Economia circolare, fonti energetiche rinnovabili, cambiamento di stile di vita ….

Fabio Olmi*

 … tra indispensabile praticabilità reale e qualche “ma” tecnico (**).

Ormai non passa giorno che non compaiano sui giornali articoli sulla economia circolare, il riciclo dei materiali e la sostituzione delle energie di origine fossile con quelle rinnovabili. Questo sarebbe positivo e indice di aumento della sensibilità per tematiche di assoluta importanza per alimentare uno sviluppo sostenibile e cercare di combattere il riscaldamento globale, peccato che spesso si generalizzano situazioni al di là del possibile o peggio si contrabbandino idee sbagliate.

Il riciclo dei materiali

Affrontiamo brevemente la prima tematica. La promozione dell’economia circolare e la massimizzazione della raccolta differenziata dei rifiuti è senz’altro una pratica da spingere al più elevato tasso possibile[1], tuttavia la separazione di carta, plastiche, vetro e umido (organico), ciascuna incanalata nella propria filiera di recupero, non può mai esaurire tutto il materiale di rifiuto e sarà sempre accompagnata da una frazione NON differenziabile e, al momento, non più riciclabile. E anche nel recupero delle altre frazioni differenziate si ha sempre al loro interno una parte di materiale non più riciclabile e quindi non reimpiegabile all’interno delle singole filiere. Questo non sembra essere sufficientemente noto. Facciamo alcuni esempi.

Nella zona di Lucca sono ampiamente diffuse varie industrie per la fabbricazione della carta[2]. Ebbene anche questo materiale, che potrebbe sembrare riciclabile al 100%, comporta un residuo allo stato attuale non riciclabile: si tratta di vari tipi di rifiuti della lavorazione di polpa, carta e cartone che dipendono dal ciclo di lavorazione. Il Codice Europeo dei Rifiuti (CER) [3] indica, ad esempio, scarti della separazione meccanica nella produzione di polpa da rifiuti di carta e cartone, fanghi prodotti dai processi di disinchiostrazione del riciclaggio della carta , ecc. Un recente articolo apparso su La Repubblica[4] mette in evidenza il problema e l’industria locale ha progettato un termovalorizzatore per il recupero almeno energetico di quest’ultima frazione. Tuttavia l’opposizione dell’opinione pubblica ne ha bocciata la realizzazione. Dove vengono smaltiti gli scarti di produzione? Per ora per la maggior parte continuano ad intasare i depositi delle varie industrie. Di recente, dopo alcuni anni di ricerca e sperimentazione, il gruppo Sofidel[5] ha messo in produzione un materiale che sfrutta una frazione dei rifiuti di lavorazione della carta per produrre, miscelandoli con plastiche di riciclo, pancali. Il 12% del materiale di impasto è formato da residui della lavorazione della carta: speriamo che questo sistema consenta un buon riciclo di almeno parte di tali residui e che la ricerca consenta in futuro di aumentare sempre più il riciclo.

Altro esempio è il caso del tessile a Prato (il distretto tessile pratese è il più grande d’Europa e conta circa 7000 imprese di cui 2000 nel tessile in senso stretto: tessuti per l’industria dell’abbigliamento, filati per la maglieria, tessuti per l’arredamento, ecc.)       e il problema qui è diventato più acuto quando gli scarti del tessile, pari a circa 50.000 tonnellate annue, sono stati riclassificati da Rifiuti Solidi Urbani (RSU) a Rifiuti Speciali (RS) e gli impianti per smaltimento di RS in Toscana mancavano e mancano. Questi rifiuti sono di vario tipo (Codice CER 04): rifiuti da materiali compositi (fibre impregnate, elastomeri, plastomeri), materiale organico proveniente da prodotti naturali (ad es. grassi e cere), rifiuti provenienti da operazioni di finitura contenenti solventi organici, rifiuti da fibre tessili grezze, ecc.[6] È chiaro che, a parte criminali che hanno imboccato scorciatoie illecite, le aziende serie hanno trasportato i rifiuti finali della lavorazione all’inceneritore di Brescia o Terni o addirittura in Austria e i costi di smaltimento, ad esempio, dei ritagli e della peluria, sono raddoppiati, mettendo in crisi molte aziende. La peggiore soluzione per lo smaltimento di rifiuti classificabili come RSU (come quelli delle cartiere) è quella, largamente diffusa nel nostro paese, di gettarli in discarica. Invece anche questa frazione potrebbe essere valorizzata ricavando da essa energia in appositi impianti di termovalorizzazione. Marcello Gozzi, Direttore di Confindustria Toscana Nord, sostiene che non c’è economia circolare senza termovalorizzazione che trasforma in energia lo scarto ultimo del riciclo[7]. In questo modo si avrebbe come residuo finale solo una piccola quantità di ceneri. C’è chi sostiene che questo processo risulterebbe inquinante per l’aria e dunque per l’ambiente e per la salute. Esistono però ormai molti esempi di termovalorizzatori realizzati anche in centro di città come Vienna e, per rimanere in Italia, Brescia[8] che, fatti funzionare opportunamente a determinate temperature e

Fig.1 Schema di un sistema di economia circolare

con moderni sistemi di depurazione dei fumi, rendono estremamente bassi gli inquinanti nei fumi di scarico. Concludendo, non è sufficiente fare la sola differenziata e riciclare le singole frazioni differenziate: anche nel caso dell’attuazione integrale dell’economia circolare si avrà sempre una frazione finale di rifiuti , sia pure piccola, non più riciclabile.

Sfruttando un’immagine particolarmente chiara di questo processo riporto una figura (Fig.1) presente in un bellissimo, ampio e ben documentato articolo del prof. Vincenzo Balzani dell’Università di Bologna apparso recentemente sull’organo ufficiale della Società Chimica Italiana,“La chimica e l’industria”[9]. Anche se non riusciremo a sfruttare anche quest’ultima frazione dei nostri residui e dovessimo ricorrere all’uso della discarica questa accoglierebbe quantità di residui estremamente ridotte. Non c’è dubbio, infine, che nella costruzione dei nostri manufatti di ogni tipo, si dovrà prestare sempre maggiore attenzione a rendere facilmente separabili e recuperabili i componenti di natura diversa (metallo, plastica, vetro, ecc.) con cui vengono costruiti.

Le energie rinnovabili

Affrontiamo brevemente la seconda tematica. Le fonti di energia rinnovabile costituiscono la risposta al problema della disponibilità di energia sostenibile al più basso impatto inquinante e c’è chi sostiene che esse potrebbero soddisfare l’intero fabbisogno energetico dei vari Paesi sostituendo completamente i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Sempre nell’articolo precedentemente citato, il professor Balzani, dopo ad aver messo in chiara evidenza le difficoltà connesse alla transizione energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili (e aggiunge dall’economia lineare all’economia circolare e dal consumismo alla sobrietà) riporta lo studio dettagliato fatto da M. Z Jacobson (e collaboratori) della Stanford University denominato WWS (wind, water, sunlight) che, in sintesi, sostiene che le energie rinnovabili possono sostituire completamente le fonti fossili entro il 2050 e presenta una roadmap di transizione per 139 paesi del mondo, compresa l’Italia, molto più spinta di quelle previste dagli accordi di Parigi[10]. Sostituire come sorgenti di sola energia le fonti fossili non è solo possibile ma è necessario promuoverlo sempre più rapidamente, stante i problemi causati da queste fonti fossili come cause principali del riscaldamento generale del pianeta e come inquinanti e pericolose per la nostra salute: può essere assunto a testimone di questi fatti il bel libro uscito recentemente del climatologo Luca Mercalli [11]. E’ scientificamente provato che, nella produzione di energia elettrica, si possono eliminare i combustibili fossili (centrali termiche di diverso tipo) e l’energia elettrica può alimentare vari altri processi compreso quello della mobilità, almeno sulla terra e, come risulta da alcune sperimentazioni fatte, anche via mare. Ma c’è di più: è notizia di questi giorni [12] che il gruppo Maersk, il colosso danese dei supercontainer, sarà carbon free entro il 2050. L’articolo di Luca Pagni prosegue : il gruppo ha annunciato che entro il 2030 sceglierà la tecnologia più appropriata per raggiungere emissioni zero e riporta il comunicato della società: “Non solo i governi, ma anche le imprese devono dare il loro contributo per contribuire a combattere il climate change”. Per sottolineare l’importanza della decisione è bene tener presente che l’80% delle merci viaggia per il mondo via mare e la sola nafta per uso marittimo contribuisce al 3% delle emissioni globali. Sembra invece assai problematico che i possibili sviluppi delle tecnologie portino alla sostituzione dell’attuale mobilità via aerea: come si possono rimpiazzare vantaggiosamente i reattori dei nostri attuali aerei? Il problema è ancora del tutto aperto.

Alcuni “ma”….

Fin qui alcuni aspetti propositivi per agire con successo sulle problematiche trattate. A questo punto ci sono però alcuni ma: che cosa succede per esempio in due essenziali processi industriali di base come quello per la produzione del cemento e quello per la produzione del ferro?

Il cemento rappresenta il materiale di più elevata produzione al mondo e anche l’Italia partecipava in ampia misura a questa produzione: abbiamo usato l’imperfetto perché il nostro Paese, a fronte di una produzione di 46 milioni di tonnellate nel 2006 [13], dopo la crisi del 2008, ha drasticamente ridotto la produzione e i dati del 2017 indicano un calo di oltre il 60% di questa produzione. Questo drastico ridimensionamento ha determinato la chiusura di molti impianti e la perdita del 30% di occupati. Nonostante questa situazione, che ancora non accenna a modificarsi, il cemento resta un prodotto di base indispensabile per gran parte dell’industria.

Il cemento viene prodotto con apposite apparecchiature in cementifici. Il materiale di partenza è costituito da una miscela opportunamente dosata di calcare e argilla che viene frantumata e omogeneizzata e immessa, dopo un preliminare riscaldamento, in un lungo tubo rotante inclinato riscaldato dalla combustione di rifiuti e/o carbone (l’impiego del gas metano non è economicamente conveniente in Italia). Portando la temperatura a circa 1450°C la miscela di rocce calcina e si trasforma in clinker di cemento (essenzialmente silicati di calcio). Dove si usa metano si potrà sostituire questo con biogas ottenuto dalla fermentazione di recuperi organici, ma la combustione è comunque necessaria allo sviluppo del processo: è impensabile che questo, almeno allo stato attuale della tecnologia, possa essere alimentato dall’elettricità.

C’è poi un altro processo industriale essenziale in cui la disponibilità energetica termica è connessa strettamente a trasformazioni chimiche indissolubilmente legate a combustibili fossili. Com’è noto in un altoforno viene introdotta una carica formata da minerale e carbon coke e un altoforno non potrà mai essere alimentato con energie rinnovabili o da elettricità da esse ricavata; cerchiamo di capire perché. La disponibilità del metallo più impiegato nell’industria, il ferro, è legata alla trasformazione dei suoi minerali che contengono ossigeno (in genere sono ossidi) e questo va da essi sottratto per ottenere il metallo come tale. Ebbene, la trasformazione in questione avviene in presenza di carbonio e quindi l’uso del carbone (coke) nell’altoforno non ha solo la funzione di raggiungere la necessaria temperatura di fusione del ferro ma, con un processo chimico combinandosi con l’ossigeno, rende possibile l’estrazione del ferro dai suoi minerali (con produzione di CO2).

Per la produzione di acciaio si utilizzano su ampia scala anche forni elettrici che impiegano rottami di ferro per produrre nuovamente acciaio. L’elettrosiderurgia in Italia produceva oltre 16 milioni di tonnellate di acciaio su un totale di 26,8 milioni di tonnellate e rappresentava il 62% dell’intera produzione[14]. Con la crisi dell’ILVA e la chiusura dell’altoforno di Piombino, oggi la produzione di acciaio in Italia si aggira sui 24 milioni di tonnellate e l’elettrosiderurgia ha aumentato la sua percentuale di produzione: l’Italia insieme alla Spagna costituisce il Paese a maggior produzione di acciaio con forni elettrici in Europa (in Germania la produzione da altoforno copre circa il 70% e quella da forni elettrici il 30% e su percentuali del genere si aggirano anche paesi come la Francia e il Regno Unito). E’ chiaro che questi forni si possono utilizzare solo come mezzi per riciclare il ferro di risulta da demolizioni di navi, treni, macchine, ecc., ma non potranno rimpiazzare gli altiforni nella produzione del metallo ferro dal minerale. C’è poi da tener presente che esistono due colli di bottiglia nell’impiego dei rottami di ferro: il primo è quello della impossibilità di far fronte alle richieste con una capacità di fornitura di rottami variabile e praticamente impossibile da programmare; il secondo è che il recupero non è di fatto del ferro ma di acciai di vario tipo che contengono elementi secondari (Ni, Cr, Mo, ecc.) e questi rendono difficile, se non talvolta impossibile, la loro separazione per ottenere il nuovo acciaio[15].

Nel tentativo di superare la produzione di acciaio dal minerale con altiforni si è venuto sviluppando una nuova tecnologia di estrazione del ferro, quella della produzione di “ferro ridotto” (sigla inglese di ferro ridotto diretto, DRI) cioè del cambiamento che il minerale di ferro subisce quando viene riscaldato in forno ad alte temperature (inferiori però a quella di fusione del ferro) in presenza di gas ricchi di idrocarburi (essenzialmente metano), come si evince da una bibliografia segnalatami gentilmente dal collega Della Volpe [16]. Si ottiene in questo modo un prodotto solido in grumi che solitamente viene compresso in bricchette (Fig.2) prima del raffreddamento e costituisce il prodotto commerciale

Fig. 2- Bricchette di ferro

chiamato HBI. In altre parole, ecco il nostro secondo ma…, si può eliminare il carbone coke sostituendo l’altoforno, ma non il carbonio dei gas riducenti necessari per produrre DRI e questi sono sempre fonti di energia fossile. Si sono anche messi a punto nuovi processi di “fusione diretta” in cui si riduce l’ossido di ferro del minerale direttamente a ferro metallico in uno stato fuso con ottenimento di un prodotto simile a quello dell’altoforno. Tra questi tipi di processi , di cui alcuni sono attivi in Sud Africa e in Australia) ricordiamo quello Corex che parte da minerale e da carbone (senza produzione di coke, che costituisce uno dei processi più inquinanti della tecnologia dell’altoforno). Il carbone viene gassificato e la produzione di vari gas, tra cui CO e H2, costituiscono la componente riduttiva del minerale: la riduzione diretta fornisce ghisa liquida simile a quella di altoforno. Anche eliminando gli altiforni, la trasformazione del minerale in ferro comporta sempre l’uso di carbone o gas naturali, ribadendo il concetto sottolineato in precedenza: per passare dal minerale di ferro all’acciaio è comunque necessario l’impiego di carbone o di gas naturale.

Tenendo presente le eccezioni dei due processi ricordati, per attuare la transizione dall’economia lineare a quella circolare e per la sostituzione delle energie di fonte fossile con quelle rinnovabili, per evitare il rapido riscaldamento del pianeta, saranno necessari interventi mirati di orientamento e stimolo di tipo politico sostenuti da altri di natura economico-finanziaria e profonde modifiche nel modello di sviluppo consumistico per orientarlo verso un modello meno energivoro e sostenibile basato sulla sobrietà.

Infine, è ormai chiaro che un elemento indispensabile al raggiungimento di un’economia circolare, sia legato al comportamento responsabile e adeguato di ciascuno di noi: ogni singolo nostro atto che vada incontro a una accurata differenziazione dei rifiuti e al responsabile utilizzo delle energie necessarie alla nostra vita dovrebbe essere attuato e promosso là dove è possibile. In questo campo mi ritengo fortunato perché, con la mia professione di insegnante di scuola secondaria di secondo grado, sono riuscito a interagire con molti studenti e sensibilizzarli sui temi ambientali, aumentando sicuramente la loro consapevolezza dell’esigenza di promuovere la qualità dell’ambiente orientando i loro comportamenti. Negli anni in cui ho insegnato al liceo “L. da Vinci” di Firenze, nei corsi sperimentali che avevo attivato alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, ho suggerito e discusso letture e attuato pratiche di controllo della qualità ambientale (soprattutto sull’acqua e sull’aria della città) con gli studenti delle mie classi quarte. E inoltre, per allargare agli studenti dell’intero Liceo la sensibilità verso i problemi del rispetto ambientale, ho creato un “Gruppo ambiente” (Fig.3) promuovendo letture e incontri, come pure attività di pulizia di alcune spiagge toscane dai rifiuti di ogni genere abbandonati, in accordo con le amministrazioni locali di recupero rifiuti.

Fig.3 – Pagina iniziale del depliant che illustrava caratteristiche e attività del Gruppo Ambiente.

Si trattava forse ancora di un ambientalismo di tipo naif e ricordo che allora era parere diffuso che le energie rinnovabili potessero essere solo integrative di quelle fossili e, ancora, si parlava di green economy ma non di economia circolare. Ho però una nitida memoria , ora accompagnata da un velo di commozione, di quando, nei primi anni novanta del secolo scorso, invitai nel mio Liceo l’amico prof. Enzo Tiezzi, chimico di chiara fama dell’Università di Siena. I miei studenti di IV che avevano letto il suo libro “Tempi storici, tempi biologici[17] e quelli di V che avevano letto “I limiti dello sviluppo[18]parteciparono con grande interesse e numerosi interventi alla conferenza tenuta da Tiezzi sulle variazioni del clima sulla terra dove egli presentò i risultati di una ricerca da cui emergeva l’andamento del tutto parallelo tra l’incremento del valore della CO2 nell’atmosfera dovuta alle nostre combustioni e l’aumento dei fenomeni atmosferici di grande violenza (tempeste, uragani, tornado,…) verificatisi negli Stati Uniti.

Allora queste cose potevano sembrare preoccupazioni eccessive per eventi molto lontani nel tempo, sensibilità di una minoranza elitaria, purtroppo la realtà di oggi è ben più grave di quello che pensavamo e gli effetti dei cambiamenti climatici anche in varie parti del nostro Paese si registrano ormai nelle cronache quotidiane. Se non si riuscirà a livello mondiale a trovare concretamente il modo di intervenire sui fattori che determinano il riscaldamento globale, quale futuro lasciamo in mano ai nostri figli e nipoti?

(*) Fabio Olmi è un insegnante in pensione che si è occupato per anni di didattica della Chimica anche a livello ministeriale. La sua multiforme attività educativa e formativa è documentata nel suo sito web dove c’è anche un elenco dei molti articoli da lui pubblicati.

(**) L’articolo in forma ridotta è stato pubblicato sulla rivista Insegnare – CIDI, Roma, sezione Temi e problemi, il 15/12/2018

[1] ARPAT- Rapporto rifiuti urbani 2017: i dati sulla raccolta differenziata (RD) in Italia. La RD in Italia riferita all’anno 2016 risulta del 52,5% , dato assai modesto. Se poi si esaminano le percentuali di raccolta differenziata delle varie macro-aree del Paese si hanno i seguenti dati: 64,2% per le regioni settentrionali, il 48,6% per quelle del centro, il 37,6% per quelle meridionali.

[2] Silvia Pieraccini- La carta di Lucca modello di successo- Il sole 24ore-5/7/17. Il distretto cartario di Lucca, specializzato nel tissue (carta per usi igienico-domestici) nel 2016 ha avuto un fatturato di 4,4 miliardi di euro e contava circa 200 aziende con circa 10.000 addetti complessivi

[3] Il CER riporta nella categoria 03 i diversi 11 tipi di rifiuti

[4] Maurizio Bologni – Marmo, tessile, carta, l’impennata dei costi per smaltire i rifiuti- La Repubblica, 20/11/2018

[5] Il Gruppo Sofidel è uno dei più grossi produttori di carta per uso igienico e domestico (il suo brand più noto è carta “Regina”), ha oltre 6000 dipendenti in 13 paesi del mondo (in Italia a Porcari (Lucca) ne ha circa 1200) e ha una capacità produttiva di oltre 1 milione di tonn./anno. E’ un Gruppo orientato verso una produzione sostenibile, ha una forte produzione di energia da fonti rinnovabili, investe in efficienza energetica e in formazione continua del personale.

[6] Il Codice europeo CER contiene, alla tipologia 04, 11 categorie di rifiuti tessili.

[7] Ibidem 4.

[8]https://www.a2a.eu/index.php/it/gruppo/i-nostri-impianti/termoutilizzatori/brescia

[9] Vincenzo Balzani- Salvare il pianeta:energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà- La Chimica e l’Industria n. 6, 11/2018, pag.20

[10] Ibidem 6, pag.7.

[11] Luca Mercalli- Non c’è più tempo-, Einaudi, Torino, 2018.

[12] Luca Pagni- Maersk, il colosso danese dei supercontainer, sarà carbon-free entro il 2050- Repubblica- Economia e Finanza, 5/12/2018.

[13] FILCA-CISL, Cemento, la produzione italiana si espande in tutto il mondo, 21 Aprile 2006.

[14] Siderweb- Forni elettrici, Italia prima in Europa, 27/4/2004.

[15] Daniell B.Muller, Tao Wang, Benjamin Duvalk, T.E. Graedel, Exploring the engine of anthropogenic iron cycles, Ed. Harward University, 2006

[16] F.Grobler, R.C.A. Minnit, The increasing role of direct reduced iron in global steelmaking- The Journal of South African Institute of Mining and Metallurgy, March/April 1999, p. 111. Bibliografia

[17] E. Tiezzi – Tempi storici, tempi biologici – Garzanti, Milano, 1984.

[18] AA.VV. I limiti dello sviluppo – Club di Roma diretto da Aurelio Peccei- EST Mondadori, Milano, 1972.

Si fa presto a dire ricicliamo…… 2: i numeri del riciclo mondiale

Claudio Della Volpe

(Prima parte del post, qui)

Facendo seguito alle considerazioni generali della prima parte, esamineremo qui alcuni dati riguardanti la situazione e l’evoluzione della circolarità per il mondo nel suo complesso e per l’Europa a 27. Sia per l’Europa che per il mondo nel suo complesso abbiamo a disposizione un articolo del 2015 pubblicato su Journal of Industrial Ecology che analizza la situazione al 2005 (fig. 1 e 2, legenda dei colori in Fig. 2).

Vediamo che la percentuale riciclata era in entrambi i casi molto ridotta 4Gt su un totale di 62 Gt e 1 su 6.7 nel secondo caso, con un vantaggio significativo dell’Europa che, secondo questa stima, riciclava circa il doppio dei materiali rispetto alla media del mondo intero, costituendone poco più di un decimo e questo vi da l’idea delle dimensioni reciproche fra Europa e Mondo (la popolazione europea di circa 550 milioni di persone era inferiore al decimo della popolazione mondiale che all’epoca era appena sotto i 7 miliardi mentre i suoi consumi sono al di sopra di questa soglia). Infine l’Europa a 27 importava circa il 18% del suo flusso materiale totale.

Questo confronto è relativamente facile in quanto l’articolo usa la medesima metodologia per i due casi.

Impressiona questa analisi delle nostre società come enormi reattori, ma descrive anche con chiarezza la sostanziale linearità del processo produttivo.

Ci sono due aspetti che aiutano a capire questi grafici e il loro senso.

Il primo è che buona parte della massa di materiale impiegata è combustibile. Serve a scopi energetici e dunque spiega anche perchè non viene riciclata e contribuisce a tener bassa la percentuale del riciclo attuale; l’altro aspetto è l’importanza dell’accumulo che viene ulteriormente analizzato nel lavoro successivo.

Fig. 1

Fig. 2

Nella fig.3, che è frutto di un diverso tipo di analisi, abbiamo una parte della rappresentazione usata nel testo The Circularity Gap Report; e vediamo come vanno le cose nel mondo al 2014, dunque dieci anni dopo i grafici precedenti; in entrambi i casi si tiene conto dell’accumulo complessivo, ma qui si valuta esplicitamente quanto vale questo stock di manufatti che ha ormai raggiunto gli 800 Gt. Il totale della stima raggiunge con questo secondo metodo, non immediatamente confrontabile con l’altro, oltre 90 Gt, mentre se consideriamo i dati “netti” (trascurando l’accumulo in stock) le cose non sono distanti, 68.5Gt; di queste 90Gt circa solo il 9% sono riciclate.

Molto difficile capire bene se c’è stata una evoluzione positiva o se le differenze nascono da metodi diversi di calcolo, incluso l’aumento dei dati complessivi che sarebbe impressionante.

Fig. 3

Fig. 4

Nella figura 4 qui sopra invece abbiamo una rappresentazione fatta dagli uffici statistici dell’Europa a 27 che da per il 2014 una stima di riciclo, udite bene, inferiore a quella del 2005 dell’altro lavoro, mentre i numeri globali sono simili; ossia solo 0.7 Gt di materiale sarebbero riciclate su un totale di flusso di 7.3; se fossero comparabili questi dati indicherebbero un peggioramento della situazione; e comunque fanno vedere che la situazione non è rosea perchè a questo punto sarebbe sostanzialmente omologa a quella del mondo nel suo complesso.

In media, dato che siamo oltre 7.5 miliardi, ciascuno di noi necessita di un flusso impressionante di materiali vari che a seconda delle stime si aggira un po’ sotto o un po’ sopra le dieci tonnellate annue e che ha lasciato dietro di se un accumulo calcolabile al 2014 in 100 tonnellate pro capite di manufatti che usiamo (case, auto, strade etc). Ma non basta!

Ciascuno di noi disperde anche il 90% del suo flusso annuo sul pianeta, ossia 9 tonnellate di materiale all’anno che infestano la biosfera a partire dall’oceano e dall’aria prima di tutto, mentre solo 1 tonnellata viene riciclata in qualche forma. Difficile stimare la quantità totale di rifiuti prodotti nel corso del tempo, ma i numeri sarebbero ancora più alti.

In sintesi per ogni uomo vivente sul pianeta ci sono alla grossa 100 ton di materiale accumulato sotto forma di manufatti, 10 ton di materiale processato all’anno e di queste solo 1 ton viene da riciclo.

I due aspetti che saltano all’occhio sono da una parte che il passaggio alle energie alternative potrebbe ridurre la quota di materiale disperso in ambiente da cui dipendono il GW e l’inquinamento; dall’altra l’accumulo di materiali come case ed oggetti durevoli è enorme, ma lo è ancor più se si pensa che l’accumulo riguarda solo una parte dell’umanità (consumo di suolo, costruzione di grandi e grandissime infrastrutture, saturazione del mercato delle costruzioni, etc) e dunque il pro capite è anche parecchio più alto di 100 ton con un gap fra paesi di antica e recente industrializzazione.

La sua crescita dunque è difficile da modificare nell’immediato, perchè una parte crescente di persone dei paesi emergenti sta uscendo finalmente dalla povertà ed entra nella classe media mondiale (e quel che ci fa arrabbiare è casomai che lo fa a spese della classe media dei paesi ricchi, e non piuttosto dei ricchi o dei super-ricchi di questi medesimi paesi). A questo proposito si deve guardare il famoso grafico dell’elefante.

Quello che stiamo vivendo in questi anni: i ricchi diventano sempre più ricchi, i nostri diritti sociali vanno a scomparire e nel contempo una parte enorme di umanità entra nel gioco (o nel giogo?) del mercato.

Quanto conta in tutto ciò la tendenza a considerare imprescindibile la continua “innovazione”, ossia cambiamenti casomai non epocali ma continui e spinti da un mercato che DEVE accumulare profitti o crollare? La creazione nei paesi cosiddetti “avanzati” di bisogni “innovativi” porta ad un accumulo incredibile sia di rifiuti che di stock. Pensate solo all’abitudine che abbiamo ormai di avere prodotti cosiddetti innovativi ogni anno (auto, cellulari, computers, etc, sono i famosi “eventi” mondiali delle grandi case, una chiamata a morto per l’ambiente): ma quanto sono effettivamente innovativi i prodotti innovativi? E di quanti di essi abbiamo effettivamente bisogno? Pensate solo ad un computer un po’ più veloce di prima e con una interfaccia un po’ più graziosa di prima che rende immediatamente “vecchi” anzi “obsoleti” (fa molto più figo!) tutti i precedenti, cambiate computer e dovrete cambiare tutte le periferiche: l’obsolescenza pianificata o forzata (come si legge dai giornali lo hanno fatto Apple e Samsung) è una base tradizionale di produzione industriale, che confligge terribilmente con le esigenze dell’economia circolare; la scomparsa del mercato dei ricambi e delle riparazioni è un altro aspetto.

Quante case sono veramente necessarie e quante invece sono sfitte, vuote per motivi di mercato e non di necessità?

Quante infrastrutture nuove sono veramente necessarie? Una corsia di autostrada in più serve veramente?

Le auto Euro n+1 ha senso sostituirle alle Euro n buttando al macero l’energia investita nel produrle? (circa 15-20ton di CO2 equivalente per ogni auto).

In tutti i casi c’è molto, moltissimo lavoro da fare, prima di tutto nell’analizzare con precisione la situazione ed i possibili rimedi.

Pensiamoci, ma in fretta per favore. Il clima e l’ambiente non aspettano più, sono stufi.

Nel prossimo post parleremo del riciclo dei singoli elementi della tavola periodica.

(continua)

Riferimenti:

1) The CIRCULARITY GAP report

https://docs.wixstatic.com/ugd/ad6e59_c497492e589c4307987017f04d7af864.pdf

2) Journal of Industrial Ecology October 2015 Pages 765-777

Volume19, Issue5 Special Issue on Frontiers in Socioeconomic Metabolism Research

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/jiec.12244

3) statistiche europee

http://ec.europa.eu/eurostat/cache/infographs/circulareconomy/

http://dx.doi.org/10.1016/j.resconrec.2017.10.019

Resources, Conservation & Recycling 129 (2018) 81–92

Critical appraisal of the circular economy standard BS 8001:2017 and a dashboard of quantitative system indicators for its implementation in organizations

Stefan Pauliuk

Fai clic per accedere a wir2018-summary-english.pdf

Si fa presto a dire ricicliamo…… 1. Premessa.

Claudio Della Volpe.

Riciclare è l’imperativo categorico diventato addirittura una direttiva europea (DIRETTIVA (UE) 2018/851 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 maggio 2018 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti). Ma riciclare è di fatto una attività che l’industria porta avanti da più di cento anni in qualche settore, si pensi all’industria siderurgica che ricicla il ferro: una parte significativa della produzione siderurgica si fa nei forni elettrici e il tondino del calcestruzzo è ferro riciclato, usato per fare le nostre case e i nostri manufatti stradali.

Dunque ricicliamo già, e anche parecchio, ma non basta. Abbiamo già fatto notare questa contraddizione in una serie di articoli pubblicati 6 anni fa da Giorgio Nebbia (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/01/11/noterelle-di-economia-circolare/ e nei successivi di analogo titolo).

Riciclare è una necessità sempre maggiore; lo facciamo già e non in piccola quota ma dovremo farne di più e soprattutto diversamente; ma cosa distingue allora il riciclo che dovremo sviluppare da quello che già facciamo? quanto ne facciamo e quanto dovremo farne? Cosa distingue il semplice riciclo che già si fa dall’economia circolare?

Non sono domande facili. In questo post e nei successivi analizzeremo la situazione in qualche dettaglio e soprattutto cercheremo di mettere dei numeri in questo discorso.

Due o tre osservazioni basilari da fare.

La prima è che il riciclo o ricircolo è una caratteristica base dei reattori chimici che si insegna in tutti i corsi di principi di ingegneria chimica: in un impianto chimico tradizionale un riciclo è rappresentato da un “ciclo chiuso” di correnti materiali, che può passare attraverso una o più apparecchiature chimiche.

Il rapporto di riciclo è dato dal rapporto tra la portata della corrente riciclata e la portata della corrente principale prima del punto di reimmissione del riciclo. Lo scopo del riciclo è quello di aumentare la resa complessiva del processo e riciclare in un reattore è una necessità produttiva indiscutibile. Se la trasformazione è parziale il riciclo fa aumentare la resa. Dunque la chimica ha il riciclo nel proprio DNA.

Non solo, ma in qualunque azienda moderna si riciclano, almeno pro quota, gli sfridi di lavorazione; pensate all’alluminio; gli sfridi dei lingotti ottenuti vengono rimessi nei forni subito; insomma molte aziende di fatto costituiscono già dei sistemi di riciclo molto efficienti al proprio interno. In questo caso il riciclo corrisponde al risparmio. La questione nasce quando esternalizzando i problemi, diventa più economico per l’azienda lasciare all’”esterno” di occuparsi del riciclo: al mare, all’aria o alla terra. E questo non è un problema tecnico, ma di forma della proprietà; se il bene inquinato è “comune”, non privato perché l’azienda privata dovrebbe riciclare? Non altera i suoi conti, altera solo quelli “comuni”. E dunque non è interessata a meno che una legge e una serie di severi controlli non la obblighino. E’ la cosiddetta “tragedy of commons” analizzata dal famoso articolo di Garret Hardin.La seconda osservazione è che riciclare di solito si fa parzialmente, mentre l’economia circolare è un cosa diversa, è chiusa corrisponde ad un riciclo del 100%; di solito si prendono come esempio dell’economia circolare i cicli naturali degli elementi, C, N, P, S etc; e si dice in natura non ci sono discariche.

Già, ma i cicli naturali sono molto lunghi, in genere durano milioni di anni e da qualche parte occorre stoccare le cose; anche la Natura deve farlo; pensiamo al petrolio e in genere ai combustibili fossili, frutto della degradazione degli organismi a partire dal Carbonifero; noi stiamo estraendo questi intermedi di riciclo del carbonio in gran parte nascosti sotto il suolo e li stiamo rimettendo in circolo anzitempo accelerandone la trasformazione in CO2. In un certo senso stiamo solo accelerandone il riciclo. Già, ma il risultato è stato il riscaldamento globale.

E’ un tema del famoso libro: Tempi storici e tempi biologici del compianto Enzo Tiezzi. (Enzo come ci manchi.)

Aggiungiamo che anche i perfetti cicli naturali possono essere alterati; ricordiamo che l’ossigeno che respiriamo e che oggi costituisce la base della vita come la intendiamo, solo un paio di miliardi di anni fa era il prodotto di discarica della reazione di fotosintesi che, accumulandosi in atmosfera come oggi i gas serra, ne cambiò irreversibilmente la composizione. Questo costrinse gli allora dominatori del pianeta, i batteri anaerobi, a rifugiarsi nel sottosuolo, nel fondo del mare, negli intestini degli animali.

Volete un altro esempio? Beh parliamo ancora di ciclo dell’azoto e del fosforo, ma in realtà questi due cicli sono stati completamente alterati dalla nostra azione in quanto oggi produciamo noi uomini la gran parte del fosfato che va in mare e dell’azoto assorbito dall’atmosfera, ma non abbiamo inserito alcun controllo dalla parte del recupero, mandando in tilt il ciclo naturale originario. Dunque cicli naturali sono perfetti ma lunghi e delicati.

Facciamo qualche conto per far capire un’altra differenza fra riciclo naturale e artificiale. Poniamo di avere un materiale che abbia un ciclo di vita di 10 anni, chessò l’oro dei contatti elettronici e supponiamo di riciclarlo al 95%.

Cosa succede dopo 100 anni? Avremo fatto 10 ricicli e quanto dell’oro originale ci sarà rimasto? 0.9510=0.60; avremo comunque perso negli sfridi il 40% e avremo dovuto estrarre altro materiale vergine, in grande quantità. Detto fra di noi nessun materiale è riciclato dalla nostra tecnologia attuale a questo livello, ossia con meno del 5% di spreco. Tutti gli altri stanno peggio.

Ecco, fatte queste riflessioni siamo pronti a partire per una analisi più dettagliata della situazione.

(continua)

Reinventare il ruolo della Chimica nella Società

 Vincenzo Balzani, Università di Bologna

Coordinatore del gruppo di scienziati energiaperlitalia

 La Chimica: ieri

Negli ultimi decenni, e in parte ancora oggi, sui mezzi di comunicazione la Chimica ha fatto e fa notizia principalmente in relazione a guerre, disastri ecologici, inquinamento e sofisticazioni. Ne consegue che, anche fra persone di una certa cultura, la Chimica è percepita come una scienza malvagia, di cui diffidare. Ma come accade per tutti gli strumenti che la scienza e la tecnica mettono nelle mani dell’uomo, da un semplice coltello all’energia nucleare, malvagio non è lo strumento in sé, ma chi lo usa senza le dovute cautele o, peggio, per fare del male deliberatamente.

Negli ultimi 100 anni la Chimica ha portato enormi benefici all’umanità. Ha fornito potenti fonti di energia, vaccini e farmaci capaci di prevenire e curare molte malattie, materiali con proprietà eccezionali come i polimeri, le materie plastiche e i semiconduttori, fertilizzanti per lo sviluppo dell’agricoltura e molto altro ancora. Si può dire che non c’è nulla di quello che usiamo che non sia stato fabbricato dai chimici o basato sui materiali che i chimici hanno ideato. La Chimica, però, deve anche riconoscere la sua responsabilità nell’aver creato strumenti di distruzione e di morte come esplosivi e armi chimiche e nell’aver contribuito, spesso senza volerlo, a volte addirittura senza saperlo, all’insorgere di gravi problemi a livello locale e globale. Nell’ultimo secolo, infatti, la grande accelerazione nell’attività dell’uomo ha coinvolto la Chimica in molti modi e con risultati spesso disastrosi, come il danneggiamento dello strato protettivo di ozono, il riscaldamento del pianeta, l’inquinamento atmosferico e lo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali. L’effetto dell’attività umana degli ultimi decenni sulle caratteristiche del pianeta è ritenuto epocale, come dimostra il nome Antropocene ormai comunemente adottato per indicare l’epoca presente [1].

I chimici sono stati fra gli scienziati più attivi nel forgiare, nel bene e nel male, questa nuova epoca.

L’astronave Terra

Il pianeta Terra su cui viviamo è una specie di astronave che viaggia nell’infinità dell’Universo. E’ un’astronave del tutto speciale perché non potrà mai “atterrare” in nessun luogo per fare rifornimento, per essere riparata o per sbarazzarsi dei rifiuti che vi si accumulano. L’unico rapporto con l’esterno è la luce che riceve dal Sole, risorsa fondamentale per la vita dei 7,3 miliardi di passeggeri.

La prima cosa di cui essere consapevoli è che il pianeta Terra ha dimensioni “finite” [2]. Pertanto, le risorse di cui disponiamo sono limitate ed è limitato anche lo spazio in cui collocare i rifiuti. Si tratta di una realtà innegabile; eppure, spesso, anche i chimici non ne hanno tenuto conto. Molti economisti, poi, sembrano addirittura non saperlo.

Nel 1980, le risorse utilizzate estratte dalla Terra ammontavano a 40 miliardi di tonnellate; nel 2015 sono salite a circa 70 miliardi di tonnellate, pari a 27 kg per persona al giorno. Alle risorse utilizzate vanno aggiunte quantità da due a tre volte maggiori di risorse estratte, ma difficili da usare, rapporto che aumenta costantemente man mano che i depositi di risorse più ricchi si vanno esaurendo [3]. Ci si può chiedere: rimarrà qualcosa per le future generazioni?

Le dimensioni finite del pianeta hanno conseguenze anche per quanto riguarda la collocazione dei rifiuti che si producono ogni volta che si usano risorse [4]; non possiamo sbarazzarcene collocandoli in un inesistente “non luogo”. I rifiuti finiscono inesorabilmente sotto terra, sulla superficie della terra, sulla superficie o sul fondo dei mari e nell’atmosfera; in ogni caso, con conseguenze poco piacevoli. Le scorie di materie plastiche che si sono accumulate nell’Oceano Pacifico formano un’ “isola” grande come l’Europa. La quantità di anidride carbonica riversata in atmosfera supera i 30 miliardi di tonnellate all’anno e, come sappiamo, causa un aumento dell’effetto serra ed i conseguenti cambiamenti climatici. Il particolato fine generato dai motori a combustione ha causato nel 2012 più di 941.000 morti premature in Europa, 84.000 delle quali in Italia. Ci sono poi le scorie delle centrali nucleari, pericolose per decine di migliaia di anni, che nessuno sa dove collocare. Cosa diranno le prossime generazioni dei danni, in parte irreversibili, che abbiamo creato con i nostri rifiuti all’astronave su cui anche loro dovranno viaggiare?

Alla Conferenza COP21 tenutasi nel dicembre 2015 a Parigi [5], 185 nazioni hanno concordemente riconosciuto che il cambiamento climatico, causato dall’uso dei combustibili fossili, è il problema più preoccupante per l’umanità e nell’Enciclica Laudato si’ [6] papa Francesco ha ammonito: “Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le capacità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi”.

La nostra è la prima generazione che si rende conto di questa situazione di crisi e quindi è anche la prima (qualcuno dice che potrebbe essere l’ultima) che può e deve cercare rimedi [4].

Economia lineare ed economia circolare

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che non è possibile continuare con l’attuale modello di sviluppo basato sull’economia lineare (Figura 1) che parte dall’ingannevole presupposto [7] che le risorse siano infinite e che non ci siano problemi per la collocazione dei rifiuti.

antropocene21Figura 1. Schema del sistema economico lineare oggi adottato, basato sul falso presupposto che le risorse siano infinite e che non ci siano problemi per la collocazione dei rifiuti.

Non è possibile continuare col consumismo e con “l’usa e getta”. Questo tipo di economia ci sta portando sull’orlo del baratro ecologico [8] ed è la causa delle crescenti, insostenibili disuguaglianze [9]. Il papa, nell’enciclica Laudato si’ [6], lancia un appello accorato: “Di fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni persona che abita questo pianeta. Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale”.

Uno dei punti cardine della rivoluzione culturale, di cui c’è tanto bisogno, è il passaggio dall’economia lineare all’economia circolare. In questo modello di sviluppo alternativo (Figura 2), l’energia usata proviene da fonti rinnovabili e le risorse della Terra vengono usate in quantità il più possibile limitate (risparmio) e in modo intelligente (efficienza) per fabbricare oggetti programmati non solo per essere usati, ma anche per essere riparati, raccolti e riciclati per fornire nuove risorse.

antropocene22Figura 2. Schema di un sistema economico circolare basato sul concetto che le risorse naturali sono limitate ed è limitato anche lo spazio in cui mettere i rifiuti. Tutta l’energia usata è ricavata da fonti rinnovabili.

La differenza fondamentale fra economia lineare e economia circolare riguarda l’energia, che è la risorsa chiave di ogni sistema economico. L’economia lineare è basata sui combustibili fossili, una fonte in via di esaurimento, mal distribuita sul pianeta e causa di danni gravissimi all’ambiente e alla salute dell’uomo. L’economia circolare, invece, utilizza l’energia solare e le altre fonti di energia (eolica, idrica) ad essa collegate: abbondanti, inesauribili e ben distribuite. Gli ammonimenti degli scienziati [10], le direttive dell’Unione Europea, le decisioni prese alla Conferenza COP21 di Parigi sui cambiamenti climatici [5] e la bellissima enciclica Laudato si’ di papa Francesco [6] sostengono la necessità di accelerare la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.

 

La Chimica: scienza centrale

La Chimica è una scienza centrale (Figura 3) che, col suo linguaggio, quello degli atomi e delle molecole, invade e pervade numerosi altri campi del sapere e fa da tramite per molte altre scienze. Ha quindi davanti a sé immensi territori da esplorare. Ha dato nuove prospettive alla biologia, che nella sua versione più avanzata, infatti, prende il nome di biologia molecolare e che a sua volta ha profondamente rivoluzionato il campo della medicina.

antropocene23Figura 3. La Chimica: una scienza centrale.

Solo la Chimica potrà dare risposte ad alcune domande fondamentali: come si è originata la vita? come fa il cervello a pensare? c’è vita su altri pianeti?

La Chimica è il fondamento di discipline di primaria importanza come la scienza dei materiali e l’ecologia. Solo con il contributo della Chimica si potranno trovare soluzioni ai quattro grandi problemi che l’umanità deve risolvere per continuare a vivere bene su questo pianeta, senza comprometterne l’uso alle future generazioni: alimentazione (cibo e acqua), salute e ambiente, energia e informazione.

La Chimica è la scienza che ha maggior impatto sulla società. Quindi, può e deve giocare un ruolo guida in questo periodo storico caratterizzato dall’inevitabile transizione dall’economia lineare all’economia circolare e dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.

Innovazione

L’innovazione è e rimarrà sempre il motore della crescita e dello sviluppo. Ma oggi sappiamo che crescita e sviluppo devono essere governati non più dal consumismo, ma dalla sostenibilità ecologica e sociale [11]. Un’innovazione volta soltanto ad aumentare i consumi e ad accrescere le disuguaglianze, come è accaduto negli scorsi decenni, è la ricetta per accelerare la corsa verso la catastrofe di cui parla anche papa Francesco.

Le prime cose da innovare, quindi, sono istruzione e cultura. Bisogna far sapere a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, quale è la situazione reale del mondo in cui viviamo riguardo risorse, rifiuti e disuguaglianze. L’istruzione è in gran parte di competenza dello Stato, ma anche a livello locale si può fare molto. Lo possono fare, con opportuni corsi di aggiornamento, i comuni, le regioni, le confederazioni degli industriali e degli artigiani. Lo possono fare le grandi e anche le piccole imprese con appositi stages per gli studenti. Possono contribuire con iniziative culturali le Fondazioni bancarie, le parrocchie e le associazioni di ogni tipo.

Un esempio di innovazione sbagliata è la conversione delle raffinerie di petrolio in bioraffinerie, anziché la loro definitiva chiusura con ricollocazione del personale in altri settori. Infatti: 1) le bioraffinerie sono alimentate con olio di palma proveniente in gran parte dall’Indonesia e dalla Malesia, dove per far posto alle piantagioni di palma vengono compiute estese deforestazioni con gravi danni per il territorio e per il clima; 2) i biocarburanti prodotti dall’olio di palma hanno un EROI (Energy Returned on Energy Invested) mai dichiarato, ma certamente minore di 1, cioè forniscono una quantità di energia minore di quella spesa per produrli; 3) fra pochi anni ci si accorgerà che anche le bioraffinerie sono ecologicamente ed economicamente insostenibili e si riproporrà il problema della ricollocazione del personale. Quindi, le bioraffinerie non aiutano a risolvere la crisi energetico-climatica e neppure quella occupazionale.

Un altro esempio di innovazione sbagliata è l’accordo fra Governo, Regione Emilia-Romagna e Audi (l’azienda tedesca che possiede la Lamborghini) per la produzione del nuovo SUV Lamborghini a Sant’Agata Bolognese; un accordo celebrato da alcuni politici ed industriali come straordinario esempio di innovazione [12]. Ma tutti sanno che c’è poco o nulla da innovare nei motori a scoppio, usati da più di un secolo. Se si vuol fare innovazione nel campo delle automobili, oggi la si può fare solo sulle auto elettriche: motori elettrici, batterie (settore che riguarda direttamente la Chimica), dispositivi di ricarica veloce, ecc. Oppure si può fare innovazione per produrre combustibili sintetici mediante elettrolisi dell’acqua (utilizzando elettricità da fonti rinnovabili) e successive reazioni fra l’idrogeno così ottenuto e CO2 [13].

Per capire quanto poco innovativo sia il SUV Lamborghini, che entrerà nel mercato presumibilmente nel 2018, basta pensare che nel 2025 Olanda, Norvegia e anche India prevedono di vietare la vendita ad auto con alimentazione a benzina o gasolio [14‎]. Con la sua mostruosa potenza di 600 CV, il SUV Lamborghini è un emblema del consumismo e della “civiltà” dell’usa e getta, dalla quale le vere innovazioni dovrebbero farci uscire. Col suo costo di 250.000 euro, è anche l’icona delle disuguaglianze, causa prima dell’insostenibilità sociale.

Alcuni campi di sviluppo dell’industria Chimica

 

Nuovi materiali

La caratteristica fondamentale della nostra epoca è il continuo aumento della complessità. Basti pensare che mentre fino al 1990 tutto ciò che c’era in una abitazione era costituito da meno di 20 elementi, oggi in uno smartphone ci sono più di quaranta elementi diversi. Da qualche tempo destano molto interesse elementi relativamente scarsi e finora trascurati, per i quali si prevede un crescente uso nei dispositivi ad alta tecnologia. Il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti ha identificato sei elementi critici per le industrie americane: disprosio, europio, erbio, neodimio, ittrio e indio. Nell’Unione Europea, che è povera di risorse minerarie e ha industrie maggiormente diversificate, gli elementi critici sono più di venti. Per contrastare la scarsità di certi elementi si possono adottare varie strategie: 1) fare con meno; 2) riciclare; 3) individuare elementi più abbondanti che possano sostituire nei processi industriali quelli che scarseggiano; 4) reinventare i processi industriali sulla base dei materiali più facilmente disponibili.

E’ chiaro che in ciascuna di queste strategie c’è ampio spazio per la ricerca e l’industria chimica.

 

Energia

La transizione energetica, già avviata, dai combustibili fossili alle energie rinnovabili ha molto bisogno della Chimica. L’energia solare è abbondante, ma deve essere convertita nelle energie di uso finale: calore, elettricità e combustibili. Ad esempio, la quantità di energia elettrica ricavabile dai 170 Wm-2 di potenza solare media dipende dalla nostra capacità di costruire pannelli, accumulatori e altri dispositivi con le risorse della Terra. Spesso è necessario usare elementi chimici poco abbondanti, come litio, selenio e neodimio, per cui i “reagenti limitanti” nell’utilizzo delle energie rinnovabili spesso non sono i fotoni del Sole, ma gli atomi della Terra, con tutti i problemi prospettati nella sezione precedente. Accade così che mentre la transizione dall’economia lineare all’economia circolare deve fare fulcro sulle energie rinnovabili, la disponibilità di queste ultime è a sua volta legata all’uso delle materie prime secondo i principi dell’economia circolare: risparmio, efficienza e riciclo (Figura 2).

Chimica verde

L’industria chimica in passato aveva come unico traguardo un’alta resa di produzione, senza troppe preoccupazioni per la compatibilità ambientale dei prodotti, sottoprodotti, rifiuti, solventi e catalizzatori, nonché per i consumi idrici ed energetici; a volte, non si è valutata con cura neppure la potenziale pericolosità degli impianti. Nell’ultimo decennio sono stati fatti notevoli progressi, ma molto c’è ancora da fare per giungere ad un Chimica sostenibile, cioè che fornisca quello di cui abbiamo bisogno senza far danni al pianeta e ai suoi abitanti.

Chimica per il Terzo Mondo

Miliardi di persone vivono in paesi tecnologicamente sottosviluppati dove i sofisticati e costosi processi chimici dell’industria non si possono utilizzare. In questi paesi la Chimica deve inventare soluzioni tecnicamente accessibili ed economicamente sostenibili per risolvere problemi di base legati all’acqua, al cibo e all’energia.

 

Monitoraggio, raccolta di informazioni

Un campo particolarmente importante della Chimica è quello dei sensori per monitorare l’ambiente, i cibi, i materiali, le merci, la salute dell’uomo e la sicurezza pubblica. Per esempio, nella difesa contro il terrorismo la Chimica può dare un contributo fondamentale nel prevenire l’attacco, nel controllarlo e nel fornire prove sull’accaduto. In un mondo che diventa via via più complesso e globalizzato ci sarà sempre più bisogno di raccogliere ed elaborare informazioni anche per svelare truffe come, ad esempio, quella messa in atto dalle case automobilistiche, in particolare dalla Volkswagen, per quanto riguarda il livello di sostanze inquinanti prodotte.

Conclusioni

Negli ultimi decenni il mondo è profondamente cambiato. Siamo in una nuova era, l’Antropocene [1], che anche la Chimica ha contribuito a forgiare. Appare evidente che i progressi della scienza e della tecnologia e l’uso dei combustibili fossili [15] hanno rafforzato le mani dell’uomo, ma hanno aumentato la fragilità del pianeta. Scienziati e filosofi sono preoccupati per il futuro dell’umanità. Secondo Zygmunt Bauman, la scienza e la tecnica hanno fatto vincere all’uomo molte battaglie contro la Natura, ma ora rischiano di farci perdere la guerra causando l’irreversibile degrado del pianeta. Hans Jonas ha scritto che è lo smisurato potere che ci siamo dati, su noi stessi e sull’ambiente ad imporci di sapere che cosa stiamo facendo e di scegliere in quale direzione vogliamo inoltrarci. Umberto Galimberti è più pessimista: “L’uomo è impotente contro la scienza, perché la scienza è più forte dell’uomo. La domanda non è più cosa possiamo fare noi con la scienza e la tecnica, ma che cosa la scienza e la tecnica possono fare di noi”.

In questo quadro, è evidente che molte cose devono cambiare nella politica, nell’economia e nella scienza. La Chimica, la scienza che più interagisce con l’uomo e con l’ambiente, deve reinventare il suo ruolo in questo nuovo mondo. Ha il dovere di trovare soluzioni per i problemi che essa stessa ha contribuito a creare in passato e deve svolgere un compito di importanza fondamentale: mettere a disposizione dell’umanità energia, materiali e prodotti di sintesi senza compromettere l’integrità dell’ambiente e la salute dell’uomo. Il ruolo che la Chimica deve giocare, oggi e domani, è quindi addirittura più importante di quello che ha svolto in passato. Infatti, anziché sfruttare opportunità per un generico sviluppo industriale, deve contribuire a risolvere problemi urgenti, quali il cambiamento climatico, l’inquinamento, la conversione delle energie rinnovabili in energie di uso finale, la disponibilità di cibo e acqua, il recupero dei materiali, la preparazione di farmaci per le popolazioni del terzo mondo e la riduzione delle disuguaglianze. E non c’è dubbio che dall’impegno volto a risolvere questi problemi pratici nasceranno nuove idee e scoperte fondamentali.

C’è molto bisogno di una nuova Chimica e quindi di giovani che vi si dedichino, consapevoli della grande missione che li aspetta.

[1] V. Balzani, Sapere, agosto 10-15, 2015,

[2] N. Armaroli, V. Balzani: Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, 2011.

[3] U. Bardi: Extracted: How the Quest for Mineral Wealth Is Plundering the Planet, Chelsea Green, White River Junction, Vermont (USA), 2014.

[4] V. Balzani, M. Venturi: Energia, risorse, ambiente, Zanichelli, 2014.

[5] http://www.accordodiparigi.it/

[6] Francesco: Laudato si’, Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Paoline Editoriale Libri, 2015.

[7] http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/La-fuga-dalla-realta-e-il-mito-della-crescita-infinita

[8] L.R Brown: World on the Edge: How to Prevent Environmental and Economic Collapse, Earth Policy Institute, Washington (DC), 2011.

[9] T. Piketty: Disuguaglianze, Università Bocconi Editore, 2014

[10] http://ar5-syr.ipcc.ch/

[11] V. Balzani, La Chimica e l’Industria, ottobre 2016 (in stampa)

[12] http://www.regione.emilia-romagna.it/notizie/2015/maggio/nuovo-suv-lamborghini-firmato-a-palazzo-chigi-protocollo-dintesa-tra-ministero-sviluppo-economico-e-regione

[13] N. Armaroli, V. Balzani, Chem. Eur. J., 22, 32–57, 2016

[14] www.huffingtonpost.it/…/auto-elettriche-olanda_n_9640970.html

[15] Nel 2015, su scala mondiale abbiamo consumato ogni secondo 250 tonnellate di carbone, 1000 barili di petrolio e 105.000 metri cubi di gas.

 

Il recupero di terre rare: una necessità crescente.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Le terre rare sebbene poco conosciute al grande pubblico sono probabilmente in questo momento i più importanti minerali al mondo. Uno studio dell’Ente americano NCPA (National Center for Policy Analysis) sottolineava le possibili ricadute e conseguenze del monopolio cinese sulla produzione dei metalli del gruppo delle terre rare. La conclusione era che “la dipendenza dalla Cina per l’approvvigionamento di queste indispensabili materie prime pone l’economia americana in pericolo”.
Secondo la definizione IUPAC le terre rare (in inglese “rare earth elements” o “rare earth metals”) sono il gruppo di 17 elementi che comprendono lo scandio, l’ittrio e i lantanidi.

terre rare

Per capire i termini della questione proviamo a focalizzare l’attenzione sul neodimio. Questo metallo è largamente impiegato per la produzione di magneti permanenti che sono utilizzati in quasi tutti i moderni veicoli e nelle attrezzature di alta tecnologia (computer, telefoni cellulari e laser). La carenza di questo elemento non è un problema solo americano: Giappone e Corea del Sud e la stessa Europa hanno preoccupazioni simili. L’industria automobilistica che sta orientandosi verso la produzione di veicoli con maggior efficienza energetica che si basano sull’uso di componenti ultraleggeri e motori ibridi ha la necessità sempre crescente di utilizzare le terre rare.
In un altro rapporto l’Oeko Institut tedesco mostrava che nel 2012 le imprese europee hanno costruito due milioni di motori elettrici per usi industriali, dotati di magneti permanenti costituiti al 30% di terre rare.
L’elemento comune a tutte queste applicazioni è la presenza di magneti al neodimio-ferro-boro.

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Il rapporto prevedendo una crescita nella domanda di questi elementi suggeriva il bisogno urgente di creare un “approccio circolare” al ciclo di vita dei magneti a base di terre rare.
Questi tipi di apparecchiature (motori elettrici e magneti permanenti) non vengono riciclati e spesso finiscono scaricati nei rifiuti domestici.
Un progetto di riciclo di motori elettrici e successivamente una sua applicazione industriale si può ottenere con tecnologie mature per la separazione: si possono triturare i motori elettrici tramite un mulino a martelli, effettuare una separazione magnetica per dividere materiale ferroso e non ferroso, e successivamente utilizzare altre separazioni fisiche per separare gli inerti leggeri dal restante materiale.
Dal punto di vista dei trattamenti chimici il recupero del neodimio e di altre terre rare dai rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) tramite processi di tipo metallurgico prevede il recupero attraverso lisciviazione con acidi inorganici (nitrico, cloridrico, solforico).
La successiva separazione da condurre con molta attenzione perché le terre rare hanno proprietà molto simili tra loro, si può ottenere con processi di estrazione solido- liquido (cristallizzazioni o precipitazioni frazionate) o liquido-liquido mediante solventi. Quest’ultima è la più utilizzata e viene effettuata in continuo e in controcorrente con recupero dei solventi.
Con questo tipo di riciclaggio si potrebbe ottenere materiale contenente circa il 30% di terre rare allo stato puro.
Al momento non esistono imprese specializzate nel recupero di soli magneti a base di terre rare. Un impianto di questo tipo potrebbe lavorare in condizioni di efficienza economica se si approvvigionasse di almeno 100 ton di materiale/ anno.
Il paradosso è che le imprese costruttrici di magneti permanenti spediscono i residui di produzione nella Cina stessa, che però negli anni ha ridotto l’esportazione di terre rare a causa degli aumentati consumi interni.
Se nel 2005 le esportazioni cinesi di terre rare ammontavano a 65.000 tonnellate, nel 2010 questo valore si era ridotto a circa 30.000.
Recuperare terre rare con impianti adatti avrebbe il duplice scopo di ottenere risparmi economici e anche di avere minor impatto ambientale. Basti pensare che le stesse tecniche basate sull’attacco acido hanno impatti ambientali significativamente molto diversi se effettuati su materiale recuperato, piuttosto che su miniere dove la necessità di ottenere rese più elevate di materiale puro da separare dalle rocce inerti può provocare vaste contaminazioni del territorio e la produzione di ingenti volumi di materiale di risulta, senza considerare gli elevati livelli di radioattività ai quali sono esposti i lavoratori e che persistono a lungo nell’ambiente, dovuti alla frequente presenza di torio ed uranio nelle miniere di terre rare.
Un caso emblematico è quello dei villaggi vicini a Baotou, nella Mongolia interna, dove si trova la più grande miniera cinese di terre rare, i cui abitanti sarebbero stati trasferiti altrove per la pesante contaminazione di acqua e raccolti: si valuta che i reflui della lavorazione, acidi e radioattivi, ammonterebbero annualmente a circa dieci milioni di tonnellate.

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La miniera di Baiyunebo, nella Mongolia Cinese, uno dei luoghi più inquinati al mondo.

Link
http://www.trisaia.enea.it/it/attivita-di-ricerca/tecnologie-ambientali/tecnologie-e-impianti-per-il-trattamento-rifiuti-e-reflui/tecnologie-ambientali/terre-rare

http://www.corriere.it/ambiente/15_giugno_24/terre-rare-metalli-strategici-miniera-scarti-elettronici-raee-7ed7abca-1a78-11e5-9695-9d78fe24c748.shtml

http://www.enea.it/it/pubblicazioni/EAI/anno-2013/n-5-settembre-ottobre-2013/tecnologie-innovative-per-il-recupero-riciclo-di-materie-prime-da-raee-il-progetto-eco-innovazione-sicilia

Letture consigliate
http://www.editoririuniti.it/libri/la-terra-svuotata.php#

Noterelle di economia circolare. 5. L’olio dalle sanse

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

L’olio di oliva è uno dei pochi grassi ricavati da frutti; gli altri sono derivati da semi o da parti di animali. Le olive sono i frutti di piante coltivate nei paesi del Mediterraneo da almeno tremila anni; per ottenere l’olio, le olive sono macinate in modo da ottenere una pasta omogenea che viene poi pressata facendone colare una miscela di olio e acqua contenente circa 15-20 kg di olio per ogni 100 kg di olive: dalla spremitura restano circa 40-50 kg di un pannello umido, la sansa, contenente ancora circa 2-3 chili di olio
Il processo continua con la separazione dell’olio di pressione dall’acqua detta ”di vegetazione”, con cui è miscelato. La sansa in genere veniva buttata via, bruciata o dispersa nel terreno, anche con qualche beneficio perché contiene piccole quantità di sali potassici e l’olio che essa conteneva andata quindi perduto.
L’imprenditore pugliese Vito Cesare Boccardi (1835-1878), durante un viaggio in Germania, nel 1865, venne a conoscenza che alcune fabbriche estraevano il grasso dalle ossa mediante solfuro di carbonio.

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Il solfuro di carbonio è un liquido volatile, con odore sgradevole, infiammabile e tossico da respirare, che era stato ottenuto nel 1796 dal chimico tedesco Lampadius scaldando insieme pirite di ferro e carbone; si libera così un vapore facilmente condensabile di solfuro di carbonio che si rivelò subito un buon solvente dei grassi.

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I primi brevetti per l’estrazione del grasso dalle ossa sono stati assegnati al chimico francese Edouard Deiss già nel 1855. Poco dopo la ditta tedesca C.O.Heyl di Moabit, alla periferia di Berlino, estraeva con solfuro di carbonio olio dai pannelli di vari semi oleosi. Boccardi pensò di applicare il processo alle sanse di oliva per recuperare l’olio che esse contenevano, da trasformare in sapone, in un suo sansificio a Molfetta. Sorsero in breve tempo vari stabilimenti che operavano con ciclo integrale: estraevano olio dalle olive, poi recuperavano dalle sanse l’olio residuo usando come solvente il solfuro di carbonio che esse stesse producevano.
Nel 1869 con capitali francesi fu creata a Bari la “Società delle olierie (sic) e saponerie meridionali”, diretta dai signori Marius Gazagne e Sarlin; lo stabilimento, sito nella zona dell’attuale Fiera del Levante (per chi di voi è pratico di Bari), produceva solfuro di carbonio e olio di sansa. Un articolo del 1883 afferma (http://fc1.to.cnr.it/fedora/get/openbess:TO023-00478-0011/islandora:viewerSdef/getViewer) che la fabbrica produceva ogni giorno 1200 kg di solfuro di carbonio e 7000 kg di olio di sansa. Va detto che la Puglia della seconda metà dell’Ottocento stava vivendo una stagione di vivace industrializzazione e modernizzazione che attraeva capitali e dirigenti stranieri. Nel 1886 fu creata la prima Scuola Superiore universitaria di Commercio (poi Facoltà di Economia e Commercio) nella quale si svolgeva un corso triennale di chimica con laboratorio e di Merceologia.
La produzione di olio al solfuro intanto si era diffusa rapidamente; a Milazzo nel 1873 con la ditta Zirilli, in Toscana e altrove.
Si ha notizia che imprenditori pugliesi presentarono, nelle prime esposizioni merceologiche, degli apprezzati campioni di olio di sansa al solfuro da loro prodotto. Dapprima l’olio di sansa, di colore verde intenso per la clorofilla che veniva estratta insieme all’olio, era considerato non adatto ad uso alimentare e veniva impiegato per la fabbricazione del sapone, apprezzato perché, per il suo elevato contenuto di acido oleico, permetteva di ottenere dei saponi meno duri di quelli ottenuto con grassi ricchi degli acidi palmitico e stearico. L’”olio al solfuro” era oggetto di esportazione, specialmente negli Stati Uniti; un saponificio di Milwaukee, fondato nel 1864 da un tale Caleb Johnson, nel 1898 diede il nome “palmolive” al sapone, dal caratteristico colore verde, fatto con gli acidi grassi dell’olio di sansa di oliva italiano. La fabbrica fu poi assorbita dal saponificio Colgate e il nome “Palmolive” è ora marchio di fabbrica di questa multinazionale dei detergenti.

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Questa attività di antica economia circolare non era priva di inconvenienti: I sansifici che producevano olio al solfuro erano soggetti a esplosioni e incendi, ed erano inclusi fra le industrie a rischio di incidenti rilevanti, da localizzare fuori dalle città. Per questo motivo già agli inizi del Novecento il solfuro di carbonio fu sostituito con benzina o altri idrocarburi meno pericolosi.
Con vari perfezionamenti è stato poi possibile eliminare colore e sapori sgradevoli dall’olio di sansa e farne un olio adatto ad usi alimentari. Con successo perché già nella normativa del commercio dell’olio di oliva negli anni trenta del Novecento era prevista la vendita di olio alimentare di sansa, meno pregiato di quello di pressione e di un prezzo inferiore; l’olio di sansa poteva anche essere miscelato con l’olio di pressione nel qual caso era denominato “Olio di sansa e di oliva”. Il favore ricevuto dall’olio di sansa presso i consumatori meno abbienti spinse gli industriali dell’olio di oliva a chiedere ai vari governi di applicare all’olio di sansa una imposta di fabbricazione che ne facesse avvicinare il prezzo a quello degli oli di pressione, naturalmente con le proteste dei proprietari dei sansifici che erano in genere piccoli stabilimenti diffusi nelle zone di produzione delle olive. Un esempio dei numerosi scontri che, nella storia italiana, hanno visto contrapposti gli interessi degli industriali a quelli degli operatori nel campo dell’agricoltura.
L’olio di sansa è ancora prodotto e commerciato; le sanse esauste, dopo l’estrazione dell’olio trovano impiego come miglioratori del terreno o come, pur controvesi, combustibili, altra prova che l’economia può operare a cicli sempre più chiusi.

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Noterelle di economia circolare. 4: Il recupero dello zucchero dal melasso

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

Pochi prodotti chimici industriali, fabbricati su così larga scala (175 milioni di tonnellate all’anno, nel 2015, per un valore di poco più di un euro al kg), si trovano in commercio con un così elevato grado di purezza, superiore al 99,9 % e con una così elevata omogeneità e, lasciatemi dire, con cristalli così belli, come lo zucchero. E ciò partendo da materie prime, dei sughi estratti da piante, nei quali lo zucchero è accompagnato da così numerose sostanze estranee.

La storia dello zucchero è ben nota e trattata a varie riprese in questo blog: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/12/17/zucchero-amaro-e-anche-salato/;

la tecnologia di estrazione dello zucchero dalla canna, pianta coltivata nei climi tropicali, è cominciata in India, è stata esportata attraverso l’Asia fino al bacino del Mediterraneo, da una parte e in Cina dall’altra. Nel bacino del Mediterraneo tale tecnologia è stata ulteriormente perfezionata da chimici arabi e diffusa in Spagna e in Sicilia. Dal Nord Africa la coltivazione della canna e la relativa tecnica di estrazione sono state esportate nelle colonie americane da portoghesi, spagnoli e francesi. Nelle colonie la tecnologia di estrazione era ancora abbastanza rudimentale e forniva uno zucchero di colore bruno, a causa delle impurità che si formavano per reazione di Maillard durante l’evaporazione e la concentrazione; per molto tempo lo zucchero coloniale veniva esportato in Europa per essere raffinato.

La scoperta dello zucchero nelle barbabietole, piante coltivabili in climi temperati, risale alla fine del Settecento e l’estrazione industriale fu messa a punto nei primi anni dell’Ottocento nell’Europa continentale come risposta autarchica alla mancanza di zucchero americano, dopo che Napoleone decise di impedire lo sbarco delle merci dalle navi inglesi che lo trasportavano. La produzione di zucchero da barbabietole è poi sopravvissuta con alterne vicende fino a raggiungere un massimo nei primi anni del Novecento in vari paesi europei e nel Nord America per poi a declinare nella seconda metà nel Novecento, fino a rappresentare nel 2015 soltanto circa il 15 % della produzione mondiale di zucchero.

Nell’età dell’oro dell’industria saccarifera l’Italia ebbe una posizione rilevante, con oltre vento zuccherifici in funzione e con una produzione di zucchero, tutto di barbabietola, che raggiunse un milione e mezzo di t/anno (oggi quasi del tutto scomparsa); in molte zone d’Italia d’estate l’aria delle campagne era impregnata del “profumo” acre delle barbabietole e dei melasso, le strade erano affollate di operai e contadini; quando ero giovane gli studenti e gli insegnanti in vacanza aspiravano a “fare la campagna” (saccarifera), un lavoro che consentiva di guadagnare qualche soldo e durava una quarantina di giorni d’agosto e consisteva nell’analisi per via polarimetrica del contenuto zuccherino delle singole partite di barbabietole che entravano nello zuccherificio e che erano pagate “a titolo”, cioè sulla base, appunto, del contenuto zuccherino.

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Le barbabietole erano poi sottoposte ad un ciclo produttivo che consisteva, schematicamente, nell’estrazione dello zucchero con acqua calda, nel trattamento (defecazione) del sugo leggero, la soluzione zuccherina diluita, con calce per far precipitare una parte delle impurità, nella concentrazione del sugo zuccherino per distillazione sotto vuoto dell’acqua, fino ad ottenere una soluzione zuccherina concentrata calda soprassatura nella quale, per raffreddamento, si formavano i primi cristalli la cui forma avrebbe governato la forma di tutti cristalli di saccarosio che si sarebbero formati nella massa cotta.

Questa delicata operazione di formazione dei primi cristalli era effettuata da operai specializzati, nei primi tempi, nell’Ottocento, fatti venire dalla Boemia. I cristalli di zucchero greggio si separano per centrifugazione, poi vengono lavati con acqua che viene rimessa in ciclo e alla fine sono essiccati. La massa zuccherina da cui non si separano più i cristalli, il melasso, è una soluzione di colore scuro, dall’odore pungente, che contiene ancora circa il 50 % di zucchero

Da 100 kg i barbabietole, contenenti circa il 18 % di saccarosio, si recuperano circa 15 kg di zucchero cristallino e circa 5 kg di melasso contenente circa 2,5 kg di zucchero.

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Per anni il melasso in parte è stato addizionato ai mangimi, in parte era usato per la produzione di alcol etilico, in parte era buttato via ed era una fonte di inquinamento. Nella seconda metà dell’Ottocento si è però cercato di recuperare lo zucchero dal melasso, chiudendo così il ciclo del processo.

Il primo contributo a questa operazione di economia circolare è stato dato dai chimici francesi Hippolyte Leplay (1813-1889) e Augustin-Pierre Dubrunfaut (1797-1861) che hanno scoperto (un loro brevetto è del 1849) che il saccarosio, molto solubile in acqua, formava dei “sali” poco solubili con i metalli alcalino terrosi. Addizionando quindi al melasso diluito degli ossidi o idrati di bario, di stronzio, o di calcio, era possibile recuperare gran parte dello zucchero del melasso. La chimica dei processi era abbastanza complicata perché la precipitazione dei “saccarati” (come erano chiamati questi prodotti di addizione) dipendeva fortemente dalla temperatura ed aveva qualcosa di magico ed empirico anche perché non esistevano due melassi uguali.

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Augustin-Pierre Dubrunfaut—An early sugar chemist Hewitt G. Fletcher J. Chem. Educ., 1940, 17 (4), p 153 DOI: 10.1021/ed017p153

Nei decenni successivi Carl Scheibler (1827-1899) mise a punto un processo di recupero dello zucchero per addizione al melasso diluito di ossido di stronzio; il recupero del saccarosio dal suo “sale” di stronzio del saccarosio avveniva in due fasi, una metà alla temperatura di ebollizione e l’altra, dopo filtrazione del sugo zuccherino e raffreddamento, al momento della scomposizione del “sale” con anidride carbonica che faceva precipitare lo stronzio come carbonato. Il processo Scheibler fu applicato nella raffineria di Dessau ad opera di Emil Fleischer (1843-1928); si ebbe come conseguenza un aumento della richiesta di stronzianite estratta nella regione del Műnsterland. Una delle principali miniere, a Drensteinfurt, fu intitolata a al Dr. Reichardt, il direttore dello zuccherificio di Dessau. Il processo all’ossido di stronzio fu applicato anche nella zuccherificio di Rositz. A partire dal 1883 però la richiesta di stronzianite cominciò a declinare sia perché l’ossido era ottenuto da un altro minerale, la celestina, importato in Germania dall’Inghilterra, sia perché il prezzo dello zucchero era diminuito, negli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito alla liberazione degli schiavi nei Caraibi, al punto da non rendere più conveniente il suo recupero dal melasso.

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Carl Scheibler (1827-1899)

 

 

 

Il passo successivo sarebbe stato rappresentato dal processo inventato nel 1883 dal chimico boemo Carl Steffen (1851-1927) consistente nel trattamento della soluzione diluita di melasso con ossido di calcio finissimo. Si formava un prodotto chiamato “saccarato di calcio” che veniva separato dal liquido scuro circostante, raffreddato a circa 15°C, lavato e poi sospeso in acqua e trattato con anidride carbonica recuperata dai forni in cui il calcare era trasformato in calce viva. La soluzione zuccherina diluita purificata veniva rimessa in ciclo insieme al sugo leggero; il carbonato di calcio precipitato veniva poi anche lui trattato in forno per ottenere nuova calce e anidride carbonica.

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Il liquido restante dopo la filtrazione del saccarato di calcio era chiamato “filtrato Steffen” ed è stato utilizzato anche per recuperare betaina e glutammina, quest’ultima suscettibile di trasformazione in acido glutammico e glutammato monosodico. Il processo, adottato soprattutto negli Stati Uniti, in California a partire dal 1888, ha subito vari perfezionamento ma ha continuato a essere chiamato “Steffen” ed è stato oggetto di brevetti di Steffen e del figlio Carl junior, fino al 1924.

In Italia il recupero di zucchero dal melasso è stato praticato col processo di baritazione messo a punto dal chimico Rodolfo Battistoni (1871-1940), la cui biografia è contenuto nella preziosa raccolta di storie di chimici italiani curata dal professor Scorrano (http://www.chimica.unipd.it/gianfranco.scorrano/pubblica/la_chimica_italiana.pdf

p.228). Battistoni fu assunto giovanissimo nella raffineria di zucchero, allora esercitata nel porto di Ancona dalla Società francese dei Fratelli Lebaudy. Cominciò a sperimentare il processo di dezuccherazione con il melasso di zucchero di canna di importazione. Il melasso diluito veniva addizionato con idrossido di bario in polvere finissima; per raffreddamento della soluzione si separa il saccarato di bario, e il processo continua come già descritto, con scomposizione del saccarato di bario per trattamento con anidride carbonica; la soluzione di zucchero dopo filtrazione veniva rimessa in ciclo. Restava il problema del recupero del bario, a cui Battistoni dedicò molte ricerche; il prof. Felice Garelli (1869-1936) aveva proposto di trasformare il carbonato di bario in carburo di bario; altri avevano tentato la scomposizione termica del carbonato di bario. Battistoni propose, brevettò e applicò, nel 1906-1907, negli zuccherifici di Ancona e Rieti un processo di trasformazione del carbonato in ossido di bario col forno elettrico. La “rigenerazione” della barite veniva associata alla preparazione al forno elettrico dell’ossisolfuro di bario, miscela di ossido e solfuro ottenuta dallo spato pesante, che, dopo idratazione, Battistoni faceva entrare nel ciclo del trattamento dei melassi a supplire le perdite di barite.

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Zuccherificio di Legnago

Il processo di dezuccherazione per baritazione, applicato negli stabilimenti di Cavarzere e Legnago del gruppo Montesi, consentiva di produrre zucchero a prezzo così basso che i concorrenti ottennero che sullo zucchero da melasso venisse applicata una imposta. Questa imposta, che stroncava la concorrenza, fu oggetto, negli anni settanta del secolo scorso anche a livello parlamentare di vivaci polemiche nelle quali intervenne, contro i monopoli, anche Ernesto Rossi. Lo zuccherificio di Legnago fu chiuso nel 1977 e questo mandò definitivamente in disuso la baritazione e questa pagina di economia circolare.

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Noterelle di economia circolare 2: l’ARAR

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Il primo post di quest serie è stato pubblicato qui.

a cura di Giorgio Nebbia.

Le guerre hanno degli strani aspetti laterali. I paesi in conflitto possono combattere soltanto mobilitando sia grandi masse di soldati, sia grandissime masse di materiali che vanno dai metalli delle armi, dei carri armati, degli aerei, dei veicoli, ai carburanti per i mezzi di trasporto, a munizioni, alimenti conservati, indumenti, componenti per l’elettricità e le telecomunicazioni, eccetera. Quando la guerra finisce, questi materiali risultano in gran parte inutili e vengono abbandonati nel territorio nemico, spesso impoverito, e risultano attraenti e utili per risolvere molti problemi elementari di sopravvivenza.

Lo si è visto in Italia dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945; gli eserciti inglese, americano, tedesco, che si erano scontrati sul nostro territorio, hanno abbandonato intere montagne di residui e rottami. Il materiale bellico lasciato dall’esercito americano è diventato importante, anzi essenziale, per un paese che aveva disperato bisogno di tutto e il governo italiano si è trovato davanti alla necessità di amministrare questi depositi e di proteggerli dai furti.

Fu così creato, nell’ottobre 1945 (la guerra era finita ai primi di maggio) un apposito ente statale denominato “Azienda rilievo alienazione residuati” (Arar) alla cui presidenza fu nominato Ernesto Rossi. Alla maggior parte degli Italiani contemporanei questo nome dice poco ed è un peccato perché Ernesto Rossi è stato uno straordinario personaggio: nato nel 1897, laureato in legge, volontario e mutilato nella prima guerra mondiale, docente di materie economiche all’Istituto tecnico di Firenze, si era avvicinato giovanissimo al gruppo di antifascisti che comprendeva Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Riccardo Bauer. Insieme a loro pubblicava le riviste clandestine “Giustizia e Libertà” e “Non mollare” che attrassero ben presto l’attenzione della polizia fascista.

Ernesto Rossi fu arrestato nel 1930 e condannato a venti anni di carcere dal “Tribunale speciale” nel corso del “processo agli intellettuali” antifascisti. Rimase in carcere a Regina Coeli a Roma fino al 1939 quando fu assegnato al confino di polizia nell’isola di Ventotene. In carcere continuò gli studi di economia, e al confino, insieme ad Altiero Spinelli, redasse quel “manifesto di Ventotene” che gettava le basi della struttura federalista europea. Giuseppe Fiori, lo storico e giornalista scomparso proprio nel 2003, ha scritto una bella “Vita di Ernesto Rossi” pubblicata nel 1997 da Einaudi.

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Membro del Partito d’Azione, nominato, dopo la Liberazione, sottosegretario alla ricostruzione, Ernesto Rossi fu scelto come presidente dell’Arar perché occorreva una persona che desse assolute garanzie di indipendenza e di onestà. Troppi appetiti, infatti, destavano quei milioni di tonnellate di residuati bellici che si trovavano in 152 campi sparsi per l’Italia, in gran parte intorno a Napoli e Bari, ma anche a Livorno, in Lombardia, nel Veneto.

segretoLa storia di questo ente, che rimase in vita fino al 1958, è stata di recente raccontata nel libro di Luciano Segreto, “Arar. Un’azienda statale tra mercato e dirigismo”, pubblicato da Franco Angeli per conto del Centro di ricerche sull’economia pubblica.

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Il primo governo De Gasperi (dicembre 1945-giugno 1946). Sei mesi decisivi per la democrazia in Italia di  Gabriella Fanello Marcucci   ed. Rubbettino 2005

Ci voleva il coraggio e la fermezza di Ernesto Rossi per districarsi fra il governo americano, che pretese 160 milioni di dollari (del 1945) per i residuati bellici venduti all’Italia, e l’avidità di industrie, privati, nonché speculatori e ladri che cercavano di prendere al minimo prezzo (i ladri gratis) materiali preziosi che andavano dalla gomma, ai metalli (acciaio, nichelio, rame, stagno) ad autoveicoli (trecentomila, in un momento in cui il parco automobilistico circolante italiano era di poche diecine di migliaia di unità). Si può certamente dire che la ricostruzione dell’Italia sconfitta è stata possibile col riutilizzo — col riciclo, trent’anni prima della nascita dell’ecologia e dell’economia circolare — dei residuati bellici. Sta di fatto che nei tredici anni della sua gestione, l’Arar di Ernesto Rossi è riuscita non solo ad assicurare i materiali necessari per la rinascita italiana, ma anche un utile allo stato di molti miliardi di lire (degli anni cinquanta del secolo scorso).

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L’efficienza e la correttezza della gestione dell’Arar indussero il governo ad affidare a questo ente l’amministrazione dei materiali forniti all’Italia nell’ambito degli aiuti delle Nazioni unite per la ricostruzione (Unrra) e di quelli americani del Piano Marshall (Erp); con gli aiuti gestiti dall’Arar arrivarono in Italia, già pochi anni dopo la fine della guerra, apparecchiature scientifiche, i primi calcolatori, riviste, strumenti per i laboratori universitari, che permisero la ripresa della ricerca e degli studi universitari. Da studente e da giovane assistente di Merceologia ricordo l’emozione provata quando arrivò la prima cassa contenente lo spettrofotometro Beckman DU (se ne è parlato anche in questo blog) tramite il Piano Marshall.

Ernesto Rossi superò le difficoltà politiche ed economiche ormai dimenticate, i dibattiti fra potenti interessi contrastanti per spartirsi il patrimonio di residuati bellici e trasformarlo in nuove macchine e merci, con lo stesso rigore morale che aveva dimostrato nella sua opposizione al fascismo, a riprova che è possibile, anche in epoche tempestose, porre al di sopra di tutto l’interesse pubblico e dello stato.

Il recupero di residuati bellici impegnò le industrie in tutti i paesi usciti dalla devastante seconda guerra mondiale. Qualcuno ricordo le battute finali del film “I migliori anni della nostra vita” (1946) quando Fred (Dana Andrews), reduce disoccupato, visita la distesa di aerei militari, simili a quello su cui aveva volato ed era stato abbattuto, abbandonati e inutilizzati. Al commento su tutto quello spreco, un operaio gli ricorda che con l’alluminio di quegli aerei sarebbero state costruite case prefabbricate per chi ne era privo.

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I migliori anni della nostra vita (1946): Fredric March, Teresa Wright, Dana Andrews

 

Il recupero dei residuati bellici stimolò anche innovazioni tecniche; i perfezionamenti dei forni elettrici per il riciclo dei metalli di residuati bellici, talvolta ottenuto smontando navi affondate, diede vita all’acciaieria delle valli bresciane, come ha raccontato Giorgio Pedrocco nel libro, “Bresciani. Dal rottame al tondino. Mezzo secolo di siderurgia (1945-2000), Milano, Jaca Book, 2000. 41FrEQXhvcL._SX347_BO1,204,203,200_

Forse il futuro della chimica e dell’occupazione di chimici e ingegneri sta proprio nell’economia circolare.

Si veda anche: http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=10&tipo_articolo=d_eventi&id=36

Noterelle di economia circolare.

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a cura di Giorgio Nebbia

L’economia circolare è un nome recente per indicare le operazioni di riciclo dei rifiuti con produzione di materie o merci utili e vendibili. Espressione fortunata che ha già dato vita a libri, saggi, congressi, interviste televisive, gli ingredienti del successo; definizione e descrizione “ufficiali” sono state pubblicate come “Pacchetto sull’economia circolare: domande e risposte” a cura della Commissione Europea http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-15-6204_it.htm.

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Sta di fatto che qualsiasi società ha sempre cercato di guardare i propri rifiuti per vedere se poteva ricavarne qualcosa di utile; anzi lo sguardo ad alcuni eventi del passato aiuta a comprendere l’ingegnosità di chi ci ha preceduto, i progressi che la ricerca di un riciclo dei rifiuti ha portato anche ad altri campi, e a stimolare nuove imprese. Episodi di economia circolare si sono moltiplicati soprattutto nel corso della rivoluzione industriale, a partire dal Settecento, nel campo della metallurgia, della chimica, delle attività minerarie, dell’industria tessile e della carta, delle attività agricole e alimentari, praticamente dovunque.

Prendiamo il processo inventato dello sfortunato (morì suicida) chimico francese Nicholas Leblanc (1742-1806) per la fabbricazione del carbonato di sodio artificiale, in alternativa a quello ricavato dalle ceneri di alghe e di piante; esso consisteva, come è ben noto, nel trattamento del cloruro di sodio con acido solforico e nella scomposizione del solfato di sodio per reazione con calcare e carbone ad alta temperatura. La lisciviazione della miscela risultante e la successiva concentrazione del liquido così ottenuto fornivano carbonato di sodio con 10 molecole di acqua di cristallizzazione. Il primo passaggio del processo liberava acido cloridrico che dapprima veniva immesso nell’atmosfera e il secondo lasciava come residuo fangoso del solfuro di calcio che all’aria si decomponeva liberando l’inquinante e nocivo idrogeno solforato. https://www.academia.edu/20040414/Il_peggiore_di_tutti

220px-NicholasLeblanc

350px-Leblanc_process_fluxogramLa produzione del carbonato di sodio col processo Leblanc ha dato vita alle prime proteste contro l’inquinamento atmosferico industriale da parte sia degli agricoltori, sia degli abitanti delle zone vicino alle fabbriche. In Inghilterra la protesta è finita in Parlamento ed ha indotto il governo a emanare le prime leggi antinquinamento, l’Alkali Act del 1863. Gli industriali dapprima raccolsero l’acido cloridrico in acqua, scaricando poi le acque acide nei fiumi. L’Alkali Act del 1874 li spinse ad adottare dei metodi di trattamento dell’acido cloridrico. Negli anni 1869-1870 il chimico inglese Walter Weldon (1832-1885) aveva inventato un ingegnoso processo basato sulla reazione dell’acido cloridrico con biossido di manganese; si formavano cloro e cloruro di manganese che poteva essere rigenerato per reazione con calce e aria, col che si completava il recupero del cloro.

Il processo Weldon si può considerare il primo importante esempio di economia circolare e il cloro si può considerare la prima merce ottenuta dai rifiuti. Il cloro trovò ben presto impiego nel campo della depurazione delle acque usate e nella sbianca dei tessuti e della carta, fino ad iniziare un controverso cammino nel campo della chimica organica.

Un secondo caso di economia circolare si ebbe con i processi di lotta all’inquinamento dovuto all’idrogeno solforato liberato dalla scomposizione all’aria dei fanghi di solfuro di calcio. Agli inizi dell’Ottocento l’acido solforico, la materia prima per il processo Leblanc, diffuso in Francia e Inghilterra, era ottenuto partendo dallo zolfo importato dalla Sicilia che ne deteneva praticamente il monopolio.

Il prezzo dello zolfo siciliano subiva bizzarri aumenti, per l’avidità e la miopia sia dei proprietari delle miniere sia del governo del Regno delle Due Sicilie che applicava un pesante dazio sulle esportazioni, con grave disturbo per gli importatori inglesi. Come reazione il potente James Muspratt (1783-1886), che aveva cominciato a produrre la soda col processo Leblanc nel 1823, l’anno in cui il governo inglese aveva eliminato l’imposta sul sale industriale, a partire dal 1834-35 acquistò in Spagna delle miniere di piriti; per arrostimento delle piriti si otteneva anidride solforosa da ossidare poi ad acido solforico nel processo delle camere di piombo. Intanto il chimico Carl Claus (1827-1900), nato in Germania ma immigrato in Inghilterra nel 1882, aveva inventato un processo per trasformare l’idrogeno solforato in zolfo, originariamente per la depurazione del gas illuminante. L’ingegnoso processo consisteva nell’ossidazione di parte dell’idrogeno solforato con ossigeno e nel successivo trattamento dell’anidride solforosa così formata con il restante idrogeno solforato in modo da ottenere zolfo (brevetti inglesi numero 3608 del 1882 e 5958 nel 1883).

Di recente due bravi studiosi tedeschi, Ralf Steudel e Lorraine West, hanno raccontato la storia di questo personaggio e della sua scoperta:

https://www.researchgate.net/publication/270958109_Vita_of_Carl_Friedrich_Claus_inventor_of_the_Claus_Process

Claus_Sulfur_RecoveryClaus descrisse il suo processo nel Journal of the Society of Chemical Industry del 29 aprile 1883.

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Alexander Macomb Chance 1844-1917

Dopo aver letto questo articolo Alexander Chance (1844-1917) volle visitare l’officina in cui era utilizzato, ne ottenne la licenza nel 1883 e si dedicò a perfezionarlo e ad applicarlo all’idrogeno solforato liberato dal solfuro di calcio. Tali perfezionamenti sono descritti nel brevetto inglese numero 8666 del 1887, “Improvements in treating alkali waste to obtain sulphuretted hydrogen and in apparatus employed therein”, che può essere consultato in:

http://discovery.nationalarchives.gov.uk/details/rd/598359c8-6c79-411f-8be6-4b4f84a46db2. Il processo fu descritto da Chance anche in un articolo pubblicato nel Journal of the Society of Chemical Industry del 1888, l’anno in cui fu applicato industrialmente. Il processo è più complicato di quanto si possa dire in poche sbrigative parole, come mostra il seguente articolo:

http://www.topsoe.com/sites/default/files/clark.pdf

Il processo di recupero dello zolfo dal solfuro di calcio del processo Leblanc ebbe successo sia per le pressioni delle norme contro l’inquinamento da idrogeno solforato delle discariche dei fanghi, sia per l’aumento del prezzo non solo dello zolfo siciliano ma anche delle piriti spagnole.

Con i processi Weldon e Claus-Chance fu possibile migliorare il ciclo del processo Leblanc che riuscì a sopravvivere per un’altra ventina di anni prima di essere definitivamente soppiantato dal processo di produzione del carbonato di sodio anidro per trattamento con ammoniaca, inventato dai fratelli Ernest e Alfred Solvay nel 1861 ma applicato con successo soltanto alla fine dell’Ottocento.

Il processo Claus-Chance ebbe gravi conseguenze sull’economia siciliana; nonostante l’invenzione, nel 1880, dei forni inventati da Roberto Gill che permettevano il recupero di parte dell’anidride solforosa inquinante liberata dai calcaroni e miglioravano la resa di zolfo dal minerale (altro esempio di economia circolare), lo zolfo siciliano fu definitivamente messo in crisi delle importazioni in Europa dello zolfo nativo ottenuto negli Stati Uniti col processo Frasch. Qualche notizia su questa interessante pagina della storia economica nel blog:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/10/24/storia-moderna-dello-zolfo/.

Le miniere siciliane sopravvissero malamente fino alla seconda guerra mondiale grazie alle protezioni governative e poi fasciste; sulle “infernali”, come le descrisse l’americano Booker T.Washington nel 1910, condizioni di lavoro in tali miniere si può vedere il bel blog di Icardi: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/10/14/questanno-sono-zolfo/

Claus ottenne anche un brevetto tedesco numero 23763 del 1883 (riprodotto nel lavoro citato di Steudel e West), per un processo per eliminare l’anidride carbonica dal gas illuminante per assorbimento con ammoniaca, variante di un pezzo del processo Solvay. Il processo Claus continuò ad essere utilizzato ogni volta che si trattava di recuperare zolfo da solfuri ma ebbe una vigorosa resurrezione “grazie” all’ecologia. Molti petroli contengono composti solforati che in parte finivano nei prodotti raffinati ed erano fonte di inquinamento atmosferico e di piogge acide. I governi sono stati costretti così a emanare leggi che stabilivano dei limiti massimi dello zolfo nei prodotti raffinati e gli industriali sono stati costretti a eliminare i gas solforati e hanno trovato conveniente almeno recuperare dello zolfo da vendere. Il processo Claus ha avuto ancora più successo quando si è trattato di eliminare l’idrogeno solforato dai gas naturali acidi e così anche gli impianti di estrazione del gas naturale sono affiancati da fabbriche di zolfo molto puro e a basso prezzo.

Questa applicazione del processo Claus ha portato alla crisi dell’estrazione dello zolfo da giacimenti di zolfo nativo e anzi ad un eccesso (milioni di tonnellate all’anno) di zolfo invenduto per cui gli imprenditori cercano qualche sbocco commerciale. Qualcuno ha qualche idea ?

(Nota del blogmaster: incredibilmente non c’è una foto di Carl Claus in tutto il web; qualcuno ne conosce una? Attenzione alle omonimie. Non c’è nemmeno nella sua biografia scritta da Steudel https://www.researchgate.net/publication/280730168_The_Life_of_Carl_Friedrich_Claus_A_German-British_Success_Story)