L’allume e le scomuniche chimiche.

a cura di Giorgio Nebbia

Generalmente siamo portati a pensare che l’industrializzazione, il capitalismo e i monopoli siano fenomeni relativamente recenti, che risalgano al massimo all’inizio del 1700. Ci sono invece, soprattutto nel campo minerario, delle attività molto più antiche, ma già organizzate con criteri moderni. Una storia di questo genere riguarda la produzione dell’allume e la nascita della città di Allumiere, vicino Civitavecchia.

Allumiere – Stemma

L’allume è noto fin dall’antichità: ne parla Plinio (23-79 d.C.) nella sua grande enciclopedia merceologica intitolata “Storia naturale” (che ha avuto finalmente una buona edizione italiana, pubblicata da Einaudi). L’allume è stato ed è una sostanza chimica molto importante: impiegato per fissare i colori sulle fibre tessili, per la concia delle pelli, in medicina, per rendere resistenti al fuoco i tessuti e il legno e, adesso, nella produzione della carta e nella depurazione delle acque.

L’allume, il solfato di alluminio e potassio con 12 molecole di acqua di cristallizzazione; si presenta in bei cristalli bianchi e trasparenti, solubili in acqua (KAl(SO4)2 · 12H2O) (Nota del blogmaster: a seconda dei metodi produttivi ci possono essere significative impurezze di ione ammonio). Qualche lettore ricorderà forse di averne visto dei pezzi in casa, usati per fermare il sangue, e chiamati “allume di rocca”, forse dal nome di una città dell’Asia Minore. A causa della sua solubilità in acqua in genere l’allume non si trova in natura, ma viene prodotto artificialmente per trasformazione di minerali di alluminio meno solubili, come la alunite, un solfato basico di alluminio e potassio, ((K2SO4.Al2(SO4)3.2Al2(OH)6)) o per trattamento con acido solforico dell’allumina con successive trasformazioni.

Nel Medioevo l’allume era prodotto principalmente in Asia Minore dove si trovano grandi giacimenti di alunite; le imprese operavano con capitali e tecniche per lo più genovesi o veneziani e alcuni imprenditori industriali e finanziari avevano accumulate grandi fortune con questa materia prima essenziale, un vero materiale strategico.

Con la conquista dell’Asia Minore da parte dei Turchi di Maometto II, nella metà del 1400, le zone minerarie caddero nelle mani degli “infedeli”, creando difficoltà di approvvigionamento dell’allume alle industrie europee. Un certo Giovanni da Castro, costretto ad abbandonare la sua industria dell’allume in Asia Minore, girando per i monti della Tolfa, paese d’origine della madre, a nord ovest di Roma, nello stato pontificio, osservò nel terreno formazioni minerarie simili a quelle da cui veniva estratto l’allume in Turchia: anche le piante e i fiori erano simili. E’ questo uno dei primi esempi di applicazione della geobotanica, la scienza che consente di riconoscere i minerali sotterranei dai caratteri e dalla composizione delle piante esistenti in superficie.

De Castro prelevò il minerale, lo fece analizzare, condusse delle prove di estrazione dell’allume e vide che effettivamente, per trattamento del minerale, si poteva ottenere allume di buona qualità. Da Castro propose al Papa di impiantare un’industria in concorrenza con i Turchi: Pio II (quell’Enea Silvio Piccolomini, 1405-1464, che fu papa dal 1458 al 1464) capì subito l’importanza dell’impresa e gli affidò il monopolio della produzione e del commercio, riservandosi un’imposta sull’allume prodotto.

Nel 1463, appena dieci anni dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi, l’allume “cristiano” era già prodotto industrialmente a Tolfa con l’impiego di alcune centinaia di operai. Il ciclo produttivo consisteva nell’escavazione dell’alunite e nel riscaldamento ad alta temperatura, in adatti forni. Il minerale “cotto” veniva poi trattato con acqua: il materiale inerte veniva separato e la soluzione acquosa veniva scaldata e concentrata fino a quando non cominciavano a separarsi i cristalli di allume.

Il papa Paolo II (1417-1471, papa dal 1464 al 1471) nell’aprile 1465 promulgò un anatema che imponeva ai cristiani di tutta Europa, pena la scomunica, di usare soltanto l’allume papale. La scusa era costituita dal fatto che i proventi delle imposte sull’allume erano destinati a finanziare una grande crociata contro i Turchi. Con questa imposta sulle esportazioni di una materia prima ottenuta in condizioni di monopolio i papi si procuravano soldi più o meno con la stessa logica con cui operano i paesi esportatori di petrolio.

L’unico concorrente importante era il regno di Napoli che produceva allume recuperando i cristalli esistenti nella solfatara di Pozzuoli; nel 1470 il papa Paolo II e Ferdinando II di Napoli firmarono un accordo per regolare la produzione e la vendita dell’allume per 25 anni, una vera multinazionale monopolistica. Più tardi i papi ottennero la chiusura delle miniera di Pozzuoli per operare a Tolfa in condizioni di monopolio assoluto.

Ben presto, però, anche come ribellione ai papi di Roma, i paesi industriali del Nord, soprattutto l’Inghilterra e i Paesi Bassi, consumatori di allume, cercarono delle fonti alternative (anche con accordi con l’odiato “turco”) e si misero a produrre allume in concorrenza con quello papale. L’affare era considerato così importante che il “peccato” consistente nell’uso di allume diverso da quello dei papi era escluso da quelli condonabili a pagamento, previsti dall’indulgenza del 1517 di Leone X (Giovanni de’ Medici, 1475-1521, papa dal 1513 al 1521). Per inciso fu proprio questo documento papale che spinse l’indignato Martin Lutero (1483-1546) ad appendere, il 31 ottobre dello stesso anno, alle porte della chiesa di Wittenberg, le 95 tesi sulle indulgenze, da cui nacque la Riforma protestante.

Alla famiglia Da Castro erano intanto succeduti, nella conduzione delle miniere e nella riscossione delle imposte per conto del papa, i Chigi che già avevano l’appalto delle tasse dello stato pontificio. Nel 1517 Leone X concesse ad Agostino Chigi lo sfruttamento delle coltivazioni, il che suscitò gravi contrasti con i Frangipane di Tolfa. Agostino Chigi riorganizzò la produzione dell’allume con criteri industriali più moderni; grazie a compiacenti leggi, a Tolfa furono attratti operai e tecnici ai quali venivano condonati i reati commessi e ben presto la popolazione della cittadina aumentò. Per evitare le continue liti fra gli operai immigrati e gli abitanti di Tolfa, i Chigi costruirono, a pochi chilometri di distanza, una “new town”, una città operaia in senso moderno, l’attuale Allumiere, indicata anche come “Allumiere delle sante crociate”. Ed effettivamente i proventi di questo monopolio finanziarono almeno in parte l’ultima crociata, organizzata da Pio V Ghisleri (1504-1572, papa dal 1566 al 1572), che, con la battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, ridimensionò la presenza dei Turchi nel Mediterraneo.

La città comprendeva abitazioni e officine ed era dominata dal “palazzo camerale” il bell’edificio cinquecentesco ancora al centro dell’attuale Allumiere, dove avevano sede i magazzini, gli uffici delle imposte e le abitazioni dei dirigenti. I concessionari dell’allume potenziarono il porto di Civitavecchia, ma non perdevano occasione per frodare il papa, dirottando l’allume verso altri porti d’imbarco in cui si potevano evadere le imposte. Le tecniche di estrazione del minerale e di produzione dell’allume furono perfezionate a razionalizzate. L’acqua dei torrenti fu canalizzata e utilizzata per il trattamento del minerale: fu costruita una diga che consentiva di azionare un mulino. E’ ancora possibile riconoscere nel territorio, e in parte anche visitare, le miniere, i forni., e le “vasche” di lisciviazione dell’allume.

Si ebbero anche dei fenomeni di inquinamento ambientale, scoperti di recente da alcuni ricercatori che studiavano la zona per conto della Provincia di Roma; i residui della “cottura” dell’allume venivano scaricati sul greto di un torrente che così diventò impermeabile e si trasformò in una palude che solo più tardi e’ stata prosciugata e bonificata.

La fortuna di Allumiere raggiunse il suo massimo nel Cinquecento; a partire dal 1600 i principali paesi consumatori di allume trovarono altre fonti di approvvigionamento e la produzione di Allumiere diminuì di importanza; questa produzione comunque era descritta ancora nei trattati minerari del 1700. Le miniere passarono poi alla Camera Apostolica, poi ad una società francese e quindi alla Montecatini e furono abbandonate prima della II guerra mondiale.

Per finire vorrei citare quattro “libri sommersi”, molto interessanti, ma purtroppo difficilmente reperibili. Il primo è una storia dell’impresa di De Castro e dei suoi finanziatori portoghesi, anche in questo caso una vera multinazionale, ed è stato scritto da Gino Barbieri (1913-1990), per molti anni professore di Storia economica nelle Università di Bari e di Verona. Il libro è intitolato “Industria e politica mineraria nello stato pontificio dal ‘400 al ‘600”, Roma, Cremonese Libraio Editore, 1940, 278 pagine.

Il secondo libro, con molti capitoli dedicati proprio ad Allumiere, è stato commissionato da una ditta inglese di prodotti chimici, Peter Spence & Sons Ltd., al noto storico della tecnica Charles Singer per celebrare, con una monografia sulla storia della loro principale merce, appunto l’allume, il centenario della fondazione. Il libro, un bel volume ricco di illustrazioni, è intitolato: ”The earliest chemical industry. An essay in the historical relations of economics and technology as illustrated from the alum trade”, London, The Folio Society, 1948, 338 pagine.

Il terzo libro sommerso, intitolato: “Le lumiere”, si deve a Riccardo Rinaldi, uno studioso di Allumiere che lo ha stampato a sue spese, nel 1978, come atto di amore per la propria terra.

Infine molte utili notizie su Allumiere e sul suo ruolo nell’industria nascente sono contenute in un quarto libro sommerso: Mario Di Carlo (1954-2011) e altri (a cura di), ”La società dell’allume. Cultura materiale, economia e territorio in un piccolo borgo”, Roma, Officina edizioni, 1984, 111 pagine, con molte illustrazioni. Il bel libro, ricco di notizie storiche e tecniche, fu pubblicato per conto dell’Assessorato alla sanità e all’ambiente della Provincia di Roma. Dove saranno finite le copie di questo libro ?

per saperne di più: http://it.wikipedia.org/wiki/Allume_di_potassio

http://en.wikipedia.org/wiki/Alum

http://digilander.libero.it/archeoind/alunite.htm

http://www.wovepaper.co.uk/alumessay1.html

Arte e Scienza – 2

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

Ogni epoca è stata caratterizzata da una visione del mondo e ha creato rappresentazioni, ha trovato immagini, ha formulato teorie che esprimessero questa visione. Nella società post-industriale, l’epoca in cui viviamo, c’è una caratteristica certamente non appariscente, né unanimemente riconosciuta, forse più una nota di fondo, ma ricorrente e ben identificabile: è il progressivo prevalere della cultura sulla struttura, è il riconoscere alla dimensione creativa delle attività umane il ruolo di guida e di orientamento.
Fra cultura e struttura, arte e scienza, c’è un’intensa attività diplomatica, frenata però dal timore di una perdita di contorni e di identità, dall’idea che tonalità di colori più accesi e brillanti facciano sparire un disegno sedimentato e tramandato nel tempo.
A volte vengono sostenute tesi che non uniscono ma separano quando, a ben guardare, è invece una sola cosa e invece di abbatterli creano confini e zone franche. E’ quando, ad esempio, in omaggio al mondo dell’arte, vediamo enfatizzato il ruolo dell’immagine nei riguardi della conoscenza, mentre già Shakespeare ci aveva detto che sono una sola cosa. Si sono riempiti volumi sulle affinità, diversità, ricomposizione delle due culture, Arte e Scienza, eppure basterebbe guardare, invece che ai domini già acquisiti a quanto ci troviamo davanti, alla ricerca da fare e che, ormai, la storia stessa ci impone.
Sappiamo infatti come si producono i beni materiali e perciò possiamo riprodurli, ma conosciamo assai meno su come si producono le idee, i simboli, le informazioni. Sono misteriosi i percorsi dell’invenzione teorica, della scoperta scientifica, della creazione artistica. Non è conosciuta questa regione della natura umana che produce cultura. Ne godiamo la bellezza sfuggente, ma non sappiamo da dove viene, non è ancora diventata cultura. Artisti e scienziati ci parlano da una zona di confine, dalla quale arriva il dono dell’intuizione che compone i frammenti di un mosaico accumulati in una lunga Ricerca.

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Newton-WilliamBlake – monotipo – 1795

L’unità della cultura

La tradizionale articolazione della cultura in umanistica e scientifica, è una articolazione che per molti motivi non ha ragione di essere e che soltanto in tempi recenti si sta cercando di superare, anche se ci sono ancora forze contrarie, resistenze nate da una visione corporativa della cultura da parte di specifici settori, che ritengono certi temi di propria esclusiva pertinenza. Purtroppo è una posizione che deriva da una visione sbagliata, ma soprattutto da una politica di potere delle scuole accademiche, che certamente non ha concorso e non concorre a uno sviluppo reale della cultura e della scienza. Segnali di un cambio verso la unitarietà della cultura ce se sono; fra questi la sua visione e concezione di bene culturale; prima era sostanzialmente il reperto umanistico; oggi anche lo strumento scientifico; è la ricomposizione culturale. E non solo culturale; la bellezza estetica degli strumenti ne valorizza la ricollocazione all’interno di un ambiente, di un’ atmosfera similmente a quanto avviene per le opere d’arte.

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uomo vitruviano – Leonardo da Vinci – disegno a matita 1490

Un’altra ricomposizione culturale, con la rivalutazione della storia della scienza e degli archivi storici, riguarda il rapporto fra teoria ed esperienza: anche a questo la valorizzazione della Strumentazione e della sua storia ha dato un notevole contributo. L’approfondimento delle interazioni tra teoria e ricerca sperimentale e del contributo della sperimentazione alla definizione delle teorie ha segnato questi momenti come integrati fra loro e con la cultura in genere.

La storia della strumentazione con le sue linee evolutive, a partire dalla introduzione degli strumenti classici, fa capire in che direzione ci si muove.
Come l’artista si esprime attraverso una sua creazione così lo scienziato attraverso l’ideazione di uno strumento idoneo a verificare una propria ipotesi traccia in esso le linee del proprio pensiero e le confronta con gli altri. Questo confronto che storicamente era ritenuto proprio delle scuole artistiche ora comincia ad essere considerato con sempre maggiore attenzione anche a livello delle scuole scientifiche, capaci di esprimersi  non soltanto attraverso le esperienze e prove sperimentali di ieri.

Ad esempio durante la prima metà del secolo XIX la chimica si sviluppò sostanzialmente come termochimica: la scienza che studia gli effetti del calore e della combustione sulle sostanze chimiche. Non sorprende allora che molte delle apparecchiature di quell’epoca servissero per bruciare e studiare i prodotti della combustione delle sostanze chimiche.

Lo sviluppo della fisica ha fornito ininterrottamente nuovi strumenti di indagine per la chimica. Lo spettroscopio è uno degli esempi più noti. Esso, tramite lo studio degli spettri di emissione di fiamma, ha consentito ai chimici analisi elementari più spedite già negli ultimi decenni del secolo XIX. Con esso entrava fra gli strumenti di lavoro di un laboratorio chimico, anche la lastra fotografica.

Fino a tempi molto recenti il funzionamento degli strumenti ottici era basata sulle leggi dell’ottica geometrica. Gli enormi progressi dell’informatica hanno consentito la costruzione di strumenti che lavorano in base alle leggi dell’ottica ondulatoria (in trasformata di Fourier). Questo consente ai chimici di eseguire il loro lavoro usando quantità infinitesime delle sostanze da studiare. Anche i tempi di analisi sono di conseguenza molto ridotti. Si potrà obiettare che gli apparecchi scientifici sono anche comuni prodotti commerciali fabbricati in serie attraverso catene di montaggio nelle quali si fatica davvero a ravvisare alcunché di artistico. Questo è vero: ma quanti volti di donna sono stati raffigurati nei quadri per una sola Gioconda e quanti archi nelle città storiche a fronte di un solo arco di Costantino. Il capolavoro si differenzia proprio per il contributo ad esso da parte del suo artefice: né più né meno di quanto accade ad un ricercatore che vuole programmare una difficile esperienza scientifica e per essa costruisce o adotta la corrispondente necessaria apparecchiatura strumentale.

spettroscopio

Spettroscopio a prisma di Bunsen – 55 x 35 x 26 cm – 1861 / 1862 – http://astro.liceofoscarini.it/calfoto

Noi che godiamo di così tanti agi e comodità per il nostro lavoro scientifico, se ci rivolgiamo indietro non possiamo non rimanere ammirati di quanti, hanno gettato basi e costruito in parte questo edificio così complesso che è la scienza, disponendo soltanto di pochi strumenti molto rudimentali e su questi costruendo, con la sensibilità e la vocazione degli artisti.

Riutilizzo di scarti agro-industriali per la pacciamatura agricola

a cura di Mario Malinconico*

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Alghe brune

Negli ultimi anni l’orticoltura, la floricoltura e la frutticoltura mondiali mostrano un aumento considerevole nel consumo di plastica di derivazione petrolifera. In genere l’uso principale è per pacciamatura. La pacciamatura è un’operazione attuata da sempre in agricoltura e giardinaggio che si effettua ricoprendo il terreno con uno strato di paglia, di foglie secche, con ghiaia o altro materiale, al fine di impedire la crescita delle malerbe, mantenere l’umidità nel suolo, proteggere il terreno dall’erosione, evitare la formazione della cosiddetta crosta superficiale, diminuire il compattamento, mantenere la struttura e innalzare la temperatura del suolo. L’avvento dei film plastici, dalle eccellenti prestazioni meccaniche, termo-ottiche ed agronomiche, resistenza alla degradazione microbica, facilità di processabilità e basso costo ha incoraggiato la loro grande diffusione nelle pratiche agricole. D’altra parte l’enorme quantità di plastica da post utilizzo (1.000.000 di tonnellate per la pacciamatura a livello mondiale, circa 100.000 tonnellate in Italia) sta ponendo grossi problemi ambientali dovuti alla loro raccolta e la distruzione od il riciclo. Di conseguenza, il destino di questi film è quello di essere abbandonati a bordo campo o, peggio, essere bruciati in maniera incontrollata con conseguente immissione di sostanze tossiche nell’aria o nel terreno.

Una possibile alternativa al problema dell’inquinamento da plastiche in agricoltura è rappresentato dall’impiego di plastiche biodegradabili. Al termine del loro uso, i film vengono interrati e la flora batterica del terreno li trasforma in metano o anidride carbonica, acqua e biomassa. Negli ultimi anni è stato messo a punto dalla Novamont, anche in collaborazione con l’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri del CNR (ICTP), un nuovo tipo di film per uso agricolo a base di amido. Questo film

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Alginato di Sodio

ha mostrato di essere una buona alternativa alle plastiche normalmente utilizzate, con prestazioni meccaniche ed agronomiche comparabili con quelle del polietilene normalmente in uso, ma i suoi costi sono ancora molto al di sopra di quelle delle plastiche tradizionali (circa 3 volte).

Dal 2004 al 2007 l’ICTP, con il Dr. Mario Malinconico come Responsabile della ricerca,  è stato coordinatore di un progetto di ricerca LIFE Environment finanziato dalla EU dal titolo: “Biodegradable Coverages for Sustainable Agriculture- BIOCOAGRI”. Il progetto prevedeva di coprire il suolo da coltivare con una geo-membrana protettiva ottenuta spruzzando sul suolo agricolo una soluzione acquosa di polimeri naturali e fibre vegetali da scarti agro-industriali. I vantaggi di questa tecnica sono vari: nella soluzione acquosa è possibile includere sistemi per il rilascio controllato di fitofarmaci, fertilizzanti, filler e coloranti per esaltarne il potere paciamante. La durata del film pacciamante può essere modulata in funzione della coltivazione, e può essere usato in pieno campo o sotto serra. A fine coltivazione, i residui del film vengono direttamente macinati nel terreno trasformandosi in un ammendante completamente biodegradabile.

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Meccanismo di reticolazione dell’alginato di sodio in presenza di ioni calcio catturati da suolo agricolo

Nel corso del progetto sono stati testati polisaccaridi da fonti rinnovabili, quali chitosani, alginati, gomma di guar, locust bean. Quali fibre vegetali, si sono impiegate scarti della lavorazione del pomodoro, polvere di alghe, carta da macero, scarti di fibre di canapa, di paglia, di cotone, materiali quindi a bassissimo costo, che rendono il prodotto (e il processo di ottenimento) competitivo sul mercato rispetto ai film pre-formati. Al momento attuale, un brevetto mondiale e’ stato depositato e test su larga scala sono in corso in Italia, Olanda, Spagna, Canada e Cina.

polimero spray su suolo agricolo

applicazione film spray

fig5malinconico

Coltivazione di pomodoro su film spray

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*Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri, CNR Pozzuoli

Scarascia-Mugnozza G; Schettini E; Vox G (2004). Effects of solar radiation on the radiometric properties of biodegradable films for agricultural applications. Biosystems Engineering, 87 (4), 479-487

Scarascia-Mugnozza G; Schettini E; Vox G; Malinconico M; Immirzi B; Pagliara S (2006). Mechanical properties decay and morphological behaviour of biodegradable films for agricultural mulching in real scale experiment. Polymer Degradation and Stability, 91 (11), 2801-2808

Russo, R., Malinconico, M., & Santagata, G. (2007). Effect of cross-linking with calcium ions on the physical properties of alginate films. Biomacromolecules, 8, 3193–3197.

R. Russo, M. Abbate, M. Malinconico, G. Santagata. (2010). Effect of polyglycerol and the crosslinking on the physical properties of a blend alginate-hydroxyethylcellulose. Carbohydrate Polymers 82 (2010) 1061–1067

Job and salaries dei chimici statunitensi neolaureati: un altro mondo?

a cura di AnnaMaria Raspolli

American_Job

da “American Job” un film di Chris Smith (https://en.wikipedia.org/wiki/American_Job)

E‘ stata recentemente pubblicata su C&EN dell’aprile 2013 (http://cen.acs.org/articles/91/i16/New-Graduate-Salaries.html) il risultato dell’indagine occupazionale svolta dall’ACS sui chimici neolaureati nel 2012  (distinti per i tre livelli: bachelor, master e Ph.D.).  Questo articolo offre quindi un quadro attualissimo e molto particolareggiato della situazione del mercato del lavoro nel settore chimico negli Stati Uniti, fornendo un’ informazione dettagliata sull’età dei neolaureati, sul  tipo di  rapporto di lavoro (tempo indeterminato o determinato, part-time o full-time), sui settori occupazionali, sugli stipendi dei chimici ed anche (per confronto) degli ingegneri chimici.

 Al questionario hanno risposto  oltre 2000 neolaureati, per metà donne,  e di questi circa il 12 % era ancora alla ricerca di un impiego.  Il valore mediano dell’età degli intervistati era di 22 anni per il primo livello, 26 per il master e 30 per i possessori di Ph.D..  Per tutti i tipi di laureati il modo di gran lunga più efficiente di trovare lavoro era risultato la ricerca in internet sulle diverse piattaforme di job-placement, sui siti delle aziende o delle università. Il numero di chimici disoccupati negli USA è in diminuzione rispetto agli anni precedenti ed in generale il 2012 ha segnato una evidente ripresa del settore.

salaries(immagine tratta dall’articolo citato http://cen.acs.org/articles/91/i16/New-Graduate-Salaries.html)

Il quadro della situazione occupazionale offre interessanti spunti di riflessione: per il primo impiego il rapporto di lavoro a tempo determinato è marginale rispetto al prevalente tempo indeterminato, che generalmente prevede un impegno full-time. Il lavoro part-time risulta avere un’incidenza marginale.

La differenza ancora più marcata rispetto alla situazione italiana è però rappresentata dal livello dei salari, che sono espressi ovviamente in dollari. Anche tenendo conto del rapporto euro/dollaro ≈ 1,3, e che si tratta di salari lordi, il divario tra la situazione statunitense e quella italiana è notevole. I salari mediani di ingresso nel mondo del lavoro per neolaureati privi di esperienza è circa 40.000 dollari per i laureati con il bachelor, 48.000 per i laureati con master e 80.000 dollari per chi ha conseguito il Ph.D.! In altre parole, il mondo del lavoro statunitense differenzia notevolemente il salario in ingresso dei dottori di ricerca, che è doppio rispetto a quello dei laureati di primo livello. Inutile dire che in generale il livello dei salari in ingresso statunitensi è significativamente superiore a quello dei salari italiani (non solo in ingresso…).

Quando invece si paragonano gli stipendi dei chimici americani con quello degli ingegneri chimici si riscontrano per tutti i livelli di laurea stipendi più elevati per gli ingegneri, ed i valori mediani dei salari 2012 risultano 65.000, 75.000  e 93.000 dollari rispettivamente per i tre livelli di laurea.

Purtroppo l’indagine si conclude con una dolente nota: negli USA gli stipendi dei laureati maschi è sempre più elevato di quello delle colleghe, qualunque sia il lavoro full-time svolto, dalla ricerca al controllo qualità, all’attività di consulenza professionale. Ad esempio, nel caso dei laureati con Ph.D. il salario mediano è 81.000 dollari per gli uomini e 74.000 per le donne ( – 9 %).

Vale la pena ricordare che, senza scendere nel dettaglio del settore occupazionale, il divario retributivo di genere, cioè la differenza media tra la retribuzione oraria di uomini e donne nell’UE, è ancora del 16,2%. In Italia il divario è meno accentuato: la differenza salariale è infatti del 5,3% (http://ec.europa.eu/italia/attualita/primo_piano/giustizia_liberta/parita_retributiva_it.htm). Questo buon risultato italiano, però, è solo apparente in quanto  il divario di retribuzione non è un indicatore assoluto della parità totale tra donne e uomini perché riguarda solo i lavoratori dipendenti e deve essere esaminato tenendo conto dei dati relativi al mercato del lavoro. Ad esempio dove il tasso di occupazione femminile è basso, come in Italia (49,5% contro il 62,1% di media europea), il divario di retribuzione è inferiore alla media.

Per concludere, le dinamiche del mercato del lavoro italiana e statunitense sono evidentemente molto diverse: negli USA si privilegia l’assunzione a tempo indeterminato full-time, con salari di ingresso sempre superiori a quelli italiani e si premia economicamente, in particolare, il possesso del dottorato. Purtroppo l’unico punto in comune tra i due paesi è la costante posizione di inferiorità salariale della componente femminile: non è una gran soddisfazione…

Un commento all’assemblea di Federchimica.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

squinziSiamo chimici, ma anche cittadini oppure al contrario siamo cittadini ma anche chimici. Questo ci obbliga a guardare con attenzione quanto avviene intorno a noi con riferimenti soprattutto alla nostra specificità. Si è svolta il 24 giugno u.s. l’annuale assemblea di Federchimica alla quale ha partecipato il Presidente di Confindustria, già Presidente di Federchimica, Squinzi.  Nel suo intervento ha messo in guardia il governo da passi falsi ed ha sottolineato che “se si può evitare l’entrata in vigore da subito dell’aumento dell’Iva è un fatto positivo, ma le priorità sono altre e cioè i pagamenti della pa; ci sono oltre 100 miliardi di debiti arretrati non pagati e che devono essere rimborsati alle imprese che stanno soffrendo disperatamente il credit crunch”. Il numero uno degli industriali italiani ha indicato poi un’altra priorità: “un intervento vero, serio, sul costo del lavoro, abbassandolo di almeno dieci punti”. Squinzi ha anche criticato il mondo politico perché “invece di rispondere al disagio sociale ed economico con uno scatto di orgoglio e rinnovamento si è perso in tatticismi, sprecando tempo ed energie preziosi”.

Squinzi non esclude che nella seconda parte dell’anno possa esserci un rimbalzo dell’economia ma questo “non vuol dire che siamo fuori dalla crisi e che siamo veramente ripartiti con la crescita”. Ha poi ricordato che lo scorso anno il Pil è sceso del 2,4% e quest’anno sembra avviato verso un ulteriore -1,8%. Quanto al miliardo di fondi europei per rilanciare l’occupazione “è un inizio ma non è sufficiente, in ogni caso il riassorbimento della disoccupazione giovanile non sarà una cosa immediata e non è con un incentivo che la cosa cambierà”. Infine, quello che più ci riguarda come chimici,  ha sottolineato l’importanza della chimica come “il turbo del made in Italy”: per questo, ha sottolineato, “si deve guardare alla chimica non come a un problema, ma come a una possibile soluzione per i problemi di competitività del nostro Paese”. Le imprese di questo settore, ha ricordato infatti, uniscono peculiarità che pochi altri comparti possono mostrare: dall’innovazione alla ricerca per nuovi materiali e nuove applicazioni. Il Presidente di Confindustria ha fatto riferimento anche alle regole sulla contrattazione che “nei prossimi mesi dovremo verificare”, perché, spiega, “siamo convinti che il contratto collettivo, in una realtà industriale caratterizzata da pmi continua ad avere un ruolo fondamentale”.

Da questi interventi emerge un carattere nuovo del termine sostenibilità e cioè quello economico a volte citato ma riferito quasi sempre alle disponibilità di risorse necessarie per portare avanti un progetto di sviluppo.

Al di là delle “nuove povertà nazionali” oggi almeno 1,8 miliardi di persone appartengono ormai alla classe media, cui si aggiungeranno entro il 2018 altri 193 milioni di individui con un reddito superiore ai 30.000 dollari l’anno. Mai, nel corso della storia, tante persone sono uscite dalla povertà tanto rapidamente.

Ma quantcampanellao dovrebbe ancora crescere la produzione per continuare a sopportare questi ritmi di sviluppo? E quanto sarà sostenibile questa crescita? Sarà, cioè, in grado di lasciare alle prossime generazioni ambienti naturali sufficientemente integri, oltre alle risorse di cui avranno bisogno? E ciò potrà avvenire in modo anche socialmente accettabile, che garantisca sicurezza, emancipazione sociale e sviluppo culturale equamente distribuiti?

Lo sviluppo della società umana deve essere affrontato in modo sostenibile, ovvero favorendo la crescita economica ma al tempo stesso conservando le risorse naturali, risolvendo il problema dell’energia e dei cambiamenti climatici e assicurando benessere, sicurezza e salute anche a chi non li ha.

Queste tre dimensioni – economca, ambientale e sociale – della sostenibilità vanno infatti di pari passo. Molti però pensano che non sia possibile e in particolare che la crescita economica richieda comunque un consumo eccessivo di risorse e un impatto inaccettabile sull’ambiente.

La chimica può dare un contributo determinante per vincere questa sfida decisiva per il nostro futuro. Come scienza e poi come industria, la chimica diventa essenziale ogni volta che usiamo o trasformiamo la materia, in qualsiasi ambito o settore produttivo è dunque un’interfaccia chiave in ogni nostro rapporto con il mondo materiale, quindi con l’ambiente. Sta a noi, naturalmente, utilizzarla bene, e sapere trovare le risposte che essa mette a disposizione per le nostre domande.

C’è in effetti anche un’altra faccia della medaglia che si riferisce a quanto l’avanzamento della sostenibilità ambientale sia compatibile con la sopravvivenza di piccole industrie se non si interviene da parte dello Stato con infrastrutture adeguate, ridotta burocrazia e costi energetici contenuti. Il caso del regolamento REACH, citato da Squinzi, è emblematico.

A proposito di interventi dello Stato un altro tema di attualità riguarda la temuta privatizzazione dell’acqua, oggetto anche di un referendum.

In Europa è in discussione una Proposta di Direttiva sull’aggiudicazione dei “contratti di concessione”, che riguarda, tra l’altro, i contratti a titolo oneroso stipulati tra uno o più operatori economici e le “amministrazioni aggiudicatrici”, in primis, lo Stato e gli enti pubblici territoriali, aventi oggetto la prestazione di servizi pubblici essenziali.

Nella bozza della direttiva si legge che non vi è l’intenzione di incidere sulla libertà degli Stati membri di decidere fra fornitura diretta ed esternalizzazione. Tuttavia, l’obbiettivo della proposta e gli interessi che essa intende tutelare, sono chiari nel momento in cui si afferma che l’aggiudicazione delle concessioni di servizi con interesse transfrontaliero, pur soggetta al principio generale della libertà di circolazione delle merci, è aflitta da mancanza di certezza giuridica e ciò causa ostacoli per le imprese nell’accesso al mercato e perdita di occasioni commerciali per gli operatori economici. Ciò che conta, dunque, è il mercato e poter regolare ogni aspetto della vita tramite le sue regole. Concorrenza e mercato poco hanno a che fare, però, con solidarietà, accesso universale, equità, diritto alla vita, alla salute e alla dignità umana che dovrebbero regolare la fornitura di una risorsa essenziale come l’acqua. E’ chiaro che, in periodo di crisi del debito, fiscal compact e tagli agli enti locali, questi ultimi tendano a disfarsi della gestione dei servizi essenziali, come l’acqua. L’iniziativa dei cittadini europei (ICE) per l’acqua diritto umano in pochi mesi ha superato il milione e mezzo di firme ed è riuscita già a mettere in imbarazzo la Commissione Europea. Si tratta di uno strumento introdotto dal Trattato di Lisbona ed entrato in vigore ad aprile del 2012, attraverso il quale i cittadini possono proporre alla Commissione europea un’iniziativa legislativa che sia supportata da un milione di firme in almeno sette Stati membri. Il Commissario Europeo al Mercato Interno, Michele Barnier, ha dovuto prendere atto della grande mobilitazione sul tema dichiarando che il servizio idrico verrà stralciato dalla direttiva concessioni che è un provvedimento che rischia di accelerare ulteriormente le privatizzazioni dei servizi pubblici. Egli ha infatti firmato una dichiarazione sull’esclusione dell’acqua dalla direttiva sulle concessioni: negando che la Commissione abbia intenzione di forzare o incoraggiare le privatizzazioni, che rimangono eventualmente una scelta dello Stato membro, egli ribadisce che unico scopo della direttiva è appunto quello di stabilire un libero mercato di servizi.

Nella dichiarazione si fa esplicito riferimento alla prima Iniziativa dei cittadini europei (ICE) per affermare l’acqua quale diritto umano in tutti i Paesi membri.

Pur citando questa iniziativa e richiamando il milione e mezzo di firme raccolte in Europa, il commissario Michel Barnier afferma che, nonostante le numerose modifiche apportate al testo della direttiva sulle concessioni, questa, rispetto al settore idrico, non soddisfa nessuno: né ICE che dimostra l’attenzione dei cittadini rispetto al tema, dall’altro, né gli Stati in quanto la Direttiva concessioni sarebbe artefice di “frammentazioni nel singolo mercato”. Il punto è che se i cittadini firmano per l’acqua quale diritto umano, firmano implicitamente per l’acqua fuori commercio, bene vitale e non economico.

Il paradosso della percezione della Chimica

Dall’inserto speciale “La chimica: una scienza naturale per uno sviluppo sostenibile” a cura di Caterina Vittori, Franco Rosso ed Annarita Ruberto, pubblicato sulla rivista Scuola e Didattica (n. 8, 1 dicembre 2011, anno LVII, Editrice La Scuola).

a cura di Franco Rosso – Associazione Culturale Chimicare – http://www.chimicare.org

La chimica è una scienza naturale, non un’invenzione dell’uomo.
In quanto disciplina che studia la composizione della materia, sia dal punto di vista statico, ovvero descrittivo, che dinamico, ovvero delle trasformazioni, la chimica rappresenta subito dopo la fisica lo strumento scientifico e, più in generale, culturale con il quale approcciare in modo sistematico e coerente la comprensione della realtà tangibile che ci circonda. Gli oggetti ed i fenomeni, che la chimica è in grado di descrivere, prevedere e quantificare, non soltanto esistono dall’alba dei tempi, ma costituiscono le basi stesse di tutte quelle discipline che sono solitamente comprese sotto la denominazione di scienze naturali: la biologia e la geologia in primis.
Direttamente o indirettamente, la chimica quindi condiziona, o nel più dei casi determina, le caratteristiche del mondo materiale nel quale viviamo, rendendolo così come siamo abituati a conoscerlo e creando i presupposti stessi per il mantenimento della vita.

Il grande paradosso della chimica risiede nella discrepanza fra quanto essa sia effettivamente presente e fondamentale nella nostra esistenza, fino a costituire le basi stesse della realtà tangibile che ci circonda, e quanto poco la stessa chimica venga invece percepita dal sentire comune.
Nel migliore dei casi, infatti, della chimica non si avverte la presenza prima ancora del ruolo, non vengono riconosciuti o ricondotti ad essa qualità e fenomeni del mondo che ci circonda. Nel peggiore, essa viene travisata su di un piano epistemologico, tanto da portare all’identificazione dell’intero corpus  fenomenologico naturale di tipo chimico, e della stessa scienza che lo interpreta razionalmente, con un campionario più o meno ristretto di applicazioni antropiche finalizzate alla realizzazione di prodotti o manufatti più o meno utili per la nostra esistenza. Se con la figura retorica della sineddoche si arriva spesso ad identificare il tutto, o meglio l’intero, con la sua parte, in questo caso si è ancora oltre, dal momento che quello che si rischia è di confondere una scienza con un insieme di sue applicazioni tecnologiche ben lungi dal riassumerla in senso rappresentativo.
A completare il preoccupante quadro relativo alla percezione della chimica da parte di coloro che non possono avvantaggiarsi di una cultura scientifica di base viene, poi, l’analisi dei significati associati alla parola chimica ed in modo particolare all’aggettivo da essa derivato, ovvero chimico.
L’esame del campo semantico che circonda questo termine descrive una graduale deriva, iniziata a partire dalla fine degli anni ’60 in corrispondenza di eventi di cronaca e della conseguente e successiva diffusione di una coscienza ecologista o meglio ancora naturalista, che trova il suo equivalente nel destino al quale sono andati incontro dapprima il termine igienico, successivamente ecologico e solo nell’ultimo decennio biologico. Si tratta in tutti i casi di aggettivi che, discostandosi dal significato letterale e neutrale di “relativo alla scienza dell’igiene, dell’ecologia o della biologia”, fanno riferimento implicito ad una disciplina etica ampiamente condivisa dall’opinione pubblica.
È così che il termine chimico si trova oggi, suo malgrado, a dover sostenere una illogica contrapposizione con qualità quali naturale o biologico, costretto ad identificarsi a forza solo nella sua espressione legata alla sintesi chimica industriale o di laboratorio e tradendo pertanto la connotazione stessa di scienza della natura e di base della biologia, che abbiamo avuto modo di descrivere in premessa. A partire da questa antitesi, l’aggettivo chimico ha iniziato a colorarsi di significati che, riallacciandosi al sentimento più diffuso, evocano sensazioni di sospetto, se non di aperta ostilità, verso quello che viene percepito in primo luogo come uno scenario di rischio. Da questa breve analisi, emerge chiaramente il fatto che la chimica risulta oggi non soltanto sottovalutata in relazione al suo ruolo fondante all’interno del nostro mondo, ma, cosa ancor peggiore, viene essenzialmente fraintesa, con conseguenze potenzialmente molto gravi a diversi livelli della società e della decisionalità democratica.

La Società Chimica Italiana: missione, organizzazione, prospettive

a cura di C. Della Volpe

Un workshop con questo titolo si è tenuto giovedì scorso 4 luglio 2013 – Università di Roma “La Sapienza” Nuovo Edificio “Vincenzo Caglioti” del Dipartimento di Chimica – Aula II
Si è trattato di “una riflessione sulla nostra storia e sul nostro essere oggi per guardare al futuro con quanti hanno a cuore la nostra associazione”, come recitava l’invito.
Il programma che è stato seguito durante la discussione è in fondo al post; le relazioni disponibili sono presenti come files cliccabili col nome del relatore in blu; mano a mano che ne riceverò altri saranno aggiunti i testi corrispondenti.

Aggiungo alcune note da spettatore, certamente incomplete, ma con l’unico scopo di testimoniare quel che ho recepito; mi scusino coloro i cui argomenti non sono riportati e che invito ad intervenire:

– la presidenza è stata tenuta da Riccio, Barone e Scorrano; pochi i presenti della Scuola e dell’Industria sui circa 50-60 presenti; ci sono stati vari interventi liberi che non sono qui riportati ufficialmente ma che hanno sottolineato:

– l’idea che i rapporti fra Divisioni, Sezioni e Gruppi cambino, si adeguino, che i gruppi non siano strutture stabili ma mobili e dinamiche; che le sezioni debbano avere più spazio;

– che i contatti con l’estero sono importanti e che non debbano essere, come sembrerebbero attualmente, molto “personalizzati”;

– che sarebbe bello e necessario fare una sorta di Istituto Nazionale di Chimica (idea del presidente Barone) , qualcosa che non sostituisca la SCI ma sia in grado di ricevere e gestire finanziamenti che attualmente vanno sparsi in numerosissimi rivoli intestati a gruppi che di fatto appaiono più di potere che scientifici

– c’è stata l’osservazione, fatta da Barone, che occorre partire dai rapporti attuali fra Chimica e Società per capire la situazione SCI, ma questo suggerimento non è poi stato sviluppato e sinceramente mi è sembrato un punto debole della riunione; si è parlato più di risorse che di altro; i “grandi temi” come etica e sostenibilità, a mio modestissimo parere, centrali, sono stati di fatto assenti dalla discussione.

– c’è stata una forte polemica da parte di un piccolo ma agguerrito numero di soci docenti della scuola sul fatto che nell’impostazione della riunione, e con riferimento ad un articolo comparso su C&I in marzo a nome di Scorrano ci fosse l’assenza di un riferimento esplicito alla Scuola e ai soci della Scuola come parte attiva e determinante della SCI, ma che la scuola fosse inserita nella “società civile” (si veda anche la slide n.2 dell’intervento Cipollini che riproduce quella originale di Scorrano);

– c’è stata una vivace discussione sul fatto che la Didattica (e io qui aggiungerei la Storia) della Chimica che altrove sono argomenti di ricerca, qui da noi in Italia non lo sono e questo da una parte impoverisce il nostro contributo di ricerca e dall’altra ci pone spesso in difficoltà rispetto ad altri paesi e nei nostri stessi rapporti interni.

– in questo quadro il ruolo dei Giochi della Chimica è stato più volte citato con l’indicazione che nel prossimo anno ci dovrebbe essere un contributo ufficiale per il loro finanziamento.

– si è detto che il nostro bilancio è al momento praticamente in equilibrio ma che proprio per questo gli investimenti necessari in molti casi non sono possibili e che riduzioni ulteriori nel numero dei soci possono mettere in discussione la nostra organizzazione pratica;

– interessante l’intervento del collega del Consiglio nazionale dei Chimici (Munari che è anche socio SCI) e che ha posto la possibilità di fare almeno iniziative comuni con vari scopi fra cui quello di risparmiare risorse (gli iscritti agli ordini sono complessivamente oltre 9000 al momento contro gli oltre 3000 soci SCI).

– qualcuno ha notato che avere un gruppo giovani è qualcosa che può ghettizzare i giovani e che occorrerebbe semplicemente dare ad essi lo spazio normale negli organi ufficiali, (che sono invece appannaggio di adum, ossia anziani docenti universitari maschi).

– scambio di battute gentili ma al vetriolo fra la collega Agostiano e il neo presidente Riccio: di donne e giovani  si parla in fondo alla riunione perchè contano poco – dice la Agostiano; invece no sono in fondo perchè ai relatori importanti si da’ la parte finale per trattenere il pubblico– si difende e contrattacca il neo presidente.

In attesa dei testi delle relazioni mancanti e di altri interventi; buona lettura.

Ore 10.00-10.45 – Apertura e introduzione ai lavori
Presentazione delle motivazioni dell’incontro, delle tematiche da affrontare e delle modalità di discussione
Interventi programmati: Vincenzo Barone, Raffaele Riccio, Gianfranco Scorrano
Ore 10.45-12.00 – Gestione e governance
Punti di forza e di debolezza dell’attuale modello organizzativo e gestionale, le problematiche più urgenti, eventuali interventi correttivi Interventi programmati: Francesco De Angelis, Luigi Campanella, Vincenzo Barone   Interventi liberi e discussione: 30 min
Ore 12.00-13.15 – Tematiche e territorio
Problematiche    connesse    all’ organizzazione    e    all’ attività    tematica    delle    Divisioni    e    dei    Gruppi Interdivisionali; problematiche connesse all’attività territoriale delle Sezioni; rapporti con la Sede e tra OP; comunicazione Interventi programmati: Roberto Gobetto, Carlo Franchini, Claudio Della Volpe
Interventi liberi e discussione: 30 min
Ore 13.15-14.15 – Colazione di lavoro

Ore 14.15-15.30 – I legami con il mondo della chimica italiana
Interventi e prospettive nelle relazioni con il mondo dell’industria, della professione e con gli enti di ricerca
Interventi programmati: Martino Di Serio, Tomaso Munari, Maurizio PeruzziniInterventi liberi e discussione: 30 min
Ore 15.30-16.45 – Genere e età
La rappresentanza femminile nella SCI e nella Chimica Italiana; ruoli e problematiche del gruppo giovani e del gruppo senior Interventi programmati: Angela Agostiano, Romano Cipollini, coordinatore gruppo giovani  Interventi liberi e discussione: 30 min
Ore 16.45-17.15 – Dibattito e considerazioni conclusive

Cugina o sorella? (parte seconda)

(Nota della redazione) Questo articolo è stato già pubblicato su un altro blog e in un libro del 2005[1], ha qualche anno ma è uno dei migliori articoli che parlano di chimica oggi e di storia della Chimica, non c’è alcun dubbio a riproprorvelo; ne leggete qui la seconda parte; la prima è stata pubblicata pubblicata pochi giorni fa.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Finora ho parlato della merceologia e di vari suoi guai, dell’incomprensione pubblica verso questa disciplina e di come ha bisogno, per svolgere bene il suo Giorgio Nebbialavoro, del sostegno e degli strumenti della chimica. Ma anche la chimica, nell’università e soprattutto nell’opinione pubblica, ha anche lei i suoi guai. Parlare di chimica è come presentare in società una sorella dai passati burrascosi. “Chimica” è parola sgradevole per molti orecchi, soprattutto poco informati, per vari motivi apparentemente contrastanti.

Il primo è rappresentato dal modo in cui i grandi mezzi di informazione parlano di cose nelle quali la chimica è coinvolta; non ci mancavano altro che gli attentati con “armi chimiche”, in aggiunta agli incidenti “chimici”, all’uso sconsiderato della “chimica” in agricoltura, eccetera, per enfatizzare qualsiasi cosa sgradevole associandola all’aggettivo “chimico”. Non c’è dubbio che incidenti industriali, intossicazione di lavoratori nelle fabbriche, inquinamenti dell’ambiente hanno luogo spesso in fabbriche chimiche o che trattano prodotti chimici e ad opera di sostanze chimiche. Non c’è dubbio che molte fabbriche producono sostanze chimiche pericolose, talvolta inutili, talvolta oscene come gli agenti di guerra, dai gas asfissianti a quelli lacrimogeni e paralizzanti. Non c’è dubbio che la scoperta di frodi, di sostanze tossiche anche nelle acque e nei cibi, di erbicidi nei pozzi sono la conseguenza di un uso improprio e violento di sostanze chimiche e che giustamente un vasto movimento popolare chiede più severe regolamentazioni nella produzione, nella circolazione e nell’uso di prodotti chimici industriali e commerciali.

Il secondo motivo della dubbia fama della chimica sta nella maniera in cui la corporazione dei produttori chimici reagisce alle critiche di quelli che sono sbrigativamente liquidati come “ecologisti” o “verdi”. La risposta messa in circolazione attraverso male orchestrate campagne di stampa è melensa e poco convincente e suscita una reazione di rigetto nell’opinione pubblica. Non basta mobilitare grandi compagnie di pubblicità e pubbliche relazioni per essere credibili e convincenti quando si presenta l’immagine che la chimica è per definizione buona e benefica per l’umanità e che pertanto i fabbricanti di prodotti chimici devono essere apprezzati e lodati come coloro che diffondono il bene insito nella chimica. Anche qui l’eccesso di zelo degli apologeti cade spesso nel ridicolo. Non c’è dubbio che le sostanze presenti nel sangue sono costituite da molecole chimiche — e che altro dovrebbero essere ? — e che il cibo necessario per la sopravvivenza, i farmaci che salvano la vita dei malati, i coloranti che abbelliscono i tessuti, i cosmetici che rendono gradevole e pulito l’aspetto, sono fatti di sostanze chimiche. Non c’è dubbio che sono chimiche — anche se in genere maneggiate da non-chimici — le analisi che consentono di riconoscere le malattie.

 Ma è altrettanto vero che la storia degli anni recenti è piena di episodi di danni alla salute e all’ambiente provocati da industrie e sostanze chimiche non perché tali sostanze sono “chimiche” ma perché sono stati imprudenti e incapaci i produttori, i trasportatori, gli utilizzatori. E non giovano né alla “chimica”, né agli imprenditori le difese di ufficio fatte da volonterosi “scienziati” e accademici i quali ridicolizzano i critici e la loro ignoranza. Tali difese hanno il sapore di cose già ascoltate: anche gli industriali inglesi del 1800 rispondevano alla contestazione di coloro che volevano che fossero migliorate le condizioni di lavoro nelle fabbriche, mobilitando “gli scienziati”. E’ rimasto celebre il dottor Andrew Ure (1778-1857), chimico e merceologo, che, pieno di zelo, ha scritto un intero libro, “La filosofia delle manifatture” (una traduzione parziale in italiano è stata pubblicata nella “Biblioteca dell’economista”, seconda serie, volume 3, dall’Unione Tipografico-editrice di Torino nel 1863), per dimostrare come il lavoro nelle filande e nelle miniere fosse giovevole alla salute dei fanciulli, tolti dalla strada e dai suoi vizi.

 Il terzo motivo, legato ai due precedenti, del poco buon nome della chimica nell’immaginario popolare, sta nella diffusa ignoranza della chimica. Persone colte e intelligenti, che sanno parlare con competenza di letteratura e musica e arte, “intellettuali”, come si suol dire, si azzardano, forti della loro ignoranza chimica, ad esprimere giudizi spesso insensati sui guasti e sui vizi della “chimica”. Non c’è dubbio che la chimica si insegna poco e spesso male nelle scuole secondarie superiori — dove pure circa 400 mila studenti ogni anno sono “costretti” a seguire un qualche corso di chimica — sulla base di testi che talvolta (spesso) sono modesti e noiosi. Quel poco di nozioni appiccicate alla mente, talvolta senza andare al di là di poche frasi fatte, ripetute come litanie, sono il terreno ideale per fare nascere idee distorte e luoghi comuni e vere sciocchezze. Ancora peggiore è la situazione dopo la riforma della scuola superiore del 1996, con la chimica, come si è prima accennato, privata perfino del suo nome e inclusa nella “Scienza della materia”. Non c’è perciò da meravigliarsi se i giornalisti, i parlamentari, gli amministratori, spesso persone colte e attente, straparlano quando si tratta di esprimere dei giudizi sulla chimica, sull’effetto serra, sulle marmitte catalitiche, sulle virtù di cosmetici o sui danni dell’ozono (poco conta se troposferico o stratosferico).

 Si aggiunga che la situazione è scoraggiante benché in Italia esistono decine di migliaia di laureati in chimica, centinaia di professori universitari di discipline chimiche: la loro voce si sente troppo poco e quasi niente, come se ci fosse un pudore nell’intervenire e nel parlare della loro scienza. Una volta Linus Pauling (1901-1994, premio Nobel per la chimica e poi premio Nobel per la pace) scrisse che bisogna invece imparare a parlare a qualcuno che non siano le proprie provette. La stessa massima società italiana dei chimici, la Società Chimica Italiana, con poche migliaia di soci, per lo più membri del mondo accademico, con prestigiose riviste, peraltro a limitatissima circolazione, per l’opinione pubblica è sconosciuta, come se non esistesse.

 A differenza di altre società chimiche nazionali e in particolare di quella americana, la American Chemical Society, che pubblica un settimanale, il notissimo Chemical and Engineering News, che “tira” oltre un milione di copie (la metà della tiratura, da primato, di Famiglia Cristiana), che mobilita i suoi soci perché parlino nelle televisioni locali, che organizza giornate nazionali della chimica, Olimpiadi della chimica, che induce il governo a stampare francobolli commemorativi della chimica e dei chimici, eccetera.

 Questo stato di cose fa sì che in Italia esistano pochissime riviste di chimica, con limitata circolazione, nessuna a carattere veramente divulgativo e popolare, che siano soltanto pochi o pochissimi i libri divulgativi di chimica, le cui conoscenze per il grande pubblico sono affidate al breve incontro, al liceo, con i testi di scuola.

 Mi vengono in mente le “Lettere sulla chimica” che Liebig (1803-1873) pubblicava a puntate sull’Augsburger Allgemeine Zeitung e che raggiunsero, nel corso degli anni, il numero di cinquanta, raccolte in vari volumi, tradotte in tutte le lingue e anche in italiano, a mano a mano che apparivano in tedesco, e che ebbero un grandissimo successo popolare. Non sarà male ricordare che il 200° anniversario della nascita di Liebig è stato proclamato in Germania “Jahr der Chemie”, mentre l’importante evento è passato praticamente inosservato in Italia.

 A proposito della divulgazione della chimica raccomando la lettura del recente libro, “Communicating chemistry. History of textbooks in Europe between 1789 and 1930”, di Bernadette Bensaude-Vincent, e Anders Lundgren, Cambridge, 1999.

 Proprio come non esiste in Italia un buon dizionario di merceologia, in Italia non c’è neanche un buon dizionario o una buona enciclopedia popolare di chimica. E’ abbastanza naturale che perfino i traduttori degli articoli di giornali stranieri storpino i nomi chimici, con silicio che diventa silicone e viceversa, iodio che diventa iodino, carboidrati che diventano idrocarburi, anidride carbonica che diventa ossido di carbonio, e così via. Eppure mai come in questo momento una cultura chimica è essenziale per difendere la salute dei cittadini e anche per ridare fiato ad un asfittico settore industriale. Mai come in questo momento i problemi chimici sono centrali per l’economia e per il progresso. Basta leggere la Gazzetta ufficiale delle Comunità europee o quella della Repubblica italiana per vedere che sempre più spesso ci sono interi fascicoli, dei veri volumetti, pieni di informazioni chimiche, di formule, di sinonimi, di proposte di unificazione, pieni di metodi di analisi standardizzati per riconoscere la purezza delle sostanze, per sconfiggere le frodi, per svelare gli inquinamenti. La sigla CAS del Chemical Abstracts Service è usata anche nei testi di legge dove accompagna ormai il numero, la sigla e il nome delle sostanze che entrano nei medicinali, nei cosmetici, nei pesticidi, eccetera, cioè nella produzione, nel commercio e nell’uso delle merci. Mai come in questo momento la sopravvivenza civile dei paesi industriali dipende dal potenziamento dei servizi pubblici di controllo dei prodotti e dell’ambiente, servizi che richiedono metodi chimici di indagine praticati da chimici. Con tutto il parlare che si fa di unità europea, bisogna renderci conto che potremo essere veramente europei soltanto se dimostreremo di avere strutture pubbliche e imprese private avanzate e moderne e in tale progresso un ruolo determinante ha la chimica e hanno i chimici, proprio come ha la merceologia e hanno i merceologi.

Proprio in questo momento ci sarebbe bisogno di laureati in chimica preparati, orgogliosi della loro cultura e della loro competenza e capacità, consci del ruolo che possono avere nella collettività civile, così come proprio in questo momenti sarebbero necessari dei buoni conoscitori e insegnanti dei processi di uso delle risorse naturali e di produzione delle merci. Con tutto il rispetto per le altre scienze della natura e sperimentali, la chimica è forse l’unica che offre la saldatura fra le leggi fondamentali della materia e l’applicazione di tali leggi alla vita quotidiana, dal metabolismo del cibo alla bellezza dei colori delle ali delle farfalle o dei petali dei fiori, ai grandi flussi di materia che stanno alla base dell’economia.

 La chimica è infatti la scienza della contabilità della natura. Il bilancio delle reazioni chimiche è un bilancio “economico”: esso, per definizione, deve essere in pareggio, tutto quello che c’è a sinistra di una formula si deve ritrovare a destra: la materia si deve sempre ritrovare tutta. E qui troviamo subito la diversità fra la contabilità della natura e quella “economica monetaria”. Anche gli economisti dei soldi fanno della contabilità: i soldi spesi devono essere uguali a quelli guadagnati. Ma le “cose” materiali che sono descritte con gli scambi monetari sono soltanto una piccola parte di quelle che interessano la vita reale.

 Nel bilancio di una fabbrica, per esempio, la contabilità monetaria tiene conto soltanto delle materie che si comprano e si vendono. Se pensiamo ad una fabbrica di acciaio contano il minerale di ferro e il carbone, che si ottengono in cambio di soldi, ma nella contabilità monetaria non figura l’ossigeno che si ottiene gratis nell’aria che serve per bruciare parzialmente il carbone trasformandolo in ossido di carbonio che riduce gli ossidi di ferro in ferro e ghisa. La ghisa e l’acciaio e l’energia entrano nella contabilità economica perché si comprano e si vendono, ma nella reazione si formano — una cosa ovvia e banale per un chimico — polveri e anidride carbonica e ossido di carbonio e scorie che non figurano nella contabilità economica perché vengono gettati nell’atmosfera o in una discarica. Salvo accorgersi un giorno che le popolazioni protestano per i fumi che sono “cose” materiali e di cui bisogna misurare quantità e composizione chimica, e che bisogna filtrare e abbattere o raccogliere per non inquinare l’aria o il suolo.

La contestazione ecologica è nata proprio dall’attenzione prestata agli effetti negativi di tutte le cose che la chimica conosce da sempre — quelle che si trovano a sinistra e a destra di ciascuna formula — ma che l’economia tradizionale e la pratica dell’operare hanno a lungo ignorato. Da qui l’importanza e la grande attualità del valore educativo della contabilità chimica.

 Un minimo di attenzione chimica può suggerire a coloro — tutta l’intera popolazione — che utilizza la cucina, il lavandino, il secchiaio o il  gabinetto — veri laboratori chimici — che tutta la massa dei materiali trattati, compresa l’aria che “si compra” gratis dall’atmosfera, si ritrova poco dopo nell’aria come gas, che i residui di cibo, le soluzioni saponose, gli escrementi che escono dalla nostra vita quotidiana non scompaiono ma vanno a finire nelle fogne e poi nei depuratori e nei fiumi e nel mare. La contabilità e l’ecologia dell’ecosistema domestico, sono altrettanto importanti come l’ecologia della fabbrica o della città. Della buona chimica è indispensabile per fare delle buone leggi contro l’inquinamento e delle buone e sensate azioni per il riciclo dei materiali presenti nei rifiuti, per avviare indagini di bonifica dei territori contaminati da attività produttive precedenti. E’ anzi questo un campo in cui si saldano interessi di natura geografica e storica; quali processi si sono svolti nelle fabbriche che occupavano un territorio ? quali materie — tutte chimiche — venivano trattate e trasformate ? quali scorie venivano prodotte ? dove sono finite e come è possibile toglierle dai loro depositi o diminuirne le nocività ? Buona chimica è necessaria per progettare prodotti e materiali e manufatti in vista del loro intero ciclo vitale che comprende, ripeto, materie dotate di valore monetario e materie che finiscono nei corpi riceventi della natura, rigettate senza alcuna spesa monetaria, ma con elevati costi sociali e sanitari e ambientali . Buona chimica — e adeguati e buoni controlli chimici — sono necessari per le procedure per l’assegnazione di eco-etichette con analisi che vengono indicate “dalla-culla-alla-tomba”; altrimenti delle procedure che dovrebbero difendere i consumatori e l’ambiente si trasformano in pure operazioni pubblicitarie. E quanta chimica sarebbe necessaria per verificare le, e informare i cittadini sulle, tanto dichiarate affermazioni di virtù ecologiche di tante merci che entrano nel mercato con grandi richiami pubblicitari.

A questo proposito una società moderna avrebbe tutto l’interesse a potenziare, anzi a resuscitare, quelle strutture che erano i laboratori chimici “di igiene e profilassi”, che nelle intenzioni dei legislatori di cento anni fa furono creati riconoscendo che la prevenzione delle malattie sarebbe stata possibile soltanto attraverso le analisi chimiche degli alimenti, del cibo, delle acqua, dei prodotti usati in agricoltura, e poi, dagli anni cinquanta in avanti, attraverso un controllo chimico delle condizioni di lavoro, dell’inquinamento atmosferico, dello smaltimento dei rifiuti. Non a caso la direzione del primo laboratorio di igiene e profilassi francese fu affidata al chimico Pasteur (1822-1895). La polverizzazione delle competenze nel settore sanitario e della lotta alle frodi alimentari, nel settore dei controlli ambientali, e di quelli in campo agricolo e delle stesse dogane, da cui tanti chimici sono poi passati sulle cattedre universitarie di merceologia, ha impoverito la capacità di indagine, di controllo e di analisi delle uniche strutture che possono davvero prevenire le malattie. Proprio quando l’unificazione, il coordinamento e il potenziamento della parte chimica avrebbero potuto rappresentare la vera soluzione.

Sorprende (o non dovrebbe sorprendere ?) che il mondo politico, economico e lo stesso mondo imprenditoriale prestino così poca attenzione agli strumenti conoscitivi chimici che sono essenziali per un genuino sviluppo economico. La conoscenza chimica consente la spiegazione di come sono fatti e come possono essere prodotti le cose, gli oggetti, i materiali presenti in natura e nella vita quotidiana. La chimica è nata con l’obiettivo di spiegare e descrivere fenomeni naturali e, nello stesso tempo, di risolvere problemi pratici: la sbianca e la tintura dei tessuti, la conservazione dei cibi, la concia delle pelli, la fermentazione del pane. La ricerca scientifica chimica è stata originata e ha avuto i suoi massimi successi in relazione a problemi “pratici”: dal premio Nobel a Fritz Haber (1868-1914) per la scoperta delle condizioni che consentono la sintesi dell’ammoniaca, al premio Nobel a Giulio Natta (1903-1979) per le scoperte che hanno permesso di sintetizzare il polipropilene.

Mi viene ancora in mente il chimico Liebig che, nel suo laboratorio di Giessen, insieme agli esperimenti di analisi chimica, prestava attenzione ai problemi sociali della prima rivoluzione industriale, a come alleviare la scarsità di alimenti che colpiva le masse di proletari affamati d’Europa, che si occupò di aumentare le rese agricole, che stimolò l’utilizzazione del nitro del Cile come fonte di azoto e dell’acido solforico per rendere solubili i fosfati naturali, che spiegò al pubblico l’importanza della carne e che, per superare le difficoltà del trasporto della carne dai pascoli del sud America all’Europa con le lente navi a vela senza frigoriferi, “inventò” l’estratto di carne e stimolò la costruzione della fabbrica di Fray Bentos in Uruguay, contribuendo ad avviare l’industrializzazione del paese sudamericano. Quel Liebig che, a riprova dello stretto rapporto fra chimica e merceologia e economia, nella celebre “undicesima lettera” scrisse, sia pure con un po’ di ingenuità, che il consumo di acido solforico è un indice dello sviluppo economico di un paese e il consumo di sapone è un indice della sua civiltà. Benché la chimica aiuti a capire e spiegare tanti aspetti fondamentali della vita — perché certe merci inquinano, quale è la composizione dei rifiuti — si ha l’impressione che la chimica della cucina e del gabinetto abbiano poco spazio e dignità nell’insegnamento chimico. I merceologi, per esempio, che sono i chimici che si occupano di questi aspetti volgari della chimica, sono in genere considerati chimici di seconda classe. Una migliore cultura chimica aiuterebbe anche molte altre attività e discipline. Si pensi, per esempio, al vuoto culturale esistente in Italia nel campo della storia della chimica, della storia della farmacia, della storia della merceologia, e lo si confronti col fatto che lo storico di professione, o l’archeologo sempre più hanno a che fare con problemi chimici che affrontano talvolta male, superficialmente, talvolta balbettando cose inesatte, con una crescente difficoltà di incontro con i professionisti che sanno di chimica. Probabilmente una intelligente spiegazione dell’importanza degli aspetti “pratici” della chimica aiuterebbe il pubblico a riconoscere in essa non solo una scienza vicina alla vita quotidiana, ma anzi la scienza prima della vita e delle cose che ci circondano.

C’è un altro aspetto meno noto della chimica. All’opinione pubblica, ma anche agli studenti medi, la chimica appare una scienza consolidata, piena di certezze; se qualcosa di nuovo appare all’orizzonte lo si deve cercare nei favolosi orizzonti delle biotecnologie o dei materiali avanzati, come si suol dire. Una impressione sbagliata: il mondo che ci circonda è ancora pieno di misteri chimici, anche nei campi più banali. Si parla, per esempio, di amido, di lignina e di cellulosa, le pietre fondamentali del mondo vegetale. La cellulosa attrae l’attenzione come ingrediente della carta, l’amido come ingrediente del pane e della pasta e, più recentemente, della finta “plastica” biodegradabile. E invece siamo di fronte ad un campo pieno di misteri. Ogni vegetale contiene amido, lignina, cellulosa, con caratteri differenti da altri; la composizione di queste macromolecole ha carattere statistico per cui si deve parlare al plurale di amidi, cellulose, eccetera. Con un poco di attenzione e di curiosità si scopre, per esempio, che i diversi cereali hanno amidi di diverse qualità, tanto è vero che con alcuni (il grano) si riesce a fare il pane e con altri (come il mais) no. La stessa caratterizzazione dei cereali e dei relativi sfarinati sulla base dell’amido, delle proteine, dei grassi e delle ceneri è una grossolana approssimazione. Si intuisce, ma se ne sa ben poco, che amido, proteine e grassi sono uniti fra loro in “complessi” grassi-proteine, amido-grassi, amido-proteine; la loro esistenza potrebbe spiegare il fatto che il grano duro ha caratteri diversi dal grano tenero, benché all’analisi chimica grossolana i principali componenti siano in quantità quasi uguali. Fra i misteri chimici del pane c’è il fenomeno del rinvenimento, per cui nel pane raffermo, “vecchio” di due o tre giorni, riscaldato, la mollica ritorna elastica come nel pane appena sfornato, anche se questo carattere scompare dopo poche ore. Una migliore cultura chimica permetterebbe di chiarire alcuni “grandi” misteri, come il buco dell’ozono stratosferico o l’effetto serra dovuto alle modificazioni chimiche dell’atmosfera, ma permetterebbe anche di capire e di conoscere meglio tantissime altre cose, negli alimenti, nei cosmetici, nelle tinture e nei preparati per ondulare i capelli, nelle precauzioni da prendere quando si deve lavare e stirare, nei meccanismi — chimici — con cui funzionano le fotocelle solari o le macchine per trasmissione in facsimile, più note come “fax”, o i “cuori” dei computers e dei telefoni cellulari, tutti oggetti che stanno alla base di produzioni e di consumi di massa. Se se ne sapesse di più, forse molti pericoli e inconvenienti ed errori sarebbero evitati.

Un altro importante aspetto del valore educativo della chimica sta nell’abitudine a pensare a tre dimensioni. Tutte le cose sono a tre dimensioni, ma noi siamo abituati a disegnarle su un foglio, su un piano. La conoscenza chimica offre continuamente l’occasione per aiutare a immaginare, a pensare e a “vedere” i corpi nello spazio. La molecola dell’acqua acca-due-o, H-O-H, deve tutte le sue stranezze, fondamentali per la vita, proprio al fatto che ciascuna molecola si lega nello spazio non solo alle altre molecole di acqua, ma a tutti i corpi a cui si avvicina e con cui viene a contatto. La chimica del carbonio deve la sua bellezza e il suo fascino proprio al carattere tridimensionale degli atomi e delle molecole e, anche se ce ne siamo dimenticati, la scoperta di tale carattere fu una vera rivoluzione culturale. Purtroppo non possiamo fare a meno, per ragioni pratiche, di scrivere le formule su un piano, ma forse questo stesso limite è un’occasione per ricordare continuamente che le molecole sono sempre tante, tutte insieme e distribuite in tutte le direzioni. Alla fine degli anni quaranta del secolo scorso il chimico americano Linus Pauling ebbe, come sopra ricordato, il premio Nobel per aver “pensato” che le molecole delle proteine fossero disposte ad elica, come si vide sperimentalmente meglio in seguito. Questa intuizione da sola permise di risolvere tutti i misteri del comportamento delle proteine, pietre costitutive fondamentali della vita. Una decina di anni dopo Watson e Crick ottennero il premio Nobel per aver scoperto la struttura del DNA, una catena di molecole di zucchero, di acido fosforico e di alcune “basi” (adenina, timina, guanina, e citosina), disposte in “doppia elica” nello spazio. La disposizione spaziale delle migliaia di atomi di ciascuna molecola di DNA ha consentito di spiegare il funzionamento di queste molecole fondamentali per la “fabbricazione” di ciascuna proteina, sempre uguale, specifica per ciascuna parte di ciascun essere vivente. Una intuizione tridimensionale ha insomma risolto problemi di conoscenza fondamentale della vita.

Penso che si potrebbe, volendo, davvero dare della chimica una immagine gioiosa e avventurosa, una immagine anche di bellezza, e con essa una visione più coraggiosa della vita; si renderebbe un servizio alla società, all’economia, e all’ecologia — e alla stessa “chimica”, presentabile senza vergogna nella buona società. Un esame dei cammini culturali della merceologia e della chimica mi pare che offra una risposta alla domanda iniziale: più che stizzose cugine esse sono davvero due sorelle, anzi sono quelle che, in casa degli scienziati e degli amministratori delle cose sociali e in casa degli scienziati e degli amministratori delle cose naturali, spiegano, sia pure con parole diverse, le stesse cose, il modo in cui la natura riesce, con i suoi beni fisici, a soddisfare bisogni umani, che sono poi le uniche cose che contano.

[1]P.Riani (a cura di), “Fondamenti metodologici ed epistemologici, storia e didattica della chimica. Massa-Carrara 2003-2004”, Pisa, Dipartimento di Chimica e Chimica industriale, 2005, p. 218-242

http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=16&tipo_articolo=d_saggi&id=236

Note

Per una storia della merceologia cfr.: O. De Marco, “200 anni di Merceologia: passato, presente, futuro”, Rassegna Chimica, 45, (5/6), 135-142 (settembre-dicembre 1993)

 La storia dell’insegnamento della merceologia nell’Università di Bari è trattata da G. Nebbia, “Merceologia”, in: A. Di Vittorio (a cura di), “Cento anni di studi nella Facoltà di Economia e Commercio di Bari (1886-1986)”, Bari, Cacucci Editore, 1987, p. 145-154……

 Per la citazione della merceologia nel “Capitale” di Marx si può vedere:G. Nebbia, “La merceologia e un curioso problema filologico”, Quaderni di Merceologia (Bologna), 4, (2), 23-39 (luglio-dicembre 1965)

 I due libri del prof. Walter Ciusa (1906-1990) “I cicli produttivi e le industrie chimiche   fondamentali”, Bologna, Zuffi, 1948; e “Aspetti tecnici ed  economici di alcuni cicli produttivi”,  Bologna, Zuffi, 1954, ormai rarissimi, contengono la base teorica e culturale della svolta moderna della Merceologia.

 L’unico libro straniero che più si avvicina ai problemi della Merceologia è: E.W. Zimmermann (1888-1961), “World resources and industries. A functional appraisal of the availability of agricultural and industrial materials”, Revised edition, New York, Harper & Bros, 1951

 La “Rivista di Merceologia”, vol. 1, 1962 (dal 1962 al 1977 apparsa col titolo “Quaderni di Merceologia”), tratta argomenti scientifici della disciplina. Pubblicata dagli Istituti di Merceologia delle Università, prima di Bari, poi di Bologna, dal 1989 è pubblicata dall’Istituto di Merceologia dell’Università di Pescara; dal 1996 col titolo “Journal of Commodity Science”, vol. 49, 2010

 L’unico grande dizionario-enciclopedia di merceologia è dovuto a Vittorio Villavecchia, “Dizionario di merceologia”, Milano, Heopli, prima edizione, 1895, in un solo volume; seconda edizione, 1908; terza edizione: I volume, 1911, II volume, 1913; quarta edizione in quattro volumi, 1923-1926; quinta e ultima edizione in 4 volumi, 1929-1932. Una edizione successiva, molto meno soddisfacente, è stata curata da Gino Eigenmann e Ivo Ubaldini, “Villavecchia-Eigenmann. Nuovo dizionario di  merceologia  e chimica applicata”, Milano, Editore Heopli, volumi 1-3,  1973; vol. 4, 1974; vol. 5, 1975; vol. 6, 1976; vol. 7, 1977

Qualche notizia sull’evoluzione degli studi merceologici in Italia si può trovare in:

G. Nebbia, “Risorse naturali e merci. Un contributo alla tecnologia sociale”, Bari, Cacucci, 1968; G. Nebbia, “Lezioni di Merceologia”, Bari, Laterza, 1996; G. Nebbia, “Risorse merci ambiente”, Bari, Progedit, 2001

Zero Emission

(Nota del blogmaster: alcune parti del presente testo sono estratte da Wikipedia)

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

220px-Zero_EmissionSempre più spesso i termini Zero Emission divengono oggetto di convegni, mostre mercato, articoli divulgativi e scientifici. L’uomo con le emissioni derivate dalle proprie attività produce inquinamento e danni alla salute ed all’ambiente,ma in molti casi questo avviene per la scarsa attenzione che viene prestata alle emissioni da parte di chi ne è responsabile e per una certa pigrizia tecnologica.Da qui l’invito a ridurre le emissioni: magari il limite zero è solo sogno o utopia, ma miglioramenti significativi  possono essere conseguiti ed oggi questio carattere è divenuto un marchio di qualità del quale aspirano a fregiarsi città,industrie,enti pubblici e privatii.Così ZeroEmission è oggi un sistema di certificazione ambientale predisposto nel 2006, in coerenza con quanto previsto dalla Norma ISO 14064 – Gas ad Effetto Serra: Specifiche e Guida, al livello dell’Organizzazione, per la quantificazione e la rendicontazione delle emissioni di Gas ad effetto serra e della loro rimozione. La Certificazione ZeroEmission è riconoscibile a soggetti sia pubblici che privati.

Alla Certificazione ZeroEmission (attribuita da Enti abilitati secondo la Normativa vigente) segue l’attribuzione di un Marchio, il quale garantisce che i soggetti autorizzati a farne uso hanno messo in atto una serie di interventi che hanno totalmente azzerato l’emissione di gas serra da essi prodotta, calcolata secondo le modalità previste dalla Norma ISO 14064 per l’anno solare di riferimento.

* 1 Normativa della Certificazione ZeroEmission
* 2 Il certificato ZeroEmission
* 3 Bibliografia
* 4 Altri progetti
* 5 Collegamenti esterni
* 6 Voci correlate

Normativa della Certificazione ZeroEmission

Nel 2006 la norma ISO 14064 ha avuto effettiva pubblicazione. Essa è suddivisa in tre capitoli, tra loro interconnessi:

* UNI ISO 14064-1:2006 “Gas ad effetto serra – Parte 1: Specifiche e guida, al livello dell’organizzazione, per la quantificazione e la rendicontazione delle emissioni di gas ad effetto serra e della loro rimozione”.

* UNI ISO 14064-2:2006 “Gas ad effetto serra – Parte 2: Specifiche e guida, al livello di progetto, per la quantificazione, il monitoraggio e la rendicontazione delle emissioni di gas ad effetto serra o dell’aumento della loro rimozione”.

* UNI ISO 14064-3:2006 “Gas ad effetto serra – Parte 3: Specifiche e guida per la validazione e la verifica delle asserzioni relative ai gas ad effetto serra”.

La certificazione ZeroEmission nasce nel medesimo anno 2006, ed è direttamente connessa alla applicazione – da parte di una Organizzazione o da un Privato – della norma ISO 14064, attestando il totale azzeramento delle emissioni di gas serra secondo quanto previsto dalla norma stessa.

Il certificato ZeroEmission

Il Certificato ZeroEmission, accompagnato dal relativo omonimo Marchio, attesta che l’entità certificata ha posto in atto il totale azzeramento delle emissioni di gas ad effetto serra secondo quanto previsto dalla Norma ISO 14064. Il processo di certificazione, adottabile in maniera volontaria da soggetti sia fisici che giuridici, pone cura nel definire precisamente i confini di computo e azzeramento delle emissioni. Sulla base dei confini di azzeramento, sono proponibili diverse tipologie di certificazione ZeroEmission:

* ZeroEmission Company: azzeramento dei gas serra emessi annualmente da un’organizzazione aziendale
* ZeroEmission Building: azzeramento dei gas serra emessi annualmente da un edificio civile o industriale
* ZeroEmission Product: azzeramento dei gas serra emessi annualmente nella produzione di un prodotto/bene
* ZeroEmission Event: azzeramento dei gas serra emessi in uno specifico evento (manifestazione, mostra, fiera, evento, ecc.)

La certificazione ZeroEmission prevede un iter procedurale, che termina con l’attribuzione della labeling da parte dello specifico Ente certificatore, segue i seguenti passi operativi:

1. Definizione dello scopo: confini di azzeramento e di certificazione
2. Carbon Audit: quantificazione dell’emissione annua di gas serra secondo la Norma
3. Azzeramento dell’emissione di gas serra
4. Controllo della documentazione di azzeramento
5. Richiesta di integrazioni o correzioni alla documentazione
6. Emissione del Certificato ZeroEmission

L’azzeramento delle emissioni di gas serra può essere liberamente effettuato con una o con la combinazione delle seguenti metodologie:

* Attuazione di progetti di efficienza e risparmio energetico;
* Acquisto / produzione di elettricità da fonte rinnovabile;
* Produzione di energia termica da fonte rinnovabile;
* Negoziazione di diritti di emissione di quote di gas serra;
* Attività di riforestazione / confinamento di gas serra.

I principali vantaggi derivanti dall’applicazione dello standard ISO 14064 tramite Certificazione ZeroEmission sono:

* aumentare l’integrità ambientale promuovendo la trasparenza e la credibilità nella quantificazione di gas serra, nel loro controllo, rendicontazione e verifica;
* permettere alle organizzazioni di valutare e controllare le emissioni di gas a effetto serra, nonché di gestirne i rischi;
* facilitare la quantificazione e la relativa transazione dei permessi o dei crediti di emissione gas a effetto serra;
* sostenere lo sviluppo e l’implementazione di progetti, iniziative e programmi di abbattimento e riduzione dei gas a effetto serra, anche presso soggetti non esplicitamente soggetti alla Normativa (Certificazione Volontaria).

Altri aspetti del progetto Zeroemission urbano riguardano
-le emissioni da impianti di riscaldamento attraverso il controllo sia degli impianti e delle loro condizioni operative che delle temperature garantite e idonei provvedimenti tecnici per mantenere il contenuto termico degli appartamenti quanto più costante possibile
-la riduzione della quantità di rifiuti prodotti e l’aumento attraverso raccolta differenziata intelligentedei tassi di riciclo e riuso (anche per produzioni energetiche)

per approfondire:

http://it.wikipedia.org/wiki/Zero_Emission

Cugina o sorella? (parte prima)

(Nota della redazione) Questo articolo è stato già pubblicato su un altro blog e in un libro del 2005[1], ha qualche anno ma è uno dei migliori articoli che parlano di chimica oggi e di storia della Chimica, non c’è alcun dubbio a riproprorvelo; ne leggete qui la prima parte; la seconda sarà pubblicata fra pochi giorni.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Giorgio Nebbia

Giorgio Nebbia

Quelle di cui stiamo cercando la parentela sono la merceologia e la chimica, due discipline, ma, direi, due modi di vedere il mondo, abbastanza imparentate anche se l’allontanamento si è fatto più visibile nel mondo accademico e col passare del tempo.

Fin dai tempi più antichi gli esseri umani hanno sentito la necessità di soddisfare i propri bisogni — cibo, acqua, difesa del corpo contro il freddo, abitazione, movimento — con oggetti materiali tratti dalla natura. Si trattava di vegetali o animali, di fibre tessili, di pietre, di sale ricavato dal mare; a mano a mano che le società umane si sono organizzate e che sono aumentati i bisogni, l’estrazione e trasformazione dei corpi della natura si sono fatte sempre più raffinate. D’altra parte ciascuna persona non poteva sapere tutto del mondo delle cose, però ciascuna ha raccontato ad altre quanto sapeva e ha appreso da altre le conoscenze sulla natura; forse è stato proprio questo scambio continuo che ha caratterizzato l’evoluzione degli esseri umani verso forme sempre più simili a quelle che conosciamo oggi.

In gran parte le conoscenze riguardavano le proprietà dei corpi della natura. Nello stesso tempo un numero crescente di persone doveva approvvigionarsi di alcuni oggetti o materiali da altre persone o da altri luoghi ed è nata una società basata sugli scambi. Dapprima scambi basati sul baratto — cibo in cambio di sale, pelli in cambio di schiavi, eccetera — poi mediati da un nuovo ente, il denaro. Qualsiasi società di cui ci sono arrivate testimonianze conosceva e registrava scambi di materia in cambio di materia o di denaro, o inventari dei beni materiali che una persona o una comunità possedeva.

La scienza e la filosofia si occupavano di molte altre cose importanti — l’esistenza di una divinità, il moto dei pianeti, i diritti delle persone — ma il mondo è sempre andato avanti con il progredire e col diffondersi delle conoscenze degli oggetti e con i loro scambi. Per semplicità chiamerò “merci” i beni fisici, materiali, tratti dalla natura e trasformati col lavoro umano in oggetti utili, tralasciando il modo in cui venivano scambiati.

Chiamerò merceologia la conoscenza dei corpi materiali, fisici, tratti dalla natura, trasformati e usati dagli esseri umani. Tale conoscenza poteva essere cercata e perfezionata per fini di pura curiosità, per fini pratici, per fini di scambi e di arricchimento, poteva essere rivolta a beni essenziali, come il cibo o i materiali da costruzione di una abitazione, o poteva essere rivolta a oggetti del tutto inutili o frivoli, come pietre preziose o profumi o droghe o tessuti o pelli di lusso che parlavano un linguaggio non di necessità, ma di prestigio o piacere, erano segnali di potenza e di ricchezza.

Sta di fatto che, dai tempi più antichi, le conoscenze delle cose pratiche e utili si trovano in tutte le società organizzate. Qui di seguito eviterò qualsiasi giudizio sul grado di “civiltà” delle comunità che incontreremo. Le opere “scientifiche”, geografiche, mediche, giuridiche, sono anch’esse costrette ad utilizzare e sono fonti di conoscenze merceologiche perché le malattie si curano con erbe o radici, perché le controversie giudiziarie si riferiscono in gran parte a scambi merceologici.

Si potrebbe fare una utile ricerca per trovare nelle fonti storiche le conoscenze del tempo in cui sono state scritte. Ci sono alcuni testi che rappresentano per il merceologo una fonte di continue sorprese: la “storia naturale” di Plinio si può considerare una vera e propria enciclopedia merceologica; la “Materia medica” di Dioscoride è una raccolta delle conoscenze di piante e animali che sono stati riconosciuti utili a curare malattie: praticamente di tutti i corpi offerti dalla natura.

Oggetti materiali sono stati usati nei riti religiosi come offerte alle divinità, come ornamenti dei sacerdoti; ce ne sono innumerevoli prove nella Bibbia e nei relativi commenti, soprattutto nella cultura ebraica; quali tipi di incenso erano adatti per le cerimonie, quali tipi di mirra erano adatte per la conservazione dei cadaveri, eccetera.

Già in questa prima fase nasce una delle attività di maggiore interesse, anche se trascurata negli studi seri: quella delle falsificazioni e frodi nello scambio delle merci. Il trasporto delle merci in zone lontane era faticoso e costoso e ben presto qualcuno ha scoperto che era possibile guadagnare di più miscelando merci pregiate con altre meno pregiate e che un acquirente poco esperto poteva essere facilmente ingannato.

Le frodi potevano essere svelate con saggi empirici, ma qualche volta richiedevano metodi più sofisticati. Si cita sempre il caso di Archimede che svela l’inganno dell’orefice del suo ospite Gerone che aveva confezionato con metalli più vili una corona che avrebbe dovuto essere d’oro; Archimede svelò l’inganno misurando il peso specifico della corona con quella di una equivalente massa di oro puro, scoprendo, così si dice, uno dei principi fondamentali della fisica.

Notizie sulle falsificazioni e frodi si trovano in Plinio, Dioscoride, nella Bibbia e probabilmente in molti altri testi antichi che meriterebbero di essere esplorati alla ricerca di testimonianze di una delle più antiche attività delittuose.

Una nuova ondata di conoscenze merceologiche si ha con la diffusione del mondo e della cultura islamica la cui religione non scoraggiava le attività commerciali, ma ne regolava la moralità; nel loro movimento dalle coste atlantiche dell’Africa alle isole dell’Oceano Pacifico, dall’Europa all’Africa centrale, avendo la Mecca in Arabia come doveroso punto di attrazione religiosa, i “fedeli” conoscevano un maggiore numero di oggetti e avevano crescenti occasioni di commerci e dovevano regolare la qualità di quanto compravano.

Le frodi nell’Islam era considerate una forma di peccato e lo stato aveva quindi dei propri uffici e funzionari addetti alla repressione delle frodi; i funzionari utilizzavano dei metodi fisici — il confronto fra pesi specifici — ma anche dei saggi che erano già “chimici” per distinguere le merci genuine da quelle sofisticate. Fortunatamente ci sono pervenuti numerosi trattati e manuali che permettono di dare uno sguardo su questa mondo in cui la merceologia incontra una chimica ancora ai suoi primi passi.

Ma è intorno al Cinquecento che le conoscenze merceologiche si fanno più raffinate e che un crescente numero di scienziati e tecnici cercano di capire come le materie della natura vengono trasformate e secondo quali “leggi” che cominciano ad essere leggi “chimiche”. La massa di informazioni chimico-merceologiche aumenta rapidamente di anno in anno, principalmente nel campo della metallurgia, sia sotto la spinta di ottenere metalli tecnici più adatti per armature, cannoni, spade, sia sotto la spinta di ottenere metalli preziosi possibilmente evitando le complicate operazioni di estrazione. dei metalli genuini.

La conquista delle “Americhe” fece affluire in Europa non solo le merci tradizionali delle lontane Indie, scoperte ora nelle nuove terre, ma anche merci del tutto nuove, come la patata, il pomodoro, il tabacco, e una gran massa di metalli preziosi. E’ dal Cinquecento in avanti che anche le conoscenze chimiche si raffinano, essenzialmente a fini merceologici per migliorare i processi di trasformazione dei prodotti naturali e per sventare le sofisticazioni e le frodi.

Fino al Seicento non compare la parola chimica in senso moderno e neanche la parola merceologia come disciplina scientifica, anche se i primi due secoli della chimica vedono la nuova scienza impegnata a risolvere problemi pratici, merceologici, a capire come è possibile perfezionare processi di produzione delle merci.

Nel corso del Settecento l’interesse degli intellettuali è rivolto alla comprensione dei processi di trasformazione delle materie naturali in merci: il più importante esempio è offerto dall'”Enciclopedia” che intende parlare di arti e mestieri, cioè di processi di produzione e trasformazione delle materie naturali e delle merci. L’opera a cui si attribuisce la spinta per le trasformazioni culturali più importanti della società e la nascita della società moderna e democratica è un’opera tecnico-merceologica.

Nel Settecento si moltiplicano i dizionari e le enciclopedie merceologiche, comincia a comparire, negli scritti tedeschi, la parola Warenkunde, o scienza delle cose, delle merci, la merceologia, insomma, e la stessa parola compare per la prima volta nel titolo di un libro scritto dall’economista, intellettuale e studioso tedesco Johann Beckmann (1739-1811) nel 1793.

E’ interessante notare che i primi scrittori di merci erano economisti e storici e non chimici e da qui merceologia e chimica sembrano camminare su due piani poco comunicanti, benché i chimici continuino ad occuparsi di prodotti di commercio e i merceologi abbiamo sempre più bisogno di strumenti e conoscenze chimiche per descrivere e conoscere le merci e per svelare le frodi.

Altrettanto curioso è il fatto che, quando diventano insegnamento nelle scuole superiori o nell’Università, la chimica venga accolta fra le discipline “naturalistiche” e la merceologia finisca fra gli insegnamenti economici; come insegnamento la merceologia compare nelle scuole commerciali europee — Germania, Austria, Italia anche Russia — spesso insegnata da chimici. Ugualmente curioso è il fatto che la merceologia non figura, neanche come nome proprio, nelle lingue francese e anglosassoni, tanto che per parlarne occorre ricorre a perifrasi — commodity science, science des merchandises — che non rendono giustizia del contenuto culturale della merceologia, tanto più che in inglese commodities, goods e merchandises hanno diversi significati pur rientrando tutte e tre le parole nel termine italiane “merci”, che si tratti di petrolio, zucchero, semi oleosi, oggetti utili, benzina, conserva di pomodoro o scarpe.

Mentre è facile riconoscere la storia, tutta in salita, delle discipline chimiche nelle scuole e nelle università, la storia della merceologia fra le discipline economiche ha avuto alterne e non felici vicende.

La merceologia è oggetto di insegnamento nelle prime scuole superiori di commercio ad Anversa nel 1852, e a Parigi nel 1861. Ad Anversa si insegnava storia naturale dei prodotti commerciali e merceologia ed esisteva un laboratorio chimico e un museo merceologico. A Parigi venivano impartiti corsi di chimica applicata, fisica applicata, materie prime e prodotti commerciali, meccanica industriale.

Cominciano a comparire i primi libri riconducibili a interessi merceologici. Il prof. Karl Hassak (1861-1929) a partire dal 1886 insegnò merceologia nell’Accademia commerciale di Vienna dove fondò un centro per la raccolta e lo scambio del materiale geografico-merceologico. E’ interessante notare gli intrecci della merceologia con la geografia, oltre che con la chimica. Nel 1896 Hassak passò ad insegnare nell’Accademia commerciale di Graz di cui divenne direttore nel 1907. Vari trattati di merceologia di Hassak furono tradotti anche in italiano e divennero testi standard a partire dai primi anni del Novecento. Ancora nell’Ottocento appaiono i primi trattati di merceologia e si ha la creazione delle prime cattedre di questa disciplina in Russia.

Del resto tutti i trattati di economia, dalla fine del Settecento in avanti, cominciano con un capitolo intitolato “Le merci”; è così anche per “Il Capitale” di Kal Marx (1818-1883) che fin dall’edizione del primo libro del 1867, proprio nel primo capitolo parla della merceologia sottolineando che le merci hanno un valore d’uso e un valore di scambio. Del valore d’uso, scrive Marx, si occupa “ein eigener Disziplin, der Warenkunde”, la merceologia, appunto, del valore di scambio si occupa lui stesso nella lunga critica dell’economia e del valore nella società capitalistica.

Il primo ingresso della merceologia in Italia come materia di insegnamento si ebbe nelle scuole medie superiori ad opera di Arnaudon, professore presso l’Istituto Tecnico di Torino. Egli ottenne che nel 1869 la merceologia venisse introdotta come materia obbligatoria nei programmi degli Istituti tecnici, ma la mancanza di musei merceologici e di laboratori chimici fece sì che l’insegnamento scadesse e che la materia fosse eliminata dai programmi delle scuole medie; soltanto con la fine dell’Ottocento la disciplina è stata di nuovo introdotto negli Istituti tecnici e nelle Scuole commerciali.

Nel frattempo alle prime Scuole superiori di commercio straniere seguirono, nella seconda metà dell’Ottocento, varie simili scuole in Italia. La Scuola superiore di commercio di Venezia fu fondata nel 1868, quella di Genova nel 1884, quella di Bari nel 1886. Le scuole superiori di commercio si proponevano di preparare degli operatori economici e commerciali in grado di affrontare la società del tempo: è il periodo in cui in Italia, con alcuni decenni di ritardo rispetto ai paesi stranieri, nasce la società capitalistica e operaia e l’intraprendere ha ancora il carattere di improvvisazione e di avventura.

Non fa meraviglia, quindi, che le discipline “pratiche” avessero un ruolo importante; le conoscenze naturalistiche necessarie per riconoscere le merci, per svelare le frodi, rispondevano alle esigenze della nuova classe mercantile. In queste prime scuole superiori di commercio la merceologia era insegnata per due o tre anni; per lo più ispirata al modello tedesco, aveva carattere essenzialmente strumentale e descrittivo; di ciascuna merce venivano descritti gli aspetti botanici e mineralogici e venivano messe in rilievo le proprietà atte alla classificazione a fini doganali, le falsificazioni e frodi. Spesso le cattedre erano dotate di laboratori chimici che talvolta venivano messi a disposizione degli operatori economici per controlli e analisi.

Nel 1885 il prof. Giuseppe Novi (820-1906) scrisse a Napoli un lungo saggio che raccomanda l’istituzione di una scuola superiore per lo studio dei prodotti commerciali e delle risorse naturali destinata ad insegnare ad una nuova classe di operatori economici e di commercianti come far fronte ad un mondo in continua evoluzione. Novi suggeriva anche l’istituzione di un museo merceologico sotto la responsabilità di un professore di merceologia, coadiuvato da professori di geografia, storia ed economia dei prodotti di commercio.

Comunque per tutto il XIX secolo, nei paesi in cui è stata  praticata e insegnata, la Merceologia non si è discostata dalla originale impostazione descrittiva: una specie di botanica, zoologia o mineralogia delle merci. I musei merceologici erano delle collezioni di campioni di prodotti commerciali, essenzialmente di origine naturale; i laboratori si occupavano della caratterizzazione delle merci e di svelarne le frodi attraverso i metodi resi disponibili dalla chimica e dalla fisica.

In Italia, per esempio, il Laboratorio Centrale e quelli  periferici  dell’amministrazione delle Dogane sono stati importanti centri di ricerca merceologica  e molti loro funzionari — a cominciare dal primo direttore Vittorio Villavecchia (1859-1937) del Laboratorio centrale di Roma — sono poi passati a insegnare Merceologia nelle Università.

Una importante svolta negli studi economici si è avuta all’inizio del Novecento quando il termine “economico” si è andato ad affiancare a quello “commerciale” per caratterizzare gli studi superiori in Italia. Alle materie pratiche, fra cui dominava la merceologia, si sono affiancate quelle teoriche economiche; venivano fondate in questo periodo la Libera Università commerciale Luigi Bocconi di Milano nel 1902, e le Scuole superiori di commercio di Torino (1905), di Roma (1906), Palermo (1918), Catania (1919), Napoli (1920), Trieste (1923, ma preesistente come scuola con ordinamento speciale fin dal periodo austroungarico), Firenze (1926) Bologna (1929), eccetera.

Col prevalere delle discipline economiche e aziendalistiche l’insegnamento della merceologia veniva ridotto da biennale ad annuale. A mano a mano che le Scuole superiori di commercio, agli inizi del XX secolo, si sono trasformate in Facoltà universitarie economiche, alla merceologia sono stati lasciati spazi sempre più ristretti e la disciplina è stata spesso considerata marginale nei nuovi indirizzi di studio. La durata dell’insegnamento diminuì da tre, a due, a un solo anno di corso, proprio in un periodo in cui la merceologia era (sarebbe stata) destinata ad assumere nuova crescente  importanza, di fronte alla grande rivoluzione merceologica del XX secolo: l’invenzione dei processi di fabbricazione dei concimi  per via artificiale dalla calce e dal carbone (calciocianammide); con la sintesi dell’ammoniaca e la produzione dei suoi derivati partendo dall’idrogeno dell’acqua e dall’ossigeno dell’aria; con l’invenzione delle prime fibre tessili artificiali (cellulosa  modificata) e poi sintetiche, e dei primi tipi di gomma sintetica; con i nuovi metalli; con i nuovi carburanti derivati dal petrolio, eccetera.

A differenza delle altre discipline che si sono adeguate alle nuove esigenze e ai nuovi tempi, la merceologia restava legata alla sua impostazione originale; questo era dovuti anche al fatto che le merceologia dell’epoca era dominata da una figura di grande rilievo e prestigio, quella già ricordata di Vittorio Villavecchia al quale si deve fra l’altro un celebre “Dizionario di merceologia” la cui prima edizione risale al 1896 e l’ultima, in quattro volume, al 1929-1932. Villavecchia tenne, come si è accennato, per vari decenni contemporaneamente la cattedra universitaria di merceologia nell’Università di Roma e la direzione del Laboratorio chimico centrale delle Dogane e restò legato — e legò i suoi allievi e successori — ad una tradizione tipicamente descrittiva, come se la merceologia avesse come principale scopo quello di insegnare a risolvere problemi di classificazione delle merci.

La seconda svolta negli studi economici si ebbe fra la prima e la seconda guerra mondiale; la grande crisi degli anni trenta del Novecento portò gli studiosi di problemi economici a occuparsi prevalentemente degli aspetti monetari e finanziari e si fece più profonda la crisi della merceologia, ormai ridotta comunque nelle università italiane ad insegnamento annuale ed ebbe spazi sempre più ristretti nelle Facoltà di Economia e Commercio, secondo la nuova denominazione assunta, a partire dal 1935, dalle antiche Scuole superiori di commercio.

il "Villavecchia", un classico della merceologia

il “Villavecchia”, un classico della merceologia

La merceologia rimase, fino alla recente riforma, come insegnamento negli Istituti tecnici commerciali, triennale, con laboratori chimici, negli Istituti ad “indirizzo mercantile”, sempre di meno, e come materia annuale negli Istituti a indirizzo “amministrativo”.

La vera grande svolta negli studi merceologici si è però avuta dopo la seconda guerra mondiale: alle merci ottenute dai prodotti naturali, o attraverso limitate trasformazioni dei prodotti naturali, si sono affiancate, in numero crescente, delle merci artificiali o sintetiche, anche del tutto nuove, fabbricate attraverso  profonde  modificazioni fisiche o chimiche delle risorse naturali.

La merceologia non poteva più accontentarsi della descrizione dei prodotti naturali e delle merci da essi derivati, ma doveva affrontare lo studio della fabbricazione, dei caratteri e delle proprietà dei nuovi materiali e del loro valore commerciale. La ricerca del “valore” delle nuove merci presupponeva l’esame e la conoscenza dell’intero ciclo produttivo di trasformazione delle materie prime nei prodotti intermedi e nei numerosi manufatti commerciali.

Dalla raffinazione del petrolio si formano, per esempio, delle frazioni di “virgin nafta” che vengono poi trasformate industrialmente, per cracking, in varie altre sostanze, alcune adatte per la produzione di olefine (materie prime per le materie plastiche); altre adatte per la produzione della gomma sintetica; altre dotate di proprietà solventi o utilizzate come materie di base per detersivi, eccetera. Oltre al petrolio — merce naturale — anche queste numerose materie intermedie sono “merci”,  così come sono merci le materie plastiche, i detersivi sintetici, i solventi, ciascuna delle quali merci richiede nuove tecniche di analisi e di indagine.

Con l’aumento del numero delle merci è aumentata anche la complessità dei prodotti oggetti di studio. Un manufatto di gomma naturale era, alla fine del XIX  secolo, una merce relativamente “semplice”; un copertone di gomma odierno è una merce “complessa” costituita da diversi tipi di gomma naturale e sintetica miscelati fra loro, da additivi, da materiali di rinforzo, eccetera.

E’ diventato così sempre più difficile presentare agli studenti o al pubblico un quadro complessivo della scienza  merceologica, o attrezzare dei laboratori merceologici. Nell’insegnamento ci si è dovuti per lo più limitare a trattare la trasformazione di alcune materie prime in alcune merci semplici intermedie, escludendo la gran parte delle merci “complesse” che raggiungono e interessano l’operatore economico e il consumatore.

La maggior parte dei corsi universitari di merceologia, per esempio, è costretta a trattare, della siderurgia, i processi che partono dai minerali e arrivano ad alcuni manufatti di acciaio di prima trasformazione o intermedi, trascurando del tutto lo studio o la descrizione delle lamiere, della banda stagnata, delle carrozzerie di automobili, delle pentole, e dei mobili, che pure sono tutte merci “complesse”, costituite da numerosi  differenti parti, di grande importanza.

Fino alla fine degli anni sessanta del Novecento gli insegnanti di merceologia erano prevalentemente chimici, così come chimici erano in gran parte i docenti di merceologia nelle scuole secondarie superiori. In queste ultime i chimici hanno trovato sempre meno gratificazione, con corsi di dimensioni ridotte con “libri di testo” spesso scadenti  e superati, e molti docenti hanno cercato di migrare verso insegnamenti di chimica in Istituti in cui avere maggiori soddisfazioni culturali.

In molti Istituti tecnici sono scomparsi i laboratori chimici, costosi e poco apprezzati dai presidi, e a poco a poco sono anche diminuiti i docenti di educazione chimica, sostituiti nell’insegnamento da laureati in scienze naturali che di chimica e merceologia sapevano ben poco. Non solo: nei corsi di laurea in chimica non è quasi mai stata insegnata merceologia per cui i chimici che hanno insegnato merceologia, negli Istituti tecnici o nelle Università, hanno dovuto imparare per proprio conto, talvolta bene, talvolta male, quel tanto o poco di merceologia che dovevano insegnare.

Nello stesso tempo lo spazio della merceologia nelle Facoltà di studi economici si è sempre ristretto; per molti docenti della Facoltà la merceologia era “chimica”, era “troppo chimica” per gli studenti e i laboratori chimici di ricerca erano inutili spese sottratte ad altri impieghi più utili ai fini degli studi economici.

Al punto che dal 1970 è stato sempre più difficile trovare laureati in chimica che avessero voglia di affrontare la carriera universitaria in merceologia e l’insegnamento è stato affidato ad un numero crescente di laureati in economia che di merceologia sapevano quel poco che avevano imparato all’università e che mancavano delle basi culturali, che necessariamente sono chimiche e naturalistiche, indispensabili per insegnare merceologia.

L’ultimo colpo al divorzio definitivo fra chimica e merceologia si è avuta con la riforma della scuola superiore del 1996 e con la totale eliminazione dell’insegnamento della merceologia dagli Istituti tecnici commerciali riformati e la segregazione della merceologia in poche scuole professionali o in pochi indirizzi degli Istituti tecnici femminili. Ironicamente anche la cugine o sorella chimica spariva come nome, relegata in una equivoca “Scienza della materia” con programmi che pure dovrebbero avere un contenuto “tecnico” e merceologico. Un gran pasticcio in questa gran moda di cambiare nomi consolidati con altri che non si sa che cosa significhino esattamente.

Eppure si stanno realizzando le condizioni culturali e tecnico-scientifiche che mostrano che la stretta integrazione fra discipline chimiche e merceologiche sarebbe essenziale per risolvere molti dei problemi della società contemporanea..

I segni della svolta, per chi li avesse voluti intendere, c’erano già fin dagli anni cinquanta del Novecento quando il prof. Walter Ciusa (1906-1990) dell’Università di Bologna ha suggerito che il vero ruolo della merceologia consisteva nello studio e nell’analisi dei cicli produttivi con cui le materie prime vengono trasformate in materie intermedie e nelle merci finali, dei rendimenti di trasformazione, della destinazione dei vari prodotti.

A titolo di esempio lo studio tradizionale della merce “cereali” consisteva nell’esaminare i vari tipi di frumento, il processo di macinazione, la qualità degli sfarinati e delle merci finali derivate: pane e pasta alimentare. L’analisi dell’intero ciclo produttivo mette in evidenza l’intero ciclo di formazione dei vegetali, il bilancio fisico e chimico di materia richiesta per la coltivazione, e poi i caratteri e le utilizzazioni dei sottoprodotti e co-prodotti della trasformazione dei cereali: i vari tipi di amido e derivati, materie prime per molte merci che vanno dalle colle, all’alcol etilico impiegato come carburante in miscela con la benzina. A fianco dell’amido si ottengono concentrati proteici utilizzabili come mangimi o come materie prime per sostanze plastiche.

Il ragionamento può essere facilmente esteso con l’analisi dei numerosi cicli produttivi di interesse economico, dai minerali all’acciaio e all’alluminio, dal petrolio a tutti i derivati prima ricordati e del destino di ciascuno di essi nella grande circolazione di materia che attraversa l’economia di ogni paese.

A partire dal 1964 hanno cominciato ad essere istituite delle cattedre universitarie autonome  di  “Tecnologia dei cicli produttivi” o dei “processi produttivi”. Lo studio dei processi di produzione e di uso delle merci ha permesso di affrontare alcuni interessanti problemi. Per esempio per ciascun processo produttivo viene (dovrebbe essere) analizzato il “bilancio” o la contabilità in unità fisiche di massa e di energia. Vari processi produttivi sono così confrontati sulla base della quantità di materia e di energia che consente di ottenere la stessa unità della stessa merce, o di merci differenti (per es.: tessuti, detersivi, adesivi) in grado di svolgere le stesse funzioni.

E’ evidente che questo cammino può essere fatto soltanto sulla base di accurate conoscenze chimiche, l’unica scienza che si occupa di bilanci materiali, che rappresenta una specie di “ragioneria” o contabilità dei processi e della natura. Eppure proprio negli insegnamenti di chimica è cresciuto il fastidio per il carattere materiale e utile dei processi e si è accentuata la distanza fra merceologia e chimica, proprio quando aumentavano le occasioni di incontri e di fusione.

L’analisi del bilancio materiale dei processi e dei cicli produttivi, di trasformazione della natura, consente di sviluppare delle scale di “valori” indipendenti dal costo o dal prezzo monetari considerati dall’economia tradizionale. “Vale” di più, per esempio, una merce che svolge la stessa funzione con minore consumo di energia o con minore consumo di petrolio o di altre materie prime. In un certo senso viene così ricuperato quel concetto di “valore  d’uso” che Marx nel “Capitale” aveva  riconosciuto come fine dell’indagine della merceologia.

Considerazioni simili sono state proposte per correlare il prezzo monetario degli alimenti col loro “contenuto” di valore energetico o di proteine, col che è possibile stabilire quali alimenti forniscono energia e  proteine al minimo prezzo monetario.

L’importanza della nuova impostazione della merceologia appare ancora maggiore alla luce della crescente attenzione per i problemi ambientali. L’inquinamento dell’aria, dell’acqua o  del suolo, sono per lo più dovuti all’immissione, in tali corpi riceventi naturali, dei sottoprodotti o delle scorie della produzione e dell’uso delle merci. Per conoscere gli effetti negativi di tali scorie sull’ambiente e per affrontare i relativi rimedi (depurazione, riciclo, eccetera), occorre  avere delle informazioni dettagliate sulle quantità di materia e di energia che  complessivamente “attraversano” ciascun ciclo produttivo.

La merceologia, in quanto scienza degli oggetti destinati al commercio, all’uso umano, si occupa principalmente della quantità di materia e di energia che porta all’unità di peso di merce considerata; è però facile estendere l’analisi comprendendo anche la quantità e la composizione sia delle materie che si “acquistano” dalla natura senza pagare alcun prezzo monetario, sia dei sottoprodotti che non vengono “venduti” per denaro a nessuno e che vengono reimmessi senza alcuna spesa nell’ambiente.

Estendendo correttamente il concetto di “merce” a tutto quello che viene scambiato, indipendentemente dal fatto che sia scambiato con l’intermediazione del denaro, si può ben dire che la merceologia si può (si deve) occupare anche degli scambi di “merci” o beni fisici non associati allo scambio di denaro e può redigere una contabilità fisica, naturale, di tali scambi e pertanto della circolazione complessiva della materia e dell’energia dalla natura, ai processi di produzione e di consumo, fino al loro ritorno nella natura sotto forma di merci usate, residui, scorie, rifiuti: della circolazione, cioè, natura—merci—natura.

Ad esempio nella fabbricazione dell’acciaio occorre certamente del minerale di ferro, del carbone o del petrolio, e del calcare; quattro merci che il produttore acquista in cambio di denaro. Ma il funzionamento dell’altoforno (l’impianto che trasforma il ferro del minerale nella ghisa) e il funzionamento del “convertitore” (il dispositivo che trasforma la ghisa in acciaio) sono possibili soltanto se l’impianto “acquista” anche, pur non pagando per esso alcun prezzo, l’ossigeno dall’aria atmosferica. Nel corso del processo inoltre si formano sottoprodotti e scorie solide, liquide e gassose che vengono immesse nell’ambiente circostante peggiorandone la qualità.

Più in generale, le scorie e i rifiuti di ogni attività di produzione e di consumo sono sostanze costituite di materia e potenzialmente portatrici anche di energia. Esse possono essere vere “merci negative” in quanto fonti di alterazione dei corpi riceventi naturali in cui vengono gettate, fonti, cioè, di inquinamento. Oppure una parte delle scorie e dei rifiuti può essere  ricuperata e può diventare “materia seconda” con cui fabbricare nuove merci, uguali o praticamente uguali a quelle che si ottengono con le “materie prime” tradizionali.

Non a caso ormai nel parlare comune — e anche in alcune disposizioni legislative — si parla di qualità o di composizione “merceologica” dei rifiuti. I processi di riciclo, cioè di trasformazione della carta usata in carta nuova, del vetro usato o degli imballaggi di ferro o di alluminio in nuova carta, vetro, ferro, alluminio, sono dei veri processi produttivi come quelli che partono dal legno o dalla sabbia o dai minerali.

Ma, ripeto ancora una volta, nessuna “valutazione”, cioè espressione del “valore”, di una merce o di un processo può essere fatta senza una adeguata conoscenza degli aspetti chimici delle materie, tutte, sia dotate sia prive di valore monetario, ma tutte dotate di valore fisico, materiale.

La merceologia ha un ruolo importante anche nell’informazione e nell’educazione dei consumatori. Nelle abitazioni e nella vita quotidiana entrano innumerevoli merci, ciascuna con un nome e con caratteristiche stabilite da leggi; tali leggi, da alcuni anni a questa parte,  sono in genere uguali per tutti i paesi dell’Unione europea.

Col crescere del mondo delle merci diventa sempre più difficile per il commerciante conoscere che cosa vende; a maggior ragione per il consumatore non specializzato diventa sempre più difficile capire e “leggere” le etichette degli oggetti che trova nei negozi. In un certo senso si può dire che le merci “parlano”, con le loro etichette, ma che il consumatore fa  sempre più fatica a comprendere il messaggio che riceve.

Da qui l’importanza di una informazione ed educazione merceologica dei consumatori, che sono poi tutta la popolazione di un paese. Con la riforma del 1977 nella scuola secondaria inferiore è stato introdotto l’insegnamento di “Educazione tecnica”, triennale obbligatorio, che prevedeva nei suoi programmi una vasta parte  di informazioni sugli oggetti e sulle merci  con cui lo studente viene e verrà a contatto. Tale educazione avrebbe dovuto aiutare i cittadini a comprendere meglio e a distinguere fra i numerosi messaggi pubblicitari che lo raggiungono attraverso i grandi mezzi di comunicazione.

Sfortunatamente, benché un numero crescenti di riviste a larga tiratura e anche di  enciclopedie popolari si occupino di problemi di alimentazione, tessuti, detersivi, cosmetici, eccetera, manca una rivista dedicata proprio alla divulgazione nel campo merceologico (la “Rivista di merceologia” ha carattere scientifico e limitata tiratura) e manca una “enciclopedia merceologica” (se si eccettua un rifacimento, molto tecnico, pubblicato da Hoepli in 7 volumi, apparsi negli anni 1971-1977, del “Dizionario di  merceologia”, di V. Villavecchia, la cui  quinta  e ultima edizione risale agli anni trenta del Novecento).

Da  qualche anno a questa parte si è anche sviluppato un filone di interesse per gli aspetti  più  sociali delle operazioni di produzione e di uso delle merci; in qualche Università sono stati istituiti degli insegnamenti di “Tecnologia sociale” (un termine usato anche con un secondo significato, completamente diverso, di uso di strumenti tecnici nell’indagine sociologica). Nell’ambito degli studi merceologici il termine “Tecnologia sociale” è stato usato nel senso indicato nel 1934 da Lewis Mumford (1895-1990) nel libro: “Tecnica e cultura”, cioè come studio degli effetti sociali dei processi di produzione e consumo delle merci e delle relative innovazioni, ma poi anche questo termine è stato abbandonato nelle Università italiane.

Rientra in questa linea l’esame degli effetti ambientali, già ricordati, dell’irrazionale smaltimento dei rifiuti, degli effetti del pericolo di esaurimento delle riserve di risorse naturali (petrolio, carbone, acqua, foreste, animali), rinnovabili o non rinnovabili, in seguito all’eccessiva produzione delle merci, dei rapporti fra disponibilità di alimenti e popolazione, eccetera.

La merceologia, quando è stata insegnata e studiata soprattutto nelle Scuole secondarie e nelle Facoltà di carattere economico e commerciale, è strettamente legata a, e fornisce la base per, altre discipline come la geografia economica e la stessa storia economica, la tecnica commerciale e industriale e delle ricerche di mercato, la chimica analitica applicata, la chimica industriale e anche certi campi delle scienze ingegneristiche. Benché ormai praticamente espulsa dalle scuole secondarie superiori e in via di estinzione anche nelle Università, la scienza merceologica avrebbe ancora molte cose da studiare e da insegnare.

I  problemi dell’energia presuppongono la descrizione e la valutazione sperimentale dei caratteri dei principali combustibili fossili come  carbone, petrolio, gas naturale, e dei loro derivati. Questa parte comprende i processi di estrazione, di trasporto e i relativi problemi ambientali, e la destinazione dei vari prodotti nei diversi settori dell’attività umana: energia per l’industria e per la siderurgia, settore dei trasporti, produzione di elettricità, riscaldamento urbano e effetti ambientali dei diversi settori.

Le fonti di energia fossili sono scarse e non rinnovabili, come mostra l’esame delle loro riserve note. E’ sempre più importante usarle razionalmente e ricorrere alle  fonti di energia rinnovabili, come l’energia solare, quella del vento e del moto ondoso, l’energia  potenziale delle acque in movimento. Le merci derivate sono il calore a bassa temperatura ottenuto dal Sole o l’energia meccanica e elettrica ottenuta da macchine idrauliche o da impianti fotovoltaici. Fra le fonti di energia va inclusa l’energia nucleare e il dibattito sui suoi limiti merceologici.

Nello studio merceologico dei metalli e dei loro cicli produttivi, a fianco dei metalli principali come ferro, alluminio, rame, eccetera, assumono crescente importanza i metalli che assolvono funzioni speciali con le nuove tecniche, dal germanio e al silicio usati nei semiconduttori, al titanio e alle terre rare, ai metalli preziosi — oro, argento, platino, palladio, rodio —  i cui usi tecnici, soprattutto nell’industria elettrica ed elettronica e nei catalizzatori, superano come quantità gli usi negli ornamenti.

I  materiali da costruzione tradizionali comprendono calce, cemento, ceramiche, ma anche  nuovi materiali come manufatti di fibrocemento, materiali isolanti. Il solo problema delle ceramiche coinvolge delicati problemi di qualità, di commercio internazionale e di inquinamento.

Un importante capitolo degli studi merceologici riguarda l’industria chimica, di cui cambiano rapidamente le materie prime, i prodotti intermedi e quelli finali. Da poche materie di base —  petrolio, gas naturale, azoto dell’aria, zolfo, calcare — vengono fabbricate le numerose  importanti merci dell’industria chimica “primaria”, successivamente trasformati in intermedi dalla “chimica secondaria” fino ai prodotti che arrivano nelle nostre case come fibre artificiali e sintetiche, detersivi, cosmetici, arredi domestici, mobili, imballaggi, eccetera.

Mentre i precedenti argomenti riguardano merci ottenute dallo “sfruttamento” di risorse naturali non rinnovabili, minerali e rocce e materiali fossili le cui riserve sono più o meno vaste, un grande capitolo della ricerca merceologica riguarda le merci ottenute dalla trasformazione delle materie del regno vegetale e animale, cioè basate su materie rinnovabili dipendenti dal ciclo naturale del carbonio.

Fra i vegetali un posto primario occupano i cereali  di cui la merceologia studia e analizza i caratteri, la provenienza, i derivati destinati all’alimentazione, umana e degli animali da allevamento, ma anche ad usi industriali, rivolgendo la propria attenzione anche alle disuguaglianze nella disponibilità di alimenti nelle varie parti del mondo.

I prodotti forestali alimentano un importante commercio internazionale e le industrie della carta, dei pannelli e dei mobili; i danni dell’eccessivo sfruttamento delle risorse forestali, che si rinnovano soltanto  lentamente, possono essere ridotti con la produzione di carta nuova dalla carta straccia o ricorrendo a materiali  cellulosici a rapida crescita.

Nell’analisi dei prodotti di origine vegetale rientrano importanti casi di materie industriali “naturali” per esempio le fibre tessili e la gomma, che subiscono la concorrenza dei corrispondenti prodotti sintetici. L’evoluzione di tale concorrenza appare meglio se si esaminano comparativamente le somiglianze e le diversità dei caratteri merceologici dei prodotti naturali e sintetici.

I prodotti alimentari vegetali stanno alla base, a loro volta, della “produzione” di alimenti di origine animale; l’allevamento del bestiame presuppone la disponibilità di pascoli o di mangimi e  fornisce alimenti carnei, ma anche prodotti industriali, come i pellami (la  materia  prima per l’industria del cuoio, delle pelli, delle scarpe, ecc.) e vari sottoprodotti della macellazione.

Infine un  importante capitolo riguarda la “merce” acqua, considerata generalmente un bene disponibile in quantità illimitata, ma che si rivela, in molte zone, scarsa, soprattutto se ci si riferisce alla disponibilità di acqua potabile di buona qualità igienica e “merceologica”. L’acqua dissalata, ormai prodotta su larga scala nel mondo, è una vera e propria merce “fabbricata” dal mare con processi che consentono di eliminare i sali e di ricuperare acqua dolce.

L’integrazione economica europea impone che le merci prodotte in un paese possano liberamente essere vendute negli altri paesi dell’Unione Europea, per cui sono sempre più numerose le leggi e le norme che stabiliscono o modificano la qualità, i caratteri, i limiti analitici delle merci. Le conoscenze merceologiche sono quindi ancora più indispensabili nelle operazioni commerciali, in tempi in cui, ironicamente, la disciplina sta scomparendo dai corsi di insegnamento.

Un campo di crescente interesse riguarda, infine, la storia delle merci e dei processi tecnici di  produzione; se ne possono trarre molte utili indicazioni per evitare errori nelle scelte merceologiche.

La  risoluzione di molti problemi — caratterizzazione commerciale, lotta alle frodi, eccetera — relativi ai settori sopra elencati richiede anche ricerche sperimentali sulle merci basate sull’uso di metodi chimici e fisici di indagine. E’ difficile pensare che un laboratorio di ricerca e indagine merceologica sia in grado di  risolvere qualsiasi problema analitico, per cui in genere si hanno laboratori universitari di merceologia, ciascuno specializzato in particolari settori. Laboratori merceologici di ricerca sperimentale o di controllo esistono, con varie  denominazioni, nella pubblica amministrazione, in molte industrie e in grandi imprese di distribuzione commerciale.

Nell’ambito della pubblica amministrazione la ricerca e i controlli merceologici sono condotti nei laboratori del Ministero della sanità (o come oggi si chiama), o delle strutture sanitarie pubbliche per le merci (alimenti, cosmetici, ecc.) il cui uso può arrecare danno alla salute; del Ministero dell’agricoltura (o come oggi si chiama), per la repressione delle frodi su prodotti agricoli, concimi, sementi, ecc.; del Ministero dell’industria (o come oggi si chiama) per i controlli su fibre tessili, carta, metalli, ecc.; dal Ministero delle finanze (o come oggi si chiama) per i controlli sulle merci oggetti di esportazione e importazione o soggette a imposte.

La seconda ed ultima parte di questo articolo sarà pubblicata nei prossimi giorni.

[1]P.Riani (a cura di), “Fondamenti metodologici ed epistemologici, storia e didattica della chimica. Massa-Carrara 2003-2004”, Pisa, Dipartimento di Chimica e Chimica industriale, 2005, p. 218-242

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