La chimica: chiave del “realismo magico”.

 Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Mauro Icardi (siricaro@tiscali.it)

 Dopo aver scritto di depurazione prendendo spunto da un romanzo di Piero Bianucci, dove si trovavano  nelle pagine del romanzo “Benvenuti a bordo”  nozioni di chimica e di tecnica delle depurazione fognaria,vorrei fare conoscere un racconto di uno scrittore forse poco conosciuto. Uno scrittore dimenticato. Uno scrittore con una formazione non chimica, ma che usa la chimica ed il suo immaginario, per scrivere uno dei suoi più bei racconti intitolato “Il buon vento”. Uno scrittore che si ispira al surrealismo che tenta di introdurre in letteratura e nell’arte italiana chiamandolo “realismo magico”: Massimo Bontempelli.

Nasce a Como nel 1878. E’ figlio di un ingegnere che lavora nelle ferrovie. Per questa ragione la famiglia si trasferirà frequentemente in varie località italiane. Bontempelli frequenterà il liceo Parini a Milano, sosterrà l’esame di maturità ad Alessandria, e otterrà la laurea in lettere e filosofia nel 1902 a Torino con una tesi sul libero arbitrio.

Ottenuto un incarico nelle scuole medie, insegna Lettere a Cherasco e poi ad Ancona.

Lascia l’insegnamento nel 1910 e si trasferisce a Firenze,lavora come giornalista per quotidiani quali La Nazione ed il Corriere della Sera, oltre che per la casa editrice Sansoni.

Nel 1915 accetta l’incarico di responsabile culturale dell’Istituto Editoriale Italiano e si trasferisce a Milano, curando la pubblicazione di classici della letteratura italiana. Nello stesso tempo è collaboratore del quotidiano milanese Secolo e corrispondente di guerra per conto del giornale romano Il Messaggero.  Convinto interventista, nel 1917 è arruolato come ufficiale di artiglieria collabora anche alla stesura del giornale militare Il Montello e ottiene due medaglie al valore e tre croci di guerra.

Terminata la guerra si  avvicina al futurismo, sia pure inizialmente con scarsa convinzione, e pubblicherà due romanzi “La vita intensa” nel 1920 e “La vita operosa” nel 1921. I soggiorni da giornalista a Parigi tra il 1921 e il 1922 lo avvicineranno alle avanguardie francesi. Nei romanzi “La scacchiera davanti allo specchio” del 1992 ed “Eva ultima” del 1923 si nota un’impostazione di scrittura che coincide in gran parte con le tesi del “Primo manifesto del surrealismo” di Andrè Breton.

Successivamente entrerà a far parte del Teatro degli Undici,fondato dal figlio di Pirandello Stefano Landi, e stringerà amicizia con lo stesso Pirandello.

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

Con Curzio Malaparte fonda nel 1926 la rivista “900 Cahiers d’Italie et d’Europe.” Su questa rivista che fino al 1927 viene pubblicata in francese, espone la poetica del realismo magico. Questa poetica invita l’artista moderno a scoprire l’incanto dell’inconscio e delle avventure imprevedibili, però senza rinunciare alla funzione di controllo della sua ragione umana.

Due romanzi pubblicati successivamente “Il figlio di due madri” del 1929, e gente nel tempo del 1937 avranno meno successo critico. Lo scrittore in un primo momento convinto assertore del fascismo che ritiene il movimento politico adatto a sostenere la nascita di una società moderna in Italia, e che sarà anche nominato accademico d’Italia nel 1930, avrà poi dei ripensamenti.

Nel 1931 rientrato a Milano da un soggiorno a Parigi pubblica “Mia vita morte e miracoli” nel quale è contenuto il racconto intitolato “Il buon vento”.

Comincia a soffrire l’invasività del regime fascista nelle scelte artistiche. Nel 1938 dopo la proclamazione delle leggi razziali, si rifiuta di succedere ad Attilio Momigliano e nel novembre dello stesso anno nel discorso di commemorazione di Gabriele D’Annunzio critica “l’obbedienza militaresca” divenuta costume nazionale. Viene espulso dal partito fascista e gli viene proibito di scrivere per un anno. Nel 1939 collabora con il settimanale Tempo ed con il Corriere della Sera. Inizierà a ad avere contatti con l’opposizione comunista. Alla caduta di Mussolini, preoccupato dalle minacce di morte ricevute da Alessandro Pavolini si nasconderà rifugiandosi in casa di amici.

Nel 1945 tornato a Milano fonderà il Sindacato Nazionale autori drammatici. Ne 1948 verrà eletto senatore nelle liste del Fronte democratico popolare. Ma ma la nomina è invalidata poiché, nel 1935, aveva curato un’antologia per le scuole medie, e la legge elettorale prevede che non possano candidarsi «gli autori di libri e testi scolastici di propaganda fascista» per cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

Torna a Roma nel 1950.  Accettato non senza reticenze dall’Unità visti i trascorsi fascisti, qui pubblica il suo ultimo racconto, Idoli,, del 15 febbraio 1951.. Nel 1953 vince il Premio Strega  con il suo ultimo libro L’amante fedele, una raccolta di racconti scritti già nell’immediato dopoguerra nello stile del realismo magico. Dalla metà degli anni cinquanta una grave malattia gli impedisce di proseguire il suo lavoro e, a 82 anni, muore a Roma il 21 luglio 1960.

Nel racconto “Il buon vento” la chimica è il mezzo con il quale il protagonista trova la sostanza che permette il contatto tra la realtà fisica, ed il mondo dell’immaginario.

Questo è il link del racconto. A mio giudizio un piccolo capolavoro di letteratura.

http://www.istituti.vivoscuola.it/ic-villalagarina/Ipertesti/Metafore/bontempelli.htm

L’incipit ci introduce subito in quello che l’autore vuole intendere per realismo magico.

Circa dodici anni fa avevo messo su per mio divertimen­to una specie di gabinetto di chimica, ove mi appassiona­vo a tentare esperienze col segreto proposito di trovare la sostanza di contatto tra il mondo fisico e il mondo spiri­tuale. Un giorno, d’improvviso, me la trovai tra mano, quella sostanza: fu, ognuno lo capisce, l’invenzione più mi­racolosa che possa immaginarsi. Era una polverina, che raccolta nel cavo della mano non seppi giudicare se fosse calda o fredda: era impalpabile e imponderabile, pure an­che a occhi chiusi la mia mano la percepiva; era incolore e visibilissima.”

Nel rileggere questo racconto dopo moltissimi anni (la prima volta ero alunno delle elementari) la prima impressione che ne ho ricavato, è quella che provo ancora oggi. L’autore descrive l’esperienza della chimica come un divertimento. Ma la lega anche alle sue origini oscure. Agli alchimisti. E quindi mi fà pensare a quello che ancora oggi è nell’immaginario collettivo di molti. Cioè la chimica considerata  come qualcosa di ancora oscuro e magico. Lo stesso analista chimico (e confesso che ancora mi succede) come un piccolo oracolo. Forte del suo sapere che può per esempio sapere se l’acqua (ed è il mio caso specifico) è buona da bere. E quindi quando scrive il referto analitico, emette quasi un verdetto.

L’autore parla di una polverina. Altro topos legato più che alla chimica, direi alla magia (donde il realismo magico). E utilizza almeno un termine (imponderabile) che etimologicamente rimanda alla chimica. In particolare all’analisi gravimetrica o ponderale, come era definita nei testi scolastici di molti anni fa. A me personamente la polverina richiama alla mente i sali.

L’idea poi che il personaggio del racconto sia un chimico che cerca la sostanza di contatto tra il mondo fisico e quello spirituale rafforza la convinzione che Bontempelli abbia della chimica questa immagine. O che usi questa visione della chimica per la costruzione del racconto. La polverina è quasi una pietra filosofale. Quando il protagonista scoprirà la sua particolare proprietà, non esiterà ad usarla, trasformando il cameriere dell’osteria dove ha pranzato in un asino, per non pagare il conto.

Massimo Bontempelli

Massimo Bontempelli

Il racconto si legge quasi d’un fiato. E’ pieno di descrizioni particolari. Piccolo gioiello di letteratura.

Ne estrapolo ancora un brano, quello in cui si scopre a cosa realmente serva la polverina, quale sia la sua stupefacente proprietà. Il personaggio è alla ricerca di un prestito per continuare i suoi esperimenti (e anche per risolvere il problema del pranzo…).

Si rivolge quindi ad uno degli uomini più ricchi del paese: il Signor Bartolo che però gli rifiuta il prestito.

“Signor Massimo”mi rispose “lei non sa che io so­no povero. Io non posso somministrarle nemmeno ven­ticinque centesimi. Le giuro che nel farle questo rifiuto il cuore mi sanguina”.
Sostò. Lo guardai. Mi guardava, onde una gran timi­dezza mi prese, e abbassai lo sguardo.
E scorsi che sul suo petto, dalla sua parte sinistra, sotto la tasca del fazzoletto, sulla tela bianca del vestito c’era una piccola macchia rossa. Pensavo d’insistere. Ma mi av­vidi che la macchiolina era fresca, e s’allargava. Stavo al­lora per avvertirlo, quando egli riprese a parlare:
“Il cuore mi sanguina – ripeté – e io mi compiaccio di spiegarle…”
Ma non sento più niente. Mi balena un sospetto, una speranza, una spiegazione, una illuminazione, forse, cer­to, anzi certo certissimo, capivo ora gli effetti della mia scoperta. L’uomo parlava entro il raggio d’azione della mia polvere, la sostanza che segna il punto di contatto e pas­saggio tra il mondo reale e il mondo delle immagini: ed ecco, lui parlava, la mia polvere operava: la mia polvere serve a realizzare le immagini: le immagini di cui fanno uso gli uomini parlando. Il cuore mi sanguina, egli aveva detto, e ripetuto. E il disgraziato…

Il racconto è decisamente fantasioso e surreale. La chimica che si evoca non è più una scienza. E’magia. Ma per una volta possiamo concedere all’autore questa specie di licenza poetica. Il racconto lo merita. E noi chimici ci possiamo concedere questa lettura gradevole. Proprio perchè apprezziamo la chimica reale, possiamo apprezzare questa chimica surreale di cui si narra in questo racconto.

Il picco del fosforo: di che si tratta? (2 parte)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di C. Della Volpe

La prima parte di questo post è stata pubblicata qui.

E’ stato Liebig attorno al 1840 che ha iniziato a chiarire il ruolo degli elementi chimici nello sviluppo e nella crescita degli esseri viventi; tuttavia la conoscenza empirica dell’importanza degli escrementi fa parte della storia della cultura umana, essendo basata su una lunga osservazione empirica; scrive Victor Hugo nella seconda parte de I Miserabili, parte II, Cap. 1 (1862):

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L’uso prima del guano, poi del letame ed infine negli ultimi decenni di quantità crescenti di minerali fosfatici, che hanno un contenuto attivo che è un ordine di grandezza superiore rispetto ad altre fonti hanno contribuito ad uno sviluppo eccezionale della produttività agricola mondiale attraverso un cambiamento della composizione media del terreno; un’idea del ruolo storico dei vari componenti si vede nel grafico qui sotto.

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Dopo la seconda guerra mondiale l’estrazione di minerali fosfatici ha costituito la fonte principale di fosforo per l’agricoltura; si è trattato della cosiddetta “rivoluzione verde”; gli effetti non si sono fatti attendere perchè con un incremento estremamente grande del weathering del fosfato (da 2 a 4 volte almeno secondo varie stime o perfino di più) rispetto alla situazione precedente si è avuto un aumento dei flussi di fosforo sia verso il terreno, con accumulo che ne ha ridotto o perfino distrutto la componente organica, sia verso il mare; il sistema della biosfera non è stato in grado di assorbire l’enorme incremento di nutrienti senza una modifica sostanziale della sua composizione.

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The global phosphorus cycle, G.M. Filippelli, Rev. Min. Geochem. doi: 10.2138/rmg.2002.48.10 v. 48 no. 1 p. 391-425, 2002

Una rappresentazione del medesimo dìfenomeno si vede in questo secondo grafico che cerca di descrivere in modo più completo i diversi “livelli” di ciclo del ciclo del fosforo, ciascuno giocato su una diversa scala temporale.

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P Soup (the global phosphorus cycle) by Elena Bennett and Steve Carpenter

March/April 2002 WORLD WATCH magazine

Lungo le coste delle zone più abitate del pianeta e con una agricoltura più intensiva si sono incrementate le cosiddette dead-zone,ossia le zone morte, le zone di oceano dove l’input di fosfato ha comportato prima una massiccia alterazione della composizione delle specie ed in ultima istanza una situazione di anossia che ha enormemente impoverito la biosfera stessa.

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Red circles show the location and size of many dead zones.
Black dots show dead zones of unknown size.
The size and number of marine dead zones—areas where the deep water is so low in dissolved oxygen that sea creatures can’t survive—have grown explosively in the past half-century. –
NASA Earth Observatory

La produzione mondiale di rocce fosfatiche è cresciuta secondo l’andamento mostrato nel grafico (linea rossa); essa è il risultato di un numero relativamente ridotto di grandi produttori mondiali; la linea blu sottostante mostra l’andamento della produzione negli USA; si vede che essa ha seguito il tipico andamento a campana delle risorse usate al di sopra della loro capacità di riproduzione; il picco del fosforo americano, ossia il momento di massima produzione fu raggiunto nei primi anni 80; dopo qualche anno gli USA hanno smesso di esportare rocce fosfatiche e sono divenuti importatori netti.

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L’effetto di questo fenomeno e anche quello della crisi dell’altro grande produttore mondiale del dopoguerra, l’URSS, che produceva, prima della caduta del muro, circa ¼ del fosforo mondiale e la cui produzione è crollata ad un terzo appena dopo il 1989, sono la spiegazione della brusca variazione di capacità produttiva mondiale che si vede nel grafico (linea rossa) a cavallo degli anni 90.

I dati possono essere analizzati meglio guardando al grafico sottostante in cui il trend di ciascun grande produttore è riportato in maggiore dettaglio; come si può vedere alcuni produttori come il Marocco, che è anche il detentore della maggiori riserve sono rimasti costanti, mentre la Cina ed un ristretto numero di nuovi produttori ha lentamente preso il posto dell’URSS (la cui produzione dipendeva in realtà non dal territorio russo ma da quello immenso di alcune altre repubbliche ex-sovietiche).

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Il risultato è stato che negli ultimissimi anni la produzione ha ripreso l’andamento esponenziale precedente agli anni 80; ma questa lunga battuta d’arresto ha mostrato cosa succede quando una risorsa limitata comincia ad incontrare difficoltà.

Infine è da notare che l’estrazione dalle fonti “nuove” è comunque una estrazione da fonti più povere.

Il massimo di concentrazione di P2O5 si ha nell’apatite sedimentaria con un eccezionale 42%; con due conti stechiometrici si arriva ad una percentuale finale di fosforo nel campione di circa il 18%. Tuttavia questa non è affatto la norma.

I valori medi sono notevolmente più bassi e i massimi si hanno in realtà o meglio si sono avuti in minerali che erano di fatto guano, come nel caso dei minerali estratti per oltre 100 anni nell’isola di Nauru, in Micronesia. Il deposito cosiddetto primario, uno dei più ricchi del mondo con una percentuale di P2O5 all’origine di quasi il 36% è praticamente finito nel 2000.

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Attualmente l’estrazione è ferma perchè rimangono solo pochi milioni di tonnellate di minerale e la estrazione potrebbe riprendere per un tempo limitato usando il fondo del deposito, che però ha una percentuale utile di circa la metà, ma i costi ne sconsigliano la gestione; Nauru, che è stata per qualche anno il paese più ricco del mondo, è adesso in bancarotta. E per di più l’80% del suo territorio è stato devastato dall’attività mineraria, sembra la Luna.

fosforo214http://www.aljazeera.com/news/asia-pacific/2008/03/200852518437658837.html

Storia simile a Makatea, nella Polinesia Francese; fortunatamente Mataiva è invece salva. Le percentuali di partenza nel mondo sono comunque in genere molto più basse e devono essere aumentate usando dei processi di arricchimento che sono costosi in energia ed economicamente. La conseguenza è mostrata in questo grafico che riporta i valori del minerale dopo l’arricchimento:

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Come si evince dal grafico della IFDC (che è una organizzazione privata per il miglioramento dell’uso dei fertilizzanti) le percentuali di minerali estremamente ricche (superiori ad una percentuale di P2O5 del 32 o più%) si sono ridotte ,mentre quelle attuali sono inferiori al 31-32%; le rocce più ricche sono esaurite; quindi in un certo senso come è avvenuto per il picco del petrolio il fosforo facile è alle nostre spalle; davanti a noi c’è un minerale ancora relativamente abbondante, ma meno ricco e più costoso da estrarre.

E’ istruttivo leggere ciò che il rapporto IFDC scrive a riguardo:

The most desirable sedimentary phosphate rocks contain distinct phosphate particles that can be separated from the unwanted gangue minerals. Insular deposits, a type of sedimentary deposit associated with oceanic islands (such as Nauru and Christmas Island), have been an important source of phosphate rock for more than 100 years; however, most of these deposits have been totally depleted or have short projected remaining lifetimes.

Penso che nessun commento sia necessario.

E questo si vede bene anche nel trend dei prezzi degli ultimi anni; il costo energetico di estrazione è cresciuto parallelamente alla difficoltà di estrazione e con esso il costo del minerale, che ha seguito bene il trend del costo dell’energia fossile: picco nel 2008, rimbalzo nel 2009 e incremento lento ma costante ed inarrestabile, con valori che sono attualmente rimasti doppi di quelli di qualche anno fa.

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Chi ha un po’ di occhio clinico noterà che questo trend rassomiglia molto a quello del petrolio; come mai c’è questa correlazione?

La spiegazione è semplice; il costo energetico dell’estrazione del fosfato è enorme; occorre scavare il minerale in genere da miniere a cielo aperto con enormi scavatori.

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(http://www.mosaicco.com/florida/mining.htm)

Macchine enormi, alcune dotate di ruote gigantesche prodotte ad hoc per esse, con giganteschi motori termici od elettrici.

Descrivendo la miniera del deserto isareliano del Negev (uno dei motivi per cui quel territorio fu assegnato ad Israele nel 1948 strappandolo agli arabi), agricoltura24 scrive (http://www.agricoltura24.com/concimi-la-lunga-strada-per-arrivare-sul-campo/0,1254,98_ART_6548,00.html):

Se infatti all’inizio dello sfruttamento delle miniere la quantità di roccia inerte (non utilizzabile per la produzione di concime) incideva per circa il 50%, oggi molto spesso è necessario spostare una quantità più di dieci volte superiore di roccia rispetto a quella fosfatica. In sostanza per estrarre 2,5 milioni di tonnellate di rocce fosfatiche vanno spostati ben oltre 25 milioni di tonnellate di pietre. Molte volte per arrivare a estrarre uno strato “buono” può servire anche un anno di lavoro, con costi produttivi decisamente elevati. Si va sotto anche di 75 metri per trovare rocce “pregiate” mentre tutta la miniera viene solcata da strade della larghezza di 28 metri per agevolare il passaggio nei due sensi di marcia dei mezzi da lavoro.

Giganteschi dispositivi di scavo mossi da enormi motori termici ed elettrici, con ruote alte 4-5 metri e costruite ad hoc, oppure nastri trasportatori lunghi decine o perfino centinaia di chilometri, che ricordano le descrizioni dei romanzi di fantascienza (come La città morta di Samuel Delany dove un nastro analogo trasporta il favoloso minerale di tetron).

Nonostante questo dispiegamento di tecnologia le perdite di minerale sono molto elevate, sia in fase di scavo, che di trasporto che di trattamento; il trattamento poi prosegue con reazioni in fase umida che portano alla produzione dei composti finali usati direttamente nel trattamento dei terreni.

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Questo spiega perchè ci sia una relazione così stretta fra costo dell’energia e costo dei concimi.

L’impoverimento delle fonti e il peso crescente dei produttori maggiori come il Marocco, che stanno ricorrendo via via a depositi di sempre minore qualità ha comportato un problema di impurezze; nel fosforo marocchino c’è una percentuale di Cadmio che tende a rimanere, ad accumularsi poi nei terreni dove il concime viene sparso, e questo problema crescerà nel corso del tempo. Del problema si è interessata anche la Commissione europea (http://ec.europa.eu/environment/enveco/taxation/pdf/cadium.pdf).

Negli ultimissimi anni c’è anche stata una guerra dei dati; l’USGS aveva una stima di riserve dell’ordine di 16 miliardi tonnellate; IFDC ha rilanciato alzando questo livello di quasi 20 volte; e l’USGS ha infine accettato una stima di circa 70 miliardi di tonnellate di riserve (utilizzabili cioè a condizioni correnti) e di risorse (utilizzabili ragionevolmente in futuro ma a condizioni più onerose e senza stime percentuali affidabili di P2O5) per 300.

La questione è che come per il petrolio non sono chiari i dettagli di questi dati: quali percentuali di minerale? Quali costi di estrazione? Quali tipi di impurezze? Il documento dell’IFDC non è in grado di esprimere valori certi di questi parametri pur criticando i valori di stime precedenti. Il MIT in un recente documento, sia pur di tipo didattico, critica questo tipo di variazione brusca delle stime, che sembrano rispondere più ad interessi di parte che alla verità delle cose.

Problemi legati ai concimi fosfatici ce ne sono anche di inaspettati; nei depositi di fosforite c’è una concentrazione relativamente elevata di uranio. Ne segue l’impatto radiologico dell’industria dei fertilizzanti connesso con tale l’elevata concentrazione di U-238 nelle fosforiti (minerali di partenza costituiti da fosfati di calcio) e nei loro derivati. In passato erano presenti in Italia diversi impianti che producevano acido fosforico attraverso il processo a umido, con la formazione di fosfogesso come sottoprodotto; impianti che hanno cessato l’attività. Sono comunque presenti alcune aree in cui sono stoccati e smaltiti i rifiuti (fosfogessi o altri residui) che possono rappresentare una potenziale sorgente di esposizione della popolazione. Il più grande deposito di questi materiali è proprio quello di Gela che contiene ben sei milioni di metri cubi di fosfogessi. Chi ne sa di più?

Concludo qui un breve racconto che però ha moltissimi punti da approfondire; la storia dei paesi più ricchi di fosfati come Nauru o il Marocco ha numerosi trascorsi drammatici che mostrano come la storia delle risorse si intreccia profondamente con quella più generale dell’umanità; scontri politici ed economici pazzeschi! Chi è interessato a queste storie d’ora in poi sa dove andare a guardare.

Il picco del fosforo, come quello del petrolio non corrisponde alla fine del minerale, ma solo alla fine del minerale “facile” meno costoso da estrarre; è una campana di allarme; non è un problema geologico; ancor prima di esso dovrebbero preoccuparci i problemi di inquinamento dal ciclo del fosforo che ci sono già nei mari e nei laghi; come nel caso del petrolio e dei fossili l’effetto di inquinamento (atmosferico o oceanico) è attivo contemporaneamente a quello di deplezione della risorsa.

In conclusione il picco del fosforo è inevitabile perchè il fosforo è una risorsa finita; ma non si può stimare la durata del minerale dividendo la sua presenza geologica per il suo attuale consumo; occorre considerare i complessi problemi che ho cercato di mostrare qui: costo energetico, ambientale, inquinamento dei mari, effetto sul ciclo complessivo dell’elemento; la situazione è simile a quella del petrolio e dei fossili: l’era del petrolio non finirà perchè finirà il petrolio e l’era del fosforo minerale non finirà perchè il fosforo finirà. (Intendo ovviamente l’era del fosforo minerale come è usato adesso, senza riciclo, senza attenzione all’ambiente, l’era del fosforo come tale non può finire senza avere come effetto la NOSTRA fine come specie, perchè il fosforo non è fungibile come il petrolio, il petrolio possiamo sostituirlo con il sole e il vento, il fosforo no!)

Comunque quando si verificherà il picco del fosforo da minerale? Potrebbe verificarsi in un periodo di tempo da 20 a 100 anni a partire da ora, a secondo del consumo che ne faremo e dei dettagli ancora non ben chiari di molti depositi, ma anche in funzione dei costi energetici ed ambientali della sua produzione e del suo spreco ambientale.

Una soluzione dei problemi dell’uso del fosforo da minerale si può avere solo con una crescita dell’efficienza della fase di applicazione (solo una parte minoritaria del minerale impiegato viene effettivamente usato dalle piante), ma anche sviluppando metodi di riciclo del fosforo, che in qualche modo estendano a livello moderno la logica descritta da Hugo dei contadini cinesi.

E per fare questo c’è bisogno di tanta chimica, ma stavolta veramente verde, che ci aiuti a trasformare l’agricoltura da semplicemente intensiva come ora, a struttura PERMANENTE di produzione del nostro cibo, nostro ossia di una specie finalmente integrata nel ciclo della biosfera terrestre.

Ricordiamo questa semplice regola: La biosfera può fare a meno di noi, noi non possiamo fare a meno della biosfera.

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Riferimenti e fonti (oltre quelli citati nelle immagini di questo e del precedente post) + un chiarimento sui depositi italiani.

-Global Environmental Change 19 (2009) 292–305 The story of phosphorus: Global food security and food for thought – Dana Cordell, Jan-Olof Drangert, Stuart White

– Resilience (http://www.resilience.org) Peak phosphorus: Quoted reserves vs. production history

Energy Bulletin on 2008-08-26 – James Ward

http://web.mit.edu/12.000/www/m2016/finalwebsite/problems/phosphorus.html

-Dati USGS: http://minerals.usgs.gov/minerals/pubs/commodity/phosphate_rock/

-Dati IFDC: SteveVanKauwenbergh_World_Phosphate_Rock_Reserve.pdf

http://www.firt.org/sites/default/files/SteveVanKauwenbergh_World_Phosphate_Rock_Reserve.pdf

http://www.fertilizer.org/imis20/images/Library_Downloads/2011_ifa_10myths_pr.pdf?WebsiteKey=411e9724-4bda-422f-abfc-8152ed74f306&=404%3bhttp%3a%2f%2fwww.fertilizer.org%3a80%2fen%2fimages%2fLibrary_Downloads%2f2011_ifa_10myths_pr.pdf

-http://www.phosphorusplatform.eu/images/download/HCSS_17_12_12_Phosphate.pdf

http://blogs.ei.columbia.edu/2013/04/01/phosphorus-essential-to-life-are-we-running-out/

-Human Impact on Erodable Phosphorus and Eutrophication: A Global Perspective ELENA M. BENNETT, STEPHEN R. CARPENTER, AND NINA F. CARACO March 2001 / Vol. 51 No. 3 • BioScience 227

-Svensson, B.H. & Soderlund, R. (eds.) 1976. Nitrogen, Phosphorus and Sulphur – Global Cycles. SCOPE Report 7. Eco!’ Bull. (Stockholm) 22:75-88

THE GLOBAL PHOSPHORUSCYCLE   U. PIERROU

-The Global Phosphorus Cycle K. C. Ruttenberg, Treatise on Geochemistry

ISBN (set): 0-08-043751-6 Volume 8; (ISBN: 0-08-044343-5); pp. 585–643

-VARIATIONS IN THE GLOBAL PHOSPHORUS CYCLE

  1. COMPTON et al. Marine Authigenesis: From Global to Microbial, SEPM Special Publication No. 66 Copyright 2000 SEPM (Society for Sedimentary Geology), ISBN 1-56576-064-6, p. 21-33.

http://en.wikipedia.org/wiki/Phosphate_mining_in_Nauru

Sui depositi italiani: Geological Quarterly, Vol 52, No 1 (2008)

Mineralogy of Miocene phosphatic nodules in SE Sicily (Italy)

Giuseppe Cultrone, Giorgio Anfuso, Eduardo Sebastián

Abstract

This paper describes the geochemistry and petrography of three phosphatic nodular deposits in Ragusa Province, south-east Sicily (Italy). Phosphate nodules of late Burdigalian age are dispersed in a soft, friable packstone matrix within the Irminio Member of the Ragusa Formation. Mineralogical analyses revealed large amounts of calcite (64 to 89 wt.%) and smaller quantities of carbonate-fluorapatite (CFA). P2O5 content was less than 18%. Microtextural observations demonstrated that phosphate precipitation occurred in the microenvironments in the sediment in confined spaces (i.e. cavities, perforations) and not in the shells of microorganisms. The crystals were all of a similar size (~1 mm), presented imperfections, and the{0001}CFA and the{1010}CFA forms were clearly apparent. These hexagonal prisms showed reduced growth along their c axis. Our data suggest that bacteria were involved in the precipitation of CFA.

Una delle conseguenze della grande abbondanza di calcite nei depositi italiani che pure hanno una estensione significativa stimata nel passato ad alcune decine di milioni di ton al 18% di abbondanza è che la loro estrazione sarebbe costosa; la eliminazione della calcite infatti si fa normalmente per via termica con grande spreco di energia, mentre tecnologie di flottazione pur possibili non sono al momento granchè usate a questo scopo.

A che serve il Raman?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Il termine biogenico proviene dalle parole greche bios (forma di vita) e gennan (produrre) e si riferisce a qualcosa di prodotto e comunque proveniente da un organismo vivente: qualcosa che viene cioè prodotta durante un processo biologico.

I materiali biogenici possono essere sostanze chimiche organiche o inorganiche, formazioni cristalline, miscele gassose, secrezioni vegetali o animali o umane. Il tessuto è un livello intermedio di organizzazione cellulare fra la cellula e l’organismo completo; si tratta di un insieme di cellule simili fra loro aventi la stessa origine e che insieme provvedono ad una certa funzione. A causa della pletora e diversità di composti presenti negli organismi biologici la loro identificazione è piuttosto difficile da eseguire. In molti casi , anche a causa della somiglianza fra i composti, la natura dell’informazione che il ricercatore sta cercando di acquisire, ad esempio l’esatta locazione di un materiale in un tessuto o le sottili variazioni indotte in una biomacromolecola quale il collagene risultano inaccessibili con la maggior parte delle tecniche analitiche comuni.

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Sir Chandrasekhara Venkata Raman, 1888-1970

La spettrometria Raman può in questi casi essere di grande aiuto. A dispetto del segnale Raman piuttosto debole, la tecnica può offrire grandi vantaggi. Come una tecnica vibrazionale uno spettro Raman può servire per identificare un composto come uno spettro IR, ma non come la spettroscopia IR. La spettroscopia Raman non ha problemi in presenza di acqua, un composto abbondante nei tessuti ma caratterizzato da un segnale Raman molto debole.

Altri vantaggi includono la capacità di mappatura di un’area del tessuto analizzato e la differenzazione fra polimorfi e pseudo polimorfi. Una recente applicazione ha riguardato i calcoli urinari, si tratta di concreti o di aggregati cristallini presenti nell’urina formati nel rene da minerali presenti nella dieta. Le differenze spettrali Raman per molti composti simili,come l’ossalato di calcio monoidrato e diidrato, coesistono nei calcoli e possono con la spettroscopia Raman essere differenziati. Un caso ancora più difficile è quello della deposizione di multistrati dei due ossalati suddetti di idrossiapatite e fosfato di calcio diidrato. La spettroscopia Raman riesce ad eseguire la mappatura della superficie del materiale analizzato in modo assolutamente non distruttivo ottenendo risultati in pieno accordo con quelli ottenuti mediante l’IR in trasformata di Fourier e la diffrazione X. La spettroscopia Raman fornisce bande strette e distinte in contrasto con quelle dell’IR. L’analisi in situ con i raggi X non è consigliabile in quanto richiede la triturazione del campione.

Altre possibili applicazioni della letteratura recente riguardano l’analisi delle ossa. Le ossa sono un materiale composito che consiste di cristalli di bioapatite (un analogo biologico della idrossiapatite) inglobato in una rete di collagene. L’osteoporosi è una malattia metabolica delle ossa che affligge l’integrità scheletrica, riduce la loro forza e porta a frequenti fratture. La composizione delle ossa può essere valutata mediante spettroscopia Raman confrontando le intensità delle bande della componente inorganica con quelle della componente organica. Nell’osteoporosi questi rapporti sono minori del valore normale e tendono a diminuire col tempo. Un’altra analisi Raman è quella della cartilagine, un tessuto connettivo flessibile trovato in molte aree del corpo umano e di altri animali, incluse le giunture fra le ossa. L’osteoartrite è una condizione patologica che produce danno alle giunture, in particolare della spalla e del ginocchio fino alla degenerazione ed al danno dell’osso. La spettroscopia Micro Raman è stata usata per lo studio della osteoartrite della testa del femore umano. Diviene diagnostica una particolare banda intorno a 1657-1668 cm-1 misurata spostando il punto d’osservazione verso la testa del femore e dalla superficie esterna verso l’interno.

 Nota del Blogmaster.

Le spettroscopie analizzano la materia a partire dalla sua interazione con la luce. La spettroscopia Raman pur lavorando nei medesimi intervalli di lunghezza d’onda è finemente diversa dalla spettroscopia visibile, infrarossa o ultravioletta tradizionale; essa è una spettroscopia che misura il segnale diffuso non assorbito o trasmesso ed inoltre si basa su un fenomeno denominato diffusione anelastica, ossia che lascia il sistema in uno stato diverso da quello iniziale, a differenza del più comune processo di diffusione elastica in cui dopo l’urto con la radiazione il sistema ritorna allo stato di partenza riemettendo la radiazione assorbita. Le principali differenze fra le due spettroscopie sono elencate qui sotto (sopra Raman e sotto Infra-rosso):

7 differenze fra i metodi spettroscopici IR e Raman.

Raman
IR
1
Raman:Dovuta alla diffusione della luce da parte di molecole che vibrano
IR: Dovuta all’assorbimento della luce da parte di molecole che vibrano
2
Raman: La vibrazione è attiva nel Raman se cambia la polarizzabilità (ossia la suscettibilità ad essere polarizzato)

IR: La vibrazione è attiva nell’IR se cambia il momento di dipolo durante la vibrazione (ossia la posizione relativa dei centri delle cariche positive e negative)

3
Raman: La molecola non deve per forza avere un momento dipolare permanente

IR: La vibrazione interessata dovrebbe generare un cambiamento nel momento  dipolare permanente.
4
Raman: L’acqua si può usare come solvente

IR: L’acqua non si può usare come solvente, a causa dell’intenso assorbimento
5
Raman: La preparazione del campione non è elaborata, si possono usare campioni in ogni stato fisico

IR:La preparazione del campione è elaborata e i campioni gassosi sono complessi da analizzare
6
Raman: Dà una indicazione sul carattere covalente della molecola

IR: Dà una indicazione sul carattere ionico della molecola
7
Raman: Costo dello strumento molto alto

IR: Costo relativamente basso

Vademecum dei nano-oggetti

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione, ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Recensione a “Nanouniverso Megafuturo” di Marco Cavazzini (Hoepli, 2014 – pp. 136, Euro 9,90)

 nanouniverso

Ci sono dei libri che hanno il dono di regalare qualche momento di benessere intellettuale perché soddisfano, senza affaticar troppo oppure annoiare, la sete di apprendere. Sono le opere ben riuscite di divulgazione scientifica e non sono così rare come talvolta si crede. L’astronomo e divulgatore Carl Sagan (1934-1996) così scriveva : “Viviamo in una società squisitamente dipendente dalla scienza e dalla tecnologia, in cui quasi nessuno sa di scienza e tecnologia e questa è una chiara ricetta per il disastro”. La frase si trova nell’articolo “Why We Need to Understand Science”, pubblicato nel 1989 in Parade Magazine e la riprende Marco Cavazzini in questo volumetto che tratta un argomento da lui stesso definito “vasto e difficilmente circoscrivibile”. La definizione vale non solo per chi scienziato non è ma anche per chi, culturalmente più attrezzato, fatica non poco, a causa della crescente iperspecializzazione dei settori scientifici, a seguire l’evoluzione di un settore in tumultuosa espansione. Si chiama “Nanouniverso Megafuturo” con sottotitolo “Le nanotecnologie cambieranno il mondo”.

É adatto non solo ai lettori comuni ma anche a chi ne sa di più. L’A. specifica che la trattazione non ha troppe pretese scientifiche ma è evidente che ha curato il testo in maniera eccellente, a cominciare dagli inserti esplicativi e dalle utili citazioni. Il libro è diviso in sei capitoli, con un piccolo ma ben scelto corredo di riferimenti bibliografici e siti di consultazione. Il primo capitolo, di carattere introduttivo, contiene alcuni cenni storici sugli albori della ricerca nel campo dei materiali e degli oggetti sulla nano-scala (10-9 m), anticipando alcune delle loro proprietà fondamentali. Il secondo tratta dei metodi di fabbricazione e approfondisce il tema delle caratteristiche di nano-oggetti e nanomateriali. I successivi tre capitoli trattano delle applicazioni e riguardano rispettivamente: nanomedicina, nanoelettronica, energia e nanotecnologie. Quello conclusivo è significativamente intitolato: nano e noi.

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Si apre con un paragrafo dedicato all’ingresso delle nanotecnologie nella vita quotidiana e con la giusta osservazione dell’A. che “il progresso tecnologico può dirsi vera rivoluzione quando diventa parte integrante della nostra vita”. L’A. ricorda in proposito le perplessità di sua madre che davanti alla vetrina di una profumeria gli chiedeva lumi sulle nanoparticelle contenute nella crema solare e soprattutto se giustificavano l’elevato prezzo del prodotto. Domanda più che lecita anche perché le nanoparticelle spadroneggiano alquanto nel settore della cosmesi. Particolarmente interessanti sono i due paragrafi che riguardano i rischi connessi all’impiego delle nanoparticelle e quello dedicato alla “nanosicurezza”. Nel primo si riconosce che “non sappiamo abbastanza circa le nanotecnologie per affermare senza tema di smentite che siano sicure”. Nel secondo si conclude, in accordo con il NanoImpactNet (2012), che ormai non si può prescindere dall’adozione di approcci comuni verso la nanosicurezza e dallo sviluppo di un sistema di condivisione delle informazioni, buone prassi, approcci e protocolli.

L’A. di questo libro è un chimico, nato a Milano nel 1970, laureato all’Università degli Studi di Milano nel 1996, dottore di ricerca in chimica industriale dal 2000, impiegato come ricercatore presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari del CNR. Ha partecipato attivamente a numerosi progetti di ricerca. Dal 2007 è stato nominato responsabile della Commessa “Componenti molecolari, supramolecolari o macromolecolari con proprietà fotoniche ed optoelettroniche” del Dipartimento di Scienze Chimiche e Tecnologie dei Materiali del CNR. Il suo profilo ben corrisponde a quello degli autori che l’editore ha scelto per collaborare alla collana “Microscopi” diretta da Massimo Temporelli. Si tratta di autori giovani e vicini al mondo della ricerca capaci di trattare, con un linguaggio brillante e non accademico, alla portata di tutti, quei progressi della scienza e della tecnologia che stanno cambiando la vita di noi tutti. Potremmo concludere che Cavazzini è riuscito nell’intento e che, per quanto riguarda i nano-oggetti e le nanotecnologie, dopo aver letto il suo libro ne sappiamo certamente più di prima. Scusate se è poco.

 per saperne di più:

nanomat1

nano3http://europa.eu/rapid/press-release_IP-11-1202_it.htm

http://ec.europa.eu/environment/chemicals/nanotech/index.htm

http://echa.europa.eu/it/regulations/nanomaterials

http://it.wikipedia.org/wiki/Nanomateriali

L’odore della pioggia

  Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano, già presidente della SCI

 

In queste giornate di novembre, la pioggia è all’ordine del giorno, un fastidio noioso e poco gradito, se non peggio.

Per consolarci, mi piace ricordare in estate, verso la fine di agosto, quando dopo una settimana piena di calore, si avvicina la prima tempesta autunnale. Si sente nell’aria l’avvicinarsi del temporale e con questo l’odore della pioggia che lo accompagna. E’un odore di terra, di stantio ma è pur sempre un odore piacevole. Da cosa è dovuto?

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Nel 1964, in un lavoro pubblicato su Nature, due autori trattarono gli oli che le piante producono come essudato, specialmente durante i periodi secchi: questi oli vengono assorbiti dal terreno e dalle rocce , e i loro componenti diventano, quando vengono spostati dalla pioggia, composti volatili che riempiono l’aria di profumi. Gli scienziati dettero il nome di petrichor a questo insieme di sostanze, che comprende parecchi prodotti tra i quali in particolare geosmina e 2-metil isoborneolo (MIB). Il nome petrichor è costruito dal greco antico e si basa su petros (pietra) e ichor (liquido dorato nelle vene degli dei). Anche il nome geosmina viene dal greco per combinazione di ge (terra) e osmé (odore) e si riferisce alla proprietà di trasmettere l’odore della terra.

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Geosmina e MIB sono quindi i principali componenti dell’odore che la pioggia sposta dal terreno su cui sono le piante. Odori che in genere non piacciono, specialmente quando si trasmettono alle acque dei terreni su cui crescono le piante, e anche ai pesci che in esse vivono. Per fortuna i due composti sono alcoli terziari e come tali reagiscono con acidi perdendo una molecola d’acqua, trasformandosi così in composti non più odorosi. Questa tecnica è usata anche quando si cucinano pesci d’acqua dolce come carpe, pesce gatto, muggine: qualche goccia di aceto, o di limone,sono abbastanza per fare sparire l’odore non particolarmente gradevole. Per le acque potabili è invece un problema.

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Naturalmente, la geosmina è anche adoperata nella formulazione dei profumi, in piccole quantità, per dare quell’odore della terra gradevole e emozionante. D’altra parte, la geosmina è anche presente nelle barbabietole e nei suoi derivati, sempre in quantità adeguate per un uso piacevole.

C’è un altro animale che fa uso della geosmina: il cammello.

pioggia3L’odore della geosmina può essere apprezzato dall’uomo a livelli molto bassi: 0,7 parti per miliardo. Sembra che i cammelli, nel deserto, sentano, da distanze anche di 10-15 chilometri, l’odore della geosmina e lo inseguono fino ad arrivare all’oasi che lo emana, dove ovviamente si abbeverano. E mentre si abbeverano, le spore di streptomiceti (produttori di geosmina) rimangono attaccate agli animali che le trasporteranno per il deserto fungendo così da impollinatori.

per approfondire:

Bear, I.J.; R.G. Thomas (March 1964). “Nature of argillaceous odour”. Nature 201 (4923): 993–995. doi:10.1038/201993a0

http://www.scientificamerican.com/article/storm-scents-smell-rain/http://www.scientificamerican.com/article/storm-scents-smell-rain/

http://it.wikipedia.org/wiki/Geosmina

NdB: e l’ozono che ruolo ha nell’odore di pioggia? Mentre la geosmina domina l’odore della pioggia nuova, che viene dopo un lungo periodo di siccità, l’ozono si accompagna al temporale.

A proposito di pirotecnica.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Le composizioni pirotecniche hanno lo scopo di sviluppare effetti acustici (suono), ottici (luce o fumo), termici (calore) o meccanici (pressione). La maggior parte di essi trova applicazioni per uso civile nelle feste e per il divertimento, ma il campo delle applicazioni è molto più ampio.

Le composizioni pirotecniche infatti sono essenziali per uso industriale e militare, per disinfestazioni, per esplosivo in miniera o in edilizia.

Il momento cruciale è la reazione spontanea ed esotermica dell’agente ossidante (Pb3O4 , Fe3O4 ,SnO2) con il combustibile (l’agente riducente (Fex Si Cry , Mgx Aly , Bi2S3). Le miscele sono ottimizzate nella composizione in relazione all’applicazione finale anche con l’aggiunta di catalizzatori o di additivi.

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Incisione colorata per la Royal Fireworks Music sul Tamigi (Londra, 15 maggio 1749)

Tra questi i ritardanti che hanno lo scopo di ritardare il trasferimento del fuoco dall’innesco agli altri materiali. Per questo la principale caratteristica è che dovrebbero bruciare con velocità definita e costante e con un tempo di ritardo significativo, dell’ordine di 0,1 mm/s-2,5 m/s. Nel caso di applicazioni militari questo ritardo deve avvicinarsi ai 300 m/s.

La più vecchia conosciuta composizione ritardante è la polvere da sparo (1). Oggi le composizioni ritardanti sono basate su agenti ossidanti inerti (ossidi metallici, cromati) e additivi come SiO2 che sottraggono calore e rallentano la reazione. I più usati ritardanti nei detonatori elettrici sono le composizioni a base di silicio o ossido di piombo. La lega silicio-ferro-cromo è fra le più usate, con il tetrossido di Pb aggiunto come agente ossidante.

La lega viene preparata per fusione di quarzo con ferrocromo ad alto contenuto di carbonio dove il silicato assume il ruolo di sorgente di carbonio in quanto reagisce con la lega producendo CO2.

  SiO2 + CFexCry → FexSiCry + CO2

Gli elementi minori presenti nei detonatori sono impurezze del quarzo (MgO, CuO, Al2O3, TiO2). Il tempo di ritardo è funzione della purezza della materia prima e dei rapporti molari fra i maggiori elementi (Cr, Sn, Fe, Pb). Sono perciò richiesti metodi analitici molto accurati con il grosso handicap di non disporre di materiali di riferimento. I risultati ad oggi migliori si ottengono con la digestione a microonde del campione da analizzare e con l’analisi ICP-MS, e sono merito di due laboratori specifici a Zlin nella Repubblica Ceca ed a Einingen in Germania.

(1) L’esplosivo pirotecnico per antonomasia, sia pur oggi “superato” per molte applicazioni, è la polvere pirica, la cui storica composizione  è fornita da Ruggero Bacone, nell’opera “De secretis operibus artis et naturae, et de nullitate magiae“, Amburgo, 1618 sotto forma di un anagramma nel capitolo XI. Il passo in latino recita così:

Sed tamen salis petrae LURU VOPO VIR CAN UTRI et sulphuris; et sic facies tonitrum et coruscationem si scias artificium“.

Anagrammando le parole senza senso (“LURU“, “VOPO“, “VIR“, “CAN“, “UTRI“) si ottiene “R. VII PART V NOV. CORUL. V”, abbreviazione di “R(ecipe) VII PART(es) V NOV(ellae) CORUL(i) V“; quindi l’intera frase reciterebbe così: “Ma tuttavia prendi sette parti di salpetra, cinque parti di nocciolo giovane, cinque di zolfo; e così, se conosci l’artificio, farai tuono e lampo“.

(Lieut.-Colonel Henry W.L. Hime, “Gunpowder and ammunition, their origin and progress“, London, New York, Bombay, Longmans, Green, and Co., 1904.)

La composizione suggerita è sostanzialmente quella ancora in uso tutt’oggi (75% nitrato di potassio comunemente noto come salnitro, 13% di carbone di legna polverizzato, 12% di zolfo) (Nota del blogmaster: Bacone ragionava in volume, non in peso e quindi le due ricette appaiono diverse, ma sono uguali!! L’uso della bilancia in Chimica diventa comune DOPO Lavoisier.)

per approfondire:

http://www.fireworks-italia.com/t111-dizionario-del-pirotecnico

http://it.wikipedia.org/wiki/Fuochi_d%27artificio#Materiali_costitutivi_e_composti_chimici

http://www.laboratory-journal.com/applications/berghof/quantification-critical-elements

Importanza storica hanno testi come :

La pirotecnica dei dilettanti di Arduino Burello, Casa editrice Sonzogno 1900

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Il picco del fosforo: di che si tratta? (1 parte)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

C’è una cosa sbagliatissima da fare quando si considerano le risorse; ed è di calcolarne il futuro pensando che siano come un rubinetto da aprire con un serbatoio a pressione costante a monte, come l’acqua o il gas della cucina; so quanto ce n’è, lo divido per quanto ne consumo e so per quanto tempo ne ho ancora. Divisione semplice sembrerebbe.

Questo è quanto pensano i nostri politici e anche parecchi dei nostri colleghi che non si occupano del tema. E anche qualcuno di voi lettori. Forse.

Ma le cose non stanno così.

Lo so; i problemi dei rubinetti che riempiono i serbatoi sono fra i peggiori dei nostri ricordi di infanzia; eppure già fra quelli ce ne sono di interessanti; se aveste un serbatoio di date dimensioni e apriste un foro nella sua parete, già in quello succederebbero due cose che hanno a che fare con le vere risorse, ma non con la idea favolistica, che spesso se ne ha e che sta dietro a quella divisione di cui si diceva prima.

Se aveste un serbatoio come quello che dicevo succederebbe per esempio che mano a mano che lo scaricate la pressione del liquido e quindi la sua velocità di efflusso dipenderebbe dalla differenza di altezza fra il pelo libero e il foro e quindi la pressione di uscita e conseguentemente la sua velocità di efflusso dipenderebbe dal tempo: più ne estratete, meno ne esce; non solo. Quando siete arrivati a livello del foro nel serbatoio ce n’è ancora ma non ne esce più. Siete obbligati o a smettere di usare il serbatoio o a fare un altro foro più in basso.

La foronomia, una parte dell’idraulica applicata, è la disciplina che studia i dettagli dell’efflusso di un liquido da un serbatoio e che è perfino oggetto di studio nel laboratorio di Chimica perchè in applicazioni industriali il problema considerato non è affatto dappoco.

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200px-TorricellisLaw.svgVoi ricordate certamente per esempio che la velocità di uscita di un liquido da un foro di un serbatoio fu ottenuta per la prima volta da Torricelli nel 1643 con un calcolo che fu poi generalizzato da Bernoulli, tramite il suo teorema; il teorema di Bernoulli esprime la conservazione dell’energia nel moto di un fluido.

La foronomia è una scienza molto specialistica, che ci dice per esempio che se ho un serbatoio fatto come si diceva prima e come rappresentato nella figura la portata varia linearmente nel tempo e l’altezza del fluido nel serbatoio secondo una legge non lineare.

fosfo2(da Analisi di Sicurezza dell’industria di processo, Gigliola Spadoni cap. 8)

I dettagli della forma del foro, il suo raccordo col serbatoio e tanti altri dettagli assumono un ruolo determinante nel rendere il sistema apparentemente semplice un oggetto tanto complesso da richiedere una preparazione specialistica.

La situazione delle risorse minerali ed in genere delle risorse richiama un po’ questa, ma in effetti è ancora più complessa, perchè, per continuare la analogia, allargare il foro o aumentare la pressione interna del serbatoio, per lasciarne costante o farne crescere la velocità di efflusso oppure fare altri fori più in basso implica, nella maggior parte dei casi sforzi non banali. Appare quindi veramente assurdo voler ridurre tutto ad una semplice divisione; purtroppo questo è quanto fanno spesso i politici, ma anche certi studiosi.

Anzitutto diciamo che ci sono due tipi di serbatoi a cui attingiamo; in un caso essi si riempiono con una velocità maggiore di quella con cui li vuotiamo; nell’altro caso invece la loro velocità di svuotamento supera quella di riempimento; le due risorse, con concezione totalmente umanocentrica, vengono definite rispettivamente rinnovabili e non rinnovabili

Una risorsa naturale sovrausata, consumata più velocemente della sua capacità di riproduzione segue un andamento che può essere simulato da una curva a forma di campana: è un comportamento fortemente idealizzato si intende, ma fa comprendere la situazione. In pratica all’inizio del processo si usa la risorsa a partire dalle sue forme più comuni ed abbondanti, si raffina la tecnica e si incrementa la capacità di estrazione, sottrazione o ”produzione” della risorsa; questo spiega la crescita di tipo esponenziale che si verifica all’inizio; mano a mano che tale tecnologia viene raffinata però si tende a raggiungere la massima velocità di “estrazione” compatibile con la riproduzione e la distribuzione della risorsa. Questo momento rappresenta il massimo valore della capacità di estrazione; l’impoverimento della risorsa dovuto alla crescente difficoltà di estrazione (per la riduzione della sua presenza i costi economici ed energetici aumentano) fa il resto.

fosfo3

(grafico tratto da “Il picco del petrolio non è un cigno nero”di C. Della Volpe in uscita sul numero di dicembre di Sapere)

Nella parte destra della curva, nonostante la capacità tecnologica sia ormai matura, non si riesce a superare più il valore raggiunto al picco, che non rappresenta quindi la fine della risorsa, ma solo il raggiungimento della capacità massima di estrazione o come si dice comunemente di “produzione” (sebbene non si produca un bel nulla, ma piuttosto si consumi qualcosa).

Il prezzo della risorsa va crescendo nella parte destra con una serie di forti oscillazioni e crescenti difficoltà, mentre si cerca di trovare un sostituto a prezzo ragionevole.

La parte destra del grafico può essere più ripida della parte sinistra; il matematico di Padova Renato Guseo ha modellato questo effetto che Ugo Bardi ha chiamato effetto “Seneca”:

“Sarebbe una consolazione per la nostra debolezza e per i nostri beni se tutto andasse in rovina con la stessa lentezza con cui si produce e, invece, l’incremento è graduale, la rovina precipitosa.”Lucio Anneo Seneca, Lettera a Lucilius, n. 91

L’effetto “Seneca”, ossia l’asimmetria del picco dipende dai dettagli del processo, primo fra gli altri dal tentativo di spremere il più possibile le risorse che abbiamo già scoperto.

Cerchiamo di applicare queste riflessioni alla questione fosforo. Il fosforo, l’elemento di numero atomico 15, è il 13esimo come abbondanza nella crosta terrestre (~0.1%).

Esso ha una particolarità fra le mille risorse minerarie che usiamo; non è fungibile. Cosa vuol dire? Vuol dire che mentre, poniamo, potremmo sostituire il mercurio col gallio nei termometri a liquido (almeno per un po’) oppure il rame con l’alluminio nei conduttori elettrici, gli usi del fosforo sono così specifici che non se ne può proprio fare a meno; eh si perchè il fosforo è presente come tale nelle nostre ossa e denti, nel DNA ed RNA, nell’ATP, AMP e derivati vari. Non si conoscono sostituti di queste molecole così particolari, almeno non al momento; perfino il nostro codice genetico è scritto usando anche atomi di fosforo.

Vabbè mi direte, ma se è presente allo 0.1%, ossia 1 kilogrammo per tonnellata di crosta in media, dove è il problema?

La percentuale media di fosforo nelle rocce sedimentarie più comuni ne rende poco produttiva la estrazione; per ottenerne ogni tonnellata dovreste processarne mille tonnellate; si usa quindi il fosforo estratto da minerali che ne contengono una percentuale significativa, rocce che si chiamano fosforiti.

La fosforite è una roccia sedimentaria chimica (o non-clastica, ossia non ottenuta dalla sedimentazione di granelli o pezzi di roccia sia pur microscopici, ma dalla precipitazione di ioni in soluzione) che presenta alte concentrazioni dei minerali del fosforo. Il contenuto di fosfato della fosforite deve essere almeno del 15-20%, contro lo 0.1-0.2% delle rocce medie. Il fosfato è presente come fluorapatite Ca5(PO4)3F o idrossiapatite Ca5(PO4)3OH, spesso di origine organogena mentre la fluorapatite è di origine idrotermale.

Tenete presente che spesso poi il contenuto di fosforo nella roccia è descritto dalla abbondanza di un suo composto di riferimento: P2O5 per esempio (nei dati USGS, il servizio geologico degli USA, tipicamente) oppure come fosforo equivalente.

In una tonnellata di fosforite al 25% di fluoroapatite per esempio, il fosforo come tale sarebbe presente in una quantità dell’ordine del 20% del composto e quindi un totale di circa 0.25×0.20=(1/4 x 1/5)=1/20=0.05, il 5% del totale, ossia 50kg. Attenti quindi ai calcoli stechiometrici necessari a comprendere le tabelle dei dati. Quindi in una tonnellata di fosforite c’è 50 volte più fosforo che nelle rocce qualunque.

Quanta fosforite c’è nel mondo(1)? E come si forma?

fosfo4

The global phosphorus cycle, G.M. Filippelli, Rev. Min. Geochem. doi: 10.2138/rmg.2002.48.10 v. 48 no. 1 p. 391-425, 2002

Il fosforo è un elemento molto particolare perchè non ha composti comuni che siano volatili e ne segue che il suo ciclo, ossia i suoi flussi nella biosfera e nella crosta, sono legati essenzialmente al movimento di composti solidi o in soluzione e questo rende tutto il processo più lento che per altri elementi come l’azoto o il carbonio che possedendo una controparte gassosa sono in grado di realizzare flussi significativi in tempi ridotti.

Il cosiddetto ciclo del fosforo (almeno come si immagina fosse prima dell’avvento della società industriale) è rappresentato nella figura tratta da un classico della letteratura sul fosforo. Come si vede il ciclo geologico del fosforo parte dal weathering, ossia dai processi di dilavamento ed erosione delle rocce che lo portano verso il mare, dove si scioglie e/o deposita sul fondo; questi depositi vengono poi trasportati dai processi di dinamica delle zolle e vanno a ricostituire in milioni di anni i depositi terrestri.

Durante questo cammino ultrasecolare i minerali o i composti disciolti vengono assorbiti dai vegetali ed entrano in un ciclo molto più breve attraverso il ciclo alimentare degli animali; il fosforo viene escreto e ritorna nell’ambiente dove si accumula e poi viene riportato nel processo di weathering o nel deposito sul fondo oceanico; abbiamo quindi la correlazione di un ciclo a lunghissimo periodo con cicli molto più brevi sia sulla terraferma che nell’Oceano.

Una nota sulle unità di misura che nel grafico sono Teragrammi di P equivalente; ossia 1012 grammi che sono un milione di tonnellate di P equivalente; ogni tonnellata di fosforo equivalente rappresenta 20 tonnellate di fosforite quindi un milione di ton di P equivalente sono 20 milioni di ton di fosforite oppure se ragioniamo in termini di roccia comune ogni ton di P equivalente sono 1000 ton di roccia; ergo un milione di ton di P equivalente se presenti nella roccia comune sono un MILIARDO di ton di roccia comune. Ossia almeno 0.3-0.4 km3 di roccia.

Continueremo questo discorso sul fosforo in un prossimo post.

Nota 1: In Italia manca quasi completamente, avendosene solo piccoli depositi molto poveri di fosfato tricalcico nella Penisola Salentina (Capo S. Maria di Leuca, fosfati pliocenici e fosfati miocenici della pietra leccese) e nella provincia di Siracusa (fosforiti di Modica).

Riflessioni etiche.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

La qualità dell’ambiente che ci circonda e dell’alimentazione di cui ci nutriamo sono considerati in tutto il mondo due essenziali elementi per una vita sana e felice.

Molte volte parlando di questi due elementi se ne considerano gli aspetti tecnici, qualche volta anche economici, molto di rado quelli etici, forse oggi più invocati nel caso dell’ambiente, di certo non in quello dell’alimentazione. L’uomo per sua natura è portato a conquistare quanto gli viene offerto e la natura è molto generosa, ma i vantaggi che derivano dallo sfruttamento di queste risorse pongono due domande di natura etica:

di quante di queste risorse consumate vengono ad essere private le generazioni successive?

Quanto i processi di sfruttamento non comportano alla natura stessa un secondo danno, quello del suo inquinamento con le conseguenze sulla salute, sulla biodiversità sull’igiene?

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La risposta a queste domande per chi la vuole dare non può che passare dalla sfera della scienza, della conoscenza a quella della morale e dell’etica. La chimica con i suoi tradizionali due volti, quello filotecnologico e quello filoecologico in fondo ben sintetizza questi dilemmi. Lo sviluppo della tecnologia ha comportato un allargamento incredibile della potenzialità della nostra disciplina sul piano delle capacità di contribuire alla crescita civile ed economica della società, ma ha anche significato una crescente tecnologia capace di sfruttare risorse sempre più differenziate ed intime della natura, peraltro spesso con le produzioni, oltre che dei composti cercati,anche di rifiuti, spesso non innocui sul piano della tossicità. La natura verrebbe così offesa due volte. La chimica ha però da tempo avviato un nuovo itinerario di sviluppo con tecnologie “verdi” capaci di produrre con rispetto dell’ambiente. La rivoluzione biotecnologica si è in parte esaurita, ma le innovazioni di processo continuano ad arricchire la ricerca ed a coinvolgere aspetti economici non secondari. La flessibilità della nostra disciplina è una caratteristica che ne aiuta questa nuova “faccia”. Il problema reale è quello del punto di equilibrio fra le due facce e la sua individuazione non può che appellarsi all’etica di ogni chimico. Un esempio della ricerca di questo equilibrio può riferirsi al caso dei brevetti di farmaci essenziali: quale è il giusto equilibrio fra rispetto del diritto alla proprietà intellettuale dell’innovazione e quello più importante del diritto alla salute.

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Meno stretto apparentemente è il rapporto fra etica e qualità e sicurezza alimentare. In effetti invece con un crescente consumo di alimenti,con una ricerca sempre più sofisticata di nuovi fonti alimentari e di nuovi specifici alimenti, con una tecnologia alimentare sempre più avanzata capace di integrazioni e complementi funzionali degli alimenti più tradizionali, con un progressivo trasferimento dall’ambiente al ciclo alimentare di molti inquinanti ben si comprende come gli aspetti etici siano ben presenti. Quanto è giusto che tecnologie alimentari essenziali siano trasferite a pagamento con cessione in cambio di aree naturali?Quanto è giusto sofisticare alimenti commerciali per innalzarne il valore e quindi il costo? Quanto è accettabile la cessione a scopo energetico di aree originariamente destinate a produzioni alimentari? La chimica anche in questo caso ha messo in mostra le sue due facce: quella tecnologica con processi sempre più avanzati ed efficienti, ma anche quella amica dell’uomo e dell’ambiente con metodi analitici di controllo e monitoraggio sempre più sensibili, accurati e precisi. Questa vocazione tornerà utile presto con il nuovo capitolo che sta per aprirsi degli OGM. Intorno ad essi si è aperto un dibattito anche all’interno della comunità scientifica. Forse la risposta non è nel sì o no, ma nel come e quanto e la chimica è la prima indiziata a rispondere a sostegno della sicurezza e della lotta alla fame nel mondo.

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NPK: K per potassio

 Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia (nebbia@quipo.it)

NPK è la trinità degli elementi nutritivi delle piante. Nei primi decenni dell’Ottocento Jean Baptiste Boussingault (1802-1887) e Justus Liebig (1803-1873) riconobbero che le piante, per crescere, devono assorbire alcuni elementi, fra cui azoto, fosforo e potassio; l’industria dei concimi artificiali e sintetici nacque proprio per assicurare una adeguata disponibilità nel terreno di tali elementi.

Anche il potassio, come gli altri due elementi, ha un suo ciclo naturale: presente in molti terreni, oltre che nel mare, sotto forma di sali solubili in acqua, il potassio viene assorbito dalle piante, passa dai vegetali agli animali, e ritorna in parte nel terreno attraverso le spoglie dei vegetali e gli escrementi degli animali; un ciclo che non è chiuso; per la solubilità in acqua dei suoi sali, una parte del potassio viene lisciviato dalle piogge e finisce nelle falde sotterranee, nei fiumi, nei laghi e, infine nel mare.

Da almeno duemila anni gli agricoltori si sono resi conto che bisognava restituire al terreno “qualcosa” che era contenuto nelle ceneri delle piante. Solo con lo sviluppo della chimica si è capito che quel “qualcosa” era il potassio; la prima forma di concimazione potassica è stata perciò rappresentata dall’applicazione nel terreno delle ceneri delle piante; col tempo e con l’eccessivo “consumo” di foreste per questa pratica, è cominciata la ricerca di altre fonti di sali potassici.

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Una di queste è costituita dal salnitro, il nitrato di potassio, che già i soliti industriosi cinesi avevano riconosciuto come utile ingrediente, insieme al carbone e allo zolfo, della polvere “nera”. Il salnitro si forma per ossidazione all’aria dei sali potassici presenti nelle grotte o negli edifici; se ne parlò in questo blog qualche tempo fa: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/07/tanti-nomi-per-una-cosa-un-nome-per-tante-cose-il-caso-nitro-natron/

Il potassio si trova in numerosi minerali come la silvite, cloruro di potassio, la carnallite, cloruri misti di potassio e magnesio, la kainite, cloruro di potassio e solfato di magnesio. In natura vi sono inoltre minerali di potassio e alluminio come la alunite, solfato basico di potassio e alluminio, e la leucite, silicato di potassio e alluminio, questi ultimi due in genere associati a manifestazioni vulcaniche.

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I principali sali usati come concimi sono il solfato di potassio e, in grado minore, il cloruro e il nitrato di potassio, commerciati sulla base del loro contenuto di K2O. La storia moderna dei concimi potassici comincia nella metà del 1800 con il chimico tedesco Adolf Frank (1834-1916), impiegato dello zuccherificio di Stassfurt. Frank studiò le risorse naturali della regione, ricca di giacimenti di cloruro sodico: sullo strato di sale utile furono trovati depositi di sali “inutili”, Abraumsalze. Frank mostrò che erano costituiti principalmente da carnallite, il cloruro di potassio e magnesio, e che potevano essere impiegati come concimi. Nel 1861 Frank costruì la prima fabbrica di concimi potassici che soppiantarono la produzione di ceneri potassiche, fra l’altro con beneficio per i boschi che venivano risparmiati dalla distruzione. Nello stesso anno mise a punto un processo per estrarre del bromo dalle acque madri della raffinazione dei sali potassici

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Frank è stato chiamato, meritatamente, un “chimico universale” perché si occupò anche della produzione del vetro; dal 1879 produsse i “sali di Karlsbad”, una miscela di sali di sodio, potassio e magnesio con proprietà lassative; dal 1895 condusse, insieme a Nikodem Caro (1871-1935), ricerche sulla produzione della calciocianammide per reazione dell’azoto, estratto dall’aria, con carburo di calcio prodotto al forno elettrico da calce e carbone. Dalla calciocianammide, che aveva un suo mercato come concime azotato, era poi possibile ottenere i cianuri, l’ammoniaca e l’acido nitrico.

I depositi tedeschi di sali potassici si trovano in un grande bacino che si estende dalle pendici dell’Harz al fiume Elba, da Magdeburgo a Bernburg. Nel 1906 vennero scoperti altri giacimenti di sali potassici in Alsazia, in un bacino limitato dai Vosgi a occidente e dal Reno a oriente, e che si estende da Mulhouse a Bollwiller. L’Alsazia e la Lorena, terre francesi, erano state annesse alla Germania dopo la guerra-franco prussiana del 1870. Agli inizi del 1900 la Germania possedeva quindi praticamente il monopolio della produzione dei sali potassici che esportava in tutto il mondo; le principali fabbriche erano riunite in un consorzio volontario che stabiliva a proprio arbitrio i prezzi di mercato. Come reazione, alcuni imprenditori americani cercarono di stipulare accordi con i produttori tedeschi indipendenti che potevano vendere i sali potassici ad un prezzo inferiore a quello del monopolio.

Il 25 maggio 1910 il parlamento tedesco promulgò la “legge sulla potassa” che mise tutte le miniere di sali potassici sotto il controllo dello Stato: vennero così a cessare i prezzi favorevoli praticati agli acquirenti americani che sollecitarono proteste diplomatiche. Più utile della diplomazia fu la chimica: gli importatori americani di sali potassici e gli agricoltori si misero in moto per cercare giacimenti di sali potassici negli Stati Uniti; nel frattempo era cominciata l’estrazione di sali potassici spagnoli in Catalogna, nella regione di Cardona.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, la flotta inglese pose il blocco alle esportazioni tedesche; per qualche tempo, attraverso l’Olanda, gli Americani poterono importare sali potassici dando in cambio cotone che ai Tedeschi era necessario per l’industria degli esplosivi; dopo il 1916 gli Americani poterono procurarsi sali potassici in piccola quantità dalla Russia. Il servizio geologico americano aveva intanto identificato un grande deposito di sali potassici nel Searles Lake, in California, il residuo di un grande lago salato. Alcuni imprenditori ricorsero al trattamento dell’alunite, il già ricordato solfato di alluminio e potassio, con un processo inventato da Howard F. Chappell (brevetto USA 1.195.655 del 1913), consistente nella trasformazione del solfato di alluminio in ossido insolubile e successiva estrazione del solfato di potassio solubile. Il chimico Frederick Gardner Cottrell (1877-1948) inventò un processo di separazione magnetica dei sali potassici dai fumi dei cementifici; fu tentato il recupero di sali potassici dai residui della dezuccherazione dei melassi di barbabietola, come era stato fatto in Europa. L’ingegner Guy Stirling sperimentò l’estrazione di sali potassici dalla leucite, il già citato silicato di alluminio e potassio, a Green River, nel Wyoming; lo stabilimento della società Boyer-Stirling arrivò a produrre 50 tonnellate al giorno di cloruro potassico.

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Lago Searles da Trona, California

Alla fine della prima guerra mondiale, negli Stati Uniti restava in funzione soltanto l’estrazione di sali potassici dalle salamoie del lago Searles e ricominciarono le importazioni dei sali potassici europei. Con la sconfitta della Germania nel 1918, la Francia aveva di nuovo occupato l’Alsazia per cui i monopolisti del potassio erano diventati due, che non tardarono a mettersi d’accordo. In Germania l’industria dei sali potassici era stata nazionalizzata nel 1919 ed era stato costituito un “sindacato”, il Kali Syndikat, che nel 1924 trovò un accordo con la Societé Commerciale des Potasses d’Alsaces per dividersi per due terzi e un terzo, rispettivamente, il mercato delle esportazioni. Nel 1927 il governo americano intentò causa ai due gruppi, tedesco e francese, per violazione della legge sui monopoli, senza effetto. Per reazione cominciò su scala industriale l’estrazione dei sali potassici dalle riserve interne americane, a cominciare dai depositi del lago Searles e poi da un vasto giacimento sotterraneo scoperto a Carlsbad nel New Mexico, quello che è stato proposto (senza successo) come cimitero “eterno” per le scorie nucleari.

Nel 1924 gli Stati Uniti erano in grado di produrre sali potassici ad un costo inferiore al prezzo di quelli esportati dall’Europa. A riprova che i monopoli durano poco, molti altri paesi cominciarono a cercare giacimenti di sali potassici e a produrne nel proprio territorio. I principali nuovi arrivati nel mercato furono la Spagna, dai già ricordati giacimenti della Catalogna, l’Unione Sovietica, con i grandi giacimenti di Solikamsk, nella regione di Perm, negli Urali, la Palestina, allora sotto mandato inglese, che dal 1930 cominciò ad utilizzare i depositi di sali del Mar Morto. Nel Canada fu iniziata l’estrazione di sali potassici dai giacimenti di silvite del Saskatchewan.

Nel 1940 in Norvegia fu messo a punto un ingegnoso processo, inventato da Jacob Kielland (1910-2001) della società Norsk-Hydro, per estrarre i sali potassici dall’acqua di mare che ne contiene circa 0,5 kg, espressi come K2O, per metro cubo; all’acqua di mare veniva addizionato il sale di calcio della dipicrilammina, solubile in acqua: si forma così il sale potassico della dipicrilammina che è invece insolubile in acqua e può essere separato per filtrazione e decomposto per recuperare e rimettere in ciclo la dipicrilammina; i sali potassici sono poi ottenuti per concentrazione della soluzione residua. Un primo impianto, nella Norvegia occupata dai nazisti, fu distrutto da un bombardamento alleato durante la Seconda guerra mondiale; un altro impianto è stato costruito in Olanda.

In questa lotta fra giganti si è inserita, a partire dagli anni Venti del Novecento, anche l’Italia. Nel 1923 era stata costituita, per iniziativa dell’industriale chimico Carlo Rossi (1877-1924) la società Vulcanea per l’applicazione di un processo, proposto da A. Messerschmitt, alle leuciti che si trovano nella zona a nord di Roma, vicino Civitacastellana. Una certa estrazione di sali potassici dai laghi salati dell’Africa orientale e settentrionale era stata proposta da E. Niccoli. Il processo che riscosse maggiore interesse fu quello elaborato dal prof. Gian Alberto Blanc (1879-1966), un importante barone della chimica italiana (era anche barone per titolo nobiliare), per il trattamento delle leuciti con acido cloridrico o con acido nitrico: si forma una miscela di sali solubili di potassio e alluminio che veniva separata dalla silice insolubile e veniva poi trattata con alcali per precipitare l’idrato di alluminio e ottenere una soluzione di sali potassici da concentrare.

Gian Alberto Blanc

Con adeguate sovvenzioni del governo fascista del tempo e con la partecipazione anche di capitali americani fu costruito ad Aurelia uno stabilimento che funzionò con intermittenza e fu infine chiuso nel 1934-’35. La passione nazionale per la leucite riprese nella seconda metà degli anni Trenta; furono proposti altri processi fra cui quello di F. Jourdan, quello di G. Gallo e una variante del processo Blanc, e furono costruiti alcuni stabilimenti ben presto chiusi.

Con la fine della Seconda guerra mondiale e dell’autarchia fascista l’Italia venne a dipendere del tutto dalle importazioni di sali potassici soprattutto da Francia, Germania, Spagna. A dire la verità si sapeva, fin dal 1919, che in Sicilia, a Pasquasia, in provincia di Enna, c’erano giacimenti di sali potassici che erano stati utilizzati per qualche anno dalla società S.P.E.M. andata in liquidazione nel 1931. Le miniere furono riaperte nel 1959 dalla Montecatini; nel 1972 l’Ente Minerario Siciliano e l’ENI acquistarono la maggioranza della società e costituirono una nuova società ISPEA (Industria sali potassici e affini). La produzione di solfato potassico nel 1961 aveva raggiunto circa 150 mila tonnellate e si aggirò fra 250 e 300 mila t/anno negli anni Sessanta e Settanta; una parte di questi sali era addirittura esportata. Nella produzione di solfato potassico subentrò la società Italkali che chiuse le attività nel 1992, altro esempio di crescita e declino, dopo aver raggiunto un picco di produzione, delle merci (si veda anche qui). L’Italia ha però sempre dovuto importare cloruro di potassio per alcune centinaia di migliaia di tonnellate all’anno.

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La produzione mondiale di sali potassici, espressi come K2O equivalente, ammontava nel 2013 a 36 milioni di tonnellate. Il principale produttore mondiale è il Canada, seguito dalla Russia, dalla Bielorussia, dalla Cina, da Israele e Giordania (che si dividono le acque del Mar Morto), e da altri. Nel 2013 l’Italia ha importato circa 30.000 t di sali potassici.

Questo articolo è comparso in forma analoga su: http://www.educazionesostenibile.it/portale/sostenibilita/tecnica-a-ecologia/racconti/1598-npk-k-per-potassio.html

per approfondire: Grossmann, H. (1916). “Adolph Frank †”. Zeitschrift für Angewandte Chemie 29 (85): 373. doi:10.1002/ange.19160298502.

http://www.dani2989.com/gold/potashit.htm

Hanno scelto l’ignoranza.

Stavolta ripubblichiamo un appello di un gruppo di ricercatori europei contro le politiche europee della ricerca, che al di là delle singole situazioni e dell’apparenza sono più attente a ridurre la spesa sul breve periodo che ad affrontare le questioni che pure la ricerca scientifica pone e i problemi che potrebbe aiutare a risolvere sul lungo periodo. L’appello ha trovato spazio sulle pagine di varie riviste e giornali fra i quali Nature, il nostro Le Scienze e nelle strade francesi e spagnole. Il testo originale dell’appello con la possibilità di sottoscriverlo lo trovate qui. Fra i commenti della redazione del blog mi piace segnalare una citazione di Silvana Saiello, una storia che i nostri governanti farebbero bene a leggere con attenzione e che trovate in coda a questo testo.(cdv)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

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Scienziati di diversi paesi europei descrivono in questa lettera che, nonostante una marcata eterogeneità nella situazione della ricerca scientifica nei rispettivi paesi, ci sono forti somiglianze nelle politiche distruttive che vengono seguite. Quest’analisi critica, pubblicata contemporaneamente in diversi quotidiani in Europa, vuole suonare un campanello d’allarme per i responsabili politici perché correggano la rotta, e per i ricercatori e i cittadini perché si attivino per difendere il ruolo essenziale della scienza nella società.

I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’UE hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa.

Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.

Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.

Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del PIL sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, con senza alcuna capacità d’innovazione.

Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.

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Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici.

Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.

Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo.

Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.

Amaya Moro-Martín, Astrophysicist; Space Telescope Science Institute, Baltimore (USA); EuroScience, Strasbourg; spokesperson of Investigación Digna (for Spain).
Gilles Mirambeau, HIV virologist; Sorbonne Universités, UPMC Univ. Paris VI (France); IDIBAPS, Barcelona (Spain); EuroScience Strasbourg.
Rosario Mauritti, Sociologist; ISCTE, CIES-IUL, Lisbon (Portugal).
Sebastian Raupach, Physicist; initiator of “Perspektive statt Befristung” (Germany).
Jennifer Rohn, Cell biologist; Division of Medicine, University College London, London (UK); Chair of Science is Vital.
Francesco Sylos Labini, Physicist; Enrico Fermi Center, Institute for Complex Systems (ISC-CNR), Rome (Italy); editor of Roars.it.
Varvara Trachana, Cell biologist; Faculty of Medicine, School of Health Sciences, University of Thessaly, Larissa (Greece).
Alain Trautmann, Cancer immunologist; CNRS, Institut Cochin, Paris (France); former spokesman of “Sauvons la Recherche”.
Patrick Lemaire, Embryologist; CNRS, Centre de Recherche de Biochimie Macromoléculaire, Universités of Montpellier; initiator and spokesman of “Sciences en Marche” (France).

Disclaimer: The views expressed by the signatories are not necessarily those of their employers.

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Una storia per i governanti europei proposta da Silvana saiello e tratta da Abraham Pais
Il danese tranquillo.
Niels Bohr: un fisico e il suo tempo (1885-1962)

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