Il colorante ‘alchemico’ Blu di Prussia  : la sua storia e struttura chimica (Parte 1)

                                                                          

Il colorante ‘alchemico’ Blu di Prussia  : la sua storia e struttura chimica

Roberto Poeti

Come nasce e si afferma il colorante

La storia del colorante Blu di Prussia è iniziata intorno al 1705 presso il laboratorio di Johann Konrad Dippel a Berlino,  in cui oltre alla medicina egli praticava l’alchimia. Dippel, nato nel 1673 a Castello Frankenstein vicino Darmstadt in Germania,  è un personaggio complesso, problematico ,

ribelle per natura. Fu coinvolto in molte controversie pubbliche in cui  difendeva la posizione dei Pietisti, (corrente religiosa nata nella seconda metà del settecento in conflitto con il protestantesimo) rispetto ai Luterani ortodossi, in modo intemperante e impetuoso. Si procurò molti nemici in Europa al punto che passò sette anni in galera accusato di eresia. Stabilitosi a Giessen dove perseguì la sua ritrovata passione per l’alchimia,  credette nella propria capacità di trasmutare il piombo in oro. Comprò una piccola tenuta, a credito, dove avrebbe potuto lavorare in pace, ma dopo otto mesi di riscaldamento continuo, il suo crogiolo si ruppe. Pressato dalle richieste dei suoi creditori, fuggì da Giessen alla volta di Berlino. A Berlino rivolse i suoi sforzi nella creazione di un altro sogno alchemico, una “cura universale”. Dippel si interessò presto all’olio ottenuto dalla distillazione distruttiva di materia animale, tra cui cuoio, sangue, avorio e corna. L’olio nero prodotto venne conosciuto come Olio di Dippel. Questo olio era un distillato maleodorante che Dippel sosteneva si trattasse di una medicina universale, elisir di lunga vita, che poteva curare qualsiasi cosa, dal comune raffreddore all’epilessia.

Dippel e Frankenstein

 Ci sono molte voci che circondano la connessione di Dippel con il Frankenstein di Mary Shelley (1797- 1851). Queste derivano principalmente dal fatto che, essendo nato nell’omonimo Castello di Frankenstein, Dippel praticò l’alchimia e l’anatomia e si dice anche che abbia sperimentato il trasferimento di anime tra cadaveri. Resta da dimostrare se questo sia vero o meno, ma è certo che la nozione di “trasferimento dell’anima” era un argomento di conversazione popolare all’epoca e che Dippel si riferisce ad esso nei suoi scritti contemporanei in Malattia e Rimedi della Vita Carnale. Dippel parla del suo olio animale e della possibilità di usarlo per esorcizzare i demoni. Menziona anche l’idea di un imbuto utilizzato per trasferire un’anima da un cadavere all’altro.

Inoltre si dice che Mary Wollstonecraft Godwin abbia visitato il castello di Frankenstein con suo marito Percy Bysshe Shelley quando stava viaggiando lungo il Reno. È infatti possibile che mentre era lì abbia sentito storie sul famigerato Dippel dalla gente del posto e successivamente abbia basato il personaggio di Frankenstein su di lui, o almeno abbia usato i racconti locali come ispirazione per la sua scrittura. Dippel morì nel 1734, si pensò che avesse avuto un ictus, ma circolò anche l’ipotesi che potesse essere stato avvelenato. Il fatto che queste voci esistessero dimostra quanto Dippel fosse impopolare. Nel periodo tra il 1705 e il 1706 si trovava a lavorare nel laboratorio di Dippel un produttore svizzero di coloranti e pigmenti di nome Johann Jacob Diesbach. Di lui non abbiamo quasi nessuna notizia,  neppure la data di nascita e morte. È diventato famoso per aver prodotto insieme a Dippel il Blu di Prussia.

Una scoperta dovuta al caso

 La storia convenzionale dell’invenzione  è stata raccontata da Georg Ernst Stahl (1660-1734) a margine di un suo libro sulla teoria del flogisto che pubblicò nel 1731. È l’unico resoconto che ci è  pervenuto. Stahl non precisa la data della scoperta. Dippel stava preparando il cosiddetto olio animale distillando sangue animale a cui era aggiunta potassa. Allo stesso tempo  Diesbach stava cercando di produrre la lacca Fiorentina, un pigmento rosso basato sul rosso di cocciniglia. Usualmente lo otteneva per precipitazione di un estratto di cocciniglia ( prodotto bollendo gli insetti seccati di cocciniglia con acqua per estrarre l’acido carminico) con allume , solfato di ferro e potassa. Tuttavia non avendo più potassa a disposizione utilizzò quella di Dippel che era stata usata nella produzione del suo olio animale. Immaginiamo la sorpresa di Diesbach quando il colore che ottenne non era cremisi, ma blu. Noi ora sappiamo che l’olio animale consisteva di un miscela  di basi organiche azotate come il pirrolo ( dalle porfirine dell’emoglobina ) e diversi alchil cianuri ( o alchil nitrili) provenienti dalla degradazione termica di molecole contenenti legami C-N, come l’emoglobina. La formula del blu di Prussia (blu solubile) contiene nella sua struttura il gruppo ciano :   KFeIII[FeII(CN)6]. Per caso, l’olio di Dippel ha fornito l’ingrediente essenziale, ma allora sconosciuto, il cianuro, per consentire la scoperta fortuita di  Diesbach del blu di Prussia . Tutti i pittori da allora hanno avuto motivo di essere grati all’alchimista senza scrupoli Dippel. Il blu di Prussia non si trova in natura, quindi è stato il primo pigmento sintetico. Dippel e  Diesbach furono capaci di intuire la causa del fenomeno e di rendere  ripetibile il risultato ottenuto. Il blu di Prussia è stato menzionato per la prima volta nella letteratura scientifica nel primo numero della pubblicazione della Società Reale Prussiana delle Scienze,  “The Miscellanea Berolinensia ad incrementum Scientiarum” nel 1710.  La breve comunicazione anonima in latino dal titolo “Notitia Caerulei Berolinensis Nuper Inventi”, non ha rivelato quasi nulla della scoperta del blu di Prussia, né ha fornito un metodo per la preparazione del pigmento; piuttosto, era una sorta di pubblicità per il nuovo materiale, sotto gli auspici della nuova società scientifica.

Nonostante gli sforzi per nascondere il metodo di produzione del Blu di Prussia, è rimasto segreto solo per circa 20 anni. Nel 1724 John Woodward (1657-1728), un medico , naturalista, e  geologo pubblicò una procedura per la produzione di questo colore nelle Transazioni Filosofiche della Royal Society di Londra.  Il documento si basava su una lettera inviatagli dalla Germania dove era rivelata la procedura segreta, ma Woodward non pubblicò il nome dell’autore. In Francia Etienne-Francois Geoffroy (1672-1731) nel 1725 comunicò ai chimici francesi il segreto della produzione del Blu di Prussia.  In seguito, la produzione del Blu di Prussia iniziò in tutta Europa. Inizialmente il pigmento fu utilizzato  solo dai pittori e il primo dipinto dove venne impiegato è un’opera del celebre pittore olandese  Adriaen van der Werff (1659-1722).

Fino alla scoperta di Diesbach, il blu era un colore problematico per gli artisti: non esisteva un pigmento del tutto soddisfacente. Il colorante vegetale indaco (il guado degli antichi britannici) era piuttosto incline a sbiadire. Il pigmento permanente blu oltremare, realizzato con il minerale semiprezioso blu lapislazzuli, veniva estratto solo in Afghanistan ed era estremamente costoso. Anche altri blu, come lo smalt (è un vetro di colore blu intenso preparato includendo un composto di cobalto, tipicamente ossido di cobalto o carbonato di cobalto, in un vetro fuso.) e l’azzurrite (carbonato di rame(II) basico, 2CuCO3 ∙ Cu(OH)2, avevano i loro svantaggi. L’oltremare era così costoso che i clienti ne limitavano l’uso nei loro dipinti. Per la sua preziosità  il suo uso era riservato solo ai soggetti sacri, come le vesti delle figure religiose. L’arrivo del blu di Prussia ha trasformato l’atteggiamento degli artisti nei confronti del blu sulle loro tavolozze; possiamo vedere un esempio nell’improvviso sfogo di generosa applicazione del colore nell’opera della scuola impressionista francese.

Il blu di Prussia non è stato usato solo come pigmento per pittori ma fu presto applicato alla tintura dei tessuti, secondo i suggerimenti contenuti nel lavoro del chimico P. J. Macquer (1718-1784), condotto nel 1749 . Da allora le divise dell’esercito del Regno di Prussia furono colorate con il blu di Prussia.

Nel secondo volume  del Dizionario di Chimica e Fisica Applicata alle Arti di Giovanni Pozzi del 1821 alla voce Azzurro di Prussia viene decritto il procedimento che veniva utilizzato negli opifici per ottenere il pigmento. I passaggi del processo sono rimasti pressoché quelli degli scopritori  di un secolo prima :

Si fa bollire il sangue di bue fino a che si coaguli e quindi diventi secco. Le corna e le unghie all’opposto si fanno fondere ad un calore non troppo forte in modo che la massa si possa stendere come una poltiglia. Tosto che questa poltiglia è diventata fredda si può facilmente fare in polvere. Si mescolano esattamente di questo sangue seccato, oppure di questa massa di corno fatta in polvere cento libbre circa con cento libbre di potassa, e si mette la mescolanza a calcinare in un fornello. Nella prima ora si dà un fuoco debole: si rinforza però questo a poco a poco fino al punto che la massa diventi rovente. Essa innalza un fumo mescolato colla fiamma e tosto che ambedue cessano si leva la massa dal fornello e si lascia raffreddare. Si innaffia con 200 pinte di acqua bollente, si lascia in riposo per otto giorni almeno, e si agita giornalmente la massa. Poscia si filtra la lisciva con un panno doppio. Il fluido filtrato è la lisciva di sangue che deve essere considerata come la base del tutto. Quindi si sciolgono 25 libbre di vetriolo di ferro in una sufficiente quantità di acqua, la quale deve essere bollita per un quarto d’ ora colla latta. Allora si filtra il fluido con un panno doppio e si conserva caldo. Frattanto si sciolgono in un altro caldaio 100 libbre di allume, e si versa questa soluzione, dopo essere stata filtrata ancora calda nella soluzione di solfato di ferro, parimente calda. Vi si aggiunge poi tanta lisciva di sangue fino a che cessi l’ effervescenza, e non  succeda più precipitato. Allora si lascia in riposo la mescolanza, affinchè deponga; nel giorno susseguente si riporta sulle tele, e si lascia che l’ umidità ne sgoccioli. La massa che rimane sulla tela si porta di nuovo nei vasi: si riempiono questi del tutto d’ acqua e si divide nella medesima il deposito per mezzo dell’ agitazione. Si ripete quest’ operazione per cinque o sei volte onde renderla pura col lavamento il più che sia possibile. Si porta di nuovo sul filtro: si lascia che ne coli tutto il fluido e si lascia che il residuo si secchi su dè graticci, ma però all ombra.

La possibilità di produrre ferrocianuro di potassio dal 1825 consentì di ottenere direttamente il blu di Prussia mediante la reazione con sali ferrici. Sebbene il blu di Prussia sia stato prodotto subito dopo la scoperta di Dippel e Diesbach, tuttavia la produzione  non ha assunto una  dimensione industriale finché il ferrocianuro di potassio non fu separato per cristallizzazione dalla massa fusa ottenuta fondendo carbonato di potassio e materia animale. E il blu è stato prodotto partendo da questo composto, invece che dalla soluzione grezza della massa fusa. Nel Manuale di tecnologia Chimica di R. Von Wagner, ed. 1897, viene descritto il procedimento industriale. Partendo dal ferrocianuro si migliorava la qualità del colorante e la costanza delle sue caratteristiche .   

(continua)

Gas serra. Il metano.

Rinaldo Cervellati

* tratto e adattato da “Methane cuts could slow extreme climate change” (Katherine Bourzac, pubblicato il 24/10/2021 su C&N online) Il metano: la falsa soluzione per la transizione energetica, Ancler®

Molti scienziati concordano sul fatto che la riduzione delle emissioni di anidride carbonica (CO2) sia urgente e necessaria per rallentare i cambiamenti climatici (innalzamento del livello dei mari di oltre 3mm, siccità, caldo, incendi o tempeste senza precedenti, ecc.). Ma la CO2 che abbiamo già emesso rimarrà nell’atmosfera per centinaia di anni, quindi ci vorrà del tempo affinché la sua mitigazione mostri dei benefici sui cambiamenti climatici.

Le notizie non sono tutte disastrose, sostengono alcuni scienziati. Essi ritengono che si potrebbe rallentare il riscaldamento globale rivolgendo l’attenzione alla riduzione delle emissioni del secondo gas serra più importante, il metano.

Il metano è stato in qualche modo trascurato nelle discussioni sui cambiamenti climatici, ma ultimamente sta ricevendo maggiore attenzione, anche nel più recente rapporto scientifico dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU. Rob Jackson, scienziato del sistema terrestre nella Stanford University e presidente del Global Carbon Project[1], afferma che: “Per quanto sia difficile ridurre la CO2, non raggiungeremo i nostri target di temperatura affrontando solamente questo problema”.

Le emissioni di metano crescono ogni anno. Secondo il Global Carbon Project, alla fine del 2019, la concentrazione di metano nell’atmosfera era di 1.875 ppb, oltre 2,5 volte quella dell’epoca preindustriale. La figura 1 mostra un grafico dell’andamento delle medie mensili delle concentrazioni globali di metano nell’atmosfera dal 1980 al 2020.

Figura 1. Fonte: National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), agenzia federale statunitense che si interessa di oceanografia, meteorologia e climatologia.

Parte del metano proviene da fonti naturali, in particolare dalle zone umide, dove i batteri si nutrono di carbonio organico ed emettono gas serra. Ma circa il 60% delle emissioni di metano proviene da fonti umane. L’industria dei combustibili fossili e l’agricoltura sono le due maggiori fonti antropogeniche di emissioni; la gestione dei rifiuti e altre attività fanno il resto (figura 2).

Figura 2. Le emissioni si basano sui numeri del 2017 compilati dal Global Carbon Project e convertiti in percentuali. Fonti: Global Carbon Project; ambiente. Res. Lett. 2020, [1]

La temperatura media globale è aumentata di circa 1,07 °C dal periodo 1850-1900 al periodo 2010-2019, secondo l’IPCC. Prima che venga sottratto l’effetto di raffreddamento di altre emissioni umane, come gli aerosol, le emissioni di metano da sole sono responsabili di circa mezzo grado di tale riscaldamento.

Un grado o mezzo grado potrebbe non sembrare molto, ma piccoli aumenti della temperatura globale media hanno grandi effetti sul clima, producendo eventi estremi come inondazioni e siccità più frequenti e più intensi. Ad esempio, secondo l’IPCC, un aumento della temperatura di 1 °C ha modificato la frequenza di fenomeni estremi come l’innalzamento delle temperature massime, portandoli da 1 a 2,8 volte ogni decennio. Se si aggiunge un altro mezzo grado di riscaldamento, questi eventi si verificheranno probabilmente 4,1 volte ogni decennio.

Implementando misure per ridurre le emissioni di metano, “possiamo rallentare il tasso di riscaldamento globale del 30%” nei prossimi decenni, afferma Ilissa Ocko, climatologo senior presso l’Environmental Defense Fund, un gruppo di ricerca e difesa ambientale senza scopo di lucro. “Questa è un’opportunità straordinaria. Stiamo cercando di sensibilizzare le persone sull’esistenza di questa possibilità”. La ricerca di Ocko suggerisce che adottare tutte le misure possibili per ridurre le emissioni di metano avrebbe un grande impatto: se fossero messe in atto oggi, il tasso medio di riscaldamento per decennio potrebbe essere rallentato del 30% nei prossimi decenni. E il pianeta eviterebbe un riscaldamento di 0,25 °C entro la fine di questo secolo [2].

La riduzione delle emissioni di metano apporterebbe un vantaggio immediato grazie alla chimica di questo gas. Il metano ha una forte influenza sul clima: ha 84 volte l’effetto riscaldante della CO2 nei primi 20 anni dopo l’emissione. E non dura a lungo: la sua vita media è di 12 anni. Nel tempo, si ossida per formare CO2 e acqua, oppure può partecipare a reazioni che generano ozono a livello del suolo. Poiché il metano è sia potente sia di breve durata, se le emissioni diminuiscono, l’attuale metano atmosferico può decomporsi e ridurre la pressione sul clima.

L’analisi di Ocko si è concentrata su strategie di mitigazione convenienti e attualmente disponibili senza fare affidamento su politiche come la tassa sul carbonio o cambiamenti comportamentali di massa, come le persone che passano a diete vegane.

Lena Höglund-Isaksson, economista ambientale presso l’International Institute for Applied Systems Analysis[2], concorda sul fatto che il settore dei combustibili fossili sia il luogo più conveniente per affrontare il problema del metano. Ha analizzato quanto diverse misure di mitigazione potrebbero ridurre le emissioni di metano entro il 2050. I programmi per rilevare e riparare le perdite dei gasdotti e maggiori sforzi per catturare le perdite di gas ridurrebbero le emissioni di metano associate alla produzione di petrolio del 92% [3].

Quindi, perché le aziende non eseguono queste semplici riparazioni che farebbero risparmiare denaro catturando il metano? Afferma Höglund-Isaksson: “I margini di profitto per petrolio e gas sono molto alti ed è più redditizio estendere la produzione e perforare nuovi pozzi piuttosto che contenere le perdite. Quello che manca sono gli incentivi politici”.

I responsabili politici hanno prestato maggiore attenzione al metano negli ultimi mesi. Il 17 settembre, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano di un terzo rispetto ai livelli del 2020 nel prossimo decennio. Altri sette paesi si sono uniti all’impegno, ma i maggiori emettitori di metano del mondo, Cina, India, Russia e Brasile, non l’hanno firmato.

Le attività antropiche causano circa il 60% delle emissioni di metano, le fonti naturali, in particolare le zone umide, forniscono il resto. Nel 2017, le emissioni totali di metano sono state di circa 596 milioni di tonnellate, di cui 364 milioni di tonnellate da emissioni umane (figura 2).

Individuare le perdite, anche quelle enormi chiamate “superemettitori”, non è così semplice come sembra. Da settembre a novembre 2019, il gruppo di Riley Duren e Daniel Cusworth, scienziati statunitensi, ha pilotato un aereo dotato di uno spettrometro a immagini sul bacino del Permiano, una zona comprendente il Texas e alcuni stati limitrofi, che è la regione produttrice di gas e petrolio più grande e in più rapida crescita negli USA. Lo studio dei ricercatori ha mostrato che, come in altre regioni petrolifere, molte sorgenti puntiformi a forte emissione del gas sono intermittenti, quindi se si guarda nel momento sbagliato queste non vengono rilevate [2].

I satelliti sono adatti a raccogliere questi dati, rilevando ogni giorno letture sensibili su vaste aree di terra. Una società privata chiamata GHGSat vende misurazioni satellitari delle emissioni di metano ai clienti, in particolare nel settore petrolifero, ma i suoi dati sono riservati. I satelliti del governo attualmente in orbita possono anche rilevare pennacchi di metano, ma solo se particolarmente grandi, e hanno una scarsa risoluzione spaziale.

Due nuovi progetti satellitari per il monitoraggio del metano mirano a fornire dati a risoluzione più elevata e a renderli disponibili al pubblico. Gli ingegneri che si occupano di questi progetti sperano che i loro sforzi incoraggino le compagnie petrolifere e del gas a riparare queste perdite.

I dati, resi disponibili al pubblico, potrebbero anche portare le compagnie petrolifere e del gas ad affrontare la pressione del mercato sulla base delle loro emissioni di metano. I clienti e gli azionisti delle utility del gas sono sempre più preoccupati per il cambiamento climatico. I servizi pubblici potrebbero esaminare un’azienda in base alle sue emissioni di metano prima di decidere di acquistare gas naturale da essa;  i governi potrebbero anche vietare le importazioni di gas naturale da fornitori con registrazioni di perdite.

Chiudere le perdite di metano nelle infrastrutture dei combustibili servirà per mitigare il riscaldamento globale a breve termine. Ma altre fonti di emissioni di metano devono ancora essere affrontate e non hanno soluzioni semplici come sigillare un tubo che perde. L’agricoltura, che rappresenta il 40% delle emissioni di metano di origine antropica, presenta una complessa sfida alla mitigazione. Il bestiame è un grande colpevole delle emissioni di metano. I bovini, come quelli mostrati in figura 3, sono una delle maggiori fonti di emissioni di metano e una delle più difficili da mitigare.

Figura 3. I bovini, come quelli di questo allevamento (98.000 animali) sono una fonte di emissioni di metano.

Euan Nisbet, uno scienziato della Terra presso l’Università di Londra, chiama il bestiame e altri ruminanti “zone umide che camminano” perché i batteri che vivono nelle viscere degli animali producono metano mentre digeriscono il cibo. Gli agricoltori potrebbero allevare bovini che producono carne e latte in modo più efficiente, così che il mondo possa ottenere la stessa quantità di cibo con meno animali che producono metano.

Per gli alimenti a base vegetale, la principale fonte di metano è il riso, afferma Atul K. Jain, scienziato dell’atmosfera presso l’Università dell’Illinois. I batteri che producono metano prosperano nelle risaie perennemente allagate. Afferma che l’adozione dell’irrigazione intermittente, in cui gli agricoltori drenano i loro campi tra le stagioni di crescita per eliminare le condizioni simili alle zone umide e uccidere quei batteri, potrebbe aiutare. Purtroppo le risaie che vengono periodicamente prosciugate devono essere trattate con  erbicidi, per avere un compromesso ambientale.

Ma alcune delle emissioni mondiali di metano semplicemente non sono sotto il diretto controllo umano.

Nisbet ha analizzato i rapporti degli isotopi di carbonio nel metano e ha riscontrato uno spostamento negli ultimi anni dal 13C più pesante, associato a fonti geologiche come i combustibili fossili, al 12C più leggero, associato a quelli biologici. Sospetta che questo mutamento sia dovuto al cambiamento climatico che alimenta la crescita delle zone umide ai tropici. Man mano che questa regione si riscalda e diventa più umida, fioriscono i batteri che producono metano.

E poi c’è la minaccia incombente contenuta nel permafrost artico. Sciogliendosi a causa del cambiamento climatico, e fornendo un ambiente umido e ricco di carbonio, potrebbe diventare sede di un gran numero di batteri che emettono metano. Gli scienziati non sono sicuri di quando ciò potrebbe accadere, ma Jackson del Global Carbon Project vorrebbe avere una polizza assicurativa contro questo rischio, proponendo di ridurre il più possibile le emissioni di metano di origine umana. Jackson propone un progetto controintuitivo: catturare il metano atmosferico e convertirlo in CO2, rilasciando nell’aria il gas serra più longevo ma meno potente. Questa ossidazione di massa del metano ridurrebbe di un sesto il potenziale di riscaldamento climatico dei gas dell’atmosfera [4]. I chimici ambientali riconoscono che la tecnologia per rimuovere il metano dall’atmosfera (tecnologia delle emissioni negative), è un obiettivo importante, ma vi sono ostacoli di base per farla funzionare. Infatti, finora, nessuno ha realizzato e testato un materiale in grado di catturare e ossidare il metano atmosferico, sebbene i calcoli teorici suggeriscano che sia possibile.

Matteo Cargnello, ingegnere chimico della Stanford University e coautore del lavoro di Jackson, afferma: “catturare il metano è una sfida più grande che catturare la CO2 a causa della sua chimica: in questo momento non esiste alcun materiale che sarebbe in grado di farlo.”

Il primo ostacolo è la concentrazione relativamente bassa, circa 2 ppm, di metano nell’atmosfera. È sufficiente per riscaldare in modo significativo il pianeta, ma abbastanza scarso per renderlo facilmente catturabile. Cargnello sostiene che invece di iniziare dall’aria aperta, le tecnologie di cattura del metano potrebbero funzionare in luoghi in cui il gas è più abbondante, come nelle stalle, nelle miniere di carbone e nelle infrastrutture dei combustibili fossili come le prese d’aria.

Ma non è ancora chiaro cosa bisogna usare per “catturare” il metano: è inerte, non polare e simmetrico, limitando i tipi di molecole che potrebbero legarsi o assorbire il gas.

Cargnello e Jackson hanno esplorato la letteratura scientifica alla ricerca di candidati che ossidano il metano e hanno determinato che le zeoliti con rame catalitico o ferro sono i materiali più promettenti. Le zeoliti sono materiali alluminosilicati porosi che possono contenere siti catalitici attivi. Ma un chimico delle zeoliti dice che non è sicuro che la termodinamica per ossidare il metano con le zeoliti funzionerà. Un tale materiale dovrebbe essere idrofobo, altrimenti l’acqua ostruirebbe tutti i siti per il metano. E tutte le zeoliti idrofobiche esistenti richiedono un grande apporto di energia per assorbire il gas serra. L’altro ostacolo è l’energia della reazione di ossidazione, ci vuole molta energia per avviarla. Mantenere basse le temperature durante la reazione di ossidazione sarebbe fondamentale, afferma un ingegnere chimico del California Institute of Technology.  In caso contrario si potrebbero generare accidentalmente ossidi di azoto, un inquinante atmosferico che può stimolare la formazione di smog e ozono.

Esistono zeoliti che possono eseguire la fase di ossidazione del metano a basse temperature, ma attivare i siti attivi catalitici contenenti rame o ferro prima che il trattamento del metano richieda temperature elevate è difficile. Inoltre, queste zeoliti tendono anche ad avere pochi siti attivi per unità di massa, il che condannerebbe il processo all’inefficienza.

Cargnello riassume il consenso chimico sull’approccio: la tecnologia delle emissioni negative per il metano è “potenzialmente incredibilmente impattante, ma le sfide sono chiare”. Queste sfide, e altre coinvolte nella mitigazione delle emissioni di metano, sono quelle che il mondo deve affrontare, sostiene Jackson. Non c’è modo di ridurre le emissioni di CO2. Ma il mondo deve fare i conti con altri gas serra per combattere il cambiamento climatico, non solo metano ma anche protossido di azoto, tra gli altri. E afferma: “Un approccio su un singolo gas non servirà a fermare i cambiamenti climatici”.

La prima settimana della 26a Conference of Parties (COP26) ha sorpreso molti osservatori di lunga data. Molti grandi nomi hanno fatto grandi annunci nei primi due giorni, a differenza degli anni precedenti, in cui le figure di più alto profilo sono arrivate verso la fine dell’incontro per fare una dichiarazione concordata. Questa volta, le promesse sono arrivate velocemente, come quella riguardante un accordo internazionale per contenere le emissioni di metano, guidato da Stati Uniti e Unione Europea, e rafforzato dalle nuove regole sul metano negli Stati Uniti [5] .

È un buon inizio, afferma il climatologo Tim Lenton: “È una leva in più che potrebbe davvero aiutarci a limitare il riscaldamento globale”.

Questa idea sta iniziando a prendere piede nei circoli politici e scientifici, sostiene Jackson: “Sono entusiasta di vedere più attenzione sul metano”.

Bibliografia

[1] R.B. Jackson et al. Increasing anthropogenic methane emissions arise equally from agricultural and fossil fuel sources., Environ. Res. Lett. 2020, 15, DOI: 10.1088/1748-9326/ab9ed2

[2] I. B. Ocko et al. Acting rapidly to deploy readily available methane mitigation measures by sector can immediately slow global warming. Environ. Res. Lett. 2021,16,

DOI: 10.1021/acs.estlett.1c00173

[3] L. Höglund-Isaksson et al. Technical potentials and costs for reducing global anthropogenic

methane emissions in the 2050 timeframe –results from the GAINS model., Environ. Res. Commun. 2020, 2, DOI: 10.1088/2515-7620/ab7457

[4] R.B. Jackson et al. Methane removal and atmospheric restoration., Nat. Sustain. 2019 2,436–438.

[5] E. Masood, J. Tollefson, COP26 climate pledges: What scientists think so far., Nature news, 5 November, 2021


[1] Il Global Carbon Project è un progetto di ricerca di Future Earth e un partner del World Climate Research Program. È stato formato per lavorare con la comunità scientifica internazionale al fine di stabilire una base di conoscenza comune e concordata per sostenere il dibattito politico e l’azione per rallentare e infine fermare l’aumento dei gas serra nell’atmosfera.

[2] l’International Institute for Applied Systems Analysis (IIASA) è un istituto di ricerca internazionale indipendente situato vicino a Vienna (Austria). Attraverso i suoi programmi e iniziative di ricerca, l’istituto conduce studi interdisciplinari orientati alla politica su questioni troppo grandi o complesse per essere risolte da un singolo paese come il cambiamento climatico, la sicurezza energetica e lo sviluppo sostenibile. I risultati delle ricerche IIASA sono messi a disposizione nei paesi di tutto il globo per aiutare a produrre politiche efficaci e basate sulla scienza che consentano di affrontare queste sfide.

La formazione dell’acqua.

Diego Tesauro

La presenza dell’acqua nell’universo è oggetto di ricerca ormai da oltre mezzo secolo da parte degli astrochimici sia nel sistema solare che sui pianeti dei sistemi extra solari negli ultimi venticinque anni. La molecola d’acqua fra i composti chimici è uno dei più semplici ed è presente nelle nebulose molecolari dalle quali si formano le stelle. Ma quando e come si è formata questa molecola?  Immediatamente dopo il Big Bang 13.8 miliardi di anni fa, l’universo era denso e caldo per cui sicuramente qualsiasi legame chimico non sarebbe stato stabile. Fu solo quando la temperatura, a seguito dell’espansione dell’universo, si abbassò intorno ai 4000 K che cominciarono le prime reazioni chimiche alla luce degli elementi all’epoca disponibili.  In queste condizioni la prima reazione che avvenne coinvolse l’idrogeno ionizzato e gli atomi neutri di elio che si combinano per formare l’idruro di elio (HeH+). La molecola fu osservata con spettrometro l’infrarosso GREAT a bordo dell’osservatorio Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy (SOFIA) (https://it.wikipedia.org/wiki/Stratospheric_Observatory_for_Infrared_Astronomy) alcuni anni fa [1]. Per poter formarsi la molecola d’acqua, terza per abbondanza dopo H2 e CO nelle nebulose, bisogna aspettare epoche successive non essendo l’ossigeno presente dopo il Big Bang. La nucleosintesi di questo elemento avviene nei nuclei stellari e va a contaminare le nubi a seguito dell’esplosione delle supernove oppure di forti venti stellari. Pertanto ritrovare l’acqua in galassie remote consente anche di avere informazioni sull’epoca nella quale si sono formate le stelle. Recentemente gli astronomi hanno rilevato tracce di molecole d’acqua in una delle più antiche galassie, la galassia SPT0311-58 [2] (fig.1). Questa si trova a 12.88 miliardi di anni luce dalla Terra, il che significa che i telescopi la vedono come appariva solo 1 miliardo dopo il Bing Bang. Gli astronomi stimano che la galassia abbia quindi un età di soli 780 milioni di anni, si trova alla fine dell’epoca della reionizzazione, cioè di quel periodo nel quale il gas, inizialmente neutro, è stato  ionizzato dalla luce prodotta dalle prime stelle e galassie. L’osservazione è avvenuta con il radiotelescopio ALMA che a 5000 metri d’altitudine sull’arida piana di Chajnantor nel deserto di Atacama in Cile (uno dei luoghi più aridi della Terra, tale da essere la riserva più grande del nitro di Cile https://ilblogdellasci.wordpress.com/tag/nitro-del-chile/)- Sono proprie le condizioni del luogo che rendono possibili queste osservazioni. Poiché l’acqua è presente anche nell’atmosfera della Terra, gli osservatori costruiti in ambienti meno elevati e meno asciutti hanno più problemi nell’identificare l’origine delle emissioni provenienti dallo spazio. La sensibilità elevata e l’alta risoluzione angolare di ALMA, permettono di rivelare alla lunghezza d’onda di 1,64 millimetri, anche i deboli segnali dell’acqua nell’Universo locale. Questa scoperta implica che la formazione stellare sia iniziata abbastanza rapidamente dopo il Big Bang perché l’ossigeno possa esistere nell’universo dopo 1 miliardo di anni. Nello spazio aperto, gli atomi di idrogeno e ossigeno dovevano scontrarsi con un’energia sufficiente per legarsi chimicamente e formare acqua. Si potrebbe pensare che tutto ciò dovrebbe richiedere molto tempo; eppure esaminando la chimica delle giovani nubi molecolari, contenenti mille volte meno ossigeno del sole, con sorpresa, è stato scoperto che è presente tanto vapore acqueo quanto ne vediamo nella nostra galassia.

Fig. 1 Coppia di galassie Spt0311-58 osservate con Alma. Il contenuto di polvere (in rosso), acqua (in blu) e monossido di carbonio (osservato in tre diverse lunghezze d’onda e mostrato in tre sfumature di rosa/viola) nella. Nella colonna a destra, sono visibili i contributi individuali delle varie componenti.

Sebbene le nubi siano povere di ossigeno, c’è una spiegazione del motivo per il quale l’acqua si sia formata così facilmente nell’universo primordiale. L’universo allora era più caldo per la presenza della radiazione cosmica di fondo  che oggi è a soli 2,725 K.

Nelle nubi diffuse l’H2O si forma principalmente nelle reazioni in fase gassosa tramite sequenze ione-molecola [3]. La catena della reazione ione-molecola è innescata dalla ionizzazione dei raggi cosmici o dei raggi X di H e H2, che porta alla formazione di ioni H+ e H3+. Questi interagiscono con l’ossigeno atomico formando la specie OH+. Una serie di acquisizioni di protoni portano alla formazione di H3O+, che produce OH e H2O attraverso la ricombinazione dissociativa. Questo meccanismo di formazione non è generalmente molto efficiente e solo una piccola frazione dell’ossigeno viene convertita in acqua, il resto rimane in forma atomica o si congela sotto forma di ghiaccio d’acqua [4].

Alle temperature > 300 K, l’acqua si forma direttamente attraverso reazioni in cui si combinano atomi neutri O + H2 → OH + H, reazione seguita da OH + H2 → H2O + H. Questo cammino di reazione diviene particolarmente importante negli shocks, dove il gas si riscalda ad alte temperature, e può conseguentemente portare più ossigeno a formare H2O [5][6].

Queste recenti osservazioni mostrano come ancora i modelli delle fasi inziali del nostro universo debbano ancora essere affinati per poter aver una comprensione migliore delle sue prime fasi.

Bibliografia

[1] R. Güsten et al., Astrophysical detection of the helium hydride ion HeH+Nature, 2019, 568, 357–359 DOI: 10.1038/s41586-019-1090-x

[2] S. Jarugula et al. Molecular Line Observations in Two Dusty Star-forming Galaxies at z = 6.9 The Astrophysical Journal, 2021, 921:97 (26 pp)  https://doi.org/10.3847/1538-4357/ac21db

[3] E. Herbst, W. Klemperer The Formation and Depletion of Molecules in Dense Interstellar Clouds The Astrophysical Journal 1973, 185, 505-534. doi:10.1086/152436

[4] D. Hollenbach et al. Water, O2, and ice in molecular clouds The Astrophysical Journal 2009690, 1497-1521  doi:10.1088/0004-637X/690/2/149

[5] B. T. Draine et al. Magnetohydrodynamic shock waves in molecular cloud The Astrophysical Journal, 1983, 264, 485-507.

[6] M. J. Kaufman et al. Far-Infrared Water emission from magnetohydrodynamic  shock waves  The Astrophysical Journal 1996, 456, 611

La storia e la geografia delle emissioni di CO2.

Claudio Della Volpe

La recente fine di COP26 stimola riflessioni non solo sul sistema climatico ma soprattutto sul nostro modo di reagire al problema del GW (global warming, ossia riscaldamento globale, anche se non è solo riscaldamento, ma per esempio acidificazione dell’oceano).

Per fare questo mi pare doveroso capire come mai vari paesi reagiscano diversamente e apparentemente in modo deludente alla situazione; possiamo ricostruire grazie al lavoro di tanti scienziati e di vari gruppi ambientalisti la storia dell’accumulo di gas serra ed i dettagli geografici del processo: dove e quando e da chi i gas serra sono stati prodotti e perché; di solito si prende come limite storico di queste analisi il 1751 considerato come l’inizio della “rivoluzione-industriale”, quel processo storico complesso che ha portato alla crescita di importanza e poi al dominio delle merci e della loro produzione sopra qualunque altro modo di produrre e consumare (comunemente  detto capitalismo e ricordiamocelo, non è l’unico modo di produrre le cose) e lo ha fatto usando le tecnologie basate sulla combustione dei fossili, prima carbone, poi petrolio ed oggi gas “naturale”.

Personalmente credo che le cose siano più articolate e che il processo sia iniziato almeno secoli prima con le grandi scoperte geografiche (ne abbiamo parlato a proposito di antropocene ricordando lo “scambio colombiano” e le conseguenze di raffreddamento globale allora innescate), la distruzione dei beni comuni (per esempio le cosiddette enclosures, la recinzione dei terreni comuni (terre demaniali) a favore dei proprietari terrieri della borghesia mercantile avvenuta in Inghilterra tra il XIII ed il XIX secolo e che in varie forma continua ancora oggi attorno a noi, mascherata da altri nomi e processi soprattutto in Africa).

Quasi sempre si ricorda solo la tecnica e non la organizzazione sociale corrispondente, ma ricordiamo che le idee sulla macchina a vapore (pensiamo ad Erone, come raccontato dal grande Lucio Russo ne “La rivoluzione dimenticata” che vi consiglio di leggere se non l’avete già fatto) che ha rivoluzionato il mondo moderno esistevano fin dai tempi della cultura alessandrina insieme con una raffinata tecnologia metallurgica; se la cultura  che produsse la macchina di Antikytera e che conteneva anche le  conoscenze di Erone non arrivò ad usare il vapore, se non per scherzi ed applicazioni da ricchi, un peso lo aveva la struttura sociale dell’epoca basata sullo schiavismo, le macchine erano una curiosità o servivano per la guerra; dunque attenzione: tecnologia e struttura sociale sono connesse. E non lo sono nel senso meccanicistico che la tecnologia cresce indipendentemente e la società le tiene dietro, ma in modo più complesso, ossia tramite un processo di retroazione (feedback) che rende la tecnologia e la struttura sociale interdipendenti.

Ovviamente le cose sono più complesse di come le raccontiamo, i modelli non sono le cose, ma questo quadro può dare qualche idea di come si sia arrivati alla situazione odierna ed anche dei modi in cui i diversi paesi si comportano nel confronto globale delle COP (Conference of Parties, la modalità di confronto scelta dalla nostra società per risolvere problemi globali).

Ed anche, lasciatemelo dire, che il mondo delle merci e del mercato non può affrontare e risolvere il problema del GW e del rapporto uomo-natura in modalità sostenibile. Come l’agricoltura e la rivoluzione industriale hanno corrisposto ad un cambiamento sociale, così la sostenibilità ambientale necessita di una rivoluzione sociale ed economica.

Ma torniamo al tema gas serra. Nel grafico qui sotto vedete come si è evoluta la produzione di CO2 nella storia umana fin dal 1751. Si tratta di un grafico pubblicato qui; i dati sono tratti fa varie fonti: i dati del Carbon Budget Project presentato da Our World in Data, “Emissioni cumulative di CO2 per regione mondiale, 1751-2017. https://ourworldindata.org/grapher/cumulative-co2-emissions-region?stackMode=absolute. [dati 24 aprile 2020]

Emissioni previste per il 2018-19 sulla base del Global Carbon Budget 2019, di Pierre Friedlingstein, et al. (2019), Dati scientifici del sistema terrestre, 11, 1783-1838, 2019, DOI: 10.5194/essd-11-1783-2019.

L’idea base era espressa nel grafico di Frumhoff, Peter. (15 dicembre 2014) fatto sul riscaldamento globale: più della metà di tutto l’inquinamento industriale da CO2 è stato emesso dal 1988, Union of Concerned Scientists. https://blog.ucsusa.org/peter-frumhoff/global-warming-fact-co2-emissions-since-1988-764

Questo grafico fa capire cosa si intenda con “grande accelerazione” un  termine inventato per descrivere i processi ambientali e sociali avvenuti negli ultimi 30 anni e più in generale a partire dagli anni 60 del secolo scorso; quelle emissioni non contengono tutti i gas serra, ma ne contengono una gran parte e rendono esplicito che il processo di emissione non si è arrestato o ha rallentato nonostante la conoscenza della modifica dell’effetto serra sia ormai acquisizione universale almeno fin dal 1997.

La scienza ha idea di questo fenomeno da molto prima.

Il primo lavoro che ha sospettato questo processo non è nemmeno quello più famoso di Arrhenius, ma quello di un geochimico svedese che lo ispirò, Arvid Högbom, che nel 1894 scriveva** (in svedese, così che l’idea rimase confinata, ma fu raccolta da Arrhenius che immaginò, per primo, che l’effetto finale di queste gigantesche emissioni sarebbe stata l’aumento della temperatura terrestre; per correttezza diciamo che una intuizione la ebbe anche una donna ben 40 anni prima, Eunice Foots, nel 1856, ma come sappiamo le donne faticano ancora oggi a farsi sentire):

L'attuale produzione globale di carbon fossile è in cifre tonde di 500 milioni di tonnellate all'anno, o 1 tonnellata per km2 di superficie terrestre. Trasformata in CO2 questa quantità di carbone rappresenta circa la millesima parte della CO2 totale dell'aria».

Il lavoro di Högbom implicava emissioni globali di CO2 dalla combustione del carbone di circa 1,8 GtCO2 nel 1890. Nonostante fosse chiaramente piuttosto approssimativo, questo primo sforzo era notevolmente vicino alla stima contemporanea delle emissioni da carbone all’epoca, circa 1,3 GtCO2.

Sappiamo bene e lo abbiamo scritto ripetutamente che il fuoco era conosciuto prima di Homo Sapiens, da altri ominidi, in particolare da tutte le specie antenate di Homo sapiens che hanno usato il fuoco ed è stato usato per un milione di anni, ma la questione è la scala a cui la combustione è arrivata con la rivoluzione industriale, la quantità diventa qualità trasforma una locale ed innocua combustione in un problema geologico. 

Una serie storica originale basata sull’andamento delle varie stime successive di emissione è proposta in questo grafico di Robbie Andrew, che ha scoperto il contributo di Högbom.

 

Si tratta di un file gif , dunque una immagine che è un piccolo filmato, una sequenza ordinata di immagini automatiche; statelo a guardare per qualche secondo per avere un’idea di come si sono evolute le stime di emissione e dei contributi dei vari fossili. Molto istruttivo. 

Altre rappresentazioni del processo in termini storici possono contenere il contributo ai gas serra di altre parti della nostra produzione, oltre la pura combustione di fossili; per esempio dal sito https://www.carbonbrief.org/analysis-which-countries-are-historically-responsible-for-climate-change

Questa immagine riporta il confronto fra l’emissione combustiva pura e semplice e i processi agricoli, il cui valore assoluto cresce significativamente mentre cresce quello delle combustioni vere e proprie. Se fate caso il valore anno per anno delle emissioni “land” è in media il doppio alla fine del processo, uno dei portati della cosiddetta “rivoluzione verde” che, pur non risolvendo il problema della fame, ha accresciuto la produzione agricola ma ha anche raddoppiato l’emissione di gas serra, e alterato in modo irreversibile il ciclo di azoto e fosforo accrescendo le cosiddette “dead zones”, le zone di ipossia oceaniche in tutte le coste dei continenti.

Le fonti dati sono incluse nell’immagine, che come vedete copre un intervallo di tempo inferiore al precedente, anche a causa della difficoltà di reperire i dati necessari.

Anche qui si conferma che il processo di emissione non ha visto soste dal principio e che anzi c’è stata perfino una crescita dopo il 2000; il picchetto verde che vedete poco prima del 2000 corrisponde agli incendi indonesiani del 1997 che diedero il loro contributo terribile.

Dunque possiamo concludere che il processo di emissione di gas serra da combustione è stato crescente, è legato sia alla produzione agricola che a quella industriale e che finora non è stato fatto alcun serio tentativo di interromperne gli effetti.

Vediamo dove, in quali aree geografiche il processo è avvenuto; ovviamente qua la situazione è complessa in quanto nel corso di quasi tre secoli i confini delle aree politiche sono cambiati continuamente, ci sono stati gli effetti del colonialismo e dunque alcune zone hanno emesso a vantaggio di altre ed infine anche oggi il commercio globale rende complesso attribuire a ciascuna area l’emissione di CO2 legata alla sua propria popolazione. Per non parlare delle quantità pro-capite. Questi dati che vi mostro adesso fanno capire perché alcuni paesi oggi grandi emettitori si rifiutino di aderire a politiche che non tengano conto degli effetti del passato; tenete presente che le quantità emesse da un certo paese in passato possono essere state più piccole di oggi, ma non solo hanno consentito a quel paese di crescere in ricchezza, ma hanno avuto effetti per un tempo maggiore; data la durata dei gas serra in atmosfera (in particolare della CO2), l’emissione in un certo momento impegna il futuro per un tempo rilevante e dunque chi ha emesso prima non solo ha acquisito un vantaggio economico competitivo, ma ha anche avuto effetti per un tempo maggiore sull’assorbimento di radiazione.

Vediamo qui un modo di rappresentare i valori per alcuni paesi riportato su https://www.carbonbrief.org/analysis-which-countries-are-historically-responsible-for-climate-change

Interessante notare che alcuni paesi come il nostro non abbiamo un contributo significativo da parte della voce land; qui le incertezze vengono anche dalle fonti, che comunque sono elencate; i paesi che esportano legno per esempio o che usano metodi estrattivi molto distruttivi come il Canada o la Tailandia vedono al contrario un enorme contributo per questo uso della terra.

Ed infine un grafico che mostra, in modo forse più evidente, il confronto fra le grandi aree mondiali nella produzione di CO2, (mancano i dati su altri gas serra per il modo in cui sono calcolati) ma il confronto fa risaltare però ancora una volta che certi paesi sono grandissimi produttori di CO2 STORICI. Gli USA e l’UE hanno prodotto dall’origine oltre il 20% l’uno del totale e lo hanno fatto anche quando nessun altro lo faceva guadagnando non solo un enorme vantaggio economico competitivo, ma facendo pesare per un maggior tempo l’emissione che dunque vale di più, non solo in proporzione alla quantità emessa ma anche alla durata dell’emissione e dunque del suo effetto climatico complessivo. Anche se un paese come la Cina emette di più adesso, in totale ha emesso meno della metà degli USA, per esempio ed inoltre c’è un altro grafico che ci dice che in parte almeno sta emettendo per altri paesi, dato che vende ad essi quelle merci, una sorta di esternalizzazione delle emissioni.

Comunque è chiaro che questi sono grafici suggestivi ma incompleti, per esempio in quasi tutti manca il metano, ma fanno capire bene la ragione delle polemiche e delle difficoltà che rendono difficile il cammino delle COP ed anche il nostro cammino come società

https://mailchi.mp/3afaa2f62894/energy-bulletin-weekly-60394?e=163e64760c

Da https://www.carbonbrief.org/analysis-which-countries-are-historically-responsible-for-climate-change

** “On the probability of secular changes in the level of atmospheric CO2” (original title: “Om sannolikheten för sekulära förändringar i atmosfärens kolsyrehalt”) pubblicato nel  1894 in Svensk Kemisk Tidskrift (Swedish Chemistry Journal). Per una analisi accurate di questo si veda qui: https://folk.universitetetioslo.no/roberan/t/EarlyEstimates1.shtml

La teoria di tutte

Luigi Campanella, già Presdente SCI

Molte volte nel nostro blog abbiamo parlato di scienziate che non hanno raccolto in riconoscimenti e premi quanto avrebbero meritato. L’ultima citazione ha riguardato, da parte dell’amico Rinaldo Cervellati, la fisica Susan Jocelyn Bell Burnell che forse un premio Nobel o per lo meno una citazione ad esso lo avrebbe meritato.

Oggi però vorrei affrontare il problema da un altro punto di vista e cioè quello dell’azione mediatica esercitata per questi premi dalla stampa, che non si può escludere eserciti una pressione al momento della scelta. In questo senso una voce fuori coro può essere preziosa per portare alla ribalta dei meno addetti nomi e ricerche, ancor più se trattasi di donne. In questo senso vorrei parlare di Gabrielle Greison, fisica nucleare, divulgatrice, attrice teatrale, scrittrice. Oggi gestisce una trasmissione televisiva sul canale laF dal titolo “La teoria di tutte” che si è prefissata lo scopo di portare all’attenzione del grande pubblico scienziate e ricercatrici, che difficilmente hanno avuto riscontro popolare sia per il tema delle loro ricerche, sia per la provenienza geografica, sia per il fatto di essere donne. Si tratta ovviamente di eccellenze scientifiche riconosciute a livello mondiale fra gli addetti ai lavori e che stanno disegnando orizzonti scientifici innovativi e futuri. Pur essendo una fisica la Greison si occupa anche di Chimica, Biologia, Medicina, Ambiente e lo fa ogni volta partendo da una scienziata nota di quella disciplina che non è stata premiata come avrebbe invece meritato.

In una delle ultime puntate ha parlato di Astrofisica a partire da Margherita Hack per centrare l’attenzione su Vera Rubin (di cui abbiamo parlato nel blog), che studiò la materia oscura ed a cui fu negato il Nobel e su quelle che la Greison definisce le loro eredi. Abbiamo così modo di conoscere Mariafelicia De Laurentiis che ha portato alla prima immagine di un buco nero, Erminia Bresso che ha applicato gli acceleratori alla terapia Oncologica, Lucia Notano prima direttrice donna dei Laboratori del Gran Sasso, Angela Marinoni, climatologa presso il CNR di Bologna, che ogni mattina si dirige in Appennino per misurare lo stress ambientale da CO2; ed ancora Licia Gardossi del Gruppo di Bioeconomia della Presidenza CdM impegnata nello sviluppo delle energie rinnovabili con l’uso di materiali sostenibili, Sabina Airoldi impegnata nella protezione e conservazione della diversità biologica, in particolare riferita al mondo dei cetacei, Claudia Gemme che all’interno del progetto Atlas è riuscita a fotografare gli scontri fra particelle.

Questi nomi sembrebbero smentire l’assenza di donne nelle Facoltà  Scientifiche e negli elenchi dei premi di prestigio. Purtroppo, come abbiamo più volte scritto anche in questo blog, così non è: le donne sono il 37% degli studenti universitari delle Facoltà scientifiche, percentuali in leggero rialzo, ma ancor più bassa se riferita alla Fisica; i Nobel donna in Fisica sono 4 su 114. È chiaramente un fatto culturale: gli uomini per la scienza, le donne per la letteratura. Come diceva Rita Levi Montalcini a questa discriminazione culturale non ne corrisponde di certo una intellettuale: i cervelli di uomini e donne sono uguali e le tendenze disciplinari possono svilupparsi allo stesso modo. Anche noi chimici abbiamo situazioni simili a cui spero presto la Greison voglia dedicare attenzione. Ad esempio la Tavola periodica é assegnata a Mendeleev, ma il contributo di Julia Lermontova che lavorava con Mendeleev, relativo alle sue ricerche  per distinguere i metalli del gruppo del platino viene esclusivamente dagli archivi del suo mentore. È stata la prima donna ad avere un dottorato in chimica in Germania nel 1874; lavorava nel seminterrato e senza retribuzione Lise Meitner che, a Berlino tra il 1917 e il 1918, scoprì l’elemento 91 insieme a Otto Hahn. Ida Noddack scoprì il renio, un nuovo elemento. Lo fece insieme al marito Walter Noddack, nello studio dell’uomo di cui era ospite. Quando ha presentato scoperte da sola non ha avuto credito, anche se le sue intuizioni sul processo che ora conosciamo come fissione erano giuste. Fu ignorata, secondo quanto riporta Nature, anche da Enrico Fermi.

NdB: Julia Lermontova, Lise Meitner e Ida Noddack sono state ricordate sul blog e nel libro di Rinaldo Cervellati, Chimica al Femminile:

Julia Lermontova 

Lise Meitner 

Ida Noddack 

Storia dei PFAS come imballaggi alimentari (parte 2)

Rinaldo Cervellati

(la prima parte di questo post è stata pubblicata qui)

Che cosa dicono i produttori

Gli acquirenti chiedono prove, come la certificazione BPI, che i prodotti di carta che acquistano non contengano PFAS aggiunti ma spesso non sanno ancora quali sostanze chimiche o tecnologie rendano questi prodotti resistenti al grasso e all’acqua. Per esempio, la catena di negozi di alimentari Whole Foods Market, che si concentra su alimenti biologici e tutela ambientale, ha appreso nel 2018 che alcuni dei contenitori che ha acquistato sono stati trattati con PFAS. Nel dicembre dello stesso anno, Toxic-Free Future[1] ha pubblicato un rapporto che mostrava che gli imballaggi per alimenti da asporto venduti da diverse catene alimentari, tra cui Whole Foods, probabilmente contenevano PFAS.

Jody Villecoor, consulente per gli standard dell’azienda, afferma:”Attraverso sondaggi sui fornitori e test sui prodotti, abbiamo interrotto o riformulato qualsiasi imballaggio per servizi di ristorazione in cui è stato divulgato o determinato che PFAS potrebbe essere stato aggiunto intenzionalmente. Whole Foods Market lavora con i nostri fornitori di imballaggi e una varietà di organizzazioni no-profit, accademiche e parti interessate del governo per evitare PFAS aggiunti”. E aggiunge: “In alcuni casi, siamo stati in grado di passare da un prodotto trattato con PFAS a un prodotto non trattato con PFAS e già disponibile in commercio. Ma in altri casi, abbiamo dovuto lavorare con i nostri fornitori per riformulare gli imballaggi dei servizi di ristorazione”.

Mentre la catena alimentare sa che gli articoli che sta acquistando ora non hanno PFAS aggiunti, non sa invece cosa viene utilizzato. La divulgazione dei componenti dell’imballaggio non è purtroppo una pratica standard nel settore.

Quindi, C&EN ha contattato un certo numero di aziende che producono o forniscono prodotti di carta per imballaggi alimentari, chiedendo loro di discutere le alternative ai PFAS e la sicurezza di tali additivi. La maggior parte non ha risposto.

Probabilmente perché o stanno proteggendo i segreti commerciali delle aziende che producono alternative ai PFAS per il trattamento di involucri per alimenti, o semplicemente non sanno cosa c’è nei trattamenti che acquistano dai produttori, dicono gli osservatori del settore.

Le aziende che formulano, producono, e forniscono prodotti alternativi ai PFAS sono preoccupate di proteggere le informazioni aziendali riservate, afferma Stacy Glass, direttore esecutivo di ChemFORWARD[2], un’organizzazione no profit che promuove l’uso di sostanze chimiche più sicure:

“Questo spazio è super competitivo. Queste aziende vogliono mantenere segreti i loro ingredienti”.

“Ciò che viene effettivamente utilizzato non è ben noto”, concorda Franjevic, che gestisce GreenScreen for Safer Chemicals di Clean Production Action[3], uno strumento online per le aziende per valutare le sostanze chimiche in base ai loro rischi e assistere nella selezione di sostanze più sicure.

Ad esempio, Georgia-Pacific, produttore di involucri cartacei a marchio Dixie, fornisce articoli per alimenti con il suo marchio Soak-Proof Shield, che il sito Web dell’azienda afferma non contenere PFAS. In una scheda informativa, Clean Production Action e Toxic-Free Future descrivono il materiale come “un rivestimento a base acrilica che non contiene silicone”. Rispondendo a una domanda di C&EN sul materiale, un portavoce di Georgia-Pacific afferma che le informazioni sono “proprietarie e riservate”, rifiutandosi di discutere ulteriormente la questione.

WestRock, che produce contenitori da asporto in cartone, offre prodotti rivestiti con il suo trattamento EnShield, che si dice sia privo di fluorocarburi. WestRock non ha risposto alle richieste di commento di C&EN.

Anche Ahlstrom-Munksjö, un produttore di carta e altri prodotti in fibra con sede a Helsinki, non descriverà nel dettaglio le sue sostituzioni dei PFAS, ma i dirigenti sono disposti a descrivere i contorni generali dello sforzo di sostituzione. L’azienda vende prodotti ai trasformatori di carta che tagliano il materiale in fogli o rotoli più piccoli su misura (figura 3). I clienti includono gastronomie, catene di fast food e altre società di servizi di ristorazione.

Figura 3. Ahlstrom-Munksjö produce carta per alimenti senza aggiunta di sostanze per- e polifluoroalchiliche negli stabilimenti in Francia e in Wisconsin (USA).

Ahlstrom-Munksjö ha molteplici obiettivi di sostenibilità, incluso utilizzare forniture di legno sostenibili di provenienza locale, pratiche di gestione dell’acqua efficienti ed evitare materiali pericolosi.

I funzionari di Ahlstrom-Munksjö affermano di aver osservato i primi segnali di un mercato in crescita per gli imballaggi alimentari realizzati senza PFAS e di aver lanciato i prodotti Grease-Gard FluoroFree nel 2019. La carta è certificata BPI. Zack Leimkuehler, vicepresidente tecnico afferma:

“Parte della soluzione deriva dalla fibra che utilizziamo e dal modo in cui essa viene elaborata.  Anche gli additivi svolgono un ruolo importante, e l’azienda li seleziona tenendo conto della compostabilità”.

Zume, con sede in California, che produce imballaggi per alimenti in fibra modellata, è in controtendenza rivelando la sua tecnologia di sostituzione dei PFAS, che si basa su prodotti realizzati dall’azienda chimica specializzata Solenis. Zume ha iniziato come azienda di torte e pizze ad alta tecnologia, sviluppando apparecchiature robotiche per realizzare prodotti che venivano cotti sui camion delle consegne. Ma le scatole che usava per confezionare gli alimenti hanno influito sulla qualità del prodotto. Quindi Zume si è concentrato sulla creazione di una scatola  migliore. E ci è riuscita, vendendo poi le scatole ad altri fornitori degli stessi prodotti.

Zume ha poi lasciato l’attività di produzione dei pizze e torte nel 2020 per concentrarsi esclusivamente sul packaging alimentare. Ha riorganizzato i suoi robot per creare imballaggi per alimenti a base di fibre per sostituire gli articoli di plastica monouso come il polistirolo.

Zume in precedenza usava PFAS a catena corta per conferire resistenza al grasso alla sua confezione. Ma all’inizio del 2020, Zume e Solenis hanno presentato un nuovo metodo per realizzare piatti e ciotole privi di PFAS che si basa invece su una cera a base biologica e su una nuova tecnologia per la produzione dei contenitori. La cera e altri additivi sono approvati dalla FDA per l’uso come materiali a contatto con gli alimenti.

Preoccupazioni permanenti

Franjevic avverte che la semplice affermazione che un involucro o un contenitore per alimenti è realizzato senza l’aggiunta di PFAS non è all’altezza di ciò che è necessario per la sostenibilità e la sicurezza.

“Stiamo cercando di evitare una deplorevole sostituzione”, afferma Brown-West dell’Environmental Defense Fund[4]. Si riferisce allo scambio di una sostanza chimica che causa problemi di salute o ambientali e all’utilizzo di un’altra sostanza che funziona bene ma può comunque rappresentare un pericolo. Ad esempio, i produttori di carta termica per ricevute hanno smesso di usare il bisfenolo A, un composto ben studiato che imita gli estrogeni, e hanno iniziato a usare il bisfenolo S meno studiato, che si sospetta però abbia effetti negativi sulla salute simili a quelli del bisfenolo A.

Le aziende devono sostenere l’uso di sostanze chimiche per le quali i dati mostrano che sono più sicure delle alternative che svolgono la stessa funzione, afferma Brown-West.

Per sostenere gli sforzi di sostituzione chimica, alcune organizzazioni senza scopo di lucro vogliono aiutare i produttori di articoli alimentari a dare uno sguardo critico alle alternative ai PFAS. Offrono confronti sui rischi o certificazioni di terze parti sulla sicurezza delle sostanze chimiche utilizzate in merci come gli imballaggi alimentari. Questi gruppi proteggono le identità delle sostanze e i dettagli dei dati sui pericoli che potrebbero essere preziosi per i concorrenti.

Apple, Nike e diverse catene di supermercati fanno parte di ChemFORWARD[5]. Stanno cercando informazioni fruibili sugli ingredienti e sulle possibili alternative per i loro prodotti evitando spiacevoli sostituzioni, afferma Glass. ChemFORWARD promuove l’uso di materiali circolari, che possono essere riciclati come materia prima per lo stesso uso o compostati in modo sicuro. Il gruppo è focalizzato su tre settori: packaging, elettronica di consumo e prodotti per la cura della persona. I produttori di sostanze chimiche e i formulatori che producono trattamenti privi di PFAS possono trarre vantaggio dall’elenco dei prodotti e dei dati sulla tossicità nel database di ChemFORWARD, afferma Glass, perché può dimostrare ai potenziali clienti i profili di sicurezza dei loro prodotti.

Come parte della Safe + Circular Materials Collaborative, una partnership tra ChemFORWARD e la Sustainable Packaging Coalition, alcuni prodotti di imballaggio alimentare sono in fase di valutazione per l’inclusione nel database ChemFORWARD, afferma Glass. Ad esempio, secondo un portavoce dell’azienda, Ahlstrom-Munksjö sta producendo i suoi materiali da imballaggio privi di PFAS attraverso questo processo.

Clean Production Action, attraverso il suo programma GreenScreen, sta sviluppando una certificazione di prodotto che riterrà un articolo idoneo solo se privo di PFAS e prodotto utilizzando quelle che l’organizzazione chiama sostanze chimiche “preferite”. Lancerà questa certificazione più avanti nel 2021. GreenScreen certifica già che alcune schiume antincendio sono state testate per essere prive sia di PFAS sia di altre sostanze chimiche di grande preoccupazione per la salute umana e l’ambiente.

E a luglio, un gruppo internazionale di società di servizi alimentari, gruppi di sostegno ed esperti tecnici ha lanciato uno strumento online chiamato Understanding Packaging Scorecard[6] che guarda oltre le sostanze chimiche utilizzate nella produzione e valuta l’intero ciclo di vita dei materiali di imballaggio. Questo strumento è finalizzato a promuovere un’economia circolare, in cui gli oggetti scartati diventano materia prima per produrre nuovi beni. Per i contenitori per alimenti, pesano fattori come l’acqua necessaria per lavare i piatti riutilizzabili, la compostabilità degli articoli in carta o altre fibre e le emissioni di gas serra derivanti dal trasporto, dalla produzione, dallo smistamento e dal riciclaggio dei contenitori di plastica.

Tra i suoi numerosi criteri, la classificazione considera se l’imballaggio contenga ingredienti che l’Agenzia europea per le sostanze chimiche e il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite chiamano “sostanze chimiche preoccupanti”, tra cui una serie di PFAS.

Lo strumento considera due aspetti delle sostanze chimiche preoccupanti negli involucri e negli imballaggi per alimenti, afferma Brown-West dell’Environmental Defense Fund, uno dei gruppi di difesa coinvolti nella classificazione. Uno è se una di queste sostanze viene aggiunta intenzionalmente all’imballaggio alimentare e non è entrata nel prodotto attraverso l’esposizione ambientale. L’altro è la tendenza di una sostanza chimica a migrare dai materiali a contatto con gli alimenti negli alimenti o nelle bevande.

Tutte le classificazioni, i database e altri sviluppi indicano un mercato in espansione per le tecnologie resistenti all’acqua e al grasso prive di PFAS, supportate da dati di sicurezza esaminati da terze parti.

E l’Unione Europea?

Un tweet del 3 settembre scorso [3] ci informa:

L’Unione Europea ha deciso di vietare gradualmente 200 sostanze PFAS, da febbraio 2023. Questa è la prima volta che l’UE ha imposto un divieto contemporaneamente su diverse sostanze chimiche con struttura e proprietà simili, il che si spera apra la strada a ulteriori divieti di gruppo.

La restrizione fa seguito a una proposta dell’Agenzia svedese per le sostanze chimiche (KEMI) e dell’Agenzia tedesca per l’ambiente (UBA) presentata nel 2017.

Sebbene il divieto effettivo riguardi solo sei sostanze chimiche PFAS a catena lunga (dove le molecole consistono tra 9 e 14 atomi di carbonio fluorurato), il numero di PFAS soggetti a restrizioni è 200, poiché possono essere tutte suddivise in una delle sei sostanze vietate.

Anche i PFAS a catena corta dovrebbero essere vietati.

La tossicologa senior di ChemSec[7], dott.ssa Anna Lennquist, è cautamente ottimista, anche se pensa che questo particolare divieto di gruppo lasci molto a desiderare:“Per anni abbiamo sostenuto che anche i PFAS a catena corta sono molto problematici. Mentre quelli lunghi si accumulano negli animali e nell’uomo, quelli corti sono un grosso problema nelle fonti d’acqua, poiché non possono essere eliminati, il che significa che non si può purificare l’acqua dai PFAS a catena corta”.

Il numero stimato di sostanze chimiche PFAS in produzione sembra aumentare costantemente ed è ora ben al di sopra delle 5.000 sostanze con struttura e proprietà simili. Il problema con tutti i PFAS è che si decompongono estremamente lentamente, da qui il soprannome di “prodotti chimici per sempre”. Sono spesso tossici, legati a vari tipi di cancro, infertilità, abbassamento del peso alla nascita ed effetti negativi sul sistema immunitario. Un recente verdetto svedese ha classificato livelli elevati di PFAS come lesioni personali, anche se la persona colpita non si è ancora ammalata.

Bibliografia

[1] A. Ramírez Carnero et al., Presence of Perfluoroalkyl and Polyfluoroalkyl Substances (PFAS) in Food Contact Materials (FCM) and Its Migration to Food.,Foods, 202110, 1443-1459.

DOI: https://doi.org/10.3390/foods10071443

[2] Youn Jeong Choi et al., Perfluoroalkyl Acid Characterization in U.S. Municipal Organic Solid Waste Composts., Environ. Sci. Technol. Lett. 2019, 6, 372–377.

DOI: https://doi.org/10.1021/acs.estlett.9b00280

[3] https://chemsec.org/eu-puts-200-pfas-out-of-business-but-thousands-remain/


[1] Toxic-Free Future sostiene l’uso di prodotti, sostanze chimiche e pratiche più sicure attraverso la ricerca avanzata, la difesa, l’organizzazione di base e l’impegno dei consumatori per garantire un domani più sano.

[2] ChemFORWARD è un’organizzazione senza scopo di lucro, basata sulla scienza, istituita per stabilire una fonte centralizzata e affidabile a livello globale di dati sui rischi di additivi chimici e alternative più sicure.

[3] Clean Production Action fornisce soluzioni pragmatiche per prodotti chimici più sicuri nei prodotti di consumo e nelle catene di approvvigionamento.

[4] Environmental Defense Fund o EDF (prima noto come Environmental Defense) è un gruppo di difesa ambientale senza scopo di lucro con sede negli Stati Uniti. Il gruppo è noto per il suo lavoro su questioni quali il riscaldamento globale, il ripristino dell’ecosistema, gli oceani e la salute umana e sostiene l’uso della scienza, dell’economia e della legge per trovare soluzioni ambientali che funzionino.

[5] ChemFORWARD è un’associazione, senza scopo di lucro e basata sulla scienza, istituita per produrre una fonte centralizzata e affidabile a livello globale di dati sui rischi chimici e alternative più sicure.

[6] L’Understanding Packaging (UP) Scorecard è una nuova risorsa online che misura i prodotti alimentari e di confezionamento alimentare comunemente usati con un unico parametro per offrire alle aziende il primo strumento gratuito e completo per prendere decisioni di acquisto sostenibili.

[7] ChemSec – International Chemical Secretariat – è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro che sostiene la sostituzione delle sostanze chimiche tossiche con alternative più sicure.

Storia dei PFAS come imballaggi alimentari (parte 1)

Rinaldo Cervellati

Nel numero del 3 ottobre scorso (vol. 99, n. 36) di C&EN, Cheryl Hogue fa una storia delle sostanze perfluoroalchiliche o polifluoroalchiliche (PFAS) utilizzate come rivestimento per contenitori alimentari[1]. Ne ripercorriamo qui la storia, ampliandola, sottoforma di articolo.

Riassunto. I PFAS sono stati a lungo utilizzati come trattamento per rendere gli involucri di carta alimentare resistenti al grasso e all’acqua. Ora, diversi stati degli Stati Uniti stanno vietando l’uso dei PFAS negli imballaggi alimentari a base di fibre. Allo stesso tempo, i sostenitori della salute e dell’ambiente stanno spingendo le catene di ristoranti e alimentari a smettere di usare involucri, cartone e contenitori in fibra con l’aggiunta di PFAS. I produttori di carta stanno lanciando nuovi prodotti per soddisfare questa domanda, ma ciò che sta occupando il posto dei PFAS è nascosto dietro un muro di riservatezza aziendale. Terzi soggetti stanno intervenendo con strumenti per esaminare la sicurezza delle alternative ai PFAS proteggendo al contempo i segreti commerciali.

Introduzione

Per decenni, decine di queste sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) hanno ottenuto l’approvazione dalle autorità di regolamentazione negli USA, nell’Unione Europea e altrove per l’uso alimentare. I PFAS sono estremamente efficaci nel rendere gli involucri e i contenitori di carta impermeabili al grasso e all’umidità che trasuda da hamburger, patatine fritte e altri alimenti.

Oggi, le catene di fast food e i negozi di alimentari si stanno rendendo conto che i fluorochimici non sono sempre i materiali meravigliosi per cui sono stati creati. I PFAS sono persistenti nell’ambiente e alcuni sono tossici. E gli studi che hanno scoperto che i PFAS negli involucri e nelle scatole di carta possono migrare negli alimenti si sono accumulati negli ultimi anni [1]. A causa di queste preoccupazioni, molte aziende alimentari stanno passando da contenitori e involucri monouso realizzati con PFAS a confezioni che non contengono questi prodotti sintetici.

Purtroppo la composizione di questi nuovi prodotti senza PFAS è spesso mantenuta segreta dalle aziende produttrici. Supermercati e ristoranti possono trovare garanzie di terzi soggetti che i rivestimenti dei prodotti alimentari che acquistano non hanno PFAS aggiunti. In un mondo ideale, i consumatori dovrebbero sapere quali sono le sostanze chimiche sostitutive, nella realtà alcune organizzazioni affermano che queste informazioni non sono importanti quanto i dati sulla tossicità, esaminati in modo confidenziale da terze parti, che affermano essere più sicuri dei PFAS che sostituiscono.

Breve storia dei PFAS

La Food and Drug Administration (FDA) degli Usa approvò il primo PFAS per il rivestimento di carta e cartone, della du Pont and Company, nel 1967. La società chiamò il prodotto, che respingeva acqua e olio, un “fluoridizzante per carta” (Zonyl RP, figura 1).

Fig. 1

Per la prima volta in assoluto, i PFAS erano sugli imballaggi alimentari. Nel tempo, più aziende sono entrate in questo mercato con dozzine di prodotti simili. In anni più recenti, quando la biopersistenza dei PFAS è diventata chiara, i produttori di sostanze chimiche sono passati da PFAS a catena lunga, come Zonyl RP, a quelli a catena corta, che generalmente contengono sei o meno atomi di carbonio, per il trattamento dei materiali di imballaggio alimentare. Molti ricercatori ritengono che i PFAS a catena corta abbiano meno potenziale di bioaccumulo, sebbene la loro tossicità sia simile a quella dei loro cugini a catena più lunga.

Quindi, nel 2020, la FDA ha annunciato che quattro produttori stavano volontariamente eliminando gradualmente la vendita di alcol fluorotelomero 6:2, uno dei PFAS a catena corta, da utilizzare negli imballaggi alimentari di carta e cartone. Questa sostanza si degrada nell’ambiente per formare acidi perfluoroalchilici persistenti e biologicamente attivi (figura 2).

Fig. 2

Oggi, l’inventario delle sostanze a contatto con gli alimenti della FDA, che elenca i materiali ritenuti “sicuri per l’uso previsto”, contiene circa 50 fluorochimici approvati per la commercializzazione tra il 2000 e il 2020.

Non è chiaro quanti di loro siano ancora venduti per imballaggi alimentari.

Tre forze principali stanno allontanando i produttori di imballaggi alimentari da PFAS, afferma Shari Franjevic (Clean Production Action, Massachusetts), un’organizzazione che promuove prodotti chimici, materiali e prodotti verdi: una spinta viene dalla legislazione statale emanata in Connecticut, Maine, Minnesota, New York, Vermont e Washington che vieta i PFAS negli imballaggi alimentari e lo sforzo dell’Unione Europea per limitare gli usi di tutti i PFAS. Opzioni prive di PFAS

Le sostanze per involucri alimentari in fibra resistenti al grasso e all’acqua possono essere realizzate con una varietà di alternative alle sostanze per- e polifluoroalchiliche, come mostrato in Tabella 1.

Tabella 1

Legenda: bamboo or palm leaf = foglie di palma o bambù; biowax-coated paper = carta con rivestimento in cera; polylactic-coated paper = carta rivestita con acido polilattico; rivestimenti ignoti.

Tuttavia l’American Chemistry Council (ACC), che rappresenta i produttori di sostanze chimiche, compresi i produttori di fluoro chimici, sottolinea: “Non tutti i PFAS sono uguali, non è né scientificamente accurato, né appropriato raggrupparli tutti insieme nell’intera classe, specialmente quando si discute dei profili di salute”.

I membri dell’ACC hanno accettato volontariamente di eliminare gradualmente alcuni PFAS per l’uso negli imballaggi alimentari a base di carta ma aggiungono: “Per molti usi non ci sono alternative ai PFAS”.

Tralasciando il dibattito politico, diversi gruppi ambientalisti e sanitari statunitensi stanno esortando le catene di fast food e altri grandi acquirenti a passare volontariamente a involucri e contenitori di carta privi di PFAS. Questi sforzi sono una seconda forza importante nell’abbandono dei PFAS negli imballaggi alimentari, sostiene Franjevic.

Mike Schade, direttore della campagna di Mind the Store[2] ha affermato in una recente dichiarazione: “I rivenditori stanno svolgendo un ruolo incredibilmente importante nell’allontanare il mercato da queste sostanze chimiche tossiche per sempre. Con molte migliaia di libbre di PFAS in circolazione a causa del loro utilizzo negli imballaggi alimentari, applaudiamo quelle aziende che si impegnano a eliminare gradualmente queste sostanze tossiche negli imballaggi alimentari .”

La campagna continua a prendere di mira Burger King. L’amministratore delegato della società madre di quella catena, Restaurant Brands International, ha annunciato in un’assemblea degli azionisti a giugno che l’azienda sta esplorando alternative ai PFAS.

Problemi di compostabilità

Un terzo fattore che guida il passaggio da PFAS è il desiderio degli acquirenti di articoli alimentari monouso di passare dai contenitori di plastica agli articoli di carta compostabili. Con sorpresa di molti, alcuni articoli venduti come compostabili sono stati trattati con PFAS, affermano i sostenitori dell’ambiente. I ricercatori hanno scoperto che questi contenitori potrebbero rilasciare PFAS nell’ambiente se compostati [2].

I prodotti compostabili sono certificati in Nord America da BPI (Biodegradable Products Institute). Questo Istituto stabilisce gli standard per la decomposizione dei prodotti che possono essere mescolati con avanzi di cibo e scarti di giardino per produrre compost. Dal 1 gennaio 2020, il BPI ha escluso i prodotti con aggiunta di sostanze chimiche fluorurate organiche dalla qualificazione per la sua certificazione.

Poiché i PFAS sono persistenti nell’ambiente, tracce di questi composti possono essere presenti nel legno o nell’acqua utilizzati per la fabbricazione della carta e nei prodotti finali, sottolineano  le fonti ambientali.

L’industria sta sviluppando e implementando rapidamente alternative ai PFAS per tutti i tipi di articoli alimentari monouso a base di fibre. Una strategia consiste nell’utilizzare mezzi meccanici per rendere le fibre più dense, siano esse di legno, bambù, foglie di palma o scarti di canna da zucchero, in modo che resistano all’acqua.

Ma spesso i mezzi meccanici non sono sufficienti per rendere impermeabili le fibre. Un altro approccio consiste nell’utilizzare una barriera chimica priva di PFAS, un trattamento superficiale o un prodotto aggiunto alla pasta. Alcuni dei trattamenti su cui si affidano i produttori di articoli per alimenti sono divulgati in termini generali e non strutturali. Gli esempi includono siliconi, argille, cere e plastiche a base biologica come l’acido polilattico, secondo le informazioni raccolte da Clean Production Action. Un rapporto del 2017 compilato da Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia, elenca anche gli ingredienti del trattamento: amido, carbossimetilcellulosa, alcol polivinilico, cera, idrossietilcellulosa, copolimero stirene-butadiene, chitosano polisaccaride lineare, dimero alchilchetene e anidride alchenil succinica.

(continua)


[1] C. Hogue, What’s after PFAS for paper food packaging?, C&EN, October 3, 22

[2] Mind the Store è un programma gestito dal gruppo di ricerca e sostegno Toxic-Free Future.

Perché non si deve tornare al nucleare

Vincenzo Balzani

Questo testo è stato parzialmente pubblicato su Bo7

Verso la metà del secolo scorso l’uso dell’energia generata dalla fissione nucleare aveva fatto sorgere la speranza di fornire a tutto il mondo energia elettrica abbondante e a basso prezzo. Dopo una crescita durata una trentina d’anni, che portò alla costruzione di circa 400 centrali, verso l’inizio degli anni ’90 lo sviluppo del nucleare si è arrestato. Oggi le centrali nucleari non sono economicamente convenienti in un regime di libero mercato per cui si costruiscono solo nei paesi dove lo stato si fa direttamente carico dei costi e dei rischi dell’impresa e dove c’è un forte collegamento con il nucleare militare.

Nel recente dibattito sugli effetti del cambiamento climatico, alcune dichiarazioni del ministro Cingolani hanno fatto pensare ad un ritorno all’energia nucleare, che in Italia abbiamo rinunciato a sviluppare col referendum del giugno 2011. Secondo alcuni, il nucleare è una componente fondamentale per combattere il cambiamento climatico in quanto non genera CO2. Però, per valutare la sostenibilità ecologica, economica e sociale dell’energia nucleare non ci si può basare solo sulla quantità di CO2 emessa; è, infatti, necessario considerarne tutte le criticità, riassumibili nei seguenti punti.

1) Le centrali nucleari producono scorie radioattive pericolose per decine di migliaia di anni, la collocazione delle quali è un problema non risolto e forse irrisolvibile. 2) Il combustibile nucleare, l’uranio, è una risorsa, oltre che non rinnovabile, limitata e quindi contesa. 3) Lo smaltimento di una centrale nucleare a fine vita è un problema di difficile soluzione sia dal punto di vista tecnico che economico, tanto che lo si lascia in eredità alle prossime generazioni. 4) Un incidente nucleare grave non è delimitabile nello spazio e nel tempo e, pertanto, coinvolge direttamente o indirettamente milioni di persone; la radioattività, infatti, si propaga in modo non controllabile attraverso l’atmosfera e la catena alimentare e può compromettere l’uso di un territorio per migliaia di anni. 5) Gli incidenti di Chernobyl e Fukushima hanno dimostrato che un grave incidente nucleare può accadere anche in paesi tecnologicamente avanzati. 6) Il nucleare civile è connesso alle applicazioni militari e può essere obiettivo o fonte di attività terroristiche. 7) Il timore di incidenti o di contaminazioni con sostanze radioattive rendono difficile il reperimento di siti in cui costruire le centrali. 8) L’esperienza dimostra che la costruzione di una centrale nucleare richiede più di 20 anni e il costo finale supera di molte volte quello inizialmente previsto.

Iniziare oggi un programma di sviluppo del nucleare non potrebbe contribuire ad eliminare l’immissione di CO2 in atmosfera entro il 2050, come concordato nella conferenza di Parigi del 2015. Se si vuole rispettare questo termine, c’è un modo molto più semplice, meno costoso e per nulla pericoloso: sviluppare fotovoltaico ed eolico la cui produzione di energia elettrica aumenta da anni in modo esponenziale e che già dal 2020 ha superato quella prodotta dal nucleare.

Qualche nota in aggiunta:

  • nessuna compagnia accetta di assicurare una centrale nucleare
  • contemplando le due figure allegate viene  voglia di documentarsi anche sui problemi/costi per lo smaltimento delle centrali nucleari e sui tempi/costi per la costruzione di nuove centrali.
  • Poi c’è il problema sociale: incidenti, possibilità di attentati, collegamento col nucleare militare e, non ultimo il tasso di democrazia dei due sistemi.
  • in che senso il nucleare è sostenibile: quanto uranio c’é? Quanto costa una centrale e quanto costa l’uranio? Perché il nucleare è fuori mercato e senza fondi dello stato non si costruisce (sostenibilità economica)? Perché la gente non è contenta di avere una centrale nucleare vicino a casa (sostenibilità sociale)?

Ambientalismo scientifico e combustibili fossili. Il futuro è ora.

Giovanni Villani

“Il problema generale del rapporto dell’uomo con il suo ambiente è prima di tutto di tipo culturale. Comprendere questo intrinseco e imprescindibile rapporto, incentivare una relazione che non sia di solo sfruttamento e, al tempo stesso, riconoscere che l’attività umana non è qualcosa di estraneo, ma parte integrante dell’ambiente naturale, è un compito culturale cui la comunità dei chimici può e deve dare un essenziale contributo, partendo dalla scuola e da una corretta educazione ambientale”.

Inizio questa riflessione con questa citazione. Essa è il “cappello” del paragrafo “Il contributo della comunità scientifica chimica italiana” al documento “Posizione della Società Chimica Italiana riguardo ai cambiamenti climatici” del Giugno 2016. Tale citazione fu principalmente elaborata della Divisione di Didattica che, allora, io avevo l’onore di presiedere. Essa rappresenta, per inciso, anche una risposta a quanti pensano che parlare di “cultura chimica” in generale, significhi riflettere su “cose astratte e sostanzialmente inutili” e una dimostrazione dell’importanza di elaborare posizioni generali su temi essenziali e impattanti sulla vita delle persone.

L’idea che la Natura sia qualcosa da “sfruttare” è largamente presente nella cultura moderna e contemporanea occidentale. Sebbene sempre presente in forma latente, tale idea è stata sviluppata filosoficamente da Francesco Bacone, filosofo/scienziato inglese del XVII secolo e che, quindi, visse, non casualmente, alle soglie della prima rivoluzione industriale di quel paese e, più in generale, dell’occidente.

Che il termine “sfruttamento” sia totalmente negativo è evidente a tutti. È difficile oggi trovare un esempio in cui tale termine entri in maniera positiva. Non è un caso che la parola “sfruttamento” è stata anche associata al lavoro e alla schiavizzazione di interi popoli, “piaghe” che sono seguite, non casualmente, alla prima industrializzazione e al colonialismo.

Il termine usato da Bacone, era “dominare” la Natura, ma, credo che, se riusciamo a guardare il mondo con gli occhi di quattro secoli fa, egli intendesse dire semplicemente “influire sulla Natura”. La scelta “tecnologica” di Bacone si è rivelata corretta. L’uomo in questi quattro secoli ha contrastato efficacemente tanti problemi, come le malattie e la fame (purtroppo solo in certe parti del mondo).

A distanza di quattro secoli, però, la scienza e le tecnologie hanno reso il mondo estremamente “piccolo”. Molte sono le immagini moderne che visualizzano questa nuova condizione. L’idea di “casa”, o come ci dice Vincenzo Balzani di “navicella spaziale”, sono sicuramente immagini più consone alla situazione attuale. In questo mondo “piccolo”, i problemi si sono “ingigantiti” e abbiamo scoperto che, essendo questo il nostro unico “luogo possibile”, c’è la necessità di proteggerlo per noi e le prossime generazioni,

Il cambiamento di prospettiva richiesto da un ambientalismo non utopico, da me definito “scientifico”, non è facile. Che “la transizione ecologica rappresenti un impegno senza precedenti: per questo l’Industria chimica continua a investire sul futuro” ce lo dice anche Paolo Lamberti, Presidente Federchimica, sul frontespizio del loro sito web.

Tale impegno può essere reso attuale per i chimici? Io credo di si, e vediamolo in un caso concreto, essenziale per il futuro del nostro pianeta: la transizione energetica dai combustibili fossili.

È da tempo che Balzani, in prima fila, con tanti altri scienziati al seguito, ci dicono che dobbiamo accelerare nella transizione alla produzione di energia che faccia a meno, elimini del tutto, i combustibili fossili. Le due lettere di Vincenzo Balzani ai giornali (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2020/10/10/due-lettere-aperte-di-v-balzani/) sono solo l’ultimo esempio del suo costante impegno su questo tema. A tale posizione ne viene contrapposta un’altra, anch’essa presente in ambito chimico in senso lato, che c’è tempo per fare tale transizione, che il momento “non è ora, magari in futuro …”.

Io credo che questo sia il momento di scelte nette. La mia posizione è chiara: io sono con Vincenzo, il futuro è ora … se vogliamo avere un futuro.

Io credo che la Società Chimica Italiana, che si è dimostrata lungimirante e si è dotata da un lustro di un documento ufficiale sul cambiamento climatico, debba prendere una chiara posizione tra queste due alternative. Se vogliamo essere ambientalisti, in senso scientifico, se vogliamo costruire un rapporto positivo con tutta quell’area culturale che si impegna su queste problematiche, dobbiamo chiarire la nostra posizione.

Forse sarà utopico, e se lasciassimo decidere, democraticamente, i Soci della SCI? Gli strumenti non mancano, a partire dall’attuale fase elettorale.

Qualche riflessione su G20 e COP26.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il G20 si è concluso, Cop26 è in corso ma gli stimoli sono già tanti. A parte gli aspetti più critici rappresentati dalla perdurante crescita delle emissioni con un incremento dal 2010 al 2030 di circa il 16% con.un innalzamento previsto di 2,7 gradi della temperatura a fine secolo e dal mancato accordo sulle scadenze degli impegni futuri (2050 o 2060?) altri mi premono sul cuore, oltre che sulla mente.

Il primo riguarda-come spesso accade-la divaricazione fra dire e fare,fra impegni presi ed iniziative che poi vengono attuate. Il primo combustibile per capacità di produzione di CO2 è certamente il carbone. Eppure, mentre si combatte contro i cambiamento climatici, i colossi mondiali del carbone secondo gli ultimi dati disponibili hanno venduto oggi-ed a caro.prezzo- tutte le loro estrazioni previste nel 2022 e gran parte di quelle possibili nel 2023 e fra i Paesi che hanno comprato non si trovano solo quelli attesi in questo elenco, come Cina ed India che non hanno nessuna intenzione di abbandonare le loro miniere, ma anche Stati Uniti e Regno Unito. Addirittura ho letto che il parlamento inglese ha di recente discusso circa la possibilità di riaprire le vecchie ciminiere in disuso della miniera a carbone di Whitehaven che dovrebbe diventare uno dei serbatoi inglesi di energia del Nord Ovest. Stesso discorso in Germania dove un piccolo villaggio di minatori intorno alla miniera a carbone di Garzweiler a Luetzerah dovrebbe scomparire per allargare il campo di estrazione della vecchia miniera.

Su questo punto un elemento di consolazione deriva dal fatto che per la prima volta negli incontri internazionali è stato posto il problema del prezzo del carbone, gia presente in UE, ma non al di fuori ed e stato stabilito l’impegno a non finanziare nuovi centrali a carbone.

Un secondo elemento di riflessione deriva dal continuo ripetuto riferimento all’ innovazione tecnologica come strumento contro i cambiamenti climatici, senza verificare quanto si è fatto e quanto in più si potrebbe fare a tecnologie esistenti.

Un terzo punto riguarda il rapporto fra pubblico e privato: dinnanzi ad emergenze planetarie la collaborazione fra i due settori sembra logica,ma a parità di scelte e di interessi, parità che purtroppo è ben lungi da esserci come alcune iniziative, vedi le trivellazioni nel Mediterraneo e le scelte in favore del petrolio, anche in casa nostra ed in Europa, dimostrano.

C’è poi l’impegno in favore della messa a terreno di 1000 miliardi di nuovi alberi capaci di assorbire in un anno da 20 a 50 mila miliardi di kg di CO2 per anno,senza però alcun impegno sulla manutenzione di questi alberi e su reti di monitoraggio del suolo quando recenti ricerche hanno dimostrato che la quantità di CO2 assorbita da un albero cresce molto più che linearmente con la crescita dell’albero stesso e che fra quantità di acqua disponibile e potenziale idrico le differenze si fanno sempre più rilevanti proprio in relazione ai cambiamenti climatici.