Nucleare si, nucleare no.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La diatriba circa l’inserimento o meno del nucleare fra le energie green ha riportato al centro dell’attenzione gli annosi problemi della sicurezza e delle scorie. Con la tassonomia UE la Commissione Europea ritiene che gli investimenti privati nei settori del gas e del nucleare possano svolgere un ruolo nella transizione energetica, un contributo che Bruxelles ha quantificato in circa 350 miliardi l’anno.

Le nuovi centrali a gas dovranno avere emissioni di CO2 inferiori a 270 g per chilowattora e dovranno sostituire centrali già esistenti e più inquinanti ed essere predisposte per il passaggio a biogas ed idrogeno verde. Per il nucleare le raccomandazioni ai singoli stati riguardano gestione sicura e smaltimento di scorie.

Le nuove centrali dovranno essere costruite entro il 2045, mentre i permessi che estendono la vita degli impianti esistenti dovranno essere rilasciati al più tardi entro il 2040. Nessun limite per il nucleare di quarta generazione per stimolare ricerca ed innovazione. In tal senso una proposta interessante su entrambe le questioni  viene dalla start up Newcleo, fondata da Stefano Buono, lo stesso della rivoluzione nella radioterapia oncologica con l’introduzione del farmaco Fdg per la PET, aumentandone  le capacità esplorative e la precisione con il  passaggio ad una radioterapia metabolica.

Tale innovazione è stata mutuata da un brevetto del CERN e punta a sviluppare reattori nucleari di quarta generazione. 2 innovazioni garantiscono circa sicurezza e scorie. Per le scorie il processo base anziché prevedere la cattura dei neutroni lenti da parte degli atomi di uranio con produzione di scorie, si basa invece sulla rottura degli atomi di uranio da parte dei neutroni veloci con produzione di energia (manca dunque il moderatore). La sicurezza invece si affida all’utilizzo del piombo fuso come liquido refrigerante al posto della acqua o del sodio. Il piombo ha il vantaggio di una temperatura di fusione di 327 gradi e soprattutto di una di sublimazione di 1750 gradi col vantaggio che anche in caso di surriscaldamento per lo spegnimento del reattore non si formerebbe la pericolosa nube di idrogeno prodotto dall’acqua e non contenuta dalla struttura del reattore, come avvenuto a Chernobyl e Fukushima.

Di certo però investire sul nucleare impedisce di investire contemporaneamente sulle energie rinnovabili. La prova vivente è la Francia, che ha una penetrazione di produzione di energia da fonti rinnovabili tra le più basse al mondo. Mentre è vero che il costo del combustibile nucleare è piccola cosa rispetto al costo capitale dell’impianto stesso, il combustibile è ovviamente ancora necessario.

Per chiudere con un paragone qualcuno sorriderà nel sapere che c’è 634 volte meno Uranio235 che Litio sul nostro Pianeta. Tutti sembrano preoccupatissimi sui tempi nei quali si potrebbe esaurire il Litio in relazione al suo carattere di componente auto (circa 8 kg a vettura) mentre nessuno si preoccupa del fatto che potremmo esaurire l’Uranio in meno di cento anni!

W la CO2. Possiamo trasformare il piombo in oro? Recensione

Claudio Della Volpe

W la CO2. Possiamo trasformare il piombo in oro?

Ed. Il Mulino, pag. 208 15 euro – 2021

Il libro di Gianfranco Pacchioni che commento qui oggi potrebbe dare adito ad una ambiguità. Il motivo è che in giro si trovano numerosi “difensori” della CO2; anzi che l’aumento di questo gas serra sia da considerare un vantaggio è uno degli argomenti del peggiore negazionismo; purtroppo anche in Italia abbiamo avuto un libro con questo taglio e scritto da due ingegneri che non nomino per non fargli pubblicità.

Diciamo subito che il libro di Pacchioni NON si situa in questa classe di libri; al contrario è frutto dello sforzo complesso e non banale di un chimico che riflette da chimico di razza su questi temi.

Già il sottotitolo, d’altra parte, chiarisce che la CO2 è “il piombo”, insomma una specie chimica che può giocare un ruolo negativo (ricordiamoci che tutto può giocare un ruolo negativo, come diceva il mio mentore Guido Barone, ogni cosa ha due corni o se volete il mondo, la natura è dialettica, contraddittoria).

La prima parte del libro è dedicata a ricostruire la figura chimica della CO2 nei suoi innumerevoli ruoli.

Una cosa da sottolineare è la riscoperta, almeno per l’Italia, di Ebelmen, uno scienziato francese oggi dimenticato che fu il primo scopritore del meccanismo basilare del ciclo del carbonio geologico, il weathering dei silicati, la reazione mediante la quale l’acqua satura di CO2 degrada le rocce silicee assimilandosi come carbonato. Ebelmen scoprì questo processo nel 1845, ma il suo lavoro fu dimenticato e riscoperto solo dopo molti decenni e ancora oggi non è ben assimilato sebbene alcune delle sue conclusioni siano state riscoperte; ma per esempio Arrhenius non lesse mai quel lavoro. E se è per questo si riscopre anche il ruolo di una donna americana, una scienziata poco conosciuta che probabilmente anticipò varie idee sulla CO2 e il clima (ma vedrete voi stessi).

Nei primi tre capitoli il libro racconta la storia della CO2 come molecola. Chi l’ha scoperta, da dove viene, ossia quali processi geologici possono giustificarne l’esistenza, quali processi biologici o chimici la producono e così via. Nel far questo l’autore è costretto a raccontare (e lo fa con grande abilità) la storia geologica del nostro pianeta, che è un argomento affascinante.

Nei capitoli successivi esplora invece la fotosintesi e la storia della sua delucidazione scientifica. Questa parte è molto completa e mi sembra veramente un lavoro ben fatto.

Ovviamente a questo punto l’autore introduce la scoperta e l’approfondimento del global warming e presenta alcune delle numerose prove chimiche che si possono trovare in letteratura. Anche qui la trattazione sebbene non tecnica è completa e piacevole da leggere.

Infine presenta il quadro di cosa si possa fare per affrontare il problema a partire dalle tecnologie rinnovabili ma anche da quelle legate all’assorbimento della CO2 con reazioni “naturali” come la reazione di Sabatier.

Trovo che questa parte avrebbe dovuto essere più attenta alle questioni che nascono dalla applicazione massiva di tecnologie di assorbimento della CO2 dunque per esempio spiegare o introdurre almeno i concetti di EROEI (energy return on energy investment) o di LCA (Life cycle analysis) perché al momento i punti deboli delle rinnovabili e delle tecnologie di assorbimento sono proprio legati non alla loro possibilità, ma alla loro applicabilità estesa, industriale.

Comunque il testo di Pacchioni rimane un ottimo esercizio di lettura per lo studente di chimica o di ingegneria ambientale che volesse informarsi su questi temi, ma anche per il lettore evoluto che non si ferma alla prima difficoltà.

Fra l’altro i limiti generali dei vari approcci sono ben spiegati.

Il compendio di note, immagini e citazioni è sufficiente a fornire una base del tutto sufficiente non solo al lettore evoluto, ma generico, ma anche al lettore che sia specialista di altri settori e voglia farsi un’idea di questi problemi.

Ho avuto modo di partecipare in qualche modo alla formulazione del testo, fornendo dei consigli che l’autore ha, bontà sua, accettato ma questo non mi rende di parte nella valutazione, anche perché l’accettazione è stata parziale e l’autore conserva i suoi punti di vista originali.

Nelle conclusioni l’autore, in modo per me inaspettato scrive delle cose, relative alla storia umana (il ruolo ipotizzabile della grande eruzione di Toba nella storia della nostra specie) che personalmente mi trovano molto d’accordo e che anzi avevo riassunto in un testo che circolò più di dieci anni fa per qualche tempo in ambienti politicamente impegnati della mia zona e nell’associazione ASPO Italia di cui in quel momento facevo parte.

In conclusione trovo il libro di Gianfranco Pacchioni molto ben scritto e interessante e ve ne consiglio caldamente la lettura.

Il nostro blog ha recensito un altro bel libro di Pacchioni.

Chimica e crisi energetica.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Sono sempre più numerosi i settori che dinnanzi alla crisi energetica producono documenti finalizzati ad evidenziare le rispettive specificità rispetto ad un problema assolutamente generale

L’industria farmaceutica si pone il problema quasi etico dell’impegno sociale, ponendosi la questione: se, come è successo, siamo in grado di produrre in un anno un vaccino contro il covid allora non possiamo chiedere ad un paziente malato di cancro di aspettare 10 anni. Per rispondere è stato cambiato qualche modello produttivo.

Bristol Myers Squibb, guidata, unico caso di un colosso USA, da un presidente italiano, Giovanni Caforio, ha per esempio cambiato il modo di fare ricerca, aprendo hub innovativi nei luoghi dove è possibile lavorare insieme ai centri di ricerca migliori al mondo, quindi Seattle, San Francisco, Boston.

Ma la burocrazia resta un freno: durante la pandemia era sufficiente richiedere una riunione alla Food Drug Administration o all’Agenzia Europea del Farmaco per ottenere la convocazione in poche ore, mentre oggi possono volerci settimane o mesi.

C’è poi una specificità che pesa moltissimo, che fa dell’industria farmaceutica un settore unico: nel suo caso i prezzi sono fissati dalle autorità nazionali, quindi senza possibilità di agire sulla leva dei prezzi per ammortizzare i costi maggiori. Purtroppo però questo recupero avviene con una visione solo speculativa incurante degli interessi del paziente

Un altro settore che soffre per i costi delle materie prime legate al superbonus e delle forniture energetiche, fino al 1500 % di aumento, è quello delle costruzioni, sia dal lato delle grandi opere che dell’edilizia privata con aumenti denunciati in alcuni casi fino al 200%. I materiali energivori sono tantissimi praticamente tutti, e la lievitazione dei prezzi induce difficoltà nell’acquisizione di tali materiali, ma a cascata di ogni prodotto che li utilizza.

La ricaduta sulle pratiche avviate in tempi migliori per bonus ed ecobonus è la prima responsabile della crisi del settore edilizia.

Infine anche l’Agricoltura viene colpita per la crisi produttiva delle industrie dei fertilizzanti. Queste hanno scritto alla presidente della Commissione Europea von der Leyen per chiedere una urgente azione sui prezzi del gas perché le chiusure degli impianti di produzione di fertilizzanti faranno aumentare le emissioni globali di carbonio e la dipendenza dell’Europa dai mercati terzi.

La guerra russo-ucraina ha fatto schizzare i prezzi del gas ed ha bloccato le esportazioni di fertilizzanti dai 2 paesi coinvolti direttamente nella guerra che ne sono grandi produttori. Al porto di Ravenna sono arrivate 800 mila tonnellate di fertilizzanti per il 70% da questi 2 Paesi  con un calo del 15% rispetto all’anno prima. Il timore è che gli agricoltori non riescano a concimare ed accettino quello che viene dai campi riducendo rese e qualità o, addirittura, abbandonando l’attività, con la differenza rispetto all’industria  che i campi non possono essere spenti e riaccesi. Qui la chimica può essere un importante supporto indicando la valorizzazione di alcuni sottoprodotti che possono sostituire i concimi tradizionali e sostenere la ricerca scientifica; il problema principale però resta quello dei costi energetici e della  relativa politica di gestione.

Buone e cattive notizie.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Come spesso avviene le notizie sull’ambiente arrivano sempre in coppia: non si fa a tempo a rallegrarsi per quella buona che subito si devono fare i conti con quella cattiva.

Cominciando da quest’ultima è scattato nelle ville di Roma l’allarme ozono: con soglia di allarme a 240 microgrammi per metro cubo ne sono stati rilevati 220. Al suolo l’ozono si forma quando precursori costituiti da inquinanti antropici e composti naturali, in primis i terpeni prodotti dagli alberi resinosi, in un mix estremamente eterogeneo, vengono irradiati dalla luce solare. Le condizioni di intensità di questa e di esposizione alla luce, la temperatura e le altre condizioni metereologiche, la direzione e velocità dei venti sono responsabili della variabilità degli effetti e quindi della concentrazione dell’ozono prodottasi. I valori più alti si raggiungono nelle ore più calde della giornata. La situazione della città, 766 fra auto e motorini ogni 1000 abitanti, di certo è un aggravante.

Da tutto quanto detto si comprende come l’impegno che Roma si é assunta di raggiungere la neutralità climatica entro il 2030 e le zero emissioni entro il 2050 sia gravoso e richieda interventi efficaci e tempestivi.

C’è da dire che in una valutazione dinamica dell’inquinamento quale risulta dall’ultimo rapporto del Kyoto Club e dell’Istituto Inquinamento Atmosferico del CNR la situazione- ed è questa la buona notizia – tende a migliorare, i giorni di superamento dei limiti si sono ridotti, anche in presenza di eventi, come gli incendi, che non sono direttamente correlati all’inquinamento ed al traffico veicolare.

Il covid19 ha agevolato questi miglioramenti con il ridotto traffico e la controllata mobilità

L’estate della pianta aliena.

Mauro Icardi

La condizione di siccità prolungata, la riduzione delle portate nei corsi d’acqua principali, l’aumento di temperatura dell’acqua sono le condizioni che hanno permesso che la pianta acquatica Elodea nuttallii si sia diffusa in buona parte del Nord Italia. Questa pianta acquatica è originaria del Nord America e si sviluppa nei fondali di laghi, stagni e corsi d’acqua poco profondi e a lento scorrimento. In Italia, la pianta è stata rilevata attualmente solo in cinque regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Provincia di Trento.

Con il termine “invasivo” s’intendono quelle specie aliene, ovvero non autoctone, in grado di mettere in pericolo un ecosistema. La Elodea è stata introdotta in Europa come pianta ornamentale per laghetti, stagni ed acquari. Il fenomeno in sé esiste da sempre, ma è l’incremento consistente di tale fenomeno negli ultimi anni a destare forte preoccupazione.

In questa foto si può vedere la condizione del Po a Torino nella zona dei Murazzi che si trova in prossimità del centro storico.

 Diverse caratteristiche di questa specie di pianta sono tipiche degli infestanti di difficile controllo: crescita rapida, riproduzione vegetativa attraverso frammenti e facile dispersione da parte degli uccelli acquatici e delle correnti. Quando questo genere di pianta colonizza un corso d’acqua può formare strati molto spessi e resistenti, che necessitano di operazioni frequenti di sfalcio e rimozione.  Può ostruire i sistemi di drenaggio, le tubazioni e gli eventuali sistemi di chiuse. 

Un altro problema è che questa pianta infestante sostituisce le specie autoctone che sono di norma il nutrimento per i pesci compromettendo l’equilibrio ecologico ;inoltre, gli strati compatti impediscono l’ossigenazione delle acque.

Un problema del tutto simile si era già verificato negli anni 70 del secolo scorso ed era dovuto all’eccesso di nutrienti quali azoto e fosforo presenti nelle acque reflue, che venivano scaricati nei corpi idrici senza trattamenti di depurazione, o con trattamenti parziali che si limitavano a grigliatura e sedimentazione primaria. Il problema venne risolto con la costruzione degli impianti di depurazione delle acque reflue. Ora si ripresenta con aspetti diversi. Non è solo un problema dovuto all’introduzione di specie non autoctone, ma anche strettamente connesso con la modifica del regime di portata di molti fiumi italiani. Nel caso del fiume Po lo scorrere lento con flusso laminare, e la temperatura elevata delle acque sono condizioni che, come già detto, ne favoriscono il proliferare incontrollato.

Gli sfalci però non sono risolutivi ma si tratta soltanto di un’operazione indifferibile per impedire la marcescenza e putrefazione dello strato di piante cercando così di limitare il problema delle molestie olfattive.

https://www.lastampa.it/torino/2022/07/19/news/la_giungla_sul_fiume_a_un_mese_dallultimo_sfalcio_le_piante_si_riprendono_il_po-5461490/

Come si può facilmente capire, i problemi ambientali sono spesso collegati. E gli effetti finiscono per avere un effetto a cascata. Precipitazioni nevose praticamente assenti, siccità prolungata hanno compromesso gravemente lo stato ecologico dei fiumi italiani. Ripeto il solito appello di sempre: non possono essere solo le soluzioni tecnologiche, che pure ci sono e funzionano, a risolvere questo tipo di situazioni. Ci vuole una mentalità diversa. E questa mentalità deve essere acquisita in primo luogo dall’opinione pubblica che poi dovrebbe fare pressione sulla classe politica. Oltre a questo è fondamentale diffondere una generalizzata educazione ambientale che mi sembra ancora decisamente carente, o mal compresa.  Posso disporre dell’impianto di depurazione migliore al mondo, ma se questo scarica in un fiume che è completamente in secca è evidente che qualcosa non funziona come dovrebbe. Mettere la testa sotto la sabbia, dissimulare la gravità delle situazioni, pensare che tutto si risolverà senza un necessario cambio di atteggiamento nei confronti del nostro modo di vivere su questo pianeta non potrà che portare a fallimenti e delusioni.

Mi prendo la libertà di allegare questa vignetta che ritengo significativa.

L’estate del 2022 dovrebbe insegnarci qualcosa, cerchiamo di ricordarcelo non appena le prime piogge ci illuderanno di vivere la “normalità” a cui tanto aspiriamo.

Qualche considerazione sui cosidetti “termovalorizzatori”.1.

Claudio Della Volpe

Premetto che questo non è un trattato sul tema ma un breve post e dunque non potrà essere esaustivo ma solo indicare alcuni punti. Eventualmente continuerò ad occuparmi del tema in altri post.

Le parole sono pietre e spesso la scelta di un termine implica tutta una serie di contenuti che però non appaiono subito chiari.

A me questo appare il caso del termovalorizzatore, ossia un impianto di incenerimento dei rifiuti a carattere “organico” in senso chimico, ossia basati su scheletri di carbonio. Ci sono due categorie di rifiuti di questo tipo, quelli propriamente organici, biologici insomma e quelli di plastica che ne rappresentano la assoluta maggioranza.

I tipici termovalorizzatori sono alimentati non tanto con combustibile “secco” generico quanto con il cosiddetto CDR, combustibile-derivato-da-rifiuto, ossia un tipo di rifiuto solido ottimizzato per la combustione in termovalorizzatore e in cui la componente di eteroatomi come cloro o fluoro è ridotta ed anche quella puramente biologica. La riduzione degli eteroatomi serve a ridurre la formazione di acidi inorganici aggressivi che renderebbero molto più impegnativa e costosa la combustione e le operazioni di filtraggio di fumi e polvere.

Il Combustibile derivato dai rifiuti (CDR) è un combustibile ottenuto dal trattamento chimico-fisico dei rifiuti solidi urbani che consente di ottenere energia dai rifiuti. Il combustibile derivato dai rifiuti è conosciuto anche con la sigla inglese RDF (Refuse Derived Fuel). Il CDR è composto essenzialmente da materie derivate dal petrolio (plastica, gomma, ecc.). Si ottiene eliminando le frazioni organiche e gli elementi non combustibili dai rifiuti. Al termine del trattamento il CDR viene sistemato in blocchi cilindrici, denominati ecoballe, e consegnato per l’incenerimento finale ai termovalorizzatori.

Questo tipo di cernita (che ha a sua volta un costo energetico) va considerata nel quadro del bilancio complessivo di energia.

La produzione della plastica dal petrolio è una operazione energeticamente intensiva; da un “compito in classe” di uno studente di Stanford (ma si possono trovare altre fonti di letteratura) ricaviamo che una tipica plastica come il PET costa in termini produttivi (petrolio ed operazioni conseguenti incluso il trasporto) qualcosa come 100MJ per chilogrammo; a fronte di questo costo sta il contenuto entalpico, ossia ottenibile dalla mera combustione del materiale, che è espressa nella tabella seguente:

La differenza fra i due dati mostra che la pretesa termovalorizzazione è un imbroglio dal punto di vista termodinamico, in quanto la plastica che bruciamo ci è costata per la sua produzione più del doppio dell’energia che ne ricaveremo, (come vedete nessuna produce più di 46.5 MJ/kg); in questo senso la sua combustione è un ben misero risultato anche perché, come sappiamo bene dalla termodinamica la trasformazione del calore in energia elettrica anche nelle migliori condizioni ottenibili è dell’ordine della metà; se ne conclude che con la “termovalorizzazione” recuperiamo la metà della metà, circa ¼ (un quarto) dell’energia che abbiamo speso per produrre la plastica dal petrolio.

Aggiungiamo un altro dato, sia pure approssimato: per quanto tempo l’abbiamo usata questa benedetta plastica? In genere se si escludono appunto prodotti come il PVC che sono a lunga vita (una finestra in PVC dura molti decenni) ma non sono bruciabili almeno non in un comune inceneritore a causa della estesa formazione di HCl, la vita media di un oggetto in plastica è breve; non sono stato in grado di trovare stime affidabili e complete, ma la stima corrente è inferiore all’anno.

Ne segue che di fatto la combustione della plastica è una sorta di combustione di petrolio “differita”  ed a bassissima efficienza che non è esente dai problemi generali della combustione di petrolio, ossia da quelli climatici su cui torneremo fra un momento.

Analizziamo il momento della combustione vera e propria. E’ un processo che noi uomini usiamo da oltre un milione di anni (lo usavano già i nostri progenitori della specie Homo, noi lo facciamo da quando esistiamo, circa 200mila anni) e che è stato profondamente ottimizzato.

Su questa fase dobbiamo dare torto al senso comune: è possibile con opportuni accorgimenti, a partire dalla cernita delle ecoballe (e quindi escludendo una parte dei rifiuti pur bruciabili) e dalla costanza della loro composizione come da tutti i metodi di filtraggio e di abbattimento, ottenere dagli impianti migliori, come quello di Acerra per esempio, emissioni ben al di sotto dei limiti di legge e dunque esenti da problemi ambientali.

Esistono numerosi lavori nel merito, per Acerra c’è un corposo libretto del CNR che ha studiato l’impianto già nel 2016, per esempio.

Ma su questo ho una prova inoppugnabile che è nel mio caso “di famiglia”, per così dire. Ho un cugino che ha fatto il veterinario della ASL Na2Nord; e che dopo la pensione essendo un appassionato di api da sempre ed un esperto da molti anni di api è stato coinvolto in uno studio che è stato poi pubblicato (dalla Regione Campania, nella rivista della ASLNa2Nord 2020); Patrizio Catalano ha allevato un bel po’ di api nel recinto del termovalorizzatore; le api sono libere di muoversi in tutto il territorio circostante e di ricavarne il loro miele, la cera e tutti i prodotti tipici della loro attività; questi prodotti sono stati studiati e analizzati per parecchio tempo da enti terzi, insieme alle api defunte e NON MOSTRANO alcuna criticità; ne segue che per quanto concerne gli effetti diretti dell’impianto sull’ambiente circostante un indicatore sensibile come le api, che sono un classico della bioanalisi ambientale, provano che non ci sono emissioni nocive.

Oggi il termovalorizzatore regala il miele prodotto da queste api ai visitatori, come anche il pepe rosa che nasce e cresce nel cortile interno dell’impianto, arricchendolo col suo forte profumo.

Insomma se si usano i migliori sistemi di combustione e di controllo delle emissioni bruciare le ecoballe si può senza inquinare l’aria. Per converso il territorio su cui si è bruciato liberamente e si è inquinato terribilmente (la cosiddetta “terra dei fuochi”, che non è così lontana da Acerra) la situazione si rovescia, lì l’inquinamento e gli effetti sulle api sono palesi.

Conclusione il termovalorizzatore se condotto bene può non inquinare l’aria.

Procediamo ancora; la combustione produce non solo fumi e gas ma anche ceneri; in questo caso la massa delle ceneri varia fra il 20 e il 30% della massa del combustibile usato; non è una percentuale trascurabile; a causa della sua composizione tuttavia il suo VOLUME è parecchio inferiore (le ceneri sono costituite da ossidi di metalli residui essenzialmente a partire da sodio e potassio a finire agli eventuali metalli pesanti presenti nella plastica e dunque hanno una densità molto più alta dei rifiuti); inoltre questo tipo di ceneri che costituisce a sua volta un rifiuto non è stoccabile nelle medesime condizioni del rifiuto di partenza, ma solo in condizioni molto più difficili da ottenere (almeno pro quota) e in parecchie regioni NON CI SONO depositi di rifiuti adeguati alla bisogna. Ne segue dunque che una volta bruciate le ecoballe occorre trasferire una massa che va da un quinto ad un terzo delle ecoballe in appositi depositi (anche questo, come la raccolta e la cernita delle ecoballe ha un costo energetico); si sta cercando di riusare queste ceneri essenzialmente vetrificandole e trasformandole in materiale da costruzione, ma la cosa non è ancora un fatto commerciale.

Dunque è pur vero che le emissioni gassose di un termovalorizzatore ben gestito sono trascurabili in termini di inquinamento atmosferico, ma ricordiamoci che ci sono le ceneri che occorre come le ecoballe, trasferire per molti chilometri in apposite discariche, almeno al momento.

Ed arriviamo qui alle dolenti note climatiche.

Il termovalorizzatore sia pur depurato delle sue emissioni più nocive in termini di fumi e gas emetterà comunque molte tonnellate di gas serra; essenzialmente acqua ed anidride carbonica.

Come sappiamo fra i due il vero gas serra che può alterare il bilancio serra del pianeta è l’anidride carbonica. Per ogni chilo di rifiuto avremo circa tre chili di gas serra.

Questo è un dato inoppugnabile e di solito trascurato; ma non si può farlo; un caso recente ce lo fa capire bene:

Il famoso inceneritore di Copenhagen, quello su cui si può sciare, è diventato a livello mondiale il simbolo della termovalorizzazione pulita, ma…..

C’è un ma; anche quell’impianto esemplare manca di un modo di bloccare le emissioni climalteranti; certo si può, si potrebbe costruire un impianto di assorbimento della CO2 prodotta, anche se poi si dovrebbe stoccarla e metodi sicuri e certi per questo stoccaggio non ci sono, a parte i costi di trasporto; ma il costo di questa parte del dispositivo è molto alto; la comunità danese si è rifiutata di farlo;

https://europa.today.it/ambiente/copenaghen-emissioni-zero-termovalorizzatore.html

La conclusione è che anche l’impianto da sogno su cui si può sciare non è una soluzione perché non può bloccare le emissioni climalteranti e se si applicasse questo metodo a tutti i rifiuti possibili l’effetto sarebbe tragico per il clima.

L’Europa almeno formalmente ha scritto già nel 2018 che i termovalorizzatori non sono la soluzione per i rifiuti proprio per questo motivo.

https://www.pressenza.com/it/2018/01/leuropa-dice-no-agli-inceneritori-aumentano-leffetto-serra/

Un ultimo punto che non è di tipo scientifico ma che fa capire come poi l’inceneritore reagisce con la nostra struttura sociale.

Ma come ha fatto l’inceneritore di Copenaghen a continuare a bruciare tanti rifiuti quando poi la Danimarca è effettivamente all’avanguardia nel riciclo? Semplice; per far si che l’impianto non fosse in perdita la Danimarca ha IMPORTATO la monnezza o meglio i CDR di altri paesi in modo da poter continuare a bruciare.

Mentre in origine l’impianto era stato costruito per bruciare solo i rifiuti di parte della città di Copenaghen, dopo qualche anno per non rinunciare ai profitti ed andare in perdita la regola è stata “superata” e si è andati verso la crescita inarrestabile sia della quantità dei rifiuti trattati (quasi 600mila tonnellate all’anno), sia all’espansione dell’impianto per bruciare anche rifiuti di tipo vegetale.

Ma ovviamente questo non ha fatto proprio piacere ai cittadini danesi. Il governo dopo opportuna riflessione ha deciso di cambiare strada.

Dunque la conclusione è che mentre in Europa si abbandona la strada dell’incenerimento qui da noi si continua a puntare su una tecnologia che è ritenuta SUPERATA dai fatti climatici; i costruendi inceneritori di Roma, di Trento-Rovereto e l’espansione di Acerra rimangono un sogno tecnologico ma insostenibile; i rifiuti si devono ridurre, riducendo la produzione di manufatti e riciclando e riusando gli oggetti e i materiali.

Ma questo confligge con la natura sempre crescente dell’economia capitalistica; per cui o lei o noi, l’economia capitalistica del Pil sempre crescente è insostenibile per noi e per il pianeta e deve passare anch’essa in qualche tipo di pattumiera.

(continua)

Etica della ricerca sotto i riflettori.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

L’etica della scienza è di certo ambito di cui continuiamo a scoprire nuovi aspetti e risvolti.

L’ultimo è quello delle intelligenze artificiali capaci di creare opere complesse basate su immagini e parole memorizzate con il rischio di fake news e di contenuti disturbanti.

Per evitare che ciò accada si sta procedendo filtrando secondo criteri di autocensura i dati da cui l’intelligenza artificiale parte.

Comincia ad intravedersi un futuro prossimo di competizione fra autori umani ed artificiali nel quale sarà importante, quando i loro prodotti saranno indistinguibili, dichiararne l’origine.

Come si comprende, si conferma che gli aspetti etici dell’innovazione e della ricerca si diversificato sempre di più.

La biologia molecolare e la genetica già in passato hanno posto all’attenzione comune aspetti di etica della scienza che hanno indotto a nuove riflessioni circa i limiti delle ricerche.

L’argomento, sempre attuale, torna sulle prime pagine a seguito della pubblicazione di una ricerca della Università di Cambridge che ha sviluppato una struttura cellulare di un topo con un cuore che batte regolarmente.

Magdalena Zernicka-Goetz

Gianluca Amadei

Del gruppo fa parte anche uno scienziato italiano Gianluca Amadei,che dinnanzi alle obiezioni di natura etica sulla realizzazione della vita artificiale si è affrettato a sostenere che non è creare nuove vite il fine primario della ricerca, ma quello di salvare quelle esistenti, di dare contributi essenziali alla medicina citando il caso del fallimento tuttora non interpretato di alcune gravidanze e di superare la sperimentazione animale, così contribuendo positivamente alla soluzione di un altro dilemma etico.

L’embrione sintetico ha ovviamente come primo traguardo il contributo ai trapianti oggi drammaticamente carenti nell’offerta rispetto alla domanda, con attese fino a 4 anni per i trapianti di cuore ed a 2 anni per quelli di fegato. Il lavoro dovrebbe adesso continuare presso l’Ateneo di Padova per creare nuovi organi e nuovi farmaci.

Come rimediare alla diminuzione del gas russo

Vincenzo Balzani, professore emerito UniBo

Per far fronte alla diminuzione del gas russo, il governo, sotto la spinta delle compagnie petrolifere, ha adottato soluzioni, in parte giustificate dalla necessità di intervenire con urgenza, che ci legheranno all’uso dei combustibili fossili per 10-15 anni e rallenteranno lo sviluppo delle energie rinnovabili.

Aumentare l’utilizzo delle centrali a carbone è una proposta inammissibile non solo perché non abbiamo carbone, ma anche perché è il più dannoso fra combustibili fossili.

Riprendere le trivellazioni di gas in Italia è una soluzione illusoria perché al massimo saremmo in grado di coprire appena un anno e mezzo della domanda nazionale di gas. La ricerca spasmodica di fonti fossili in Africa ci mette nella condizione di dipendere da paesi politicamente instabili, caratterizzati da un basso grado di democrazia.

I rigassificatori per usare gas liquefatto proveniente dagli USA o dal Medioriente sono costosi e pericolosi e ci incateneranno all’utilizzo del metano ancora per molti anni.

La produzione di biocombustibili da colture dedicate non è una soluzione; se si considera l’energia usata per seminare, raccogliere, trasportare e convertire i raccolti in biocombustibili, in molti casi il bilancio energetico è negativo. L’ impatto ambientale dei biocombustibili può essere addirittura maggiore di quello dei combustibili fossili. Si crea inoltre una competizione fra l’uso del terreno per produrre cibo e quello per ottenere energia; il “pieno” di bioetanolo per un SUV utilizza il mais sufficiente a nutrire una persona per un anno. Infine, i biocombustibili ostacolano la transizione dai motori a combustione ai motori elettrici, che sono 3-4 volte più efficienti e non producono gas inquinanti e clima alteranti. L’efficienza di conversione dei fotoni del Sole in energia meccanica delle ruote di un’automobile (sun-to-wheels efficiency) è più di 100 volte superiore per la filiera che dal fotovoltaico porta alle auto elettriche rispetto alla filiera che dalle biomasse porta alle auto alimentate da biocombustibili

I biocombustibili sono anche i protagonisti delle campagne pubblicitarie e delle operazioni di greenwashing delle compagnie petrolifere. L’Autorità Antitrust ha multato ENI con una sanzione di 5 milioni di euro per aver pubblicizzato come green il suo Diesel+composto per l’85% di diesel fossile e 15% di Hydrotreated Vegetable Oil prodotto da olio di palma.

La soluzione vera e strutturale del problema energia sta nello sviluppo delle energie rinnovabili: impianti fotovoltaici ed eolici per la produzione di energia elettrica, reti per la sua distribuzione e batterie e pompaggi per accumularla. Lo sfruttamento delle energie rinnovabili è sostenibile non solo in termini climatici e sanitari, ma anche in termini economici perché i costi riguardano solo la costruzione, l’ammortamento e la manutenzione. L’energia che ci forniscono Sole e vento è gratuita e, a differenza dei combustibili fossili, sicura e inesauribile. Un’accelerazione spinta sulle rinnovabili avrebbe effetti occupazionali molto positivi.

Articolo già pubblicato su Bo7 del 4 settembre 2022

Mineralizzare i PFAS.

Claudio Della Volpe

L’inquinamento da PFAS, da perfluoroalchili e derivati (si tratta di parecchie molecole alcune non ancora bene individuate) è un argomento che abbiamo affrontato in vari post che sono elencati alla fine di questo. E’ un problema di dimensione internazionale e che non si riferisce solo al nostro paese, dove appare localizzato in certe regioni, per esempio in Veneto (ma anche in Piemonte). La regione Veneto sta seguendo un piano di sorveglianza dal quale si evince che nella popolazione interessata la quota sierica di PFAS sta lentamente diminuendo, più velocemente nelle femmine che nei maschi. Parliamo, in totale, di centinaia di migliaia di persone esposte, anche se le analisi sono state accettate solo da una piccola quota.

https://www.regione.veneto.it/documents/10793/12935055/Bollettino+PFAS+Febbraio_2022_DEF.pdf/eb985d55-7096-4f84-838d-87b624f867d8

Che il problema sia globale si evince da un recente lavoro comparso su Environmental Science Technology di cui riportiamo sotto l’abstract.

Nell’abstract di questo lavoro si  scrive:

Si ipotizza che la contaminazione ambientale per sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) definisce un separato confine planetario e che questo confine è stato superato. Questa ipotesi viene testata confrontando i livelli di quattro acidi perfluoroalchilici selezionati (PFAA) (cioè perfluoroottanosolfonici) acido (PFOS), acido perfluoroottanoico (PFOA), perfluoroesano- acido solfonico (PFHxS) e acido perfluorononanoico (PFNA)) in vari media ambientali globali (ad esempio, acqua piovana, suoli e acque superficiali) con livelli orientativi recentemente proposti. Sulla base dei quattro PFAA considerati, si conclude che (1) livelli di PFOA e PFOS nell’acqua piovana spesso superano di gran lunga il livello indicato da EPA per l’uso umano per tutta la vita. I livelli di Water Health Advisory e la somma dei suddetti quattro PFAA (Σ4 PFAS) nell’acqua piovana sono spesso superiori ai valori limite danesi per l’acqua potabile basati anche su Σ4 PFAS; (2) i livelli di PFOS nelle acque piovane sono spesso superiori allo standard di qualità ambientale per le acque superficiali interne dell’Unione europea; e (3) la deposizione atmosferica porta anche a contaminare i suoli globali in modo ubiquitario e ad essere spesso al di sopra dei valori delle linee guida olandesi proposte. Si conclude, pertanto, che la diffusione globale di questi quattro PFAA nell’atmosfera ha portato al superamento del confine planetario per l’inquinamento chimico. I livelli di PFAA nella deposizione atmosferica sono particolarmente scarsamente reversibili a causa dell’elevata persistenza dei PFAA e della loro capacità di ciclo continuo nell’idrosfera, compresi gli aerosol di spruzzo marino emessi dagli oceani. A causa della scarsa reversibilità dell’esposizione ambientale ai PFAS e dei loro effetti associati, è di vitale importanza che gli usi e le emissioni di PFAS siano rapidamente limitati.

Vista la natura globale del problema, nei cui confronti non ci sono al momento azioni internazionali paragonabili a quelle che si sono avute in altri casi con l’accordo di Stoccolma per i terribili 12 o con l’accordo di Montreal-Kigali per il buco dell’ozono è importante notare cosa fa la comunità chimica a riguardo e le ricerche ci sono, di alcune abbiamo già dato conto (si veda per esempio il post del 2019 elencato sotto, un enzima che può degradare i PFAS).

L’articolo di Cousins ha avuto grande risonanza mondiale.

Sebbene alcuni PFAS siano stati gradualmente eliminati dai principali produttori già decenni fa, le misurazioni ambientali mostrano che i livelli non sono in notevole diminuzione. Gli autori spiegano che i PFAS sono molto persistenti e circoleranno continuamente attraverso diversi media ambientali e in tutto il mondo senza rompersi. Cousins et al. hanno inoltre sottolineato che con la pubblicazione di nuovi dati tossicologici, i valori delle linee guida per i PFAS nell’acqua potabile sono diminuiti drasticamente negli ultimi 22 anni man mano che vengono alla luce nuove informazioni sugli effetti dei PFAS. Negli Stati Uniti, le linee guida per il PFOA sono diminuite di 37,5 milioni di volte.

Gli autori hanno sottolineato di aver considerato solo alcune delle molte migliaia di PFAS, la maggior parte dei quali ha rischi ancora sconosciuti. Pertanto è probabile che i problemi associati ai PFAS siano molto più alti di quelli valutati nell’articolo. Martin Scheringer, uno dei co-autori del documento, ha sottolineato che “ora, a causa della diffusione globale di PFAS, i media ambientali ovunque supereranno le linee guida sulla qualità ambientale progettate per proteggere la salute umana e possiamo fare molto poco per ridurre la contaminazione da PFAS. In altre parole, ha senso definire un confine planetario specifico per i PFAS e, come concludiamo nel documento, questo limite è stato ora superato”.

Un confine planetario viene superato quando qualcosa è onnipresente, non facilmente reversibile e sconvolge i sistemi vitali della Terra. L’inquinamento chimico è uno dei nove confini planetari originariamente proposti che è stato successivamente rinominato in confine “nuove entità” (NE). Le “nuove entità” includono prodotti chimici industriali e sostanze chimiche nei prodotti di consumo (FPF riportato). Cousins e co-autori hanno descritto nel loro articolo che il confine dei NE “può essere pensato come un segnaposto per più confini planetari per i NE che possono emergere” e sostengono che i PFAS sono solo uno di questi confini.

In un altro articolo open access pubblicato su Expo Health (2022). https://doi.org/10.1007/s12403-022-00496-y da Obsekov, V., Kahn, L.G. & Trasande, L. dal titolo Leveraging Systematic Reviews to Explore Disease Burden and Costs of Per- and Polyfluoroalkyl Substance Exposures in the United States gli autori valutano i costi dell’inquinamento da PFAS.

Prove sempre crescenti confermano il contributo delle sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) al carico di malattia e alla disabilità nell’arco della vita. Dato che i responsabili delle politiche sollevano gli alti costi di bonifica e di sostituzione dei PFAS con alternative più sicure nei prodotti di consumo come barriere per affrontare gli esiti avversi sulla salute associati all’esposizione ai PFAS, è importante documentare i costi dell’inazione anche in presenza di incertezza. Abbiamo quindi quantificato i carichi di malattia e i relativi costi economici dovuti all’esposizione ai PFAS negli Stati Uniti nel 2018. Abbiamo fatto leva su revisioni sistematiche e utilizzato input meta-analitici quando possibile, identificato relazioni esposizione-risposta precedentemente pubblicate e calcolato gli aumenti attribuibili a PFOA e PFOS in 13 condizioni. Questi incrementi sono stati poi applicati ai dati del censimento per determinare i casi annuali totali di malattia attribuibili a PFOA e PFOS, da cui abbiamo calcolato i costi economici dovuti alle cure mediche e alla perdita di produttività utilizzando i dati sul costo della malattia precedentemente pubblicati. Abbiamo identificato i costi delle malattie attribuibili ai PFAS negli Stati Uniti, pari a 5,52 miliardi di dollari per cinque endpoint di malattie primarie che le meta-analisi hanno dimostrato essere associate all’esposizione ai PFAS. Questa stima rappresenta il limite inferiore, con analisi di sensibilità che rivelano costi complessivi fino a 62,6 miliardi di dollari. Sebbene sia necessario un ulteriore lavoro per valutare la probabilità di causalità e stabilire con maggiore certezza gli effetti della più ampia categoria di PFAS, i risultati confermano ulteriormente la necessità di interventi politici e di salute pubblica per ridurre l’esposizione a PFOA e PFOS e i loro effetti di interferenza endocrina. Questo studio dimostra le grandi implicazioni economiche potenziali dell’inazione normativa.

Un lavoro recentissimo che appare degno di menzione è dedicato ad un metodo poco costoso e da realizzare in condizioni non drastiche per la mineralizzazione di questi composti pubblicato su Science.

Trang et al., Science 377, 839–845 (2022)  19 August 2022

Nell’abstract gli autori scrivono:

Le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) sono inquinanti persistenti e bioaccumulabili presenti nelle risorse idriche in concentrazioni dannose per la salute umana. Mentre le attuali strategie di distruzione dei PFAS utilizzano meccanismi di distruzione non selettivi, abbiamo scoperto che gli acidi perfluoroalchilici carbossilici (PFCA) possono essere mineralizzati attraverso un percorso di defluorurazione mediato da idrossido di sodio. La decarbossilazione dei PFCA in solventi polari aprotici ha prodotto intermedi reattivi di ioni perfluoroalchilici che si sono degradati in ioni fluoruro (dal 78 al ~100%) entro 24 ore. Gli intermedi e i prodotti contenenti carbonio non sono coerenti con i meccanismi di accorciamento a catena monocarbonica spesso proposti, e abbiamo invece identificato computazionalmente percorsi coerenti con molti esperimenti. La degradazione è stata osservata anche per gli acidi carbossilici perfluoroalchilici ramificati e potrebbe essere estesa per degradare altre classi di PFAS man mano che vengono identificati i metodi per attivare i loro gruppi di testa polari.

Uno schema semplificato delle reazioni trovate è riportato nella seguente immagine; il vantaggio basico è di usare solventi poco costosi e condizioni non drastiche di reazione che corrispondono a minori costi.

Rimane tuttavia dolorosamente vero che ancora una volta la chimica è stata usata per fare enormi profitti ed introdurre beni e processi che, seppure parzialmente utili, possono avere conseguenze disastrose per l’ambiente  e dunque per noi stessi; in questo caso specifico abbiamo introdotto in grandi quantità un legame, C-F, che è pochissimo presente in natura e dunque per il quale la rete della biosfera non ha strumenti di controllo e di difesa; questo legame deve essere scartato, eliminato dalle produzioni industriali, ma deve essere ancora presente nella nostra ricerca per individuare metodi di eliminazione e di depurazione poco costosi ed efficaci.

Avevo trattato questo argomento in un articolo del luglio 2020 su C&I:

Inoltre sempre su questo argomento deve valere la regola che non ci possono essere brevetti, argomenti usabili a difesa di diritti privati e che impediscano di approfondire gli studi a riguardo (rileggetevi a questo proposito il post del 2021 sulle vongole di Chioggia)

Se la Chimica ed i chimici vogliono riguadagnare prestigio agli occhi della pubblica opinione questo è un caso utile, ma anche senza appello; se proseguiremo nella politica degli occhi bendati nei riguardi delle malefatte del profitto applicato alla chimica la nostra reputazione è destinata ad un continuo peggioramento.

Mai stato contro la ricerca o il progresso, ma sempre per una applicazione delle novità che portassero vantaggi alla collettività non a singoli e che evitassero danni inaccettabili all’ambiente. La ricerca deve essere libera ma non l’applicazione delle nuove scoperte, quella deve sottostare a regole rigide basate PRIMA DI TUTTO NON SU UNA VALUTAZIONE ECONOMICA MA sull’evitare danni alla biosfera in cui viviamo e a noi stessi. E’ anche per questo che i brevetti sono un povero e superato metodo di controllo, basato su una concezione sociale ormai insostenibile.

Lista dei post dedicati in passato all’inquinamento da perfluoroalchili.