica di Presidente della Gran Corte dei conti di Sicilia. Durante i suoi studi nel Reale collegio-convitto “Carolino Calasanzio”, Cannizzaro confessa di non aver avuto nessun insegnamento di scienze naturali. Lasciato il convitto il 1841, frequenta fino al 1845 i corsi universitari di medicina, ma segue anche corsi di letteratura e matematica. Alla fine però non consegue alcuna laurea. C’è da pensare che poiché all’Università di Palermo si potevano conseguire solo le lauree in medicina, legge e teologia, Cannizzaro non avendo nessuna vocazione per le stesse rinuncia al possesso del titolo di studio conseguente. Siccome nella stessa Università non vi erano nemmeno laboratori di chimica o di fisiologia, Cannizzaro frequenta prima il laboratorio privato di Michele Fodera, celebre fisiologo e poi si adatta ad allestire un laboratorio di chimica in casa propria (come usavano gli alchimisti medioevali che organizzavano laboratori segreti nei pressi delle loro camere da letto). Comunque sia, nella seconda metà del 1845 si ferma a Napoli per seguire un “Congresso degli scienziati italiani”.

melloni

Qui conosce Macedonio Melloni, un fisico che poi lo presenta a Piria, giovane trentaduenne, già professore all’Università di Pisa. Forse Cannizzaro non si rende conto che da quel momento la sua vita cambierà per sempre. Piria infatti gli offre il posto di preparatore straordinario nel Laboratorio di chimica dell’Università di Pisa. Qui, nei due anni trascorsi alle dipendenze di Piria, si impossessa dei segreti della chimica. Alla fine di luglio del 1847, tornato in Sicilia, si fa coinvolgere dai convulsi avvenimenti politici di quel periodo: la rivoluzione del gennaio 1848, la caduta di Messina, l’armistizio, la vittoria delle truppe regie. Cannizzaro, che aveva partecipato a diverse fasi di questi avvenimenti, essendo stato condannato a morte, fugge a bordo della fregata Indipendente, rifugiandosi a Marsiglia. Grazie ad una lettera di Piria prende servizio presso un piccolo laboratorio di chimica di Chevreul a Parigi, ove entra in contatto con vari chimici fra cui Regnault. Negli anni successivi Cannizzaro si sposta in vari luoghi che proviamo a riassumere.

Dal 1851 al 1855 è professore di fisica, chimica e meccanica presso il Collegio Nazionale di Alessandria (allora nota come Alessandria della Paglia) ove riesce ad allestire un efficiente laboratorio chimico. A ottobre del 1855 viene nominato professore di chimica all’Università di Genova, al posto di Piria che si era trasferito all’Università di Torino. Durante la permanenza a Genova pubblica il suo famoso “Sunto”. Realizza anche, non senza difficoltà, un laboratorio chimico. Abbiamo già accennato alla sua escursione a Karlsruhe del 1860. A Genova rimane fino al 1861 quando si trasferisce all’Università di Palermo. Anche a Palermo, quasi come effetto di un destino predisposto, si trova ad allestire, superando mille difficoltà, un laboratorio chimico efficiente e si fa coinvolgere in altre attività: diventa consigliere comunale ed assessore, allestisce scuole tecniche e organizza corsi serali per operai, assume la carica di rettore (dal 1866 al 1868). Si fa candidare alle elezioni dei deputati del nuovo Parlamento italiano, per conto del partito liberale moderato, ma viene trombato per pochi voti. Nel 1870 è fra i fondatori della “Gazzetta Chimica Italiana”.

Nel 1871 si trasferisce all’Università di Roma come professore di chimica e quasi contemporaneamente viene nominato Senatore per meriti scientifici. Allo stesso tempo, ancora una volta, si attiva per realizzare un laboratorio chimico nell’ambito di un istituto, nell’orto di S. Lorenzo in Panisperna. La nomina a Senatore non viene intesa da Canizzaro come un titolo onorifico, sicchè lo si trova impegnato in numerose iniziative, in modo particolare in alcune che risentono della sua passata esperienza. Come è stato messo in evidenza (per ultimo da Paoloni nella sua introduzione alla ristampa del “Sunto” prima citato), le esperienze fatte come allievo del corso di fisiologia di Fodera, le frequenti epidemie di colera a Palermo che lo avevano privato di due fratelli, spiegano la sollecitudine e l’attenzione con le quali si dedica ai problemi della sanità pubblica. I suoi suggerimenti vengono accolti nella legge del 1888 (Legge per la tutela e l’igiene della sanità pubblica) di Francesco Crispi, che resterà in vigore fino al 1978.

La sua esperienza come organizzatore di laboratori chimici lo portano a proporre l’istituzione di un “Laboratorio Centrale” presso la Direzione della Sanità pubblica del Ministero dell’Interno, affiancato da una rete di “Laboratori Provinciali di Igiene e Profilassi” dipendenti dalle Prefetture (in seguito trasferiti alle Province, sempre a caccia di compiti e poi alle ASL). Il Laboratorio Centrale si trasformerà nel 1932 in Istituto di Sanità Pubblica e poi in Istituto Superiore di Sanità. Instancabile organizzatore, tra il 1883 e il 1886, è tra gli artefici della fondazione dei Laboratori Chimici dei Tabacchi e delle Gabelle (poi trasformati in Laboratori Chimici delle Dogane). Il 1886 il Ministro Magliani istituisce a Roma il primo di questi laboratori, affidandolo alla direzione di Cannizzaro. Negli anni successivi sorgono altri laboratori: il 1887 a Genova, il 1895 a Livorno, il 1896 a Venezia, il 1901 a Milano e Napoli, ecc. Fra i successori di Cannizzaro è da ricordare Villavecchia, che poi si ritrova tra i fondatori della Merceologia in Italia.

Fin qui i tratti principali di Cannizzaro come chimico-patriota-politico. A noi preme sottolineare anche altri aspetti del Cannizzaro-professore-scienziato. Per primo sembra utile evidenziare che è del tutto improbabile rilevare errori o sviste nell’opera scientifica di Cannizzaro. Al contrario, da questo esame non si salva quasi nessuno, nemmeno i più illustri. Basta ricordare Newton che credeva nella possibilità della trasmutazione dei metalli (era figlio del suo tempo), il grande Lavoisier che credeva nell’esistenza del calorico, Fermi che non si era accorto di aver realizzato la fissione (anche per colpa di Segrè che aveva diretto le analisi), lo svarione di Pauling che credeva di aver individuata la struttura del DNA, Rutherford che aveva ipotizzato una struttura dell’atomo che non poteva reggere e così via per tanti altri scienziati. Gli errori di questi però sono da definirsi utili in quanto hanno consentito ad altri di correggere il tiro e migliorare le teorie, i modelli. Non ci riferiamo ovviamente agli errori che commettono i cultori della cosiddetta “Scienza patologica” che non danno alcun contributo e anzi servono a confondere le idee agli sprovveduti: i seguaci della chiromanzia, i visionari degli UFO, i praticanti dello spiritismo, ecc. ecc.

Ebbene Cannizzaro appartiene ad un’altra categoria di scienziati, altrettanto utili, quelli che si potrebbero definire “costruttori”. Questi utilizzano le scoperte o le teorie di altri per unirle e ricavare modelli più solidi o più generali, contribuendo così al progresso della scienza. Fra questi eccelle, probabilmente più degli altri, Niels Bohr che utilizzando le ipotesi, le teorie o le scoperte di altri, nel caso specifico la teoria dei quanti di Planck, i lavori di Balmer e la struttura dell’atomo ideata da Rutherford, ipotizza una conformazione degli atomi in grado di spiegare tutti i fenomeni osservabili. Un lavoro di assemblaggio definito da Einstein “un’enorme conquista”. Per questo nel lavoro di questi scienziati è difficile trovare sviste o errori.

Un altro aspetto che vogliamo segnalare è l’amore di Cannizzaro per l’insegnamento e quindi la necessità di renderlo più efficace possibile. Per questo era totalmente convinto che gli allievi dovessero apprendere anche l’evoluzione storica della chimica e del lavoro svolto dai protagonisti. L’attenzione di chi sta apprendendo una nuova disciplina deve concentrarsi su tutte le fasi che la stessa disciplina ha attraversato durante la sua evoluzione storica. Nel suo “Sunto” Cannizzaro afferma testualmente: “Per condurre i miei allievi al medesimo convincimento che io ho, gli ho voluto porre sulla medesima strada per la quale io sono giunto, cioè per l’esame storico delle teorie chimiche”. Non sembra che questi concetti siano sempre stati applicati nelle nostre scuole ed è l’ultimo aspetto che riteniamo sia utile sottolineare.

Ci riferiamo all’attuale situazione in cui versano le Università italiane, soggette da più di 50 anni ad un metodico lavoro di smantellamento. Con l’ultima legge (del 30 dicembre 2010, n. 240) si è probabilmente inferto il colpo di grazia. Chiunque può constatare che se Cannizzaro (e questo vale per la maggior parte degli scienziati italiani prima citati e di altri successivi fino ai giorni nostri) si fosse presentato ad un concorso odierno per ottenere un giudizio di idoneità (si badi non per ottenere una cattedra, ma solo per essere dichiarato idoneo!) non sarebbe stato nemmeno ammesso, non potendo superare le folli “mediane” previste: non ha scritto quasi nulla in lingua inglese, non ha scritto nulla con altri autori, le riviste in cui ha pubblicato non rientrano negli elenchi predisposti e, soprattutto, nessun valore avrebbe avuto il lavoro più importante svolto, rappresentato dal “Sunto” sottoforma di volume. I volumi non devono nemmeno essere presi in considerazione, qualsiasi argomento trattino.

Annotiamo con tristezza che per quanto attiene la classificazione delle riviste si raggiunge l’assurdo in quanto si invertono i termini: è la rivista che da prestigio e non è la qualità dell’articolo a dare prestigio alla rivista. Se si conoscesse un minimo di storia della scienza si appurerebbe che la maggior parte delle scoperte importanti, quelle che hanno dato un contributo al progresso delle scienze, non è stata mai valutata positivamente al momento della pubblicazione. Si può amaramente concludere che se fossero state ascoltate e applicate le intuizioni di Cannizzaro in tema di insegnamento e si fosse continuato ad applicare i sistemi di assunzione allora in uso, probabilmente il sistema universitario italiano si sarebbe salvato dall’azione dei riformisti che si sono succeduti dal dopoguerra in poi.

Note: nella pagina linkata di Roberto Poeti ci sono bellissime foto della casa museo di Mendeleev

una versione italiana del “Sunto” di Cannizzaro si trova qui:

http://www.minerva.unito.it/Storia/Cannizzaro/Sunto/CannizzaroSunto.htm

Integrità nella ricerca scientifica: che cos’è e perché dovrebbe importarcene?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Cosentino, marco.cosentino@uninsubria.it

Centro di Ricerca in Farmacologia Medica, Università degli Studi dell’Insubria, Varese

cosentino

Marco Cosentino

Che significa “integrità nella ricerca”? E cosa si intende per scientific misconduct? Ma, soprattutto: perché sempre più università e enti di ricerca nel mondo sentono la necessità di dotarsi di Research Integrity Officers e di codici di condotta utili a promuovere la research integrity e a prevenire e eventualmente anche a reprimere la scientific misconduct? E come mai i National Institutes of Health statunitensi hanno istituito un Office for Research Integrity[1] e la Commissione Europea ha appena inserito nel programma “Science with and for Society“,[2] nell’ambito di Horizon 2020, un bando per la presentazione di proposte sul tema “Ethics in Research: Promoting Integrity”, prevedendo di finanziare un grande progetto europeo?

Potrebbe sembrare banale sostenere l’importanza di promuovere l’integrità nella ricerca scientifica la prevenzione della cattiva condotta scientifica (scientific misconduct) ricorrendo alle notizie di cronaca riportate dai principali quotidiani nazionali.[3] Esistono tuttavia motivazioni molto più profonde, di ordine generale e di natura contingente, che impongono a tutte le istituzioni impegnate nella ricerca scientifica di sviluppare e adottare al proprio interno iniziative utili a promuovere la qualità, la verificabilità e la riproducibilità dei risultati della ricerca scientifica (in particolar modo in ambito biomedico, ma anche in generale), tra l’altro attraverso lo sviluppo di un ambiente adeguato e garantendo che i giovani ricercatori in formazione possano ricevere un adeguato addestramento e un continuo sostegno.

Che cos’è l’etica nella ricerca e perché è importante?

Con l’espressione research misconduct (traducibile come “cattiva condotta nella ricerca”) si intende indicare una casistica di comportamenti che si discostano dagli standard etici e scientifici. Le principali forme di cattiva condotta sono il plagio, la falsificazione e la fabbricazione di risultati, sebbene molte altre forme di cattiva condotta possano verificarsi, in particolar modo (ma non soltanto) nella ricerca biomedica.[4] Ad esempio: la violazione degli standard etici nella ricerca su esseri umani e animali, il mancato riconoscimento del contributo di un ricercatore (negandogli l’inclusione tra gli autori oppure includendolo in posizione non adeguata) e – all’opposto – la cosiddetta guest authorship, ovvero l’inclusione tra gli autori di persone che non soddisfano i minimi requisiti per figurarvi. Può essere considerata violazione degli standard etici anche la citazione inappropriata di pubbicazioni unicamente allo scopo di migliorarne i parametri bibliometrici o, al contrario, la mancata citazione di pubblicazioni di rilievo allo scopo di mettere in ombra il contributo altrui a un determinato argomento.

David B. Resnik, bioeticista e presidente dell’Institutional Review Board al National Institute of Environmental Health Sciences, risponde a questa domanda con argomentazioni articolate e esaurienti.[5] In breve, in primo luogo l’adesione ai principi etici nella ricerca scientifica promuove gli scopi più generali della ricerca stessa, quali accrescere la conoscenza, perseguire la verità e evitare l’errore. Inoltre, dal momento che in particolare nella biomedicina la ricerca richiede un grado elevato di cooperazione, le norme etiche promuovono valori essenziali al lavoro collaborativo, quali la fiducia, la responsabilità, il rispetto reciproco e la correttezza (si pensi alle linee guida per la authorship, il copyright, i brevetti, la condivisione di dati, la segretezza).

Molte norme etiche contribuiscono poi a garantire che i ricercatori siano in grado di assumersi la responsabilità delle proprie ricerche, dandone al tempo stesso pubblica garanzia, nei confronti della società, delle agenzie regolatorie e dei finanziatori. La percezione di un adeguato rigore etico nella ricerca scientifica contribuisce poi a promuovere e consolidare il consenso pubblico nei confronti della ricerca scientifica. I finanziatori, pubblici e privati, sono orientati a finanziare una ricerca nella quale possano riporre fiducia e che siano in grado di percepire come responsabile, di qualità e integra sotto ogni aspetto.

Infine, l’adozione di norme etiche per la ricerca scientifica contribuisce a promuovere un insieme di importanti valori morali e sociali, quali la responsabilità sociale, i diritti umani, il benessere animale, il rispetto e l’aderenza alle leggi, la salute e la sicurezza. Complessivamente, sull’argomento si veda anche il seminario di Tony Mayer (Nanyang University, Singapore) tenuto lo scorso anno presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Varese.[6]

Esiste un’emergenza etica nella ricerca scientifica?

Il mancato rispetto dei principi etici nella ricerca scientifica si riflette concretamente in approssimazioni e spesso in veri e propri errori metodologici, organizzativi, tecnici e pratici tali da determinare un rischio inaccettabile di danno ai soggetti umani e animali coinvolti nella ricerca, ai ricercatori e più in generale all’istituzione e alla società nel suo complesso. L’esempio già citato[7] documenta con disarmante chiarezza come dati fabbricati o falsificati in una sperimentazione clinica possano causare danni o anche uccidere pazienti. D’altra parte, il mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza nei laboratori di ricerca può compromettere direttamente la salute di chi in essi lavora (o eventualmente li frequenta, ad esempio per motivi di studio). Il recente caso dell’Università di Catania lo sta a dimostrare in maniera drammaticamente efficace.[8]

Il rischio non è tuttavia solo teorico, sebbene gli studi in tal senso siano ad oggi ancora troppo pochi. Ad esempio, è stato recentemente documentato come la maggior parte degli studi preclinici, anche pubblicati su riviste internazionali estremamente autorevoli, riporti di fatto risultati non replicabili e di conseguenza inutili e fuorvianti.[9] Stanno inoltre aumentando con preoccupante rapidità le ritrattazioni di articoli, in special modo da parte delle maggiori riviste scientifiche. Un recente studio indica che la principale ragione è proprio la cattiva condotta scientifica.[10] Negli ultimi anni si discute inoltre di fattori connessi al ricercatore (researcher bias) e al processo di pubblicazione (publication bias). I primi riguardano la pressione crescente subita dai ricercatori e che li forza a pubblicare sempre di più e sempre più rapidamente, per ragioni di carriera e/o per ottenere finanziamenti ulteriori. I secondi riguardano il desiderio delle maggiori riviste scientifiche di pubblicare risultati nuovi e inaspettati, mentre le conferme di risultati già pubblicati o i risultati negativi di solito non vengono considerati interessanti.[11] Il risultato è un inaccettabile aumento del rischio di ritrovarsi pubblicati risultati non adeguatamente verificati e di conseguenza spesso non replicabili.

Sebbene in fenomeno del publication bias sia stato descritto e tuttora sia associato essenzialmente alle sperimentazioni cliniche: è ampiamente noto e verificato e riprodotto in molteplici analisi che gli studi finanziati dall’industria farmaceutica riportino con maggiore probabilità risultati favorevoli rispetto a quelli indipendenti.[12] Più recentemente, varie indagini hanno mostrato come gli studi finanziati dall’industria farmaceutica vengano pubblicati in base alla convenienza e spesso le pubblicazioni forniscano un quadro più “favorevole” rispetto ai reali risultati delle sperimentazioni.[13] Raramente tuttavia si considera che nella ricerca biomedica di tipo clinico è molto più semplice identificare fenomeni di cattiva condotta scientifica, quali la falsificazione o la fabbricazione di risultati, dal momento che gli studi clinici devono essere sottoposti alla verifica preventiva dei Comitati Etici e da alcuni anni sono anche soggetti alla registrazione in appositi database (richiesta obbligatoriamente dalle maggiori riviste mediche internazionali che diversamente si rifiutano di pubblicarli).[14] Inoltre, i risultati dettagliati degli studi registrativi dei nuovi medicinali vengono depositati presso le agenzie regolatorie e sono di conseguenza almeno in teoria disponibili per essere verificati.[15] Nella ricerca di laboratorio, al contrario, non esistono per il momento standard di riferimento utili a garantire la verificabilità dei risultati pubblicati, e di conseguenza non è in alcun modo possibile verificare la qualità delle pubblicazioni al di là dei meri aspetti formali esaminati nel corso del processo di peer review (con la marginale eccezione della diffusione dei software per l’analisi d’immagine, in grado quanto meno di identificare eventuali grossolane manipolazioni di fotografie ad esempio da esperimenti di immunoistochimica, di PCR o di western blot). Gli studi citati in precedenza che documentano la non riproducibilità della maggior parte dei risultati degli studi biomedici di ambito preclinico[16] rappresentano di conseguenza un segnale d’allarme dalle implicazioni potenzialmente drammatiche, in grado di minare alla base la struttura stessa dell’attuale organizzazione della ricerca scientifica a livello globale.

Qual è la situazione italiana?

In Italia non esistono al momento dati a riguardo. Ci sono tuttavia motivi di preoccupazione estremamente gravi. Da un lato infatti l’Italia è tra i Paesi europei privi di linee guida e riferimenti su integrità scientifica e promozione e repressione della scientific misconduct.[17] Dall’altro, la recente revisione della normativa sui concorsi universitari, con l’adozione di parametri bibliometrici quantitativi nella maggior parte dei settori disciplinari e in particolare nell’ambito biomedico,[18] ha introdotto una inedita pressione a pubblicare “a qualsiasi costo”, che già sta manifestando i suoi effetti, e le cui conseguenze saranno da studiare con attenzione (Figura 1).

Esistono dunque molteplici motivazioni di carattere sia generale che contingente che inducono a concludere che ogni università e istituzione scientifica debba quanto prima farsi carico della responsabilità di prevenire la cattiva condotta scientifica, adottando tutte le misure necessarie a rendersi garante della qualità e della riproducibilità dei risultati dell’attività di ricerca scientifica dei propri ricercatori. In particolare, le iniziative più efficaci per la prevenzione della scientific misconduct devono prima di tutto prendere in considerazione la formazione dei giovani ricercatori. Studenti di dottorato e ricercatori post-dottorato dovrebbero ricevere un adeguato addestramento sulle metodologie e l’etica della ricerca scientifica, in modo da comprendere che evitare pratiche discutibili è la scelta migliore non solo per garantire la qualità dei risultati, bensì anche per promuovere in maniera efficace e corretta la propria carriera scientifica.[19]

 fig2cosentino

fig1cosentinoFigura 1. Numero di pubblicazioni indicizzate in PubMed (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed) nel periodo 2004-2012, con affiliazione italiana degli autori (a sinistra). La linea tratteggiata verticale corrisponde all’introduzione degli indicatori bibliometrici nelle procedure per l’abilitazione a professore universitario (ASN). Si noti la brusca impennata nel 2012 (+10,2%). Per confronto (a destra), in Germania, Francia e UK nel medesimo anno l’aumento è stato in media di +5,3%. Il delta percentuale a favore dell’Italia è +4,9%, mentre negli anni precedenti era stato in media +1,0% (intervallo: -0,4%+2,7%).

Questo addestramento deve avvenire nel contesto di strategie appropriate implementate attraverso una esplicita politica dell’istituzione. Sfortunatamente, ad oggi le università sono prevalentemente preoccupate al massimo di attrezzarsi a reagire ad accuse di cattiva condotta. Ognuna di esse dovrebbe invece attrezzarsi a prevenire la cattiva condotta, anche considerando che la loro reputazione viene comunque danneggiata da eventuali casi che coinvolgano i propri ricercatori. La prevenzione della scientific misconduct e l’addestramento alla research integrity, indirizzato prima di tutto ai giovani ricercatori, dovrebbe essere una priorità per le università anche per tener fede ai vincoli e agli obblighi di natura etica e sociale di queste istituzioni.


[3] Patitucci D. Cuore, studio UK accusa: migliaia di morti in Ue per linee guida basate su dati falsi. Il Fatto Quotidiano (edizione online), 1 marzo 2014 – http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/01/cuore-studio-uk-accusa-migliaia-di-morti-in-ue-per-linee-guida-basate-su-dati-falsi/891975/

[4] Kumar, M.N. (2008). A review of the types of scientific misconduct in biomedical research. Journal of Academic Ethics, 6(3), 211-228 – http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs10805-008-9068-6

[6] Mayer T (Nanyang University, Singapore). Promoting research integrity issues in Italy  – https://www.youtube.com/watch?v=jyHblifJFVs&list=PL9wdu0_Er9E2EiA7tl3_cpflMOXwnQLok

[7] Patitucci D. Cuore, studio UK accusa: migliaia di morti in Ue per linee guida basate su dati falsi. Il Fatto Quotidiano (edizione online), 1 marzo 2014 – http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/01/cuore-studio-uk-accusa-migliaia-di-morti-in-ue-per-linee-guida-basate-su-dati-falsi/891975/

[8] Viviano F, Ziniti A. Morti e silenzi all’università. Il laboratorio dei veleni. Alberti 2010 – http://www.ibs.it/code/9788874244744/viviano-francesco/morti-silenzi-all.html e http://conilfiatosospeso.it/

[9] Cosentino M. Sperimentazione sugli animali e riproducibilità dei risultati: l’elefante nel laboratorio? – http://unibec.wordpress.com/2014/02/05/sperimentazione-sugli-animali-e-riproducibilita-dei-risultati-lelefante-nel-laboratorio/

[10] Fang FC, Steen RG, Casadevall A. Misconduct accounts for the majority of retracted scientific publications. Proc Natl Acad Sci USA 2012, 109: 17028-33. doi: 10.1073/pnas.1212247109

[11] Brembs B1, Button K, Munafò M. Deep impact: unintended consequences of journal rank. Front Hum Neurosci. 2013 Jun 24;7:291. doi: 10.3389/fnhum.2013.00291. eCollection 2013.

[15] Gøtzsche PC, Jørgensen AW. Opening up data at the European Medicines Agency. BMJ 2011, 342:d2686 – http://www.bmj.com/content/342/bmj.d2686

[16] Cosentino M. Sperimentazione sugli animali e riproducibilità dei risultati: l’elefante nel laboratorio? – http://unibec.wordpress.com/2014/02/05/sperimentazione-sugli-animali-e-riproducibilita-dei-risultati-lelefante-nel-laboratorio/

[17] Godecharle S, Nemery B, Dierickx K.Guidance on research integrity: no union in Europe. Lancet. 2013 Mar 30;381(9872):1097-8. doi: 10.1016/S0140-6736(13)60759-X.

[19] Cosentino M, Picozzi M. Transparency for each research article. Institutions must also be accountable for research integrity. BMJ. 2013 Sep 10;347:f5477. doi: 10.1136/bmj.f5477.

Ulteriori approfondimenti:

http://en.wikipedia.org/wiki/Scientific_misconduct

L’armadietto di Vigani e il banco di Leopoldo

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano ex Presidente della SCI

Sotto la presidenza del Prof. De Angelis (2004-2007) la SCI istituì la conferenza intitolata “ Vigani Lecture” con la Royal Society of Chemistry per onorare un chimico inglese che venisse a tenere una conferenza in Italia e un chimico italiano che andasse in Gran Bretagna.

vigani1

Giovanni Francesco Vigani

Il nome dato a questa conferenza è quello di Giovanni Francesco Vigani che nel 1703 fu nominato Professore di chimica presso l’Università di Cambridge, il primo professore di chimica dell’Inghilterra.

Nato, forse nel 1650, a Verona, o nelle sue vicinanze, Giovanni        Francesco Vigani non sembra avere ricevuto una educazione formale né in medicina né in chimica o farmacia, ma piuttosto pare aver derivato gran parte delle sue conoscenze attraverso i suoi viaggi e le sue permanenze in Italia (Parma nel 1671), Francia (Parigi), Spagna (Siviglia) e Olanda. Nel 1682 si stabilì a Newark-on-Trent, forse dopo un breve soggiorno a Londra, e li tenne una farmacia ed un laboratorio. Comiciò ad insegnare chimica nella relativamente vicina, 120 Km, Cambridge, privatamente, nel 1683 e nello stesso anno pubblicò il suo libro Medulla Chimiae (Potremmo tradurre “Il cuore della chimica”?) . Nel 1703 fu nominato Professore di Chimica. Nel  1708 smise di insegnare a Cambridge ma continuò a lavorare a Newark  fino alla morte avvenuta nel 1713.

Il libro, essenzialmente la sola pubblicazione di Vigani, ebbe parecchie edizioni. Ebbe recensioni contrastanti  ma anche i complimenti per la sua brevità: l’edizione di Londra,1683, comprendeva 71 pagine e 3 tavole lunghe.Non era un libro di testo, ma piuttosto la testimonianza di esperimenti che Vigani aveva effettuato o visto effettuare. Le copie delle sue lezioni mostrano che Vigani fu un chimico pratico buono con le sue mani, ma non preparato a fare ipotesi o interessato a teorie.

vigani2vigani3

L’armadio di Vigani e una visione ravvicinata di uno dei cassetti contenenti campioni

Ancora più misterioso della sua biografia è il mobiletto rappresentato qui sopra che ci è stato tramandato quasi intatto: l’armadietto, acquistato dal Queen’s College nel 1704 fu usato dal 1705 da Vigani per le sue lezioni, ma anche per preparare medicamenti. All’interno dei  29 cassetti  sono conservati molti campioni di vari materiali: circa 700 in totale tra cui 80 organici e 90 inorganici certamente usati come coloranti. Tutti sono censiti nella tesi di dottorato del 2007 di Lisa Wagner, che è anche disponibile sul web: http://www.hfbk-dresden.de/fileadmin/alle/downloads/Restaurierung/Diss_2007_Wagner.pdf

se non vi spaventate delle 852 pagine, in cui però non c’è una analisi chimica dei prodotti, anche se ciascuno è illustrato in foto e discusso in generale, ma non in maniera chimica.

C’è un altro mobiletto che ci interessa, più vicino a noi: il banco di Leopoldo, conservato a Firenze. Il Principe Pietro Leopoldo (1747-1792) nel 1765, all’età di 18 anni, divenne Gran Duca di Toscana, ereditando  questo paese dal padrel’Imperatore austriaco  Franz I che aveva succeduto i Medici, estinti. Leopoldo spese la gran parte della sua vita in Toscana: vi rimase per 25 anni, tornando a Vienna nel 1790, alla morte del fratello imperatore Giuseppe, per succedergli sul trono.

vigani4vigani5

Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana (a sinistra) e Giuseppe II Imperatore a destra

a destra il banco chimico http://catalogo.museogalileo.it/indice/IndiceVideo.html

Pietro Leopoldo o Leopoldo I di Toscana, come venne chiamato, fu uno dei sovrani più progressisti di quei tempi. Aveva ereditato dal padre l’interesse nelle nuetzliche Wissenschaften (scienze utili), e fu di conseguenza un attivo promotore delle scienze naturali. Per esempio, supportò Felice Fontana e Giovanni Fabbroni, due eminenti scienziati naturali, e fu lui che inaugurò il Museo Reale di Fisica e Storia Naturale di Firenze.

Ma l’interesse principale di Leopoldo era la chimica. Si fece costruire (l’anno è incerto, nel museo in cui è conservato viene indicato con la dicitura: Costruttore sconosciuto, sec. XVIII) un “banco chimico” nella propria residenza (vedi figura a destra della riproduzione del ritratto di Leopoldo). Su questo banco, di fattura molto più elegante dell’armadio di Vigani, il granduca operò, sia pure negli intervalli dagli impegni di governo.

Lasciando il Granduca  Firenze nel 1790, il banco passò al Museo di Fisica e Storia Naturale. Come altri oggetti, il banco ora sistemato nel Museo Galileo, Istituto e Museo di Storia della Scienza, Piazza dei Giudici, Firenze, fu gravemente danneggiato dall’alluvione del 1966 e alcuni pezzi andarono irrimediabilmente perduti. Rimangono tuttavia numerosi vasetti contenenti sostanze e preparati, alcuni con etichette scritte direttamente dal granduca.

Alla fine degli anni 90, una studentessa dell’Università di Innsbruck decise di prendere parte ad un programma Erasmus con l’Università di Padova (era allora il più numeroso dell’area chimica europea) ed il collega Schantl me la raccomandò caldamente. Ida Maria Masoner era iscritta al corso per andare ad insegnare e, secondo l’uso austriaco, aveva deciso di proseguire i suoi studi in due campi: latino e chimica. Il non facile problema di assegnarle una tesi, come richiesto, fu risolto quando si convinse di collaborare con il gruppetto che con me si interessava di beni culturali, in particolare con la dott.ssa Nicoletta Nicolini dell’Università di Roma, e di risolvere un problema: Cosa c’era nei vasetti lasciati dal Granduca Leopoldo nel banco chimico?

Con grande aiuto da parte di numerosi colleghi riuscimmo ad analizzare e riconoscere  i ca. 40 campioni ricevuti da Firenze. Ida Masoner scrisse la sua tesi nel 1998 e noi scrivemmo il lavoro nel 2001 uscito poi sul Journal of chemical education  (un po’ in ritardo, per colpa mia):

Gianfranco Scorrano,Nicoletta Nicolini e Ida Maria Masoner , J.Chem.Edu., 2002, 79,47-52

Karl Fischer e le caramelle.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

Nei prodotti confezionati il contenuto in acqua influenza la stabilità, la consistenza, la proprietà del prodotto. Perciò esso rappresenta un importante valore di determinazione al fine di mantenerlo entro certi limiti accettabili e definiti rigorosamente.

La titolazione Karl Fisher per determinare il contenuto in acqua è rapida ed accurata. Si applica soprattutto nei campioni alimentari presentando notevoli vantaggi rispetto ai tradizionali metodi basati sull’essicamento.

Quando i campioni di cibo vengono riscaldati e seccati può infatti prodursi la reazione di  Maillard tra gli amminoacidi delle proteine e gli zuccheri riducenti. Durante questa reazione non enzimatica si rileva un imbrunimento del campione e l’acqua risulta da esso come prodotto secondario della reazione. In un processo di essicamento l’acqua dovrebbe essere determinata come perdita di peso, di conseguenza questo dato potrebbe essere modificato  dalla suddetta reazione di Marllard. Inoltre le componenti volatili presenti nel campione alimentare potrebbero evaporare e quindi falsare il risultato del test di essicamento.

La titolazione Karl Fisher dall’altra parte non è influenzata da contenuti volatili. Ecco perché essa è molto impiegata per determinare il contenuto in acqua, non soltanto dall’industria alimentare, ma anche da quella farmaceutica e petrolchimica.

Per l’analisi il campione deve essere disciolto e disperso nel mezzo sperimentale. La dissoluzione può essere aumentata

-aggiungendo un solvente polare,

-riscaldando il mezzo a circa 50 °C

-aggiungendo un sistema disperdente nel reattore in modo di facilitare la omogeneizzazione.

Un caso interessante è rappresentato dalla determinazione dell’acqua nelle caramelle, soprattutto in quelle molli, per le quali una certa quantità di acqua è indispensabile.

Infatti nel caso delle caramelle l’acqua non deve superare il 2-3% in quelle dure e l’8% in quelle morbide. Le caramelle sono uno dei prodotti più sofisticati della moderna industria dolciaria.

220px-Kelp_candy

Le caramelle non si sciolgono bene nel solvente a base di metanolo adottato nelle titolazioni Karl Fisher per cui le tre opportunità alternative prima indicate diventano un prezioso suggerimento per la sperimentazione. Un’altra fonte di supratitolazione può essere dovuta alla adesione della caramella alla superfice dell’elettrodo indicatore della cella di Karl Fisher: in questo caso la titolazione deve essere ripetuta dopo pulitura della superfice dell’elettrodo.

La procedura della reazione, inventata nel 1935 da Karl Fisher (1901-1958) che lavorava alla DEA GMBH, si basa sull’ossidazione dell’anidride solforosa ad opera dello iodio.

I2 + SO2 + 2 H2O → 2 HI + H2SO4

La titolazione viene condotta in un solvente anidro, generalmente metanolo, in presenza di una base capace di neutralizzare l’acido solforico prodotto dalla reazione e di creare una soluzione tampone che stabilizzi il pH su valori ottimali per lo svolgersi della reazione, compresi tra 5 e 7 (in pratica da 4 a 7); inizialmente (1935) la base scelta fu la piridina,

180px-Piridina_struttura_modello
piridina

poi sostituita (1979 da Eugene Scholz) dal meno tossico (e meno puzzolente) imidazolo, che consentiva anche una più precisa determinazione del punto finale della reazione o ancora più recentemente dalla dietanolammina.

Imidazole_chemical_structure
imidazolo

200px-Diethanolamine

La titolazione delll’acqua si può svolgere in modo volumetrico quindi misurando un volume di liquido aggiunto o in modo amperometrico cioè misurando una corrente e la sua variazione ed in tal caso è molto precisa potendo determinare anche pochi ppm;  la reazione è stata adattata nei dettagli in modo da poter rivelare l’acqua nelle condizioni diverse che la caratterizzano in cibi ed altre sostanze organiche di importanza industriale anche in presenza di sostanze come aldeidi e chetoni che possono interagire con i prodotti di reazione.

Fischer, Karl (1935). “Neues Verfahren zur maßanalytischen Bestimmung des Wassergehaltes von Flüssigkeiten und festen Körpern”. Angew. Chem. 48 (26): 394-396. doi:10.1002/ange.19350482605.

Schöffski, Katrin (2000). “Die Wasserbestimmung mit Karl-Fischer-Titration”. Chemie in unserer Zeit 34 (3): 170. doi:10.1002/1521-3781(200006)34:3<170::AID-CIUZ170>3.0.CO;2-2.

Una accurata descrizione delle procedure e dei metodi si trova per esempio in :

http://www.sigmaaldrich.com/analytical-chromatography/titration/hydranal/learning-center/theory/chemical-fundamentals.html

I dettagli cinetici della reazione sono stati svelati solo negli anni settanta; una review della reazione si trova per esempio qui.